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Saturday, July 9, 2011

Il Grice italiano: Tasso e il suo discorso dell'arte del dialogo

Luigi Speranza


AL MOLTO REVERENDO PADRE IL PADRE DON ANGELO GRILLO. Voi mi pregate, Padre molto reverendo, nelle vostre lettere, ch' io vo glia darvi alcun ammaestramento; e 'l chiedete, se non m'inganno, de lo scrivere i dialogi, perché son quelle medesime ne le quali m'avisate d'aver ricevuti quel della Poesia toscana e della Pace. E se propria mente ragionate, io non posso compiacervi, perché tanto a me disdi
cevol sarebbe la persona di maestro, quanto a voi quella di scola
re: né rifiutandola io temo di poterne esser biasimato, come Giotto,
perch'egli ricusò convenevole onore, io non accetto ufficio non conve
niente. Ma se volete onorarmi con questo nome, ed ammaestramento
chiamate l'opinione, io la scriverò, perché niuna cosa debbo tenervi
celata, la qual possa giovar a gli altri o pur a me stesso; ed allora sti
merò buone le mie ragioni che dal vostro giudizio saran confermate.
E se delle regole aviene quel che delle leggi, sì come altre leggi hanno i
Genovesi, diverse da quelle de' Viniziani o de' Ragusei; così potreb
bono avere altri precetti nell'artificio del bene scrivere. Ma io non gli
voglio dar questo nome, né voi gliele scrivete in fronte; perciò che io
l'ho raccolte in una operetta assai breve per assomigliar alcuni dottori
cortegiani, i quali non potendo sostener persona così grave, vestono di
corto. E s'in quest'abito potranno esser vedute dagli amici e parenti
vostri, che sono usati non solamente d'udire, ma di scrivere e di far
nobilissime azioni, non v'incresca di leggerle.

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Nell'imitazione o s'imitano l'azioni degli uomini o i ragionamenti.

E quantunque poche operazioni si facciano a la mutola, e pochi discorsi senza operazione, almeno dell'intelletto, nondi meno assai diverse giudico quelle da questi.

E degli speculativi è proprio il discorrere, sì come degli attivi l'operare.

Due saran, dunque, i primi generi dell'imitazione.

L'un dell'azione, nel qual son rassomigliati gli operanti.

L'altro delle parole, nel quale sono in trodotti i ragionanti.

------------ This above is what Grice has, after Locke, as 'the way of words' -- la via delle parole.

E 'l primo genere si divide in altri, che sono la tragedia e la comedia, ciascun delle quali patisce alcune divisioni.

E 'l secondo si può divider parimente.

Ed Aristide, un de' più famosi greci i quali scrissero e non parlorono, così parve che gli dividesse, dicendo che Platone avea comicamente rappresentato
Ippia, Prodico, Protagora, Gorgia, Eutedemo, Bonisidoro, Agatone, Cinesia e gli altri.

E ch'egli medesimo chiama le sue leggi Tragedia, e si confessa ottimo tragico.

Ma tra' moderni v'è chi gli divide altramente, facendone tre spezie.

L'una delle quali può montare in palco, e si può nominar rappresentativa, perciò ch'in essa vi siano persone introdotte a ragionare.

Cioè in alto, com'è usanza di farsi nelle comedie e nelle tragedie.

E simil maniera è tenuta da Platone ne' suoi Ragionamenti e da Luciano ne' suoi.

Ma un'altra ce n'è che non può montare in palco, perciò che, conservando l'autore la sua persona, come istorico narra quel che disse il tale e 'l cotale.

E questi due ragionamenti si possono do mandare istorici o narrativi.

E tali sono, per lo più, quelli di Cicerone.

E c'è ancora la terza maniera: ed è di quelli che son mesco lati della prima e della seconda maniera, conservando l'autore la sua prima persona e narrando come istorico.

E poi introducendo a favellar dramatikõs, come s'usa di far nelle tragedie e nelle come die.

E può, e non, montare in palco.

Ciò è non può montarvi, in quanto l'autore conserva la sua persona, ed è come l'istorico.

E può montarvi, in quanto s'introducono le persone rappresentativamente a favellare.

E Cicerone fece alcuni ragionamenti sì fatti.

E quantun que questa divisione sia tolta da gli antichi e paia diversa da l'altra,
nondimeno l'intenzione forse è l'istessa.

Perché la tragedia si divide in quella che si dice tragedia propriamente e nell'altra nella qual parla il poeta.

E tragedia si fatta compose Omero.

E questa divisione, perché è fatta in due membri, è più perfetta.

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Il dialogo è l'imitazione del ragionamento.
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Nondimeno i dialoghi sono stati
detti tragici e comici per
similitudine, perché
le tragedie e le comedie propriamente sono l'imitazioni dell'azioni;
ma'l dialogo è imitazione di ragionamento:

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E il dialogo tanto partecipa
del tragico e del comico, quanto
in lui si scrive dell'azione.

Però tra
gici si posson chiamar sopra tutti gli altri il

"Critone" e 'l "Fedone":

nell'un de' quali Socrate,
condannato a la morte, ricusa di fuggir
sene con gli amici.

Nell'altro, dopo lunga disputazione dell'immortalità dell'animo, bee il veleno.

E comico è il convito, nel quale Aristofane è impedito dal rutto nel favellare, ed Alcibiade ubriaco si mescola fra' convitati.

Ma 'l menesseno par misto di queste due specie.

Perciò che Socrate, battuto da la maestra Aspasia, è persona
comica.

Ma lodando i morti Ateniesi, inalza il dialogo a l'altezza
della tragedia.

Pur questi medesimi dialogi non son vere tragedie o vero comedie.

Perché nell'une e nell'altre le quistioni e i ragionamenti son descritti per l'azione.

Ma ne' dialogi l'azione è quasi giunta de' ragionamenti.

E s'altri la rimovesse, il dialogo non perderebbe la sua forma.

Dunque in lui queste differenze sono accidentali più tosto ch'altramente.

DIALOGO E RAGIONAMENTO

Ma le proprie si torranno dal ragionamento
istesso e da' problemi in lui contenuti,
ciò è da le cose ragionate, non sol dal
modo di ragionare.

Perch'i ragionamenti sono o di cose ch'appartengono
a la contemplazione,
o pur di quelle che
son convenevoli a l'azione.

E negli uni sono i problemi intenti a l'elezione ed a la fuga.

Negli altri, quelli che risguardano la scienza
e la verità.

Laonde alcuni dialogi debbono esser detti civili e costumati, altri speculativi.

E 'l soggetto degli uni e degli altri o sarà la quistione infinita.

Come la virtù si possa insegnare.

O la finita,
che debba far Socrate condennato a la morte.

E perciò che gran parte de' platonici dialogi
sono speculativi, e quasi in tutti la qui
stione è infinita, non pare che lor si convenga la scena in modo
alcuno, né meno a gli altri che son de' costumi, perché son pieni
d'altissime speculazioni.

Anzi più tosto non si conviene ad alcun dialogo, se non forse per rispetto dell'elocuzione, la quale alcuna volta pare istrionica, sì come disse il Falereo, avenga che nella scena si rappresenti l'azione o atto, dal quale son denominate le
favole e le rappresentazioni drammatiche.

Ma nel dialogo principalmente s'imita il ragionamento,
il qual non ha bisogno di palco.

E quantunque vi fosse recitato qualche
dialogo di Platone, l'usanza
fu ritrovata dopo lui senza necessità.

Perché s'in alcuni luoghi l'elocuzione
pare accommodata a l'istrione, come nell'"Eutidemo", può
leggersi da lo scrittore medesimo ed aiutarsi con la pronuncia.

Né gli conviene ancora il verso, come hanno detto,
ma la prosa.

Perciò che la prosa è

parlar conveniente a lo speculativo

ed a l'uomo civile,

il qual ragioni degli uffici e delle virtù.

E i sillogismi e l'induzioni e gli entimemi e gli esempi
non potrebbono esser convene volmente fatti in versi.

E se leggiamo alcun dialogo in versi,

come è l'Amicizia bandita di Ciro prudentissimo, non stimerem lode
vole per questa cagione, ma per altra.

E direm che 'l dialogo sia imitazione
di ragionamento scritto in prosa, senza rappresentazione,
per giovamento degli uomini civili e speculativi.

E ne porrem due spezie.

L'una contemplativa e l'altra costumata.

E 'l soggetto nella prima spezie sarà la
quistione infinita.

Nella seconda può esser l'infinita o la finita.

E quale è la favola nel poema, tale è nel dialogo la
quistione.

E dico la sua forma e quasi l'anima.

Però s'una è la
favola, uno dovrebbe esser il soggetto del quale si propongono i
problemi.

E nel dialogo sono, oltre di ciò, l'altre parti, ciò è la
sentenza e 'l costume e l'elocuzione.

Ma trattiam prima della prima.

Dico, adunque, ch'in ogni questione si concede alcuna cosa e
d'alcuna si dubita.

E intorno a quella di cui si dubita nasce la disputa,
la qual si forma della dimanda e della risposta.

E perché 'l dimandare s'appartiene particolarmente al

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dialettico,
***********

par che
lo scrivere il dialogo sia impresa di lui.

Ma 'l dialettico non dee richieder più cose d'uno, o pur una cosa di molti.

Perché s'altri
rispondesse, non sarebbe una l'affirmazione o la negazione.

E non chiamo una cosa quella c'ha un nome solo, se non si
fa una cosa di quelle.

Come, l'uomo è animal con due piedi e mansueto.

Ma di tutte queste si fa una sola cosa.

Ma dell'esser bianco e dell'essere uomo e del caminare,
come dice Aristotele,
non se ne fa uno.

Però, s'alcuno affermasse qualche cosa, non
sarebbe una affermazione; ma una voce, e molte l'affermazioni.

Se dunque

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l'interrogazione dialettica
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è una dimanda della risposta,
o vero della proposizione, o vero dell'altra parte della contradizione.

E la proposizione è una parte della contradizione.

A queste cose non sarà una risposta né una dimanda.

Ma s'al dimostrativo non s'appertiene il dimandare, a
lui non converrà di scriver dialogo.

E par ch'Aristotele assai chiaramente faccia questa differenza
nel primo delle Prime resoluzioni fra la proposizion dimostrativa
e la dialettica, dicendo che la demonstrativa prende l'altra parte
della contradizione.

Perciò che colui il qual dimostra, non dimanda, ma piglia.

Ma la dialettica è dimanda della contradizione.

Nondimeno nel primo delle posteriori egli dice che. s'è il medesimo l'interrogazione sillogistica e la proposizione.

E le proposizioni si fanno in ciascuna scienza, in ciascuna scienza ancora si posson fare le dimande.

Laonde io raccolgo che si posson fare i dialogi nell'aritmetica, nella geometria, nella musica e nell'astronomia, e nella morale e nella naturale e nella divina filosofia.

Ed in tutte l'arti ed in tutte le scienze si posson far le richieste e conseguentemente i dialogi.

E s'oggi fossero in luce i dialogi scritti d'Aristotele, non ce ne sarebbe peraventura dubbio alcuno.

Ma leggendo que' di Platone, i quali son pieni di proposizioni appertenenti a tutte le scienze, potremo chiaramente conoscere l'istesso.

Nondimeno, sì come
il dimandare è proprio al dialettico, così a lui si conviene il dialogo
più ch'a tutti gli altri.

Laonde Aristotele, nel capitolo seguente,
pare che faccia differenza fra le matematiche e i dialogi, dicendo
che se fosse impossibile mostrar dal falso il vero, sarebbe facile il
risolvere, perché si convertirebbono di necessità.

Ma si convertono
più quelle che son nelle matematiche, perché non ricevono al
cuno accidente.

E 'n ciò son differenti da quelle che son ne' dialo
gi.

E dialogi chiama i parlari dialettici, i quali son composti della
dimanda e della risposta.

Al dialettico, dunque, converrà principalmente di scrivere il dialogo, o a colui che vuol rassomigliarlo.

E 'l dialogo sarà imitazione
d'una disputa dialettica.

Ma perché quattro sono i generi delle dispute:

a. il genero dottrinale,

b. il genero dialettico,

c. il genero tentativo e

d. il genero contenzioso.

L'altre dispute ancora si possono imitare ne' dialogi.

E forse in quelli d'Aristotele erano tutt'e quattro.

Ma in quelli di Platone si troverebbono similmente.

Perché Socrate per via d'ammaestramento e d'esortazione parla con Alcibiade,
con Fedro e con Fedone.

E come dialettico disputa con Zenone e con Parmenide.

E e come tale riprova Ippia, Gorgia, Trasimaco e gli altri Sofisti, e talora gli tenta; ma i Sofisti son cotenziosi e vaghi di gloria, come appare nell'Eutidemo, detto altramente il Litigioso.

Nondimeno questi quattro generi non sono così partitamente
distinti da gli interpreti di Platone, i quali pongono tre maniere di
dialogi.

L'una, nella quale Socrate esorta i giovanetti.

Nell'altra riprova i Sofisti.

La terza è mescolata dell'una e dell'altra: la qual
senza dubbio è più soave per la mescolanza.

Ma chi volesse scriver dialogi secondo la
dottrina d'Aristotele ed arricchir di questo
ornamento le scuole peripatetiche, potrebbe scriverli in
tutt'e quattro le maniere.

Ma principalmente son lodevoli le due
prime, la dottrinale e la dialettica.

L'artificio della quale consiste
principalmente nella dimanda usata
con mòto artificio da Socrate
ne' libri di Platone, come appare
nel primo dialogo nel quale Socrate
richiede ad Ipparco quel che sia la cupidigia del guadagno.

E 'n tutti gli altri simiglianti, non eccettuando quelli ne' quali,
sotto la persona di Forestiero ateniese, dà le nuove leggi d'una
città.

E 'n quelli di Senofonte ancora, con arte molto simile,
Socrate chiede a Critobulo se l'economia è nome di scienza, come
la medicina e l'architettura; e nel Tiranno, Simonide ad Ierone, che
differenza sia fra la vita reale e la privata.

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E da la risposta ch'è fatta
prendono occasione d'insegnare.
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Ma da questo artificio si dipartì
Marco Tullio, il quale nelle Partizioni oratorie pone la dimanda in
bocca non
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di quel ch'insegna,
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ma di colui ch'impara.

Ed egli medesimo ci dimostra la diversità fra i Greci e i
Latini in quelle parole di Cicerone figliuolo.

Vuoi dunque ch'io ti dimandi scambievolmente
in lingua latina di quelle cose medesime delle quali
tu mi suoli addomandare nella greca ordinatamente?

Laonde pare
che la dimanda fatta dal discepolo sia derivata da Cicerone, e
l'artificio sia proprio de' Romani, il quale s'usò dal Possevino e da altri
nella dottrina peripatetica, perché forse è più facile.

Ma è non
così lodevole.

Né fu, ch'io mi ricordi, usata da gli antichi.

E per questa ragione Marco Tullio nelle Quistioni tusculane più s'avvicina
a l'arte de' Greci.

Percìò ch'egli commandava ch'alcun de' suoi famigliari ponesse quel che gli pareva, ed egli contradiceva a la conclusione in questo modo.

‘«auditore.

La morte mi pare esser male.

Ma quelli che son morti o a quelli c'han da morire?»’

La quale è vecchia e socratica ragione di disputar contra l'altrui opinione.

Tuttavolta il por la conclusione ha dello scolastico.

E però dice d'aver poste ne' cinque libri le scuole de' cinque giorni.

Tanto poté l'amor della filosofia in un vecchio senator romano, padre della
patria, il qual quistionava secondo il costume de' Greci, forse per
ingannar se stesso in questo modo e consolarsi nella servitù.

Ma non si dimenticò ne' libri dell'Oratore di quel ch'era convene
vole a' romani senatori.

Laonde Crasso ed Antonio in altra maniera
introduce a favellare.

Ma fra tutt'i dialogi greci, lodevolissimi son
que' di Platone; perciò che superano gli altri d'arte, di sottilità,
d'acume, d'eleganza e di varietà di concetti e d'ornamento di parole.

E nel secondo luogo son que' di Senofonte.

E que' di Luciano nel terzo.

Ma Cicerone è primo fra' Latini, il quale volle
forse assomigliarsi a Platone.

Nondimeno, nelle quistioni e nelle
dispute, alcuna volta è più simile a gli oratori ch'a' dialettici.

Ma nel secondo luogo non so chi se gli avicini o chi si possa para
gonare a' Greci.

E nella nostra lingua italiana,

coloro c'hanno scritto dialogi,

per la maggior parte hanno seguita

la maniera men artificiosa:

nella qual dimanda quel che

vuole imparare, non quel che

ripruova.

E s'alcuno s'è dipartito da questo modo di scrivere,

merita lode maggiore. E tanto basti della prima parte, ch'è la quistione.

Ma perché, come abbiam detto,

*******************************

il dialogo è imitazione del ragionamento,

e 'l dialogo dialettico imitazione della disputa, è necessario ch'i ragionanti e i disputanti abbiano qualche opinione delle cose disputate e qualche costume, il qual si manifesta alcuna volta nel disputare.

E quanti derivano l'altre due parti del dialogo.

Io dico la sentenza e 'l costume.

E lo scrittore del dialogo deve imitar
non altramente che faccia il poeta, perch'egli è quasi mezzo fra 'l
poeta e 'l dialettico.

E niun meglio l'imitò e meglio l'espresse di
Platone, che descrisse nella persona di Socrate il costume d'un
uomo da bene ch'ammaestra la gioventù, e risveglia gli ingegni
tardi, e raffrena i precipitosi, e richiama gli erranti, e riprova la
falsità de' Sofisti, e confonde l'insolenza e la vanità.

Amator del
giusto e del vero.

Magnanimo non che mansueto nel tolerar l'ingiurie,
intrepido nella guerra, costante nella morte.

Ma in quella
d'Ippia e di Gorgia e d'Eutidemo e degli altri sì fatti si descrivono
gli avari e ambiziosi e amatori di gloria, i quali non hanno vera
scienza d'alcuna cosa, ma parlano per opinione.

In quella di Menone e di Critone descrive il buon padre e 'l buon amico.

E 'n quella d'Alcibiade, di Fedro e di Carmide, i costumi de' nobili
giovani son descritti maravigliosamente.

Oltra queste parti del dia
logo, ci sono le digressioni, come nel poema gli episodi.

E tale è
quella d'Eaco e di Minos e di Radamanto nel Gorgia, e quella di
Theuth demone degli Egizi nel Fedro, d'Ero Panfilio ne' dialogi
della Republica Ma perch'a bastanza s'è ragionato del soggetto
del dialogo e della sentenza e de' costumi di coloro che sono intro
dotti a favellare, resta che parliamo dell'ultima parte, la quale
è l'elocuzione.

E se crediamo ad Artemone, che ricopiò l'epistole
d'Aristotele, bisogna scriver co 'l medesimo stilo il dialogo e
l'epistola, perch'il dialogo è quasi una sua parte.

Ma Demetrio Falereo dice ch'

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il dialogo è imitazione del ragionare a l'improviso.
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Ma l'epistola si scrive, e si manda in dono in qualche modo.

Però dee esser fatta e polita con maggiore studio.

Tuttavolta né
Platone né Marco Tullio par che sempre avessero questa considerazione.

Perché ne' dialogi l'elocuzione dell'uno e dell'altro non è
meno ornata che quella dell'epistole.

E 'n tutti gli altri ornamenti i dialogi paiono superiori.

E ciò non par fatto senza molta ragione,
conciosiacosa che i dialogi di Platone e di Marco Tullio sono imitazione de' migliori.

E nell'imitazioni sì fatte, le persone e le cose
imitate debbono più tosto accrescere che diminuire, come

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ci insegna Demetrio medesimo, il qual vuol che la magnificenza sia nelle
cose, s'il parlare è del cielo o della terra.

Oltre di ciò, là dove egli parla del periodo, ne fa tre generi.

Il primo, istorico; il secondo, dialogico; il terzo, oratorio.

E vuol che l'istorico sia nel mezzo del
l'uno e dell'altro, non molto ritondo né molto rimesso.

Ma la forma
dell'oratorio sia contorta e circolarie.

E quella del dialogico più semplice dell'istorico, in guisa ch'a pena dimostri d'esser periodo.

I quali ammaestramenti sono stati meglio osservati da' Greci che da
Marco Tullio, ch'imitò Platone solamente: perch'egli così nel periodo,
com'in ciascun'altra parte, ricercò la grandezza più di Senofonte
e degli altri.

Laonde usa le metafore pericolosamente in luogo delle
imagini, che sono usate da Senofonte: e somiglia colui il quale ca
mina in luogo dove è pericolo di sdrucciolare, compiacendo a se
medesimo, ed avendo molto ardire, sì come è proprio delle nature
sublimi talché fu detto di lui ch'egli molto s'inalzava sovra il
parlar pedestre; e ch'il suo parlare non era in tutto simile al verso,
né 'n tutto simile a la prosa; e ch'egli usava l'ingegno non altra
mente ch'i re facciano la podestà; ed in somma, niun ornamento
di parole, niun color retorico, niun lume d'oratore par che sia ri
fiutato da Platone.

Ma s'in alcuna parte del dialogo debbiamo aver
risguardo a gli avertimenti di Demetrio, è in quella nella qual si
disputa, perch'in lei si conviene la purità e la simplicità dell'elo
cuzione; e 'l soverchio ornamento par ch'impedisca gli argomenti e
che rintuzzi, per così dire, l'acume e la sottilità. Ma l'altre parti
debbono esser ornate con maggiore diligenza; e dovendo lo scrit
tor del dialogo assomigliare i poeti nell'espressione e nel por le
cose inanzi a gli occhi, Platone meglio di ciascuno ce le fa quasi
vedere: il qual nel Protagora, parlando d'Ippocrate che s'era arros
sito essendo ancora di notte, soggiunge: «Già appariva la luce,
onde il color poteva esser veduto» E la chiarezza, ch'evidenza è
chiamata da' Latini, nasce da la cura usata nel parlare e da l'es
sersi ricordato ch'Ippocrate era a lui veduto di notte. E nel mede
simo dialogo leggiamo con maraviglioso diletto che l'Eunuco por
tinaio, perché i Sofisti gli erano venuti a noia, serra con ambe
le mani la porta a Socrate ed al compagno; ed a pena l'apre, uden
do che non erano di loro. E ci piace il passeggiar di Protagora e
degli altri che, passeggiando con tanto ordine, ascoltavano il ra
gionare: e ci par di vedere Ippia seder nel trono e Prodico giacere
avviluppato. E con piacer incredibile leggiamo similmente che due
giovanetti appoggiati sovra il gombito descrivessero cerchi e altre
inchinazioni della sfera: e che Socrate pur col gombito dimandasse
di che ragionavano. Né con minor espressione ci pone inanzi a gli
occhi Carmide e gli amici: e quasi veggiamo gli estremi, che sede
vano da questa parte e da quella, l'uno cadere e l'altro esser co
stretto a levarsi. Ma sopra tutte le cose c'empie di compassione e
di maraviglia il venir di Carmide a la prigione inanzi al giorno, e
l'aspettar che si destasse Socrate condannato a la morte: e poi
ch'il medesimo raccoglia la gamba, la quale era stata legata, e
grattandosi discorra del dolore e del piacere, la estremità de' quali
son congiunte insieme: e distendendosi, e postosi a sedere sovra la
lettiera, dia principio a maggiore e più alta contemplazione. E
nel medesimo dialogo tempera il dolore, quando scherza con le belle
chiome di Fedone, le quali dovevano il giorno tagliarsi; e nella
descrizione parimente è maraviglioso. E se leggiamo i ragionamenti
di Socrate sotto il platano, e quelli del Forestiero ateniese a l'om
bra degli alberi frondosi, mentre co 'l Lacedemonio e co 'l Can
diano vanno a l'antro di Giove, ci par di vedere ed ascoltare quel che
leggiamo. Queste son le perfezioni di Platone, veramente maravi
gliose: le quali, se ben saranno considerate, non ci rimarrà dubbio
alcuno che lo scrittor del dialogo non sia imitatore, o quasi mezzo
fra 'l poeta e 'l dialettico. Abbiam, dunque, che 'l dialogo sia imita
zione di ragionamento, fatto in prosa per giovamento degli uomini
civili e speculativi, per la qual cagione egli non ha bisogno di
scena o di palco; e che due sian le specie: l'una nel soggetto, della
quale sono i problemi che risguardano l'elezione e la fuga; l'altra
speculativa, la qual prende per subietto quistione ch'appertiene
a la verità e a la scienza; e nell'una e nell'altra non imita solamente
la disputa, ma il costume di coloro che disputano, con elocuzioni
in alcune parti piene di ornamento, in altre di purità, come par
che si convenga a la materia.

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