Luigi Speranza
Noi che rivolgiamo, in questo saggio, la nostra attenzione, la nostra indagine,
al problema del linguaggio, come esso si presenta nella filosofia di Benedetto
Croce, tratteremo del tema dell’attività pratica solo per quel tanto
che essa può essere collegata, molto indirettamente, al problema del linguaggio,
più esattamente al problema della «lingua», a causa della maniera in cui
essa viene definita dalla filosofia di Croce.
Terremo presente che, nel sistema crociano, vi sono due dialettiche, quella
dei distinti e quella degli opposti, e che nella dialettica degli opposti, nella
quale il positivo è in lotta perenne con il negativo, si ha un continuo superamento
del negativo da parte del positivo.
Così nell’intuizione-"espressione",
che si identifica con la forma artistica, il bello è in lotta perenne con il brutto
e vince il brutto, in maniera analoga a ciò che avviene nella filosofia, nell’attività
economica, e nell’attività morale, nelle quali il positivo è in lotta contro il
negativo e vince su di esso.
Dall’Estetica1 anzitutto apprendiamo che, per l’autore, intuizione ed
"espressione"
si identificano, che non vi è un’intuizione che non sia nello stesso
tempo "espressione".
Per semplificare la nostra discussione ci riferiremo
sempre, ed esclusivamente, al linguaggio verbale.
L’"espressione" o arte viene
definita nell’Estetica in relazione a ciò che costituisce la
«sensazione»
, «la materia informe», la
«naturalità»
, in altri termini il mondo delle
«impressioni».
L’estetica ci dà questa definizione dell’intuizione-"espressione" o arte:
«L’arte è "espressione di impressioni"»
Una nuova formulazione del concetto di arte si è avuta, in modo particolare,
con il saggio L’intuizione e il carattere lirico dell’arte e con l’altro, ancora
più importante,
Il carattere di totalità dell’"espressione" artistica.
Con il secondo saggio al mondo delle _passioni_ è attribuito un carattere cosmico.
L’identificazione di arte e linguaggio, discutibile per molti aspetti, fa dire
al Croce che la differenza fra l’intuizione cosiddetta comune e l’intuizione artistica
è soltanto quantitativa e non qualitativa.
A questo proposito egli giunge
a questa discutibile affermazione:
«I limiti delle espressioni e intuizioni
che si dicono arte verso quelli che volgarmente si dicono non-arte sono _empirici_:
è impossibile definirli».
Se così fosse, verrebbe a mancare un criterio
che ci permettesse di definire rigorosamente l’espressione artistica e di distinguerla
dagli altri tipi di espressione, che comprendono la cosiddetta espressione
comune, l’espressione del discorso scientifico e di quello filosofico.
Tutto il discorso crociano è fatalmente condizionato dalla tesi che il linguaggio
è sempre ed esclusivamente arte, anche quando esso si realizza nelle
frasi banali.
Tutti i possibili livelli del linguaggio sono determinati soltanto
da differenze quantitative.
Fra il genio, in arte, e il non genio, l’uomo comune,
vi sarebbe soltanto, a suo avviso, una differenza quantitativa.
Dobbiamo tenere presente il fatto che il pensare logicamente è necessariamente
connesso, nella teoria crociana, all’espressione, al linguaggio in atto.
Ma nell’Estetica si può notare un’oscillazione.
In essa troviamo l’affermazione
che «La forma logica o scientifica, in quanto tale, esclude la forma estetica
».
Ma, allora, la forma espressiva, l’"espressione", dovrà perdere i caratteri
che sono propri della forma estetica.
Questa tesi è in contrasto con l’affermazione
crociana che il pensare scientifico è insieme e distintamente pensare
scientifico e forma estetica.
Ed allora non si può dire, come fa il Croce, che
«la forma logica o scientifica» escluda la «forma estetica».
I soli giudizi logici
sono quelli che hanno come contenuto proprio ed esclusivo la determinazione
di un concetto (le definizioni).
Nell’Estetica troviamo una distinzione di «opera d’arte interna» (denominata
"espressione") e di «opera d’arte esterna» (denominata
"estrinsecazione").
------- ESTRINSECAZIONE.
ESTRINSECARE
----
Per il Croce il fatto estetico si esaurisce tutto nell’interiorità delle espressioni.
Si ha così la distinzione di opera d’arte interna ed opera d’arte esterna.
«Quella che si chiama esterna non è più opera d’arte».
Consideriamo, ora, la parola poetica in senso stretto, quella che viene costruita
mediante le parole. L’espressione poetica, per essere in sé «completa
», necessita, secondo il Croce, soltanto di essere interiormente prodotta.
Quella opera che «si chiama esterna», che appartiene a ciò che il Croce chiama
"estrinsecazione" e che definisce «produzione di cose», è soltanto, a suo avviso,
un «fatto pratico o di volontà». Suoni e toni, effettivamente o «fisicamente» pronunciati, sono, a nostro avviso, un «momento capitale» nel processo
di produzione estetica.
Esprimiamo il nostro dissenso riguardo al ruolo – secondario secondo il
Croce dal punto di vista artistico – dei cosiddetti «stimoli fisici» e dei conseguenti
«fatti psico-fisici»,
che per il Croce sono soltanto uno strumento di
memorizzazione.
Sono anche questo, ma sono molto di più.
Sono la realizzazione
compiuta dell’opera poetica.
Senza quei fatti psico-fisici, l’opera poetica
non sarebbe pienamente realizzata. La piena realizzazione dell’opera poetica
si raggiunge con quella che il Croce ha chiamato
«espressione esterna»
e ora chiama fatto psico-fisico che è la voce suonante e vibrante.
Ma vi è da fare un’osservazione, che mette in crisi lo schema della
«riproduzione» dell’opera d’arte.
Una volta realizzatisi lo stimolo fisico e il fatto
psico-fisico (suoni, toni, movimenti mimici, combinazioni di linee e colori
ecc.), appare del tutto privo di motivazione e di consistenza il fatto che si
realizzi, da sola, la sintesi estetica, che corrisponde alla pura immagine
dell’espressione (quest’ultima, infatti, costituirebbe un’attenuazione, un indebolimento
dell’espressione cosiddetta esterna).
Limitando la nostra attenzione e la nostra riflessione all’opera poetica in
senso stretto, possiamo, anzitutto, osservare che, nei confronti della cosiddetta
«estrinsecazione» poetica, del «fatto fisico», tale fatto fisico o istrumento
è tutt’uno con l’atto dello spirito e inseparabile da esso.
Tale fatto fisico
o psico-fisico costituisce la piena e completa realizzazione dell’opera poetica,
in tutti i suoi valori fonico-acustici.
Per il Croce l’immagine estetica è la
pura immagine interiore.
È da affermare, invece, che il fatto fisico, o più
esattamente psico-fisico, costituisce, contrariamente a quanto afferma il Croce,
lo stadio più compiuto e più ricco dell’opera poetica.
Le tecniche
dell’
"estrinsecazione"
costituiscono le tecniche che conducono l’espressione
artistica al suo più alto livello di sviluppo. L’estrinsecazione appartiene, contrariamente
a quanto afferma il Croce, all’attività estetica vera e propria, e
non alla sfera pratica.
Ma l’estrinsecazione, oltre ad essere la più completa
realizzazione dell’opera artistica, può essere anche comunicazione, volontà di
far conoscere agli altri il proprio prodotto estetico.
Perciò l’estrinsecazione
può avere due funzioni, una puramente estetica e una estetico-pratica.
A parte il nostro dissenso sul modo in cui il Croce valuta e giudica
l’estrinsecazione rispetto a quello che lui denomina intuizione o espressione,
dobbiamo esprimere il nostro pieno consenso con la sua tesi che giudicare
un’espressione artistica fissata in un certo materiale fisico significa «riprodurla
in sé».
Qui il termine ‘giudicare’ significa «riprodurre». Equivale al termine ‘ricreare’:
L’attività giudicatrice si dice il gusto, l’attività produttrice il genio: genio e gusto sono dunque sostanzialmente identici.
Chi riesce a comprendere un’opera d’arte rivive le stesse emozioni e fantasie
dell’artista.
A questo riguardo la posizione di Croce è in perfetta antitesi
con quella di Giovanni Gentile, per il quale ogni interpretazione costituisce
una nuova e diversa opera d’arte.
Al contrario il Croce afferma che ogni ricreazione
di un’opera d’arte debba essere identica alla creazione.
In tal modo
il Croce evita l’assurda conclusione della completa dissoluzione di ogni
opera d’arte che perderebbe la sua identità.
In una posizione diversa rispetto al Gentile si trova Luigi Pareyson, il
quale sostiene la tesi della «identità e trascendenza dell’opera d’arte», che
considera, però, soggetta a infinite, diverse e personali interpretazioni.
Si incontrano insuperabili difficoltà nel tentativo di definire l’unicità e
l’identità dell’opera nei confronti della molteplicità e diversità delle interpretazioni.
A questo riguardo non può non risultare valida la tesi crociana della identità
di genio e gusto, della creazione e della ricreazione, una tesi che è sostenuta
anche dal filosofo Schleiermacher.
Del tutto discutibile la posizione del Croce nei confronti della grammatica
e delle parti del discorso.
Quando esamineremo gli scritti dell’ultima fase del
suo pensiero nei confronti della lingua, cercheremo di dimostrare come sia
privo di fondamento rigorosamente filosofico la tesi che la lingua appartenga
esclusivamente alla sfera pratica e morale, al mondo delle abitudini.
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Una
«medesima» parola in due contesti diversi ha una differente significazione,
ma indubbiamente vi è un nucleo concettuale comune alle due differenti
significazioni della «medesima» parola che non può non avere un suo
valore gnoseologico.
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Se per linguaggio intendiamo l’atto linguistico o "espressione", che necessariamente
è condizionato dalla lingua, anche l’espressione poetica che consiste
in una combinazione originale di parole preleva tali parole dalla lingua e
le collega secondo determinate regole grammaticali.
Ogni atto linguistico,
anche il più originale, presuppone la lingua con i suoi paradigmi e le sue regole.
All’interno della teoria crociana del linguaggio, presenta molte difficoltà
di assai difficile soluzione la tesi, sostenuta nelle prime pagine della Logica,
che la maggior parte dei significati dei termini di una lingua siano concetti,
che il Croce definisce
"finzioni concettuali".
Ma tali nozioni o concetti sono assolutamente
necessari al compimento dell’intuizione-espressione poetica.
Di
tali nozioni non si fa un uso pratico, bensì squisitamente teoretico.
Tali nozioni
acquisiscono nell’espressione poetica, che è una combinazione singolare
e originale, una significazione particolare, che, tuttavia, non sarebbe possibile
produrre senza un necessario riferimento al significato generale, che è il
significato del termine prelevato da un paradigma della lingua.
Ma vediamo come il Croce definisce la rappresentazione o narrazione
dell’individuale storico o esistenziale, in quanto non è – e non può essere –
intuizione-espressione artistica.
Non troviamo nella Logica una definizione e
spiegazione del tipo di espressione che caratterizza l’individuale storico, in
quanto esso si presenta come distinto e diverso dall’individuale artistico.
La
narrazione del realmente accaduto presuppone la categoria dell’esistenza in
quanto distinta dalla categoria dell’arte.
Si incontrano indubbiamente delle
difficoltà ad accogliere la cosiddetta «categoria» di esistenza nella dialettica
dei distinti.
Il Croce afferma che «a costituire il racconto storico non basta il
solo criterio dell’esistenzialità».
Ma, ci possiamo chiedere, quali altri criteri, o
concetti, possono intervenire per costituire in tutto il suo significato un racconto
storico?
Il Croce afferma che la storia «non si giudica con le categorie
con cui si giudicano le azioni degli individui dialettizzandole in buone e cattive
poiché altro è l’azione dell’individuo e altro è l’avvenimento storico, che
va oltre le volontà singole».
Dire, come fa il Croce, che ciò che viene narrato
storicamente è l’opera del Tutto dello Spirito nella sua universalità equivale
a non determinare affatto quel fatto storico nei suoi caratteri specifici, ed a
sostenere che tutti i fatti storici, da un punto di vista conoscitivo, si equivalgono
in quanto sono opera del Tutto dello Spirito nella sua universalità.
Croce, entro la sfera del linguaggio, sente il bisogno di distinguere il linguaggio
come puro fatto estetico o artistico e il linguaggio come espressione
del pensiero logico.
In tal modo sconfessa in parte la sua assiomatica identificazione
del linguaggio con l’arte. Egli distingue poi un giudizio definitorio da
un giudizio individuale.
Il giudizio individuale, come ad esempio
«Pietro è buono» e
«A Silvia è arte».
presuppone o rinvia al giudizio definitorio, quello
che ci spiega che cosa sia la «bontà» e che cosa sia «l’arte».
Se è necessario
considerare come presupposto del giudizio individuale il giudizio definitorio,
è ugualmente necessario, sostiene il Croce, considerare il giudizio individuale
come presupposto del giudizio definitorio.
Il Croce afferma che, a differenza del giudizio individuale in senso stretto
(quel giudizio che non è una definizione), nel giudizio definitorio ciò che viene
considerato come soggetto risulta inseparabile e indistinguibile dalla definizione,
dal predicato.
E perciò siamo costretti a pensare che nel giudizio definitorio,
nella definizione, non si possa – se non metaforicamente – distinguere
un soggetto (l’individuale storico) e un predicato (l’universale).
Le difficoltà a cui va incontro il sistema crociano derivano proprio dal
modo in cui viene trattato il problema linguistico, che fa dire al Croce che
«nel concetto si deve ritrovare di necessità non solo l’elemento concettuale
ma anche quello rappresentativo e congiunti e fusi insieme in guisa tale che
non sia dato distinguerli se non per astrazione»
All’inizio della Parte Seconda della Logica, viene ribadita la tesi dell’identità
logica di giudizio individuale e giudizio definitorio.
Ciò che hanno in comune
il giudizio individuale e il giudizio definitorio è soltanto il fatto che entrambi
adoperano segni linguistici.
Ma la distinzione di giudizio individuale
e giudizio definitorio permane nel Croce anche se non viene presentata come
una vera e propria distinzione filosofica.
Notevoli difficoltà si presentano,
nella filosofia crociana, per la determinazione dei caratteri della storia, che è
storia di fatti accaduti e collocati nel tempo e nello spazio, come ad esempio
la narrazione della battaglia di Waterloo.
Se ci riferiamo alla Logica, ci viene offerta una specifica interpretazione
sulla base di elementi «concettuali».
Non vediamo come dal sistema, che è il
sistema dei distinti, possano giungere determinati criteri concettuali «per interpretare
e narrare la storia»: criteri concettuali che dovrebbero andare al di
là del semplice criterio dell’«esistenzialità», al fine di determinare «che cosa è
realmente accaduto». La storiografia, la storiografia vera e propria, quella in
cui credeva il Croce, che è storiografia di ciò che accade nel tempo e nello
spazio e sulla quale egli intendeva formulare una teoria, sembra scomparire
con lo scomparire del «tempo».
Non comprendiamo – dobbiamo dirlo con
franchezza – ciò che afferma il Croce prendendo le distanze dallo scritto La
storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte (1893), nel quale si identificava,
in ultima analisi, la storia con l’arte:
«Dopo sedici anni, sostengo invece
che la storia è filosofia, anzi che storia e filosofia sono la medesima cosa».
La Logica non è riuscita a darci un’adeguata spiegazione della cosiddetta
«rappresentazione del reale», identificando tout court nella unica e medesima
rappresentazione artistica la rappresentazione del reale e quella del possibile,
la rappresentazione storica dell’accaduto e la rappresentazione poetica
in senso stretto. Alla base di queste difficoltà c’è una primaria dogmatica
identificazione di linguaggio e arte.
Di essa e degli errori che essa provoca
tratteremo quando affronteremo i problemi linguistici della seconda fase della
filosofia crociana.
Vedremo se e come l’identificazione di linguaggio e arte
sia legata al concetto di creazione linguistica.
Ma vediamo ora il problema della distinzione di espressione e grammatica.
Il Croce si limita a dire che grammatica, fonetica, morfologia e sintassi sono
«utili» alla memoria, ma non le definisce come «necessarie».
La lingua dei
linguisti non dovrebbe avere, secondo il pensiero di Croce, alcuna incidenza
sul linguaggio.
La filosofia del linguaggio dovrebbe scacciare dal proprio seggio
la grammatica, la fonetica, la morfologia, la sintassi.
Ma il parlare concreto,
contrariamente a quanto afferma il Croce, non può assolutamente essere
sganciato dalla grammatica, dalla morfologia e dalla sintassi.
Il Croce definisce
le suddette discipline con l’espressione ambigua «utili alla memoria».
Ma
ogni atto linguistico presuppone necessariamente il patrimonio mnemonico di
quelle nozioni.
Si tratta di nozioni strettamente necessarie senza le quali non
potrebbe compiersi nessun atto propriamente linguistico.
Anche l’originalità
di un verso poetico non esclude assolutamente il necessario condizionamento
di grammatica, fonetica, morfologia e sintassi di una determinata lingua, che
può essere la lingua italiana.
Nei Problemi di estetica il Croce afferma
«che le
regole, della cui applicazione gode il grammatico, non sono leggi di verità, e,
dunque, la grammatica non ha valore teoretico e scientifico».
Non ci sentiamo assolutamente di affermare che le regole della Grammatica
siano leggi di verità; diciamo soltanto che le tecniche che la Grammatica
ci mette a disposizione sono tecniche necessarie, insopprimibili, e solo mediante
esse siamo in grado di compiere atti linguistici.
L’atto linguistico non
è, contrariamente a quanto sembra sostenere il Croce, una chimerica creatio
ex nihilo.
Perciò un atto linguistico, contrariamente a quanto sostengono lo
Steinthal e il Croce, non può ignorare l’ineliminabile funzione della Grammatica.
La lingua ha, ovviamente, in se stessa elementi gnoseologici.
H. Delacroix pone a confronto e a contrasto gli automatismi e le costrizioni
che provengono dalla lingua con la spontaneità e la libertà dell’atto linguistico:
«La liberté de la parole vient après toutes le servitudes de la
langue»1
Con il termine ‘écart’ (scarto, rifiuto) Delacroix vuol significare la
libertà dell’atto linguistico, della parole dinanzi alle costrizioni ed alle strutture
oggettive della lingua, al sistema di regole e di paradigmi della lingua.
Pietro Federico Strawson, nella sua "Introduction to Logical Theory" uscita a Londra
nel 1952, ponendo a confronto le proposizioni del calcolo logico-matematico
con le proposizioni del linguaggio ordinario, giunge a interessanti conclusioni
riguardo alla maggiore ricchezza, complessità e possibilità del linguaggio
verbale.
Ma l’atto linguistico non può non essere condizionato da una lingua,
che è un sistema di paradigmi grammaticali e lessicali e di regole di formazione
delle frasi.
Ritornando al Croce, la sua identificazione di linguaggio e arte, pur essendo
per molti aspetti erronea, lo ha stimolato a scoprire la creatività dell’atto
linguistico, creatività che si sviluppa anche in altre direzioni oltre quella artistica.
Mentre la «lingua» logico-matematica e le singole deduzioni di teoremi
sono allo stesso livello qualitativo, fra la lingua come sistema di paradigmi
grammaticali e lessicali, di regole fonologiche, morfologiche e sintattiche, e
l’atto linguistico, vi è un rapporto molto diverso.
L’atto linguistico è necessariamente
condizionato dalla lingua, ma l’atto linguistico non consiste semplicemente
nell’applicazione e nell’uso dei segni e delle regole della lingua.
Lingua e atto linguistico sono ad un livello qualitativo diverso. L’atto linguistico,
nella sua originalità e creatività, pur non potendo ignorare la lingua
con i suoi elementi e le sue regole, si trova, tuttavia, ad un livello qualitativamente
diverso rispetto a quello della lingua.
Fra il primo e la seconda c’è uno
scarto qualitativo, che abbiamo potuto evidenziare nel rapporto fra lingua e
atto linguistico, un rapporto che ha una sua evidenza e necessità. Non ci può
essere l’atto linguistico senza la lingua.
Ma ciò che il Croce ha intuito è il fatto
che la creatività, l’originalità, appartengono solo all’atto linguistico. L’affermazione
che soltanto l’atto linguistico è creativo è una verità che troviamo
nel concetto di parole formulato da Ferdinand de Saussure.
Ciò che non possiamo
in alcun modo approvare è la identificazione crociana del linguaggio
con l’arte.
Il Croce ha visto quello che a lui principalmente interessava di vedere:
la creatività dell’atto linguistico.
Ma questa sua convinzione è legata a
due teoremi che sono da respingere: l’identificazione di linguaggio e arte e la
negazione del valore teoretico della lingua. Eugenio Coseriu afferma che il
Croce ha il merito di aver messo in evidenza la creatività dell’atto linguistico,
ma ha voluto ignorare che l’atto linguistico nel suo carattere personale e originale
non si identifica esclusivamente con l’espressione poetica15. Per il
Croce non ha senso – a causa del postulato di base, l’identificazione del linguaggio
con l’arte, con la categoria eterna dello spirito – porre il problema
dell’origine del linguaggio verbale.
Se si respinge invece quel postulato di base,
e si afferma che il linguaggio verbale può essere usato per altre distinte
operazioni della mente, come quella scientifica, quella storiografica, quella
della filosofia, quella oratoria, quella della conoscenza comune e dell’azione,
il «linguaggio» ci si configura in maniera assai diversa, e non, certamente, come
una categoria eterna dello spirito.
Il Croce erroneamente afferma che la
volontà di comunicare con gli altri è fattore non essenziale per la formazione
del linguaggio. Il Croce, affermando che il linguaggio si origina soltanto dalla
fantasia poetica, si ricollega al mito vichiano dell’origine fantastico-poetica
del linguaggio. Al mito vichiano deve sostituirsi il quadro realistico nel quale
i primi uomini, mossi dalle esigenze pratiche della sopravvivenza, tentarono
di produrre, e riuscirono infine a produrre, con i mezzi vocali uno strumento
di comunicazione, dapprima indubbiamente povero e rudimentale.
Edmund
Husserl, all’inizio del paragrafo 7 della Prima ricerca logica considera «la funzione
comunicativa come la funzione che l’espressione (Ausdruck) è originariamente
destinata ad assolvere»
Dobbiamo dissentire dall’affermazione crociana che la parola non abbia
alcun rapporto con l’idea in quanto concetto.
Non è possibile che si realizzi
mediante la parola ciò che egli denomina «rappresentazione», se la parola
non è intessuta di tali nozioni o concetti. E ciò si può verificare anche con
l’esame dei testi poetici.
Il Croce vuole ignorare che senza quelli che egli denomina
«pseudo-concetti», o anche senza quelli che denomina «concetti»,
non vi potrebbe essere alcuna rappresentazione: ogni rappresentazione sarebbe
priva di un carattere conoscitivo, sarebbe una pura sensazione senza
profondità e senza storia.
Negando la presenza operante di una lingua, come fattore necessariamente
condizionante ogni atto linguistico, ogni espressione, è sfuggito al Croce il
carattere strumentale della lingua.
Egli ha esclusivamente concentrato le sue
indagini sull’atto linguistico.
La lingua è stata prodotta dalla mente dell’uomo, più esattamente da un
gruppo di uomini, in un certa fase del suo processo di sviluppo.
La lingua,
una lingua che è lo strumento necessario per compiere degli atti linguistici,
presuppone non una pura intuizione, un puro individuale, ma l’intelletto con
le sue nozioni ed i suoi concetti. Il problema dell’origine del linguaggio verbale
è filosoficamente necessario e ineludibile. Il Croce nega la validità di
questo problema. Sono da addebitare a lui due errori: quello di avere identificato
il linguaggio con l’arte e quello di non aver visto che il linguaggio è una
realtà complessa che è costituita di due componenti distinte, la lingua e l’atto
linguistico. L’arbitrarietà, che distingue gli elementi e le regole di una lingua,
è l’argomento più persuasivo a favore della tesi della identificazione di una
lingua con uno strumento. L’atto linguistico, anche il più originale e creativo,
non può non applicare le regole della lingua, morfologiche, sintattiche, fonologiche
e lessicali.
Sull’argomento del linguaggio verbale, e sui suoi caratteri, hanno assunto
un’importanza notevole le teorie di un linguista e filosofo del linguaggio, Antonino
Pagliaro. Egli afferma che la mente, senza ricorrere al mezzo verbale,
può avere un’esatta percezione della posizione e del movimento degli oggetti
nello spazio e nel tempo. Gli esempi della mente che non ricorre al mezzo
verbale, indicati dal Pagliaro, sono di tre tipi, in quanto appartengono agli
ordini della sensazione, dell’intuizione e dell’intelligenza pratica. Riferendosi
all’intuizione, egli afferma che «l’intuizione, che dà l’immagine della cosa
con tutti i suoi attributi sensibili, può aversi senza che nella coscienza passi
una qualsiasi immagine verbale»17.
Il terzo tipo di operazione della mente,
che può fare a meno del linguaggio, è, secondo il Pagliaro, «l’intelligenza
pratica». Non posso nascondere il mio disaccordo sul modo in cui egli interpreta
gli atti dell’intendere pratico. Egli afferma che «l’atto di intelligenza
pratica è una percezione che non si può scomporre». In realtà gli atti dell’intendere
pratico consistono di due momenti distinti, posti in evidenza dal Croce:
un momento conoscitivo, mediante il quale vengono determinati tutti gli
aspetti e i caratteri della situazione di fatto, e un momento dell’azione vera e
propria, che richiede un altro tipo di intelligenza, quella che è intrinseca
all’azione e la rende efficace. Riferendosi all’operazione pratica di un meccanico,
il Pagliaro afferma che «si tratta di un pensiero in cui manca il richiamo
all’universale e, quindi, l’intervento del simbolo è del tutto superfluo». E
perché mai? Tutta l’operazione del meccanico impegnato nella riparazione di
un motore può venire accompagnata da una serie di frasi. Le osservazioni
del Pagliaro sono, tuttavia, di grande interesse, riguardo al suo modo di concepire
il linguaggio e più specificamente la lingua. È da considerare attentamente
la sua tesi della distinzione di pensiero logico e arte, da un lato, e di
«conoscere linguistico» dall’altro.
Tenendo presente il fatto che una lingua è
un sistema di segni che è, nello stesso tempo, un sistema di significati, possiamo
comprendere la tesi del Pagliaro che il «linguaggio», o più precisamente
la lingua, è un fatto di conoscenza. Ciò che l’autore chiama riduzione di
un’intuizione in rappresentazione, mediante quella forma di conoscenza che
è il «conoscere linguistico», consiste nel modo in cui il particolare è conosciuto
nell’universale con la mediazione dei simboli linguistici. L’atto di sintesi, che congiunge con simboli di valore universale i dati dell’analisi dell’intuizione,
non può essere in se stesso attività priva di contenuto.
A differenza di quel «conoscere linguistico» che è costituito dai segni depositati
nella lingua, che è privo di contenuto determinato, un contenuto determinato
è il prodotto dell’atto linguistico che può essere espressione di
un’intuizione o espressione del pensiero logico.
Nel saggio Il linguaggio come conoscenza si può notare una maggiore insistenza
su un aspetto del conoscere linguistico, quello che si identifica con la
lingua come insieme di nozioni astratte disponibili per l’atto linguistico. L’atto
linguistico opera fra questi due limiti, il dato della coscienza e il sistema
storicamente dato della lingua. Tuttavia il Pagliaro non giunge, come dovrebbe,
ad una inequivocabile identificazione del conoscere linguistico con i
valori conoscitivi depositati nella lingua. Vi sono due tesi di notevole importanza,
rispetto alle quali le posizioni del Croce e del Pagliaro sono assai distanti
l’una dall’altra. Secondo il Pagliaro, l’intuizione viene analizzata e concettualizzata,
e soltanto così l’individuale dell’intuizione viene conosciuto.
Contrariamente a quello che afferma il Croce, nell’intuizione-espressione,
sostiene il Pagliaro, sono presenti dei concetti, degli «universali».
Il Pagliaro si trova in netto contrasto con le definizioni crociane della lingua.
Per lui la lingua non è, come sostiene il Croce, soltanto un fatto pratico;
è, prima di tutto, un fatto teoretico. Il Pagliaro ha messo in chiara evidenza
la componente gnoseologica della lingua, distanziandosi, così, nettamente
dal Croce. Sulla base di una distinzione fra un momento del pensiero e un
momento del linguaggio, il Pagliaro ha messo in chiara evidenza la componente
gnoseologica della lingua. Su questo punto la sua posizione è assai distante
da quella del Croce. L’esigenza, da lui sentita, di una distinzione fra un
momento del pensiero ed un momento del linguaggio, ha condotto il Pagliaro
a considerare il linguaggio come uno strumento. «L’esprimere richiede
una tecnica […] anche la lingua è un mezzo tecnico» (L’unità ario-europea,
Edizioni dell’Ateneo, Roma 1942, pp. 10-11).
Il Pagliaro sembra ammettere anche una possibile distinzione e indipendenza
del pensiero, del pensamento del concetto, dell’universale, dal linguaggio.
Tale ammissione conduce alla tesi della strumentalità della lingua e
della inevitabile necessità sul piano filosofico di un problema, assolutamente
negato dal Croce, quello delle origini del linguaggio verbale.
Nel saggio Il linguaggio come conoscenza il Pagliaro riconosce la difficoltà
di cogliere la distinzione e indipendenza, da lui ammessa, del pensiero, del
concetto, dalla simbolizzazione verbale. Secondo il Pagliaro vi è una ragione
di postulare che alla base dell’atto linguistico «vi sia una situazione mentale
che prelude e sia di impulso e di indirizzo alla determinazione verbale»19.
In Logica e grammatica (p. 149) aveva affermato che il pensiero può, in
qualche modo, concepire il proprio oggetto che è l’universale senza l’aiuto
del simbolo linguistico. Perciò non si sente di negare ai Malesi, ai quali manca
il segno per indicare l’albero in generale, la capacità di concepire l’idea di
albero, di astrarlo nei suoi attributi essenziali. Egli afferma che vi è una «indipendenza
e anteriorità dell’ideazione nei riguardi del segno» e sostiene una
pura strumentalità del segno nei confronti del pensiero, ed è convinto che,
alle origini, la mente dell’uomo fosse in grado di concepire nozioni generali e
astratte prima che si costituisse il segno linguistico.
Contro la tesi della identificazione di linguaggio e arte si pronunciò, nel
saggio Idealismo e realismo nella scienza del linguaggio, edito nel 1946 da La
Nuova Italia, Giovanni Nencioni. Del suo pensiero in relazione ai problemi
del linguaggio ho trattato nel mio volume Il problema del linguaggio nella filosofia
di Benedetto Croce (Edizioni Cadmo, Firenze 1997).
Dobbiamo ora trattare brevemente della seconda fase della filosofia crociana
del linguaggio.
Nel Capitolo II delle Conversazioni critiche. Serie III.
Teoria della storiografia letteraria20, il Croce dimostra chiaramente che in
questa opera, di molti anni posteriore all’Estetica, la sua posizione non è per
nulla cambiata.
La lingua, la Grammatica, non ha alcuna incidenza sull’atto
linguistico-poetico, esprimente la «divina e folle fantasia».
Per il Croce le
opere di espressione non sono in nessun senso condizionate da una lingua.
La storia dello «spirito umano» si ricostruisce, non attraverso la lingua, bensì
attraverso le opere di espressione che hanno il carattere della individualità e
della concretezza.
Il Croce vuole ignorare che le personali creazioni linguistiche degli scrittori,
come le creazioni che si attuano a livello del linguaggio ordinario, non
potrebbero aver luogo se non ci fosse una lingua, e che gli atti linguistici non
possono essere condizionati da essa. Anche l’atto linguistico più originale e
creativo è necessariamente condizionato dalla lingua. Il Croce non sembra
accogliere la tesi che il linguaggio ora serve per fare poesia e ora per altre
espressioni che non sono poesia. Egli respinge decisamente la tesi che «il linguaggio
è anzitutto linguaggio e potrà essere eventualmente poesia». Contrariamente
a quello che egli pensava e in cui credeva, l’estetica non è la filosofia del linguaggio. Il Croce si dimostra nettamente contrario alla tesi che ogni
atto linguistico è necessariamente condizionato dalla lingua.
Egli nega una
funzione necessaria alla lingua, in relazione all’atto linguistico, e rivolge la
sua indagine unicamente all’atto linguistico. Con l’opera La Poesia21, il Croce
ci pone dinanzi a diversi tipi o categorie di espressione, la «sentimentale o
immediata», la «poetica», la «prosastica» e l’«oratoria». Appare difficile conciliare
tale posizione teorico-linguistica con la tesi di base, quella della identificazione
del linguaggio con la poesia. Ma il Croce, pur ammettendo che si
danno diversi tipi o categorie di espressione, non è disposto a sconfessare la
sua tesi originaria dell’identificazione del linguaggio con la poesia. Egli cercherà
di giustificare filosoficamente la coesistenza di queste due tesi.
Considerando, dapprima, l’espressione «sentimentale», possiamo constatare
che essa, essendo composta di segni, non può non essere annoverata fra
le espressioni vere e proprie, accanto all’espressione poetica e alle altre
espressioni, la prosastica e l’oratoria. Ma subito Croce afferma che l’espressione
sentimentale o immediata è una pseudo-espressione. In contrasto con
la tesi crociana si può ragionevolmente sostenere che l’espressione sentimentale,
in quanto autentica espressione, mediata da concetti, appartiene di diritto
alla sfera del linguaggio, e non è un’espressione istintiva, immediata e
naturale come il grido dell’animale. Non si può, invece, non essere pienamente
d’accordo con il Croce, nei confronti della sua definizione dell’espressione
poetica e del suo carattere di totalità. L’opera d’arte crea un mondo
emotivo in cui tutte le emozioni e i sentimenti sono, in certo senso, presenti e
in armonia. Nell’opera d’arte si ha il superamento delle singole e unilaterali
passioni, che è una catarsi, una purificazione del mondo emotivo e non una
eliminazione di esso.
Un altro problema di non facile soluzione è, per il Croce, quello
dell’espressione prosastica, nella quale si ha una netta distinzione fra contenuto,
pensiero, e la sua espressione. Nell’espressione prosastica, a causa della
sua perfetta traducibilità, ammessa inequivocabilmente dall’opera La Poesia,
il linguaggio sembra assumere il carattere di un puro strumento. L’espressione
prosastica non consiste, egli afferma, in immagini, come la poetica, ma in
«simboli o segni di concetti». In essa il linguaggio sembra assumere il carattere
di un puro strumento, che si distingue, in quanto strumento, dal suo
contenuto, il pensare o filosofare. L’affermazione che le immagini del reale,
come quelle dell’irreale, sono una materia che la fantasia e la poesia offrono
al pensiero, ci richiama alla mente le solite e insuperabili difficoltà cui va incontro la logica crociana. Egli afferma che l’espressione prosastica non consisterà in immagini come la poetica, ma «in simboli o segni di concetti».
L’espressione prosastica non è la parola e «sola parola è veramente l’espressione
poetica»22.
Ma quello che ci induce alla riflessione è l’ultima frase del passo citato:
«la poesia è il linguaggio nel suo essere genuino». L’espressione prosastica,
quella che si addice, ad esempio, al pensiero filosofico, deve usare una terminologia
rigorosa, compiutamente idonea ad esprimere quel pensiero. Ciò che
più meraviglia è la conseguenza di quanto il Croce asserisce definendo il linguaggio
poetico come il solo genuino, il solo vero e autentico linguaggio. Il
Croce non ha avuto il coraggio e la determinazione rigorosa di sostenere che
il linguaggio è, nello stesso tempo, e con pari valore e dignità, espressione
poetica, espressione sentimentale, espressione prosastica, espressione oratoria,
espressione del linguaggio ordinario.
Per il Croce il discorso apofantico, ad esempio, in quanto linguaggio è un
linguaggio declassato. Riguardo all’attività oratoria fa intervenire una definizione
fondamentale, che ha tuttavia un carattere empirico, quella che la
identifica con la capacità di suscitare, mediante il discorso, stati d’animo.
L’arte oratoria viene identificata con la capacità di suscitare stati d’animo.
Mentre il linguaggio poetico è costituito di parole, il linguaggio oratorio
sarebbe costituito di suoni articolati e non di parole, e neppure di segni
di concetti.
Le pagine nelle quali il Croce definisce l’espressione letteraria sono molto
belle. Nell’espressione letteraria i due momenti, quello estetico (la bella forma)
e quello realistico (il contenuto sentimentale, concettuale, pratico o oratorio)
sono in un rapporto di «reciproca limitazione e indissolubilità». Essa è
soltanto una bella veste che viene assunta dalle espressioni sentimentale, prosastica,
oratoria.
Ma, oltre alle espressioni letteraria-sentimentale e letterariaoratoria,
vi è una terza classe di espressioni letterarie, quella delle opere di intrattenimento.
Anche questo tipo di espressione letteraria non può essere altro
che un’espressione costituita di segni, e i segni sono sempre, anche nel
caso del discorso poetico, collegati a nozioni, a concetti. L’intuizione pura costituisce
un assurdo gnoseologico. Ed è proprio questo concetto che ha condotto
il Croce alla tesi dogmatica di base, quella della identificazione del linguaggio
con la poesia. Non si può non essere d’accordo con l’affermazione
crociana della impossibilità della traduzione dell’espressione poetica, la quale
è intimamente legata ai termini, alle espressioni, con i loro rispettivi significati.
Basta pensare all’incidenza della parte propriamente fonica della composizione poetica, che ha una sua funzione distinta rispetto alle significazioni
dell’espressione poetica. L’intraducibilità riguarda anche la non corrispondenza
dei significati dei singoli segni, che assumono significazioni diverse nei
diversi contesti poetici.
È in ciò che Croce definisce «proposizione» che possiamo scorgere, con
un po’ di buona volontà, la presenza della significazione che è, nello stesso
tempo, la significazione dei singoli termini, della «proposizione», e la significazione
della frase nella sua interezza. Al Croce sfugge la distinzione di significato
e significazione. Il Croce ha voluto ignorare il fatto che ogni atto linguistico
è necessariamente condizionato dalla lingua, che la lingua non ha soltanto
un carattere pratico, ma anche un carattere «teoretico». Ignorando la
funzione teoretica della lingua, rende assolutamente privo di fondamento
gnoseologico l’atto linguistico, ciò che il Croce denomina «espressione».
Nello scritto La filosofia del linguaggio e le sue condizioni presenti in
Italia23 giunge a questa osservazione: «In effetti, nello stesso linguaggio che
si chiama non poetico, prosastico, è stato sempre avvertito qualcosa di irriducibile
alla logicità»24. Questo qualcosa rimane inspiegabile nell’ambito del
sistema crociano. Riferendosi alla lingua dei linguisti egli afferma che tale lingua
è un fatto di natura pratica. Il Croce, collocando la lingua nella sfera puramente
ed esclusivamente pratica, non è in grado di dirci a che cosa serva.
Questo presunto carattere pratico della lingua non è stato analizzato convenientemente
e sufficientemente dal Croce. Appare assai strana l’espressione,
dal Croce usata, quando allude alla «moda di attribuire uno o altro significato
ai suoni articolati». Egli scambia una inderogabile necessità con una «moda
». Il fatto fondamentale della comunicazione linguistica – un problema
che il Croce non ha voluto affrontare in termini rigorosi – riguarda contemporaneamente
sia l’aspetto pratico sia l’aspetto «teoretico della lingua». Il
Croce, definendo la lingua come un fatto puramente pratico, incontra insuperabili
difficoltà. Siamo pienamente autorizzati ad affermare che al Croce
viene a mancare la possibilità di dare una spiegazione «linguistica» della lingua.
Vuole egli ignorare che la lingua, in tutti i suoi possibili usi, sia uno strumento
o sistema che necessariamente condizioni l’atto linguistico.
Il carattere teoretico della lingua, la sua connessione con il mondo delle
esperienze conoscitive, è esattamente ciò che rende intelligibile un atto linguistico,
per il parlante e per l’ascoltatore. La lingua ha, perciò, insieme un
carattere pratico ed un carattere gnoseologico. Ciò che rende possibile la co25
Ivi, vol. I, p. 249.
132 RENZO RAGGIUNTI
municazione è una lingua comune, una lingua che ha anzitutto uno spessore
gnoseologico, in quanto è un sistema di significati e di regole che sono collegate
a ben determinate esperienze conoscitive.
Nella prospettiva crociana la lingua, definita come un fatto puramente
pratico, ha precluso all’autore l’unica via di accesso ad una spiegazione filosofica
e non dogmatica. Una filosofia del linguaggio, intesa dal Croce esclusivamente
come «filosofia della poesia e dell’arte», ha prodotto l’infausta conseguenza
che la filosofia del linguaggio non è neppure in grado di dare una
spiegazione della ordinaria comunicazione linguistica.
Per il Croce ognuno degli atti linguistici, compiuti da un parlante, ha la
caratteristica, che gli è attribuita per definizione, della unicità e assoluta originalità.
Non si comprende, allora, la possibilità che ha un atto linguistico di
realizzarsi storicamente. Ciò è possibile solo in quanto, contrariamente a ciò
che sostiene il Croce, l’atto linguistico, ogni atto linguistico, si collega alla
realtà di una lingua, al sistema delle entità astratte di essa. Una lingua ha, insieme
ad un carattere pratico ed istituzionale, anche un carattere «teoretico»
e gnoseologico. Sono questi caratteri a rendere possibile l’espressione e la
comunicazione linguistica. Colui che compie un atto linguistico, anche il più
originale e creativo, non si lascia alle spalle la lingua: la lingua rimane inevitabilmente
presente nell’atto linguistico. Ciò che ha condotto il Croce a relegare
la lingua nella sfera puramente pratica è la sua teoria dello pseudo-concetto,
che ha prodotto la tesi, gnoseologicamente assurda, dell’individuale puro,
dell’intuizione pura. Sembra che l’autore abbia dimenticato che ne La poesia,
accanto al linguaggio poetico, vi è un linguaggio perfettamente traducibile:
l’espressione prosastica la quale presuppone un termine che appartiene alla
tradizione della linguistica, quello di segno. Ma egli afferma che linguaggio e
lingua appartengono a due sfere diverse. E che lo studio della lingua appartiene
alla sfera pratica. E afferma, tuttavia, che «Grammatiche e lessici hanno
l’ufficio di aiutare all’apprendimento delle lingue e al ben parlare»25.
In conformità alla posizione assunta dal Croce, in relazione a tale questione,
non si comprende e non si giustifica una tale affermazione. Infatti egli sostiene
che l’«intendersi ed esprimersi pieno e vivo» viene attuato solo dalla
sintesi estetica. È questa, soltanto questa, la tesi di base della filosofia crociana
del linguaggio.
Certamente non poteva sfuggire al Croce l’aspetto più importante dell’atto
linguistico, la sua creatività. Tuttavia è caduto nell’errore di assegnare in
maniera esclusiva la creatività all’espressione poetica, muovendo dalla tesi
che il linguaggio è arte.
IL PROBLEMA DEL LINGUAGGIO IN CROCE 133
C’è una creatività nell’espressione scientifica, nell’espressione filosofica,
nell’espressione oratoria, come in quella del linguaggio ordinario, anche se si
tratta di una creatività qualitativamente diversa da quella dell’espressione
poetica. Il Croce vuole ignorare che anche l’atto linguistico, nella sua originalità
e creatività, è necessariamente condizionato dalla lingua, da una lingua.
Il Croce afferma, in modo assoluto, che l’indagine della lingua, in se
stessa e per se stessa, non riguarderà direttamente l’atto linguistico, l’espressione,
che è soltanto quella poetica.
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