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Sunday, July 10, 2011

Buonarroti e la scultura italiana del secondo rinascimento

Luigi Speranza

Michelangelo Buonarroti (Caprese, Arezzo 1475 - Roma 1564). Galleria Fotografica

Scultore, pittore, architetto, Michelangelo secondo dei cinque figli di Lodovico di Buonarroto Simoni, podestà di Caprese e Chiusi per conto di Firenze e di Francesca di Miniato del Sera, venne mandato a balia dal padre presso una famiglia di scalpellini, evento in cui egli stesso individuò in seguito una premonizione del proprio destino.

A sei anni ricevette lezioni di grammatica dall'umanista urbinate Francesco Galatea e ancora fanciullo rivelò un fresco talento per il disegno, ben presto affinato in diligenti esercitazioni dagli affreschi di Masaccio al Carmine e da Giotto; tale precoce vocazione ebbe inoltre il caldo incoraggiamento del pittore Francesco Granacci, che, contro il parere di Lodovico, raccomandò l'ingresso del ragazzo nella bottega fiorentina di Davide e Domenico Ghirlandaio. Entratovi con un contratto triennale e un modesto salario il 1° aprile 1488, il gìovanetto ne uscì l'anno dopo per frequentare, accolto come un figlio dal signore di Firenze, il «giardino» di Lorenzo de' Medici, una sorta di accademia artistica retta da un allievo di Donatello, Bertoldo di Giovanni. Più che l'alunnato presso Bertoldo, dovettero esercitare un influsso determinante sul giovanissimo artista le molte sculture antiche radunate dal Magnifico e il contatto con i letterati e i filosofi che frequentavano la corte medicea, il Poliziano e il Landini, Marsilio Ficino e Pico della Mirandola, il Pulci e il Benivieni, insigni esponenti di quell'Umanesimo che dall'antichità aveva tratto norme e impulso per un radicale rinnovamento delle scienze, delle lettere e delle arti. Innestando nel solco della tradizione toscana di Verrocchio e Donatello la propria, meditata interpretazione della scultura classica, anche Michelangelo contribui in misura determinante a tale rinnovamento, consegnando alle generazioni future un'immagine epica dell'uomo rinascimentale, cosciente di sé.
Già in questi anni, nonostante l'incompleta formazione artistica, Michelangelo dava vita a opere di altissima qualità, come l'armoniosa Madonna della scala di casa Buonarroti a Firenze, e la Battaglia dei Centauri e dei Lapiti, anch'essa in casa Buonarroti, in cui il tema della lotta, memore dei sarcofaghi antichi, è sulle infinite possibilità di atteggiarsi del corpo umano, dalla quiete assoluta alla più imbizzarrita torsione.

Morto il Magnifico nel 1492, il suo successore, Piero de' Medici, garantì all'artista ospitalità e protezione, ma questi preferì fare ritorno alla dimora paterna, donde si allontanò nuovamente, all'approssimarsi dell'invasore francese Carlo VIII, nell'ottobre del '94, per fare tappa prima a Venezia, quindi a Bologna. Qui si trattenne per circa un anno, ospite di Gianfrancesco Aldrovandi, scolpendo tre statuette per l'arca di san Domenico, lasciata incompiuta da Niccolò dell'Arca: uno scattante San Procolo, l'assorto e spirituale San Petronio, e un vigoroso Angelo reggicandelabro.
A un anno dalla sommossa che, cacciato da Firenze Piero de' Medici, vi aveva instaurato un governo popolare, Michelangelo è di nuovo in città, ospite di Lorenzo di Pierfrancesco de' Medici, fautore del nuovo regime animato dal Savonarola; per lui Michelangelo scolpisce due opere oggi perdute, un San Giovannino e un Cupido addormentato, quest'ultima spacciata in seguito, su consiglio di Lorenzo, per una scultura antica e per tale acquistata a Roma dal cardinale Riario che, accortosi dell'inganno, volle l'artista accanto a sé.

Il viaggio a Roma segnò per Michelangelo l'occasione per un ulteriore, più diretto incontro con la statuaria classica, incontro che diede subito i suoi frutti con il Bacco scolpito per il banchiere Jacopo Galli (Firenze, Bargello).

Nell'agosto 1498, garante lo stesso Galli, l'artista stipulava il contratto per la Pietà di San Pietro in Vaticano, opera di intima, commossa solennità, l'unica da lui firmata.

Colpisce soprattutto nel gruppo il contrasto tra il grandeggiare monumentale della giovane Vergine, ammantata di panni e raccolta nel suo dolore in atteggiamento di severa compostezza, e lo snodarsi fragile e sinuoso del cadavere di Cristo, riverso con infinito abbandono nel grembo della madre. Danneggiato pochi anni or sono dalla furia vandalica di un folle, il gruppo è stato ora accuratamente restaurato.

Nella primavera del 1501, su invito del governo repubblicano, l'artista fece ritorno a Firenze, e qui, il 16 agosto, l'opera di Santa Maria del Fiore gli commissionò il celebre David, divenuto ben presto il simbolo della fibra fiera e pugnace del popolo fiorentino. Da un unico, colossale blocco di marmo, precedentemente manomesso e storpiato da Agostino di Duccio e che era rimasto per quasi quaranta anni inutilizzato nel cortile dell'opera del Duomo di Firenze, Michelangelo sbozzò una gagliarda figura di giovane, non priva forse di qualche disarmonia fra talune parti di gracile complessione (i fianchi) e altre fin troppo grandi e nerborute (le mani, i piedi, la cassa toracica), ma nondimeno straordinariamente energica e volitiva, specie nell'espressione vigile e corrucciata del volto, propria di chi attende a pie' fermo l'avvicinarsi di un pericolo, chiamando a raccolta tutte le proprie forze. Accolta trionfalmente al suo compimento (1504) dai Fiorentini, la statua gigantesca, dopo animate discussioni in cui ebbe parte anche Leonardo da Vinci, venne collocata in piazza della Signoria sul gradino di Palazzo Vecchio; qui rimase fino al 1873, quando venne rimossa e trasferita, a scopo precauzionale, nelle Gallerie dell'Accademia di Belle Arti.

Allo stesso periodo, che precede il secondo viaggio a Roma, risalgono l'austera Madonna col Bambino di Bruges (chiesa di Notre-Dame), colà trasferita da mercanti fiamminghi; il San Matteo dell'Accademia di Firenze, in cui la figura dell'apostolo, lavorata di getto e non ancora digrossata, sembra lottare con disperata risoluzione contro l'avvinghiante prigionia del marmo e i due superbi tondi marmorei eseguiti per Taddeo Taddei (Londra, Royal Academy of Arts) e per Bartolomeo Pitti (Firenze, Bargello); opere queste ultime di grande importanza per la definizione e l'intendimento di due procedimenti tipicamente michelangioleschi: il «contrapposto» e il «non finito». Il primo consiste nel dare alle varie parti di una figura direzioni divergenti, sì da creare un'impressione di movimento pur nella staticità della posa (e sarà accorgimento ripreso e sviluppato, in modo talora artificioso, dalla successiva generazione di artisti, quella dei cosiddetti «manieristi»); il secondo si riferisce invece all'improvvisa interruzione del lavoro prima che l'opera sia ultimata, interruzione dovuta a ragioni imprecisabili che si è voluto ricondurre volta a volta a uno stato di insoddisfazione dell'artista conscio della resistenza e dei limiti opposti dalla materia alla grandezza e complessità della propria concezione, o, per contro, alla sua soddisfazione nel vedere già adempiuti a uno stadio intermedio della lavorazione gli obiettivi finali della propria ricerca.

Sempre di questo periodo è la prima prova pittorica giunta sino a noi, il tondo con la Sacra Famiglia, dipinto per Agnolo Doni e oggi agli Uffizi di Firenze; qui l'artista dà corpo per la prima volta alla convinzione, in lui radicatissima, che la pittura è «tanto più tenuta buona, quanto più va verso il rilievo». Una salda monumentalità governa infatti il gruppo sacro, movimentato da ardite torsioni a spirale e proiettato in primo piano, con straordinaria efficacia, da una sgargiante fantasia di colori. Purtroppo disperso, benché ugualmente celeberrimo grazie ai disegni e alle incisioni che ne furono tratti e alle descrizioni ammirate dei contemporanei, è invece il cartone apprestato per il grande affresco con la Battaglia di Cascina destinato ad affiancare in Palazzo Vecchio, la Battaglia di Anghiari di Leonardo.
Dopo quattro anni trascorsi a Firenze, nel 1505 Michelangelo venne chiamato nuovamente a Roma, questa volta al servizio di un grande papa, Giulio II Della Rovere. Questi gli affidò l'erezione della propria tomba nella nuova basilica di San Pietro che in quegli anni Bramante andava riedificando sulle fondamenta dell'antica basilica di Costantino, atterrata allo scopo. Esaltato dal prestigio dell'impresa, l'artista sottopose al pontefice un ambizioso progetto, e, avutane l'approvazione, si recò a Carrara per scegliere i marmi; al suo ritorno però Giulio II annullava la commissione, provocando la reazione sdegnata del maestro, che abbandonava la città. Ave va inizio così attorno al monumento funebre quella che Michelangelo chiamò la « tragedia della sepoltura», una tormentosa vicenda di lavori intrapresi e interrotti, di speranze e di delusioni, di entusiasmi e rinunce, destinata a protrarsi per un quarantennio.

Nonostante l'affronto patito, Michelangelo non tardò comunque, anche per le vivaci insistenze del pontefice, a riconciliarsi con lui, e anzi ne fuse un'effigie bronzea, distrutta qualche anno più tardi dai Bolognesi durante una sommossa. Alla sepoltura di papa Giulio l'artista tuttavia non cessò mai di attendere, come testimoniano i vari progetti (all'ultimo dei quali - il sesto - fu dato finalmente corso nel 1545 nella chiesa di San Pietro in Vincoli), e talune sculture come il Mosè alloggiato al centro della tomba, le figure di Lia e Rachele che lo fiancheggiano, e i sei Schiavi (o Prigioni) divisi fra Parigi e Firenze. Tra queste la più rinomata è certamente il Mosè, sia a motivo dell'aneddotica fiorita su di esso (il maestro che, sbalordito per la fremente vitalità dell'opera, le vibra un colpo di martello, quasi a volerne strappare la parola), sia per l'altissima suggestione emanante dalla gigantesca figura.

Famosi sono anche i Prigioni, i due del Louvre (Schiavo morente e Schiavo ribelle), cronologicamente anteriori e più compiuti, e i quattro della Gallerie dell'Accademia di Firenze (Schiavo giovane, Schiavo barbuto, Schiavo che si desta e Atlante), più tardi e non finiti, eppure straordinariamente vivi nella loro lotta insensata contro il blocco di marmo che inesorabilmente li serra.


Dopo il ritorno a Roma, il papa gli sottopose un nuovo progetto: la decorazione della volta della Cappella Sistina secondo uno schema da lui stesso predisposto. Questo parve però troppo semplice e disadorno all'artista, che espresse le proprie perplessità e, cosa inaudita per i tempi, venne lasciato libero di far ciò che voleva. Benché la tecnica dell'affresco gli fosse scarsamente congeniale, e malgrado l'enorme mole dell'opera (gli occorsero infatti ben quattro anni per completarla), il maestro non volle giovarsi di aiuti, e, issati i ponteggi, nel maggio 1508 diede inizio ai lavori, deciso a riscattare con un'impresa leggendaria lo smacco della sepoltura pontificia. Popola la superficie della volta, ordinata secondo una concezione di grande complessità e ricchezza inventiva, una turba di personaggi (Profeti, Sibille, Ignudi, Schiavi), raccolti attorno a nove riquadri con Storie della Genesi. Memorabili, tra questi, sono il Diluvio universale, in cui la drammaticità dell'evento si frange in una molteplicità di casi umani angosciosi e pietosissimi, incalzati dal montare tumultuoso delle acque; l'unica scena con Il peccato originale e La cacciata dal Paradiso terrestre, ove le forme scultoree dei progenitori del genere umano campeggiano colossali ed eroiche; e la Creazione di Adamo, grandiosamente orchestrata attorno al gesto sapientissimo con cui Dio infonde nella torpida, atletica figura di Adamo la scintilla del risveglio e della forza vitale.
Nell'autunno del 1512 la volta della Sistina venne scoperta e mostrata al pubblico, e grandi furono lo stupore e l'ammirazione dei contemporanei per la titanica impresa: le commissioni e gli impegni si moltiplicarono, abbracciando, dietro sollecitazione dei successori di Giulio II (morto nel 1513), anche il campo dell'architettura.
Nel 1515 Leone X gli affidava infatti la sistemazione della facciata della chiesa fiorentina di San Lorenzo; e cinque anni dopo, per la stessa chiesa, il cardinale Giuliano de' Medici, poi papa col nome di Clemente VII, gli ordinava il progetto dell'erigenda cappella funebre della sua famiglia.

Mentre il primo incarico fu in seguito revocato, provocando le furibonde rimostranze dell'artista, che già aveva approntato i disegni e un modello in legno, al secondo Michelangelo attese (con una lunga sospensione dovuta al rovesciamento del regime mediceo e all'instaurazione di un governo repubblicano, in cui prestò servizio come esperto di fortificazioni) fino al 1534, portando a termine le finiture interne della cappella (detta anche Sacrestia nuova) e due dei sei monumenti funebri previsti a ridosso delle pareti: tanto la struttura parietale della cappella, armoniosamente scandita da un gioco raffinato di pieni e di vuoti e da fieri contrasti chiaroscurali, quanto le sculture che vi furono alloggiate - la Madonna con il Bambino sul sarcofago di Lorenzo de' Medici, l'Aurora e il Crepuscolo su quello del duca Lorenzo, il Giorno e la Notte su quello del duca Giuliano, e le due statue dei duchi entro nicchie soprastanti le tombe - recano inconfondibile l'impronta del genio michelangiolesco; le quattro Ore del giorno, in particolare, registrano, al di là delle possibili interpretazioni allegoriche e degli indubbi richiami alla filosofia del tempo, una gamma espressiva varia e modulata (dalla volitiva energia del Giorno alla serena bellezza della Notte, dalla malinconia dell'Aurora alla pensosa rassegnazione del Crepuscolo), magistralmente assecondata dal diverso grado di elaborazione del marmo, ora sommariamente sgrossato dallo scalpello, ora tornito con estrema, levigata politezza. L'assetto interno del vestibolo e della sala della Biblioteca laurenziana di Firenze, avviato negli stessi anni sempre per incarico di Clemente VII, risponde ai medesimi criteri architettonici formulati nella Sacrestia nuova: grazie al frequente alternarsi degli elementi decorativi sporgenti, le pareti assumono anche qui un carattere di movimento, di vitalità, un rilievo quasi scultoreo.

Dopo altre opere minori, tra cui spicca il Bruto del Bargello, personaggio di eroica fermezza morale, l'attività scultorea si chiude con tre gruppi della Pietà: quello di Santa Maria del Fiore, quello detto di Palestrina all'Accademia di Firenze e quello Rondanini del Castello Sforzesco di Milano. A quest'ultimo, il più intenso dei tre, Michelangelo lavorò fino a pochi giorni dalla morte, lasciandolo incompleto.

Michelangelo si spegneva l'8 febbraio 1564, e la sua salma onorata a Firenze da esequie solenni, veniva tumulata in Santa Croce.

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