Friday, July 29, 2011

Storia della filosofia italiana: Grice e Vico

Luigi Speranza

Giambattista Vico (Napoli, 23 giugno 1668 – Napoli, 23 gennaio 1744) è stato un filosofo, storico e giurista italiano.

Nato in una famiglia di modeste condizioni - il padre era un povero libraio con otto figli da mantenere - Vico fu un bambino molto vivace che per una grave caduta si procurò una frattura al cranio che gli impedì di frequentare la scuola per tre anni e che, pur non alterando le sue capacità mentali, tuttavia gli cambiò il carattere rendendolo introverso e melanconico.

Studiò filosofia nel collegio dei gesuiti di Napoli.

Appassionato di studi giuridici, sempre considerati da lui di grande importanza, spronato dal padre nel 1684 si dedicò alla carriera forense seguendo di malavoglia delle lezioni private. Iscrittosi all'Università di Napoli, si laureò nel 1693 in utroque, cioè in diritto canonico e civile.

Fondamentali per la sua formazione culturale furono gli anni tra il 1686 e il 1695 trascorsi, mentre si dedicava agli studi di diritto, come precettore dei figli del marchese Domenico Rocca nel castello di Vatolla (oggi frazione del Comune di Perdifumo) nel Cilento: qui Vico usufruendo della grande biblioteca padronale, ebbe modo di leggere e studiare le opere di

Platone,

Aristotele,

sant'Agostino, Tacito, Dante, Petrarca e Suárez, tenendosi anche aggiornato sul dibattito filosofico di quel tempo che si svolgeva attorno alla "discussione sul cartesianesimo" tra i sostenitori di Cartesio e i suoi critici.

Di quel periodo di intenso studio da autodidatta ci è pervenuta una canzone da lui composta, dal titolo Affetti di un disperato, ispirata alla poesia di Lucrezio.

Tornato a Napoli, nel 1699 ottenne per concorso la modesta cattedra universitaria di eloquenza e retorica che mantenne sino al termine della sua vita assieme all'incarico, attribuitogli, dopo la fama ottenuta dalla pubblicazione della Scienza Nuova, nel 1732 dal re Carlo III di Borbone, di storiografo regio.

Nell'ambiente culturale napoletano, molto interessato alle nuove dottrine filosofiche, Vico ebbe modo di entrare in rapporto con il pensiero di Cartesio,

Hobbes,

Gassendi, Malebranche e Leibniz anche se i suoi autori di riferimento risalivano piuttosto alle dottrine neoplatoniche, rielaborate dalla filosofia rinascimentale, aggiornate dalle moderne concezioni scientifiche di Francesco Bacone e Galileo Galilei e del pensiero giusnaturalistico.

Questa varietà di interessi farebbe pensare alla formazione di un pensiero eclettico in Vico che invece giunse alla formulazione di una originale sintesi tra una razionalità sperimentatrice e la tradizione platonica e religiosa.

Tanto nuova era la sua dottrina che la cultura del tempo non poté apprezzarla.

Così che Vico rimase appartato e quasi del tutto sconosciuto negli ambienti intellettuali, dovendosi accontentare di una cattedra di secondaria importanza all'Università napoletana che lo manteneva inoltre in tali ristrettezze economiche che per pubblicare il suo capolavoro la Scienza Nuova dovette toglierne alcune parti in modo che risultasse meno costoso per la stampa.

A queste difficoltà economiche per la pubblicazione delle sue opere, che influirono certo negativamente sulla sua notorietà nel mondo accademico, va aggiunto il suo stile di scrittura poco lineare che rendeva difficile la lettura del suo pensiero.

Per il mantenimento del padre e dei fratelli, totalmente dipendenti da lui, dovette dare lezioni di retorica e di grammatica elementare, ed impegnarsi a lavorare su commissione alla stesura di poesie, epigrafi, orazioni funebri, panegirici, ecc. anche dopo la nomina accademica del 1699, anno in cui poté finalmente prendere in affitto in vicolo dei Giganti una casa di «tre camere, sala, cucina, loggia ed altre comodità, come rimessa e cantina» e prendere in moglie la giovane donna, Teresa Caterina Destito dalla quale ebbe otto figli.

Il compito imposto agli insegnanti di eloquenza di pronunziare una orazione inaugurale per l'apertura dell'anno accademico gli fornì l'occasione di scrivere sei prolusioni (1699-1706), che costituiscono i suoi primi scritti filosofici che, in seguito rivisti e rielaborati, furono editi postumi nel 1869.

Prima della Scienza Nuova Vico aveva scritto la prolusione inaugurale De nostri temporis studiorum ratione (1708), il De antiquissima Italorum sapientia, ex linguae latinae originibus eruenda (1710) ("L'antichissima sapienza delle popolazioni italiche, da rintracciare nelle origini della lingua latina") a cui si devono aggiungere le due Risposte al "Giornale dei letterati di Venezia" (1711 e 1712) che aveva criticato il suo pensiero, il De uno universi iuris principio et fine uno (1720) e il De costantia iurisprudentiae (1721).

Per migliorare le sue condizioni economiche Vico partecipò al concorso per la nomina alla cattedra di diritto romano che non riuscì a vincere.

Nello stesso anno della pubblicazione della Scienza Nuova [7] Vico, afflitto da difficoltà e disgrazie familiari, incominciò a scrivere la sua Autobiografia pubblicata a Venezia tra il 1728 e il 1729.

Nel 1725 vengono pubblicati i Principj di una Scienza Nuova intorno alla natura delle nazioni, più conosciuta con il titolo abbreviato di Scienza Nuova.

Alla "Scienza Nuova" Vico lavorò per tutto il corso della sua vita, con una edizione integralmente riscritta nel 1730 anche a seguito delle critiche ricevute (cui aveva risposto nelle Vici Vindiciae del 1729) e, infine, rivista completamente, senza grandi modifiche, per la terza edizione del 1744, pubblicata pochi mesi dopo la sua morte da suo figlio Gennaro che lo aveva sostituito nell'insegnamento accademico.


[modifica] La morte « [incominciarono a crescere] quei malori che fin dai suoi più floridi anni l’avevano debilitato. Cominciò adunque ad essere indebolito in tutto il sistema nervoso in guisa che a stento poteva camminare e, quel che più lo affligea, era di vedersi ogni giorno infiacchire la reminiscenza....Il fiaccato corpo del saggio vecchio andò in seguito ogni giorno più a debilitarsi in guisa che aveva perduto quasi interamente la memoria fino a dimenticare gli oggetti a sé più vicini ed a scambiare i nomi delle cose più usuali...[11] »

Non riconosceva più i suoi stessi figli e fu costretto ad allettarsi.

Solo in punto di morte riacquistò la coscienza come svegliandosi da un lungo sonno; chiese i conforti religiosi e recitando i salmi di Davide morì il 20 gennaio 1744 dopo aver appena superato i 76 anni d’età.[12][13]

Per la celebrazione delle esequie nacque un contrasto tra i confratelli della congregazione di santa Sofia, alla quale Vico era iscritto, e i professori dell’Università di Napoli su chi dovesse tenere i fiocchi della coltre mortuaria. Non giungendo ad un accordo il feretro, che era stato calato nel cortile, fu abbandonato dei membri della Congregazione e fu riportato in casa. Da lì finalmente, accompagnato dai colleghi dell’Università, fu sepolto nella chiesa dei padri dell’oratorio detta dei Gerolamini in Via dei Tribunali.[14]

Il De antiquissima doveva constare di tre parti: il Liber metaphysicus, che uscì nel 1710 senza l'appendice riguardante la logica che, nell'intenzione di Vico, avrebbe dovuto avere; il Liber Physicus, che Vico pubblicò sotto forma di opuscolo col titolo De aequilibrio corporis animantis nel 1713, che andò smarrito, ma ampiamente riassunto nella Vita[15]; ed infine il Liber moralis, di cui Vico non abbozzò nemmeno il testo.

Nel De antiquissima Vico, considerando il linguaggio come oggettivazione del pensiero, è convinto che dall'analisi etimologica di alcune parole latine si possano rintracciare originarie forme del pensiero.

Applicando questo originale metodo, Vico risale ad un antico sapere filosofico delle primitive popolazioni italiche.

Il fulcro di queste arcaiche concezioni filosofiche è la convinzione antichissima che

« Verum et ipsum factum convertuntur »
« Il vero e il fatto si convertono reciprocamente »

che cioè

«il criterio e la regola del vero consiste nell'averlo fatto».

Per cui possiamo dire ad esempio di conoscere le proposizioni matematiche perché siamo noi a farle tramite postulati, definizioni, ma non potremo mai dire di conoscere nello stesso modo la natura perché non siamo noi ad averla creata.

Conoscere una cosa significa rintracciarne i principi primi, le cause, poiché, secondo l'insegnamento aristotelico, veramente la scienza è «scire per causas» ma questi elementi primi li possiede realmente solo chi li produce, «provare per cause una cosa equivale a farla».

Il principio del verum ipsum factum non era una nuova ed originale scoperta di Vico ma era già presente nell' occasionalismo, nel metodo baconiano che richiedeva l'esperimento come verifica della verità, nel volontarismo scolastico che, tramite la tradizione scotista, era presente nella cultura filosofica napoletana del tempo di Vico.

Il tema fondamentale di queste concezioni filosofiche è la tesi secondo la quale la piena verità di una cosa sia accessibile a colui che la produce; tale il principio del verum-factum che proponendo la dimensione fattiva del vero ridimensiona le pretese conoscitive del razionalismo cartesiano che inoltre Vico giudica insufficiente nel metodo per la conoscenza della storia umana, che non può essere analizzata solo in astratto, perché essa ha sempre un margine di imprevedibilità.

Vico però si serve di quel principio per avanzare in modo originale le sue obiezioni alla filosofia cartesiana trionfante in quel periodo.

Il cogito cartesiano infatti potrà darmi certezza della mia esistenza ma questo non vuol dire conoscenza della natura del mio essere, coscienza non è conoscenza: avrò coscienza di me ma non conoscenza poiché non ho prodotto il mio essere ma l'ho solo riconosciuto.

« L'uomo, egli dice, può dubitare se senta, se viva, se sia esteso, e infine in senso assoluto, se sia; a sostegno della sua argomentazione escogita un certo genio ingannatore e maligno...Ma è assolutamente impossibile che uno non sia conscio di pensare, e che da tale coscienza non concluda con certezza che egli è. Pertanto Renato (René Descartes) svela che il primo vero è questo: "Penso dunque sono" »
(Giambattista Vico, De antiquissima Italorum sapientia in Opere filosofiche a cura di P.Cristofolini, Firenze, Sansoni 1971, p.70)

Il tanto celebrato criterio del metodo cartesiano dell'evidenza mi procurerà dunque una conoscenza chiara e distinta ma che non è scienza se non è capace di produrre ciò che conosce.

Dell'essere umano e della natura solo Dio, creatore di entrambi, possiede la verità.

Mentre quindi la mente umana procedendo astrattamente nelle sue costruzioni, come accade per la matematica, la geometria crea una realtà che le appartiene, essendo il risultato del suo operare, giungendo così a una verità sicura, la stessa mente non arriva alle stesse certezze per quelle scienze di cui non può costruire l'oggetto come accade per la meccanica, meno certa della matematica, la fisica meno certa della meccanica, la morale meno certa della fisica.

« Noi dimostriamo le verità geometriche poiché le facciamo, e se potessimo dimostrare le verità fisiche le potremmo anche fare »
(Ibidem pag.82)

Mente umana e mente divina « I latini... dicevano che la mente è data, immessa negli uomini dagli dei. È dunque ragionevole congetturare che gli autori di queste espressioni abbiano pensato che le idee negli animi umani siano create e risvegliate da Dio [...] La mente umana si manifesta pensando, ma è Dio che in me pensa, dunque in Dio conosco la mia propria mente. »
(Giambattista Vico, De antiquissima, 6)

Il valore di verità che l'uomo ricava dalle scienze e dalle arti, i cui oggetti egli costruisce, è garantito dal fatto che la mente umana, pur nella sua inferiorità, esplica un'attività che appartiene in primo luogo a Dio. La mente dell'uomo è anch'essa creatrice nell'atto in cui imita la mente, le idee, di Dio, partecipando metafisicamente ad esse.

Imitazione e partecipazione alla mente divina avvengono ad opera di quella facoltà che Vico chiama ingegno che è «la facoltà propria del conoscere...per cui l'uomo è capace di contemplare e di imitare le cose»

L'ingegno è lo strumento principe, e non l'applicazione delle regole del metodo cartesiano, per il progresso, ad esempio, della fisica che si sviluppa proprio attraverso gli esperimenti escogitati dall'ingegno secondo il criterio del vero e del fatto.

L'ingegno dimostra, inoltre, i limiti del conoscere umano e la contemporanea presenza della verità divina che si rivela proprio attraverso l'errore:

« Dio mai si allontana dalla nostra presenza, neppure quando erriamo, poiché abbracciamo il falso sotto l'aspetto del vero e i mali sotto l'apparenza dei beni; vediamo le cose finite e ci sentiamo noi stessi finiti, ma ciò dimostra che siamo capaci di pensare l'infinito. »
(Giambattista Vico, De antiquissima, 6)

Contro lo scetticismo Vico sostiene che è proprio tramite l'errore che l'uomo giunge al sapere metafisico:

« Il chiarore del vero metafisico è pari a quello della luce, che percepiamo soltanto in relazione ai corpi opachi...Tale è lo splendore del vero metafisico non circoscritto da limiti, né di forma discernibile, poiché è il principio infinito di tutte le forme. Le cose fisiche sono quei corpi opachi, cioè formati e limitati, nei quali vediamo la luce del vero metafisico. »
(Giambattista Vico, De antiquissima, 3)

Il sapere metafisico non è il sapere in assoluto: esso è superato dalla matematica e dalle scienze ma, d'altro canto, «la metafisica è la fonte di ogni verità, che da lei discende in tutte le altre scienze.»

Vi è dunque un "primo vero" , «comprensione di tutte le cause», originaria spiegazione causale di tutti gli effetti; esso è infinito e di natura spirituale poiché è antecedente a tutti i corpi e che quindi si identifica con Dio. In Lui sono presenti le forme, simili alle idee platoniche, modelli della creazione divina.

« Il primo vero è in Dio, perché Dio è il primo facitore (primus Factor); codesto primo vero è infinito, in quanto facitore di tutte le cose; è compiutissimo, poiché mette dinanzi a Dio, in quanto li contiene, gli elementi estrinseci e intrinseci delle cose »
(Giambattista Vico, De antiquissima Italorum sapientia in Opere filosofiche a cura di P.Cristofolini, Firenze, Sansoni 1971, p.62)

Se l'uomo non può considerarsi creatore della realtà naturale ma piuttosto di tutte quelle astrazioni che rimandano ad essa come la matematica, la stessa metafisica, vi è tuttavia un'attività creatrice che gli appartiene

« questo mondo civile egli certamente è stato fatto dagli uomini, onde se ne possono, perché se ne debbono, ritruovare i principi dentro le modificazioni della nostra medesima mente umana »
(Giambattista Vico Scienza Nuova, 3a ediz., libro I, sez. 3)

L'uomo è dunque il creatore, attraverso la storia, della civiltà umana. Nella storia l'uomo verifica il principio del verum ipsum factum creando così una scienza nuova che avrà un valore di verità come la matematica. Una scienza che ha per oggetto una realtà creata dall'uomo e quindi più vera e, rispetto alle astrazioni matematiche, concreta.

La storia rappresenta la scienza delle cose fatte dall'uomo e, allo stesso tempo, la storia della stessa mente umana che ha fatto quelle cose.

La definizione dell'uomo, della sua mente non può prescindere dal suo sviluppo storico se non si vuole ridurre tutto a un'astrazione.

La concreta realtà dell'uomo è comprensibile solo riportandola al suo divenire storico. È assurdo credere, come fanno i cartesiani o i neoplatonici, che la ragione dell'uomo sia una realtà assoluta, sciolta da ogni condizionamento storico.

«La filosofia contempla la ragione, onde viene la scienza del vero; la filologia [16] osserva l'autorità dell'umano arbitrio onde viene la coscienza del certo...Questa medesima degnità (assioma) dimostra aver mancato per metà così i filosofi che non accertarono le loro ragioni con l'autorità de'filologi, come i filologi che non curarono d'avverare la loro autorità con la ragion dei filosofi »
(Giambattista Vico Ibidem Degnità X)

Ma la filologia da sola non basta, si ridurrebbe a una semplice raccolta di fatti che invece vanno spiegati dalla filosofia.

Tra filologia e filosofia vi deve essere un rapporto di complementarietà per cui si possa accertare il vero e inverare il certo.

[modifica] Le leggi della 'scienza nuova'Compito della 'scienza nuova' sarà quello di indagare la storia alla ricerca di quei principi costanti che, secondo una concezione per certi versi platonizzante, fanno presupporre nell'azione storica l'esistenza di leggi che ne siano a fondamento com'è per tutte le altre scienze:

« Poiché questo mondo di nazioni egli è stato fatto dagli uomini, vediamo in quali cose hanno con perpetuità convenuto e tuttavia vi convengono tutti gli uomini; poiché tali cose ne potranno dare i principi universali ed eterni, quali devon essere d'ogni scienza, sopra i quali tutte sursero e tutte vi si conservano le nazioni »
(Giambattista Vico Ibidem, libro I, sez. 3)

La storia quindi, come tutte le scienze, presenta delle leggi, dei principi universali, di un valore ideale di tipo platonico, che si ripetono costantemente allo stesso modo e che costituiscono il punto di riferimento per la nascita e il mantenimento delle nazioni.

Rifarsi alla mente umana per comprendere la storia non è sufficiente: si vedrà, attraverso il corso degli avvenimenti storici, che la stessa mente dell'uomo è guidata da un principio superiore ad essa che la regola e la indirizza ai suoi fini che vanno al di là o contrastano con quelli che gli uomini si propongono di conseguire; così accade che, mentre l'umanità si dirige al perseguimento di intenti utilitaristici e individuali, si realizzino invece obiettivi di progresso e di giustizia secondo il principio della eterogenesi dei fini.

« Pur gli uomini hanno essi fatto questo mondo di nazioni...ma egli è questo mondo, senza dubbio, uscito da una mente spesso diversa ed alle volte tutta contraria e sempre superiore ad essi fini particolari ch'essi uomini si avevan proposti »
( Giambattista Vico Ibidem, Conclusione)

La storia umana in quanto opera creatrice dell'uomo gli appartiene per la conoscenza e per la guida degli eventi storici ma nel medesimo tempo lo stesso uomo è guidato dalla Provvidenza che prepone alla storia divina.

Secondo Vico il metodo storico dovrà procedere attraverso l'analisi delle lingue dei popoli antichi «poiché i parlari volgari debono essere i testimoni più gravi degli antichi costumi de' popoli che si celebrarono nel tempo ch'essi si formarono le lingue», e quindi tramite lo studio del diritto, che è alla base dello sviluppo storico delle nazioni civili.

Questo metodo ha fatto identificare nella storia una legge fondamentale del suo sviluppo che avviene evolvendosi in tre età:

l'età degli dei, «nella quale gli uomini gentili credettero vivere sotto divini governi, e ogni cosa esser loro comandata con gli auspici e gli oracoli» [17];
l'età degli eroi dove si costituiscono repubbliche aristocratiche;
l'età degli uomini «nella quale tutti si riconobbero esser uguali in natura umana».[18]
La storia umana, secondo Vico, inizia con il diluvio universale, quando gli uomini, giganti simili a primitivi bestioni, vivevano vagando nelle foreste in uno stato di completa anarchia.

Questa condizione bestiale era conseguenza del peccato originale, attenuata dall'intervento benevolo della Provvidenza divina che immise, attraverso la paura dei fulmini, il timore degli dei nelle genti che «scosse e destate da un terribile spavento d'una da essi stessi finta e creduta divinità del cielo e di Giove, finalmente se ne ristarono alquanti e si nascosero in certi luoghi; ove fermi con certe donne, per lo timore dell'appresa divinità, al coverto, con congiungimenti carnali religiosi e pudichi, celebrarono i matrimoni e fecero certi figlioli, e così fondarono le famiglie. E con lo star quivi fermi lunga stagione e con le sepolture degli antenati, si ritrovarono aver ivi fondati e divisi i primi domini della terra» [19]

L'uscita dallo stato di ferinità quindi avviene:

per la nascita della religione, nata dalla paura e sulla base della quale vengono elaborate le prime leggi del vivere ordinato,
per l'istituzione delle nozze che danno stabilità al vivere umano con la formazione della famiglia e
per l'uso della sepoltura dei morti, segno della fede nell'immortalità dell'anima che distingue l'uomo dalle bestie.
Della prima età Vico sostiene di non poter scrivere molto poiché mancano documenti su cui basarsi: infatti quei bestioni non conoscevano la scrittura e, poiché erano muti, si esprimevano a segni o con suoni disarticolati.

L'età degli eroi ebbe inizio dall'accomunarsi di genti che trovavano così reciproco aiuto e sostegno per la sopravvivenza. Sorsero le città guidate dalle prime organizzazioni politiche dei signori, gli eroi che con la forza e in nome della ragion di stato, conosciuta solo da loro,[20] comandavano su i servi che, quando rivendicarono i propri diritti, si ritrovarono contro i signori che, organizzati in ordini nobiliari, diedero vita agli stati aristocratici che caratterizzano il secondo periodo della storia umana.

In questa seconda, dove predomina la fantasia, nasce il linguaggio dai caratteri mitici e poetici.

Infine la conquista dei diritti civili da parte dei servi dà luogo alla età degli uomini e alla formazione di stati popolari basati sul «diritto umano dettato dalla ragione umana tutta spiegata». Sorgono quindi stati non necessariamente democratici ma che possono essere pure monarchici poiché l'essenziale è che rispettino «la ragione naturale, che eguaglia tutti».

La legge delle tre età costituisce la «storia ideale eterna sopra la quale corrono in tempo le storie di tutte le nazioni».

Tutti i popoli indipendentemente l'uno dall'altro hanno conformato il loro corso storico a questa legge che non è solo delle genti ma anche di ogni singolo uomo che necessariamente si sviluppa passando dal primitivo senso nell'infanzia, alla fantasia, nella fanciullezza, e infine alla ragione, nell'età adulta:

« Gli uomini prima sentono senza avvertire; dappoi avvertiscono con animo perturbato e commosso, finalmente riflettono con mente pura »
(Giambattista Vico Scienza Nuova, 3a ediz. Degnità LIII)

Se nella storia pur tra le violenze, i disordini, appare un ordine e un progressivo sviluppo ciò è dovuto, secondo Vico, all'azione della Provvidenza che immette nell'agire dell'uomo un principio di verità che si presenta in modo diverso nelle tre età:

nelle prime due età il vero si presenta come certo
« gli uomini che non sanno il vero delle cose procurano d'attenersi al certo, perché non potendo soddisfare l'intelletto con la scienza, almeno la volontà riposi sulla coscienza »
(Giambattista Vico, Scienza Nuova, Degnità IX)

Questa certezza non viene all'uomo attraverso una verità rivelata ma da una constatazione di senso comune, condivisa da tutti, per cui vi è «un giudizio senz'alcuna riflessione, comunemente sentito da tutto un ordine, da tutto un popolo, da tutta una nazione o da tutto il genere umano»

Vi è poi, nella seconda età della storia e dell'uomo, caratterizzata dalla fantasia, un sapere tutto particolare che Vico definisce poetico.

In questa età nasce infatti il linguaggio non ancora razionale ma molto vicino alla poesia che «alle cose insensate dà senso e passione, ed è proprietà dei fanciulli di prender cose inanimate tra le mani e, trastullandosi, favellarvi, come se fussero, quelle, persone vive. Questa degnità filologica-filosofica ne appruova che gli uomini del mondo fanciullo, per natura, furono sublimi poeti.»[21]

Se vogliamo quindi conoscere la storia dei popoli antichi dobbiamo rifarci ai miti che hanno espresso nella loro cultura. Il mito infatti non è solo una favola e neppure una verità presentata sotto le spoglie della fantasia ma è una verità di per sé elaborata dagli antichi che, incapaci di esprimersi razionalmente, si servivano di universali fantastici che, sotto spoglie poetiche, presentavano modelli ideali universali: come fecero ad esempio i Greci antichi che non definirono razionalmente la prudenza ma raccontarono di Ulisse, modello universale fantastico dell'uomo prudente.

Vico si dedica poi con buoni risultati a definire la poesia che innanzitutto

è autonoma come forma espressiva differente dal linguaggio tradizionale. I tropi della poesia come la metafora, la metonimia, la sineddoche ecc. sono stati erroneamente ritenuti strumenti estetici di abbellimento del linguaggio razionale di base, mentre invece la poesia è una forma espressiva naturale e originaria i cui tropi sono «necessari modi di spiegarsi di tutte le prime nazioni poetiche»
La poesia ha una funzione rivelativa, custodisce le prime immaginate verità dei primi uomini [22];
Il linguaggio non ha quindi un'origine convenzionale perché questo presupporrebbe un uso tecnico del linguaggio che invece sorge spontaneamente come poesia.
Poiché il linguaggio e i miti costituiscono la cultura originaria e spontanea di tutto un popolo, Vico arriva alla discoverta del vero Omero che è non il singolo autore dei suoi poemi ma l'espressione del patrimonio culturale comune di tutto il popolo greco. È comunque da respingere la interpretazione platonica di Omero come filosofo[23], «fornito di una sublime sapienza riposta»

« Farsi intendere da volgo fiero e selvaggio [24] non è certamente (opera) d'ingegno addomesticato ed incivilito da alcuna filosofia. Né da un animo da alcuna filosofia umanato ed impietosito potrebbe nascer quella truculenza e fierezza di stile, con cui descrive tante, sì varie e sanguinose battaglie, tante sì diverse e tutte in istravaganti guise crudelissima spezie d'ammazzamenti, che particolarmente fanno tutta la sublimità dell'Iliade »
(Giambattista Vico, Scienza Nuova)

La sapienza antica ha per contenuto principi di giustizia e ordine necessari per la formazione di popoli civili. Questi contenuti si esprimono in modi diversi a seconda che siano formati dal senso o dalla fantasia o dalla ragione.

Questo vuol dire che la sapienza, la verità, si manifesta in forme diverse storicamente ma che essa come verità eterna è al di sopra della storia che di volta in volta la incarna.

La verità della storia è una verità metafisica nella storia.

Nella storia si attua la mediazione tra l'agire umano e quello divino:

nel fare umano si manifesta il vero divino
e il vero umano si realizza tramite il fare divino: la Provvidenza, legge trascendente della storia, che opera attraverso e nonostante il libero arbitrio dell'uomo.
Questo non comporta una concezione necessitata del corso della storia poiché è vero che la Provvidenza si serve degli strumenti umani, anche i più rozzi e primitivi, per produrre un ordine ma tuttavia questo rimane nelle mani dell'uomo, affidato alla sua libertà.

La storia quindi non è determinata come sostengono gli stoici e gli epicurei che «niegano la provvedenza, quelli facendosi strascinare dal fato, questi abbandonandosi al caso», ma si sviluppa tenendo conto della libera volontà degli uomini che, come dimostrano i ricorsi, possono anche farla regredire:

« Gli uomini prima sentono il necessario; dipoi badano all'utile; appresso avvertiscono il comodo; più innanzi si dilettano nel piacere; quindi si dissolvono nel lusso; e finalmente impazzano in istrapazzar di sostanze »
(Giambattista Vico, Scienza Nuova, Degnità LXVI)

A questa dissoluzione delle nazioni pone rimedio l'intervento della Provvidenza che talora non può impedire la regressione nella barbarie, da cui si genererà un nuovo corso storico che ripercorrerà, a un livello superiore, poiché dell'epoca passata ne è rimasta una sia pur minima eredità, la strada precedente.

[modifica] La filosofiaParadossalmente la criticità del progresso storico appare proprio con l'età della ragione, quando cioè questa invece dovrebbe assicurare e mantenere l'ordine civile.

Accade infatti che la tutela della Provvidenza che si è imposta agli uomini nei precedenti due stadi, ora invece deve ricercare il consenso della «ragione tutta spiegata» che si sostituisce alla religione:
«così ordenando la provvedenza: che non avendosi appresso a fare più per sensi di religione (come si erano fatte innanzi) le azioni virtuose, facesse la filosofia le virtù nella lor idea» [25]

La ragione infatti, pur con la filosofia, custode della legge ideale del vivere civile, con il suo libero giudizio, può tuttavia incorrere nell'errore o nello scetticismo per cui «si diedero gli stolti dotti a calunniare la verità».

La ragione non crea la verità, poiché non può fare a meno dal senso e dalla fantasia senza le quali appare astratta e vuota.

Il fine della storia infatti non è affidato alla sola ragione ma alla sintesi armonica di senso, fantasia e razionalità.

La ragione poi è ispirata dalla verità divina per cui la storia è sì opera dell'uomo, ma la mente umana da sola non basta poiché occorre la Provvidenza che indichi la verità.

La filosofia è succeduta alla religione ma non l'ha sostituita anzi essa deve custodirla:

« Da tutto ciò che si è in quest'opera ragionato, è da finalmente conchiudersi che questa Scienza porta indivisibilmente seco lo studio della pietà [26], e che, se non siesi pio, non si può daddovero esser saggio »
(Giambattista Vico Scienza Nuova, Conclusione)

[modifica] Note1.^ Cfr.Maria Consiglia, Napoli, Editoria clandestina e censura ecclesiastica a Napoli all'inizio del Settecento, in Anna Maria Rao (a cura di), Editoria e cultura a Napoli nel XVIII secolo. Napoli: Liguori, 1988
2.^ B.Cioffi ed altri, I filosofi e le idee, Vol.II, B. Mondadori 2004, pag.543
3.^ Ugo Maria Palanza, Letteratura italiana: storia e vita, ed. Federico & Ardia, p.305
4.^ Vico che si era rivolto inutilmente per sovvenzionare la stampa dell'opera prima al cardinale Orsini, poi a Papa Clemente XII, fu costretto a vendere un anello per farla pubblicare. Vico scrisse in seguito che, in fondo, l'accaduto era stato un bene poiché lo aveva spinto a riscrivere l'opera in maniera più completa. (Cfr. M.Fubini, G.B.Vico. Autobiografia, Torino Einaudi 1965)
5.^ Cfr. M.Fubini, G.B.Vico. Autobiografia, Torino Einaudi 1965
6.^ Cfr. Fausto Nicolini, Giambattista Vico nella vita domestica. La moglie, i figli, la casa , Editore Osanna Venosa, 1991
7.^ La prima redazione dell'opera, andata perduta, aveva il titolo di Scienza nuova in forma negativa
8.^ L'Autobiografia fu pubblicata postuma nel 1818 ampliata con una modifica di Vico del 1731.
9.^ Cfr.Rivista di studi crociani, Volume 6, a cura della "Società napoletana di storia patria", 1969
10.^

Facciata della chiesa di San Biagio Maggiore(in degrado)La fondazione "Giambattista Vico", voluta da Gerardo Marotta, presidente dell'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, con sede nella Chiesa di San Biagio Maggiore di Napoli, si occupa della promozione del pensiero vichiano e della gestione di alcuni siti vichiani come il castello Vargas di Vatolla (Salerno) e la Chiesa di San Gennaro all'Olmo in Napoli.
11.^ Giambattista Vico, Principi di una scienza nuova d'intorno alla comune natura delle nazioni, a cura di Giuseppe Ferrari, Società tipografica de' Classici italiani, Milano 1843, p.479
12.^ G. Vico, Op. cit ibidem.
13.^ «Inesatto è altresì che il Vico terminasse di vivere il 20 gennaio 1744 a più di settantasei anni: per contrario, mancò ai vivi nella notte tra il 22 e il 23 gennaio e a settantacinque anni e sette mesi precisi. ... » in La Letteratura italiana: Storia e testi, Giambattista Vico, Ricciardi, 1953
14.^ G. Vico, Op. cit., ibidem
15.^ Vico nel perduto De equilibrio corporis animantis esponeva una concezione secondo cui «...riponevo la natura delle cose nel moto per il quale, come se fossero sottoposte alla forza di un cuneo, tutte le cose vengono spinte verso il centro del loro stesso moto e, invece, sotto l'azione di una forza contraria, vengono respinte verso l'esterno; e sostenni anche che tutte le cose vivono e muoiono in virtù di sistole e diastole». Secondo un'ipotesi di Benedetto Croce e Fausto Nicolini l'opera era stata concepita come appendice al Liber physicus e fu donata in forma manoscritta al suo grande amico, il giurista Domenico Aulisio tra il 1709 e il 1711. La trattazione di quella teoria di ispirazione cartesiana e presocratica venne poi inserita più ampiamente nella Vita.
16.^ Per Vico la filologia non è solo la scienza del linguaggio ma anche storia, usi e costumi, religioni...ecc. dei popoli antichi.
17.^ «L'età degli dei nella quale gli uomini gentili credettero vivere sotto divini governi, e ogni cosa esser loro comandata con gli auspici e gli oracoli, che sono le più vecchie cose della storia profana: l'età degli eroi, nella quale dappertutto essi regnarono in repubbliche aristocratiche, per una certa da essi rifiutata differenza di superior natura a quella de' lor plebei; e finalmente l'età degli uomini, nella quale tutti si riconobbero esser uguali in natura umana, e perciò vi celebrarono prima le repubbliche popolari e finalmente le monarchie, le quali entrambe sono forma di governi umane» (G.Vico, Scienza Nuova, Idea dell'Opera)
18.^ G.Vico,Scienza Nuova, Idea dell'Opera
19.^ Ibidem
20.^ La ragion di stato «non è naturalmente conosciuta da ogni uomo ma da pochi pratici di governo» (Ibidem)
21.^ Ibidem Degnità XXXVII
22.^ Sull'immaginazione nei primitivi secondo la filosofia vichiana si veda: Paolo Fabiani, La filosofia dell'immaginazione in Vico e Malebranche, Firenze University Press, 2002
23.^ La rivendicazione dell'assoluta autonomia dell'arte e della poesia nei confronti delle altre attività spirituali fu uno dei meriti che Benedetto Croce riconobbe al pensiero vichiano: « [Vico] criticò tutt'insieme le tre dottrine della poesia come esortatrice e mediatrice di verità intellettuali, come cosa di mero diletto, e come esarcitazione ingegnosa di cui si possa senza far danno fare a meno. La poesia non è sapienza riposta, non presuppone logica intellettuale, non contiene filosofemi: i filosofi che ritrovano queste cose nella poesia, ve le hanno introdotte essi stessi senza avvedersene. La poesia non è nata per capriccio, ma per necessità di natura. La poesia tanto poco è superflua ed eliminabile, che senza di essa non sorge il pensiero: è la prima operazione della mente umana »
(Benedetto Croce, La filosofia di Giambattista Vico)

24.^ [qual era quello dei tempi d'Omero]
25.^ G.Vico, Scienza Nuova, Conclusione
26.^ Nel senso di pietas, sentimento religioso.
[modifica] Bibliografia criticaIl pensiero vichiano rimase quasi del tutto ignorato dalla cultura europea del XVIII secolo con una diffusione limitata nell'Italia meridionale.

Ancora in età romantica Vico era poco conosciuto anche se filosofi tedeschi come Herder, chiamato il Vico tedesco, ed Hegel presentano delle somiglianze con la dottrina vichiana per quanto riguarda soprattutto il ruolo della storia nello sviluppo della filosofia.

La filosofia di Vico comincia ad essere conosciuta ed apprezzata nel periodo del romanticismo francese ed italiano: Chateaubriand e De Maistre ma soprattutto

G.Michelet, Principes de la philosophie de l'histoire Parigi 1827
diffonde il pensiero di Vico di cui apprezza la concezione della storia come sintesi di umano e divino.

Nella prima metà dell' '800, Comte e Marx stimarono la filosofia della storia di Vico ma furono soprattutto i filosofi italiani, come Rosmini e soprattutto Gioberti, che videro in lui un maestro.

N.Tommaseo, G.B.Vico e il suo secolo, 1843, rist.Torino 1930,
mette in evidenza la grande affinità del pensiero vichiano con quello di Gioberti.

Nuove interpretazioni basate sul principio vichiano del verum ipsum factum considerano Vico un anticipatore del positivismo

G.Ferrari, Il genio di Vico, 1837, rist.Carabba, Lanciano 1916
C.Cattaneo, Sulla 'Scienza Nuova' di Vico, Milano 1946-47
C.Cantoni, Vico, Torino 1967
P.Siciliani, Sul rinnovamento della filosofia positiva in Italia, Civelli Firenze 1871
Una spinta decisiva all'apprezzamento e alla diffusione del pensiero vichiano come anticipatore di Kant e dell'idealismo, si ebbe in Italia a cominciare dagli studi di S.Spaventa e De Sanctis iniziatori di quella corrente dottrinale interpretativa che si ritrova soprattutto in Croce e

G.Gentile, Studi vichiani, Messina 1915, rist. Sansoni Firenze 1969
che ne mette in luce le ascendenze neoplatoniche e rinascimentali rifiutandone nel contempo l'interpretazione positivista e interpretandone il verum ipsum factum in senso idealistico. Una forzatura questa, secondo alcuni critici, ripresa da

B.Croce, La filosofia di G.B.Vico, Laterza, Bari 1911
che ebbe soprattutto il merito di aver intuito in Vico una definizione dell'arte come attività autonoma dello spirito e della visione storicistica dello sviluppo dello spirito da cui Croce elimina ogni riferimento alla trascendenza della Provvidenza vichiana.

Una accurata ricerca storica su Vico fu operata dal crociano

Fausto Nicolini, La giovinezza di Vico, Laterza, Bari 1932
Fausto Nicolini, La religiosità di Vico, Laterza, Bari 1949
Fausto Nicolini, Commento storico alla seconda 'Scienza Nuova', Roma 1949-50
Fausto Nicolini, Saggi vichiani, Giannini, Napoli 1955
Fausto Nicolini, Giambattista Vico nella vita domestica. La moglie, i figli, la casa , Editore Osanna Venosa, 1991
Contrari all'interpretazione immanentistica della Provvidenza vichiana sono gli studi di autori cattolici che ne mettono invece in risalto la trascendenza:

E. Chiocchietti, La filosofia di G. B. Vico, Vita e Pensiero, Milano 1935
F. Amerio, Introduzione allo studio di Vico, SEI, Torino 1946
L. Bellafiore, La dottrina della Provvidenza in G. B. Vico, Cedam, Bologna 1962
A.Mano, Lo storicismo di G. B. Vico, Napoli 1965
Il dibattito tra le interpretazioni laiche e cattoliche su Vico si è attenuato in periodi recenti dove lo studio del pensiero vichiano si è dedicato a particolari aspetti della sua dottrina:


Maura Del Serra, Eredità e kenosi tematica della "confessio" cristiana negli scritti autobiografici di Vico, in "Sapientia", 2, 1980, pp. 186-199.
- sulla concezione della storia ad opera della quale avviene la conciliazione tra immanenza e trascendenza del pensiero vichiano:

A.R. Caponigri, Time and Idea, Londra-Chicago 1953, trad. it. Tempo e idea, Pàtron, Bologna 1969
- sulla estetica vichiana gli studi più notevoli sono quelli di

G.A. Bianca, Il concetto di poesia in G.B.Vico, D'Anna, Messina 1967
G. Prestipino, "La teoria del mito e la modernità di G. B. Vico", Annali della facoltà di Palermo, 1972
- sugli aspetti giuridici e sociologici:

B. Donati, Nuovi studi sulla filosofia civile di G. B. Vico, Firenze 1947
L. Bellafiore, La dottrina del diritto naturale in G. B. Vico, Milano 1954
D. Pasini, Diritto, società e stato in Vico, Jovene, Napoli 1970
V. Giannantonio, "Oltre Vico - L'identità del passato a Napoli e Milano tra '700 e '800, Carabba Editore, Lanciano 2009.
G. Leone, [rec. al vol. di] V. Giannantonio, "Oltre Vico - L'identità del passato a Napoli e Milano tra '700 e '800, Carabba Editore, Lanciano 2009, in Misure Critiche, n.2, La Fenice Casa Editrice, Salerno 2010, pp. 138-140; e in "Forum Italicum", Anno 2010, N.2, pp.581-582.
[modifica] Opera omniaGiambattista Vico, Opere per i tipi di Laterza, Bari 1914-40;
Giambattista Vico, Opere filosofiche a cura di P. Cristofolini, Firenze, Sansoni 1971
[modifica] Voci correlateBenedetto Croce
Fausto Nicolini
Storicismo
Filosofia della storia
Filologia
[modifica] Altri progetti Wikisource contiene opere originali di Giambattista Vico
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[modifica] Collegamenti esterniPrincipj di una scienza nuova di Giambattista Vico (Firenze, 1847) in Google Ricerca libri
Testi dell'Autobiografia e della Scienza Nuova
Opere integrali in più volumi dalla collana digitalizzata "Scrittori d'Italia" Laterza
La Filosofia dell'Immaginazione in Vico e Malebranche, di Paolo Fabiani - Firenze University Press, 2002.
La concezione della storia di Vico, di Giovanni Pellegrino.
"Associazione Culturale Giambattista Vico"
Centro di Studi Vichiani del Cnr
Fondazione Giambattista Vico
Portale Vico

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