Sunday, August 14, 2011

Genova, Donover -- up to Libro Terzo

Luigi Speranza

I Liguri furono tra i primi abitatori di quella parte d'Italia che dalle Alpi occidentali si stende in lunghezza fino all'Adriatico nella parte superiore e al Tevere nella parte inferiore, e si allarga fino al mare Mediterraneo; ma colle invasioni successive di altri popoli, andarono i Liguri propriamente detti restringendosi sul litorale, in quel tratto di terreno roccioso che si stende tra il Varo e la Magra, le Alpi e l' Apennino, cui diedero il nome di Liguria e quasi nel centro stabilirono la lor sede principale — Genova.

Come sia sorta questa città e chi le abbia dato il nome la storia non registra; le favole però, raccon

tano che Giano re degli Aborigeni antenati dei Romani ne fu il fondatore, onde le derivò il nome di Genova; mentre d'altra parte parrebbe che questo nome venisse più ragionevolmente da Genita, che in lingua celtica significa adito ed entrata, perchè appunto era come lo sbocco, la via d'accesso del commercio e delle genti dell' alta Italia.

Così intorno alle primitive vicende di Genova e dei Liguri non si hanno notizie precise. Si racconta che Ercole venuto di Grecia in Italia fu gravemente ferito dai Liguri che il suo esercito misero in rotta che i Liguri stessi aiutarono Enea a guerreggiare gli Etruschi e ad occupare il Lazio; che poscia quando Roma si levò con terribile potenza a guardare cupidamente alle altre regioni d'Italia, i Liguri si armarono contro di essa e nelle guerre puniche si allearono coi Cartaginesi.

II.

Genova sotto i Romani.

Da questo punto, le vicende dei Liguri si registrano dagli storici, sebbene ancora alquanto nebulosamente e scarsamente.

I Liguri, seguendo le sorti di Cartagine, ebbero la fortuna ora favorevole ora avversa come i loro alleati africani; ma poichè le guerre puniche volsero tutte a vantaggio della crescente potenza dei Romani, quegli si ebbero la peggio.

Genova però, che sembra costituisse parte a sè, nella seconda guerra punica stette, sola fra i Liguri, alleata di Roma, e ciò le valse un orribile sacco datole 205 anni avanti Cristo dall' ammiraglio cartagiginese Magone fratello di Annibale che ne diroccò le mura; ma non tardò molto ad essere rifabbricata per cura di Lucrezio pretore dei Romani in Liguria.

Roma, trionfante in ultimo dei Cartaginesi, volse ad estendere il proprio dominio a danno dei liberi Liguri che, con vicende or prospere or avverse, guerreggiarono per 120 anni; ma da ultimo dovettero soggiacere. Lotta memorabile, per amore di libertà, che altra uguale non ne ricorda la storia!

Caduta la Liguria e con essa Genova in potere dei Romani, questi aprirono nuove strade, le antiche appianarono e conferirono ai Liguri la cittadinanza romana; Genova fu eretta in Municipio e si ebbe i benefizi di una certa autonomia.

Trasformato il governo di Roma da repubblicano in monarchico, i Liguri tentarono con altri popoli di scuotere il dominio d'Augusto; ma vinti, dopo fierissima lotta, costituirono la nona delle undici regioni in cui fu divisa l'Italia da Cesare Augusto.

Genova assunse allora l'importanza ed il valore d' un vero centro marittimo e commerciale della Liguria , la quale abbracciava in quei tempi il paese compreso tra il Varo, il Po e la Magra. Dalle sue riviere uscirono uomini illustri che occuparono il seggio imperiale come Elvio Pertinace, che secondo studi recenti sarebbe nato in Alba Pompeia [sul Tanaro, ma secondo altri in Vado o Segno, e Tito Elio Proculo di Albenga; e fu tra le primissime regioni che accogliesse la nuova legge d'amore e di carità predicata da Gesù Cristo. Sotto Nerone o in quel torno, approdarono dove oggi sorge la ridente collina d'Albaro i santi Nazario e Celso i quali sembra vi celebrassero la prima messa o quanto meno una delle prime messe che allora cominciarono a celebrarsi. Quello che pare certo si è che un Diogene fosse vescovo di Genova fin dal 381.

Regnando l' imperatore Giustiniano, la Liguria fu convertita in provincia, assumendo per la prima volta la denominazione di Genova.

III.

Genova nelle invasioni dei Barbari.

Caduto l' impero romano, Genova seguì le vicende dei barbali, che da Odoacre sino a Carlo Magno invasero l'Italia.

Niun ricordo si ha dell'invasione di Odoacre, ma dalle Varie di Cassiodoro risulterebbe che Genova faceva parte del regno de' Goti, poichè all'imperatore Teodorico ricorrevano gli Ebrei qui residenti pei quali egli ordinava fossero rispettati i privilegi in precedenza avuti. La Liguria ebbe altresì la signoria dei Longobardi, soggiornandovi la regina Teodolinda; ed ebbe anche a soffrire il saccheggio per opera del loro re Rotari nell'anno 641 che distrusse Luni, Genova, Albenga, Varigotti e Savona, percorrendo da devastatore tutta la Liguria marittima.

L'invasione longobarda in Italia determinò la fuga in Genova del clero milanese, che ivi tenne sua sede per circa settant' anni. Fu allora eretta una cappella a S. Ambrogio, dove poi nel XVI secolo sorse l'attuale chiesa omonima; e Giovanni Bono di Camogli, che venne elevato alla dignità vescovile, fu quegli che nel 645 riportò la sede in Milano da cui dipendeva allora la chiesa genovese.

Del dominio dei Franchi non si ha pure che scarsi ricordi; ma però tanti che bastano a provarci come dessi abbiano occupato militarmente la Liguria (che allora comprendeva tutto il Milanese) affidandone Carlo Magno il governo al Conte Ademaro con incarico di tenere sgombro il mare dalle incursioni dei pirati; quale obbligo rimase poi al Comune genovese anche sotto gli imperatori tedeschi. Come è noto, i Carolingi divisero l'Italia in Marche, suddivise in Comitati, e Genova fece parte della marca Ligure, che sotto tale denominazione si riscontra in più atti notarili dal 1089 al 1346; della quale Marca pare fosse primo signore sui principi del 951 un Oberto che governava il Comitato di Luni sotto il re Ugo di Provenza, La sua discendenza in processo di tempo e per mutazioni politiche e per divisione di famiglia, si ripartì il vasto dominio del conte Oberto, e le venne quindi meno quell' autorità che indubbiamente dapprima aveva su Genova; ma esistono documenti posteriori al 900 dai quali apparisce che i Marchesi e loro visconti concedevano alla città privilegi e facoltà di una certa autonomia, mentre dessi, almeno nelle apparenze, conservarono diritti di signoria fino al 1350.

Si ha pure un diploma dell' anno 958 pel quale il re Berengario concesse privilegi ai Genovesi; e altro se ne ha del 1056 del Marchese Adalberto, che conferma i privilegi dati loro da Berengario e ne riconosce le antiche loro consuetudini; da che può inferirsi che Genova facesse parte del regno italico.

IV.

Scorrerie dei Saraceni.

I Normanni e i Saraceni pirateggiando, correvano il mare devastando le città e terre che trovavano sulle rive. I primi sbarcati a Luni, città sulle cui rovine o meglio poco lungi dalle stesse sorse poi Sarzana, pare che verso l' anno 860 a tradimento se ne impadronissero e la mettessero a sacco; ma intorno a ciò si hanno leggende che non lasciano ben chiarire come sia andata la faccenda. I secondi nel 934, dopo una

primitiva scorreria del 918, predati alcuni casali nella riviera di ponente, si avvicinarono a Genova per attaccarla; ma colpiti in parte dall' ardimento dei genovesi che nottetempo assalirono le loro navi impadronendosene di diciasette, e in parte da furioso temporale, abbandonarono l'impresa e ripararono in Sicilia.

Due anni dopo, nel 936 ritornavano i Saraceni all' attacco, ma i Genovesi opposero fiera resistenza uccidendo ben oltre a duemila nemici. Rinforzati di nuovi bastimenti, i Saraceni ripigliavano l'offesa, e questa volta vittoriosi.

Genova fu saccheggiata e rovinata. I cittadini che scampando dalla morte, non riuscirono a fuggire sui monti, vennero come schiavi rilegati sulle navi, che presero il largo.

Ma la flotta genovese, che fin da quei tempi correva il mare arditamente e si trovava in quel frangente fuori della patria, ritornando apprese la sventura da cui erano stati colpiti i concittadini. Pronti alla vendetta, rivolsero le vele e i navigli in Sardegna. Presso l'isola dell' Asinaria incontrarono la flotta saracena e con essa appiccarono battaglia. La vinsero e tolsero loro la preda e i prigionieri; quindi lieti tornarono in patria.

V.

Spedizioni contro i Saraceni.

I Saraceni che avevano preso stanza in alcune parti di Spagna e dell'Italia Meridionale, da dove corseggiavano il Mediterraneo, sovvenuti da quei d'Africa, spingendosi lungo il litorale a saccheggiare le terre italiane, nel 1015 capitanati da Mogèhid (detto dagli storici nostri Mugeto o Musatto) salparono da Denia e sbarcarono in Sardegna facendovi grandissimo numero di prigioni e pigliandovi stanza. Poco appresso, o forse prima ancora (chè la data non è ben certa) il Mogèhid scese lungo la costiera tra Genova e Pisa, distruggendo la città di Luni.

Fu allora (io16) che Benedetto Vili, promettendo la signoria dell' isola di Sardegna a chi la liberasse dal dominio Saraceno, mandò il Vescovo d'Ostia quale suo legato ai Pisani e ai Genovesi eccitandoli all' impresa.

Gradirono l'invito le due repubbliche, e con numerosa flotta andarono in Sardegna dove, nel giugno del io16, ruppero appieno il re Mogèhid che, colle reliquie dell' armata, distruttagli da una tempesta, riparò a Denia. Da qui corseggiò ancora per qualche tempo il Mediterraneo, e morì nel 1044, non essendo vero che i Genovesi lo facessero prigioniero e lo mandassero in Germania all' imperatore Enrico III.

I Pisani congiunti forse ai Genovesi si spinsero nel 1034 sull'Africa occupando Bona; e sebbene la storia non le registri, altre di cosiffatte imprese è probabile che i Genovesi per amore della fede e più per interesse commerciale, soli o con altri alleati, tentassero contro i Mussulmani, quasi avvisaglie delle prossime Crociate.

Andarono poscia nel 1087 i Genovesi alleati dei Pisani, degli Amalfitani ed altri popoli italiani, eccitati dal papa Vittore III, sulle coste d'Africa con poderosa armata; sbarcarono lesti nel borgo di Zawila e nella penisola di Mehdia, che si sporge tra i golfi di Hammamet e di Cabes, occupandoli; ed è fama che uccidessero 100 mila Saraceni, costrigendo a farsi tributari della Santa Sede i re di Tripoli e Tunisi. Certo è che il principe saraceno Temìn si arrese a condizione di sborsare circa mezzo milione delle nostre lire, liberare i prigionieri, smettere la pirateria e concedere privilegi e franchigie doganali a' Pisani e Genovesi.

Ma queste vittorie, questi ingrandimenti di dominio, furono il seme di lunghe guerre fraterne e causa della rovina non solo di Genova, ma di Pisa e Venezia, le tre forti e gloriose repubbliche marittime dell' evo medio, ognuna delle quali voleva sulle altre primeggiare.


VI.

La prima Crociata.

Nel 1095 il papa Urbano II nel Concilio di Piacenza prima e poscia in quello di Clermont (novembre detto anno) bandiva la prima crociata contro i Turchi che occupavano Gerusalemme e tutti i Luoghi Santi. Un grido d'entusiasmo per l'impresa cristiana si sollevò in tutta Europa, e varii eserciti di crociati si disposero a portarsi in Oriente sotto il comando di Pietro Eremita, Goffredo di Buglione, del conte Roberto di Fiandra e altri ricchi feudatari.

In Genova si recavano a predicar la crociata i vescovi di Grenoble e d'Orange. Si radunava all'uopo

1l popolo nella chiesa di S. Siro e i più nobili e ricchi cittadini si crociavano. L'entusiasmo con cui fu accolta la crociata, indusse i Genovesi ad armare una flotta di

12 galee la quale nel mese di luglio 1097 si volse in Oriente.

I crociati prima partiti sotto il comando di Pier l' Eremita e di altri fanatici, senza ordine e disciplina, furono in gran parte uccisi dalle popolazioni rumene e bulgare per le quali traversarono; altri finirono di stenti.

L'altro esercito sotto il supremo comando del duca Goffredo di Buglione, composto di circa seicentomila persone, passò il Bosforo, cinse d'assedio Nicea che resistè più settimane e al fine si arrese all' imperatore greco Alessio Comneno. Proseguì poscia per l'Asia


Minore, entrò in Antiochetta, prese Tarso e Malmistra. Allora Baldovino conte di Fiandra con una parte di soldati abbandonò i compagni e s'inoltrò nell' Ar

menia, e, da fortunato conquistatore, passò l' Eufrate ed entrò in Edessa, sfuggendo ai Turchi che lo aspet

tavano in agguato. Qui si fermò, acclamato poco dopo signore del paese, e ampliò lo Stato di cui fu riconosciuto re.

Il grosso dell' esercito crociato giunse invece nella Siria e pose le sue tende sotto Antiochia, città ricca e potente. Tentato invano di prenderla colla forza, i capi deliberarono cingerla d' assedio; ma le spesse ed ardite sortite dei Turchi e la sregolatezza, la depravazione, il disordine che regnavano nel campo dei crociati resero l'assedio lungo, sanguinoso e di difficile riuscita. La disperazione stava per impadronirsi de'crociati, quando fu avvertito l'arrivo di una flotta pisana e genovese nel porto di San Simeone.

Rianimati i crociati dal nuovo soccorso, ripigliarono l' offesa ardimentosa contro i Turchi, ma senza il tra


dimento di un tale che stava a custodia di una torre sulle mura della città, essi non sarebbero forse riusciti vittoriosi. L' assedio cominciato nell' ottobre del 1097 ebbe fine l' ultimo di maggio del 1098, nel qual giorno i crociati entrarono in Antiochia commettendo orrendi delitti. Occupata la città, i Genovesi fecero vela per Genova, ma essendo entrati nell'Asia minore nella città di Mirrea, trovarono le ceneri di S. Giovanni Battista le quali condussero religiosamente in Genova, ove si conservano tuttora.

VII.

Conquista di Gerusalemme.

Ritornati d'Antiochia, i Genovesi spargendo la notizia dell' impresa dei Crociati che seguitava verso Gerusalemme, animarono Guglielmo Embriaco e Primo di Castello suo fratello ad andare ancor essi a quelr impresa, con due navi di cui erano padroni.

Giunta la piccola flotta a Giaffa, 24 miglia distante dalla Città Santa, l'Embriaco si avvide Guglielmo Embriaco. che numerosa flotta turca gli stava alle spalle. Comprese non poter lottare, in quel lrangente, con sicurezza di vittoria, e perciò sbarcato le macclline guerresche e l'esercito, distrusse le sue galere, perchè i nemici non le pigliassero, e a grandi marce raggiunse il campo dei crociati che da Antiochia si era ridotto sotto Gerusalemme. alla città. I Turchi levano una grossa antenna, vi attaccano un grosso trave per traverso e a guisa d' ariete lo lanciano contro la torre; ma i Genovesi tagliano le corde che legano il trave, se ne impadroniscono, lo appoggiano da un capo al solaio della torre, dall'altro sulle mura a guisa di ponte, e per quello si lanciano arditi nella città. E così, per opera del valore e dell' ingegno dei Genovesi, i crociati conquistarono Gerusalemme.

Da molto tempo stavano questi all'impresa ma senza frutto, che in più assalti erano stati con grande strage respinti; quando per l'arrivo dei Genovesi si rinfrancarono.

Embriaco levò allora una torre di legname grandissima, disposta in modo che i nemici non potevano impedirne il funzionamento, e ch' era facilmente trasportabile, dividendosi in più pezzi.

La mattina del 15 luglio 1099 la torre di Embriaco venne accosta alla città e da essa si lanciavano contro

muri. Un terribile incendio li circonda e quasi li accieca. Fanno sforzi sovrumani i Turchi per difendersi. I Genovesi avvicinano vieppiù la loro terribile torre


Vili.

Conquista di Cesarea.

Espugnata Gerusalemme, l'Embriaco tornava a Genova col ricco bottino fatto e recando lettere di Goffredo e dell' arcivescovo pisano Daimberto colle quali s'invitava la repubblica ad accorrere alla grande impresa con nuovi soccorsi.

Arrivava l' Embriaco la vigilia del Natale del 1099. I magistrati della repubblica udito il racconto e lette le lettere, ordinarono una flotta composta di 26 galee, la quale con 4 navi cariche di pellegrini navigò in Siria.

Arrivati i Genovesi nel porto di Laodicea si fermarono a passarvi l'inverno del noi, assumendo la tutela di quei paesi che per la prigionia del conte Boemondo si trovavano nell'anarchia e in preda alle invasioni turchesche.

Nella quaresima di detto anno, lasciata Laodicea si recarono a Giaffa, donde andarono a Gerusalemme a visitare il Santo Sepolcro. Tornarono a Giaffa e con Baldovino deliberarono la presa di Tiro, che in tre giorni cadde in loro mani, e si volsero poscia a Cesarea, città forte e preparata a resistere.

I Genovesi levarono le lor torri e poscia, prestamente, cominciarono l'attacco. Invitarono i Turchi ad arrendersi, ma questi deliberarono resistere. Allora ritirati i congegni soliti di guerra, per consiglio di Daimberto, stato nominato dal Papa Patriarca di Gerusalemme, premurosamente seguito dall' Embriaco, si apprestarono le scale delle galee e si cominciò a scalare le mura.

Saliva primo armato di lancia e spada l' Embriaco, lo seguivano gli altri. Pel soverchio peso la scala si spezza e l'Embriaco solo rimane sulle mura, mentre i suoi cadono per terra.

Non si sgomenta il fiero genovese che si prepara a salire sopra una torre, quando un saraceno ne esce e s'impegna tra loro singolare combattimento. Ferocemente pugnavano, ma il saraceno vedendo che stava per soccombere, disse al genovese: lasciami, che potrai salire a tuo agio.

L' Embriaco si lancia su per la torre , e in cima a quella si mostra all' esercito che, rianimatosi, riprende la scalata..

In un baleno Cesarea è in mano dei Crociati che la mettono a sacco.

Prezioso oggetto del bottino toccato ai Genovesi fu il Catino, che si conserva nel Duomo, creduto


lungamente di smeraldo, e nel quale dicesi mangiasse Cristo l'agnello pasquale.

IX.

Altre spedizioni in Soria.

Gli Annalisti registrano in tredici anni otto spedizioni in Soria, dopo quella gloriosa di Cesarea.

Una di 40 galee nel 1102 conquistò Tortosa; ed altra successiva di 70 galere Acri e Gibelletto minore.

Una terza nel 1107 pure di settanta galere comandata da due fratelli Embriaci si volge a Tripoli, ma nol potendo occupare prende Gibello; una quarta nel j 110 di 22 galee s'impadronisce di Beyrouth e di Malmistra.

Tanti servizi prestati ai crociati si ebbero largo guiderdone.

I Genovesi che furono tra i primi a prender parte a siffatte spedizioni, spintivi dalla loro indole commerciale e bancaria, acquistarono in breve un buon posto nel commercio d'Oriente, e dai principi si ebbero concessioni e privilegi non pochi.

I Genovesi ebbero allora il dominio in tutto od in parte su Malmistra, Solino, Antiochia, Laodicea, Tortosa, Tripoli, Gibello, Beyrouth, Acri, Gibelletto minore, Cesarea, Tiro, Giaffa, Ascaron, Ascalona e una contrada di Gerusalemme.

II patriarca e il re di Gerusalemme vollero in più riconoscere che all' opera dei Genovesi principalmente dovevasi la conquista della Palestina, facendo scrivere a lettere cubitali d'oro sull' architrave della chiesa del Santo Sepolcro le famose parole: Praepotens Genuensium proesidium, le quali in seguito per invidia di altri popoli e di principi vennero cancellate.

X.

Prima guerra Pisana.

La conquista dell' isola di Corsica, ritenuta dai pontefici come faciente parte del dominio di S. Pietro, per opera degli stessi pontefici, fece scoppiare la prima guerra tra Genova e Pisa, mentre le ragioni d' odio e d'avversione tra le due repubbliche rimontavano all' epoca di Carlomagno, quando questi preferì il porto di Genova a quello Pisano che per lo addietro dai Longobardi era usato.

Ad istigazione quindi dei papi e della contessa Matilde di Toscana, i Pisani armate alcune galee, fìngendo navigare per la Sardegna, sbarcarono in Corsica e l'occuparono. Urbano II rallegrandosi della conquista con apposito breve del 1091 faceva donazione perpetua dell' isola alla chiesa pisana, e all' arcivescovo di Pisa conferiva l' autorità di consacrare i vescovi Corsi.

Non è a dire quale fiera guerra scoppiasse tra i due popoli.

In prima 16 galee genovesi perseguitarono, predandole, alcune galee pisane; un anno appresso 22 mila soldati montati su ottanta galere e molte altre navi con torri e altri strumenti guerreschi si volsero a Porto Pisano.

I Pisani si turbarono alla vista di così poderose forze e domandarono pace e la giurarono ai patti che dettarono i Genovesi. Questi vollero in più che tutte le case pisane fossero spianate al primo solaio.

Passato però, il momentaneo ed immediato pericolo, i Pisani si rimettevano in campagna; ma le sorti volsero loro avverse.

Intanto Callisto II, convocato il Concilio in Laterano, invitava i rappresentanti di Genova e Pisa per pacificarli e rivolgere le loro armi unite contro i Saraceni.

Genova inviava l' annalista Caffaro e Barisone che, con larghezza di regali, indussero il papa a togliere ai Pisani la consacrazione dei vescovi Corsi (27 marzo e 6 aprile 1123); della qual cosa forte si lagnarono quei di Pisa, onde la guerra anzichè cessare si ripigliava ardita.

I Genovesi aggredivano un convoglio pisano carico di vettovaglie proveniente di Sardegna e se ne impadronivano; e in appresso Castel S. Angelo in Corsica ed altre terre di quell' isola cadevano in lor mano.

D'altre predagioni erano vittima i Pisani sul cominciare del 1125; ma non perduti di coraggio, essi, armata una flotta, minacciavano correre il Mediterraneo fino in Provenza per distruggere il commercio dei Genovesi. A tale notizia sette galee genovesi scorrono il mare di Provenza, di Sardegna e Corsica, approdano all'Elba, danno battaglia ai Pisani, li vincono, s'impadroniscono di Piombino e ne atterrano le mura, traendo la popolazione prigioniera in Genova.

I Pisani atterriti, cessano di navigare il Mediterraneo, ma i Genovesi portano la guerra nel territorio pisano, distruggono paesi, la riedificata Piombino saccheggiano, e rioccupano le terre di Corsica.

Pisa, che nulla trascurava per ripigliare la perduta signoria sulla Corsica, nel 1126 otteneva dal papa Onorio II una bolla che restituivale i privilegi toltile da Callisto.

E la guerra si faceva allora più feroce, allargandosi fino alla Sicilia.

I Genovesi danno la caccia a nove galee pisane, le inseguono. Riparano a Messina dove uniti agli abitanti si difendono dai Genovesi che minori di numero, ma più audaci, invadono la città fino al palazzo del re Ruggiero e la mettono a sacco.

La guerra proseguiva così lunga pezza, senza risultati benefici di sorta, tra le due forti repubbliche marittime; la quale cosa rincresceva a Innocenzo II che, perseguitato dall' antipapa Anacleto, riparò in Genova nel 1130, dove indusse ad una tregua le due città rivali.

Pare che anche S. Bernardo di Chiaravalle indirizzasse una splendida lettera ai Genovesi, colla quale ricordando le cortesie che già gli avevano usato , li pregava di pacificarsi coi Pisani; ma di quella lettera non è accertata l'autenticità: comunque sia i capitoli della pace fra le due repubbliche furono formati dallo stesso pontefice e notificati con bolla 20 marzo 1133; capitoli che pare siano stati accettati, poichè i due popoli collegati ristabilirono in Roma la sede del vero pontefice.

E qui è a far menzione dell' erezione in Arcivescovato della diocesi di Genova, avvenuta per bolla del 20 marzo 1133 di Innocenzo II, mentre era vescovo nostro Siro II della famiglia Porcello.

XI.

Contro i mori di Spagna.

Pacificatesi così le due repubbliche, si volsero entrambe contro i Saraceni o mori di Spagna.

Fin dal 1092 Genovesi e Pisani uniti prestarono aiuto al re Alfonso VI di Castiglia nella spedizione fatta contro Valenza e il Cid, e andata male l'impresa

per disaccordo tra i collegati, le navi genovesi passarono insieme al re Sancio di Navarra e d'Aragona e il conte Barcellona ad assaltare Tortosa, donde furono respinti.

Altra impresa dei nostri, collegati ai Pisani, contro i mori di Spagna avvenne nel 1114, recando l'aiuto delle lor navi al conte di Barcellona il quale aveva mosso guerra a' Saraceni che dalle Baleari si spingevano ad infestare le costiere settentrionali del Mediterraneo.

Nel 1136 a reprimere le continue piraterie dei Saraceni a danno del loro commercio, i Genovesi da soli andarono con dodici galere in Bugea, s'impadronirono d'una grossa nave saracena carica di uomini e d'oro; l'anno seguente, ventidue galere navigarono verso il Garbo in cerca del caid Mohammend-ibnMeimùn d'Almeria che ne conduceva 110, ma non trovatolo predarono quanto poterono di navi e robe dei Saraceni.

Nel 1146 infestando vieppiù i Saraceni il Mediterraneo per essere padroni dell'isola di Minorca, i Genovesi allestirono una flotta di ventidue galee e sei golette con macchine guerresche , e sotto il comando del console Caffaro, che si elesse a compagno Oberto della Torre, la mandarono contro queldffaro. l'isola. Appena giunti scesero, la

predarono e saccheggiarono per quattro giorni uccidendo due terzi dei Saraceni che vi si trovavano in arme. Saccheggiarono la capitale dell' isola e quindi si volsero su Almeria impadronendosi di molte navi ricchissime de' Saraceni. Allora questi impauriti chiesero pace offrendo di pagare larga somma di danaro. I capitani genovesi rispondevano: pagassero, accorderebbero una tregua sino al ritorno da Genova. Una parte pagarono, il rimanente promettevano entro otto giorni; ma nottetempo il re fuggiva col tesoro.

Irritati i Saraceni eleggevano altro re che promise pagare, ma tergiversando costui, i Genovesi tribolavano la città e più avrebbero fatto se la stagione invernale non avesse loro consigliato il ritorno in patria, ove giunsero carichi di gloria e spoglie nemiche.

Alfonso VII re di Castiglia e di Leon stato proclamato e coronato imperatore nel 1135, Don Garzia IV re "di Navarra e Raimondo Berengario IV conte di Barcellona collegati a reciproca difesa contro i Mori potenti nella Spagna , stipulavano nel settembre del 1146 una lega colla repubblica di Genova; lega alla quale pigliò pur parte la repubblica di Pisa, sebbene Caffaro lo taccia.

Finiva il giugno del 1147 quando partiva da Genova la flotta forte di 63 galee, 163 navi minori e dodicimila armati sotto il comando di sei consoli ed approdava a Capo di Gota, ove rimase un buon mese in attesa di Alfonso. Non venendo egli, i consoli mandarono a sollecitarlo per mezzo di Ottone di Buonvillano; ma ritardò ancora la sua venuta per alcun tempo. Solo il conte Raimondo arrivava poco appresso con 400 cavalieri e 100 fanti.

I Genovesi non disanimati, attaccavano l'impresa colle forze disponibili. Quindici galere sotto il comando del console Balduino si presentavano innanzi la città di Almeria provocando a battaglia i Saraceni, mentre le altre navi stavano in agguato.

Non scoperta l'insidia, i Saraceni in grandissimo numero uscirono a battaglia. Sopravvenne allora tutta la flotta genovese che sbarcate le truppe ingaggiava fierissima pugna. Durò moltissimo il combattimento feroce, tremendo; ben cinque mila mori rimasero sul terreno, quanti cercarono salvezza in mare vi trovarono la morte colpiti dalle galere.

Si racconta di un Guglielmo Pelle che lanciatosi in mezzo ai mori, colla spada ben 100 ne uccidesse.

I Genovesi lieti della vittoria volsero allora, e cioè nei primi di ottobre, le macchine e le armi contro la città. I mori tentarono due volte la sortita, ma furono respinti.

Intanto in aiuto ai Genovesi, ai Pisani e al conte Raimondo, erano giunti l'imperatore Alfonso e Don Garzia con 400 cavalli e 1000 fanti. U assedio di Almeria durò breve tempo, chè il 17 ottobre l' armata cristiana dato un fiero attacco alla città, in tre ore se ne rese padrona sino alla cittadella o fortezza. Tutto andò a ferro e fuoco e a ruba, 20 mila Mori furono uccisi; la fortezza stessa si arrese dopo quattro giorni, e i Saraceni che ivi si difendevano ebbero salva la vita pagando una somma cospicua di danaro.

La preda dei Genovesi fu grassa: io mila prigionieri; 60 mila marabotini, due bellissime porte di bronzo e lampade di molto pregio e valore.

Tra i confederati fu pattuito che Almeria rimanesse al comune di Genova, che la concesse in feudo ad Ottone Buonvillano per trent'anni; e concessioni diverse per facilitazione dei loro commerci e negozi furono pur fatte ai Genovesi che, lasciati mille uomini ad Ottone, navigarono verso Barcellona.

XII.

Conquista di Tortosa.

Giunti a Barcellona, i re di Spagna e il conte Raimondo pregarono i consoli a rimanere colà l'inverno e uniti poi muovere a conquistare Tortosa, distruggendosi cosi il regno moro di Granata.

Condiscendevano i consoli, ma non avevano autorità di farlo. Mandarono due galere, coi due consoli Oberto della Torre e Ansaldo Doria, a Genova recando il bottino di Almeria e spiegando il disegno della nuova campagna.

Approvò il popolo, e nuovi soccorsi furono inviati. Nel luglio del 1148 i cristiani furono dinnanzi a Tor

F. DONAVER. 4

tosa e si divisero in tre schiere, disponendosi per tre parti ad assaltare la città.

Si narra che trecento giovani genovesi bramosi di gloria, impazienti di pugnare gettaronsi senz' alcun ordine sulla città. I Mori, usciti numerosi, gagliardamente li respinsero. Il combattimento durò fino a notte. I Genovesi da leoni fecero strage tra nemici, ma il numero strabocchevole li oppresse. I pochi rimasti avrebbero desiderato al mattino di rinnovare il conflitto, ma i consoli lo vietarono.

Il domane invece cominciò l' attacco generale e le macchine dei genovesi avvicinate ai muri di cinta rovinavano le case della città e le torri dei mori.

Difendeva l'accesso della fortezza un fosso largo 84 cubiti e profondo 64. I consoli deliberarono riempirlo. Parve cosa impossibile, ma i Genovesi lo vollero e in breve il fosso fu colmato con pietre, terra, legna; sul colmo fu collocata una torre in legno munita di audaci e forti giovani, e la pugna si riaccese più feroce. Respingevano i Mori gli assalitori con pietre di 200 libbre di peso; ma i Genovesi senza disanimarsi proseguivano accaniti la lotta, sconquassando la fortezza e i palazzi e le case della città.

Spaventati alfine i Mori di tanto ardimento e della strage che si faceva tra essi, domandarono tregua di 40 giorni. Trascorso detto termine senza che loro arrivassero soccorsi, si arrenderebbero. Davano per ostaggio 300 fra i principali di loro.

La tregua spirò senza che i soccorsi venissero, e

il 30 dicembre 1149 i genovesi innalzavano la propria bandiera sulla fortezza, che i Mori consegnavano loro insieme alla città.

I Genovesi ebbero due terze parti dell'isola situata avanti Tortosa, oltre tutto il ricco bottino che raccolsero nella città.

XIII.

Il governo consolare.

Come già vedemmo, Genova eretta in Municipio dalla potenza romana, subì l'invasione dei barbari, e quindi fu soggetta al feudalismo dei primi tempi medioevali , ottenendo però, come tutti i grandi centri italiani, privilegi e franchigie che, man mano ampliandoli ed usurpandone dei nuovi , la sottrassero in parte dalla dipendenza del grande feudatario. Tali privilegi e riconoscimento di consuetudini risultano dai diplomi,, già citati, del 958 e del 1056 — dai quali si rileva come i principali cittadini (che altro non erano se non i Visconti dipendenti dapprima dal Marchese, poscia in lotta con esso di cui usurpavano i diritti) fossero ordinati in Consorzio a reciproca difesa e sostegno ; quale Consorzio o lega accresciutasi di nuovi elementi generò la compagna o compagnia, agglomeramene più vasto di famiglie aventi comunanza d'interessi , che delegavano a uno o più dei loro il potere esecutivo chi poco appresso si chiamò Consolato.

Le compagne per l'allentamento dei vincoli di sangue e d' affetto che primi avevano consigliato e mantenevano l'unione, per l' aggregazione stessa di elementi varii e diversi, si andarono in breve tempo moltiplicandosi da raggiungere il numero di otto in

corrispondenza ai rioni della città, costituendo il Comune genovese, il governo del quale venne allora affidato a un certo numero di consoli, eletti ogni anno dalle compagne, i quali avevano l'incarico di giudicare le differenze che incorrevano tra i soci cittadini ed inerenti alle operazioni commerciali, e vegliare in pari tempo al mantenimento dei patti e dell'unione, dando all'insieme un unico indirizzo.

I cittadini che formavano la compagna giuravano di osservarne i patti contenuti in un Breve per un dato tempo, spirato il quale rinnovavano la ferma; non tutti erano ammessi alle compagne, ma erano scelti i più gagliardi, i più degni. Quegli che richiesto non si prestava, perdeva i diritti civili.

II potere esecutivo era affidato esclusivamente ai consoli; ma il potere deliberativo o, come oggi si direbbe, legislativo, risiedeva nelle compagne che si radunavano in popolari comizi nei quali il Vescovo compariva come il primo cittadino, ma non aveva però, come altri vorrebbe, signoria diretta sulla città.

I Consoli si divisero in seguito, in Consoli del Comune , ed erano quelli cui spettava il governo, e in Consoli dei placiti, ed erano quelli che amministravano la giustizia. Di numero variavano da quattro a otto.

XIV.

Dominio genovese nelle riviere.

Mentre le guerre d'oltre mare e marittime quietavano alquanto, il governo consolare andava estendendo il dominio di Genova sulle riviere mediante trattati, concessioni e guerre occorrendo.

Le popolazioni erano facilmente attirate dai privilegi che il governo accordava loro, e singolarmente si sottomettevano per la protezione che ad esse concedeva contro la prepotenza dei feudatari e gli sbarchi dei pirati. Gli stessi feudatari, per amore o per forza, finirono per riconoscere la suprema signoria di Genova.

Così nel Ii 20 i signori di Vezzano vendevano Portovenere al comune e si obbligavano a servizio militare da Monaco a Pisa e da Gavi e Montaldo fino al mare. Nel 1132 i signori di Passano ricevevano in feudo dalla repubblica la terra di Frascario e giuravano fedeltà al comune, disposti a servizio di guerra a proprie spese. Altri assumevano uguale impegno, e promettevano di dare ogni anno un barile d'olio per le lampade all'altare di S. Giovanni Battista, il Patrono della Città. Anche i signori di Lavagna, che col titolo di conti tenevano il paese dalla repubblica, non osservando i patti posti dal governo, furono sottomessi e si ascrissero a cittadini di Genova.

Savona, Noli, Albenga avevano convenzioni particolari per le quali, sebbene vivessero a Comune, esse stavano sotto la tutela e il protettorato della repubblica.

I signori del Carretto molestavano Noli e Savona, onde la repubblica dovette muovere lor guerra; li vinse e furono costretti a riconoscere la supremazia di Genova, sottomettendosi alle condizioni loro imposte. I conti di Ventimiglia furono pure costretti a riconoscere la signoria genovese, e si recarono in Genova a giurare perpetua fedeltà a San Siro ed al popolo genovese; ma il conte Oberto ventimigliese, lasciato passare qualche anno, si ribellò e la repubblica con forte esercito gli andò contro e nuovamente lo costrinse a sottomettersi.

I consoli avevano trovato altro spediente per assoggettare i feudatari, e cioè accordavano loro libera facoltà di commerciare fino ad una data somma, investendola in imprese marittime, li ascrivevano alla cittadinanza genovese, giuravano la compagna ed avevano facoltà di giudicare e placitare le liti che insorgessero fra i concittadini per tutta la Lombardia fino a Roma.

Nel il 28 il comune s'impadroniva di Montaldo, che poi nel 1150 insieme alla terra Parodi gli si vendevano dal marchese Guglielmo di Monferrato.

In Sardegna molti privilegi e possessi andavano pure consolidando i genovesi; enel 1142 mandavano per la prima volta ambasciatori a Costantinopoli Oberto della Torre e Guglielmo Barca ottenendo, mediante un trattato stipulato nel 115 5, privilegi molti, una contrada di quella città e aiuti diversi da quell'imperatore Emanuele Comneno; gettando così i semi di quella grandezza commerciale in Levante che doveva fiorire nel secolo venturo.

XV.

La moneta Genovese.

Con diploma del dicembre 1138 Genova ebbe da Corrado II, re di Germania e dei Romani, il privilegio di battere moneta; e la prima moneta coniata fu il denaro, di biglione, che mostra nel diritto il ca


stello della città, a tre torri, colla leggenda lamia, e nel rovescio la croce, colla scritta Cunradi rex. Contemporaneamente si batterono la medaglia (mezzo denaro), e il quartato (quarto di denaro), altrimenti detto

grifone dall' animale simbolico che vi era impresso come lo era pure nell' antico sigillo del Comune.

Il danaro genovino valeva otto centesimi dei nostri; e 240 denari formavano la lira che pesava gr. 87.840 e valeva delle nostre lire 19,50. Ma pare che questo peso e valore fosse già diminuito, secondo l'eruditissimo comm. Desimoni, verso il 1172, di circa 4 gr. e di una delle nostre lire; diminuzione che si fa più manifesta nel 1244, poichè il peso scende a 64 gr. e il valore corrispondente a lire 14. Così gradatamente


poi di secolo in secolo la lira di Genova ebbe a subire, come le monete di tutte le zecche, notevole diminuzione fino a non valere più che 82 centesimi sulla fine del XVIII secolo.

Il genovino d'oro o fiorino genovino, pare si cominciasse a coniare verso il 1200 e valesse lire italiane 12; sebbene i continuatori di Caffaro dicano che tale moneta si coniasse nel 1252, poichè la moneta creata in quest' anno, secondo dice il Desimoni, fu il prodotto di una crisi e segna quindi un regresso nella storia numismatica di Genova.

La leggenda lanuti fu modificata nel 1276 in questa: lanua quam Deus protegat.

Le monete che innanzi alla coniazione delle proprie usavano i genovesi erano dette bruni e bruneti, ed erano battute dalla zecca di Pavia.

Altre monete che si andarono successivamente coniando dalla Repubblica genovese sono:

D'argento: il grosso che valeva dai 60 ai 70 centesimi; il grossone o testone che valeva più di 2 lire italiane; la lira, Io scudo, il ducatone, il pe^o di San Giorgio;

D'oro: oltre il fiorino, il ducato largo, lo scudo del sole, lo scudo d'Italia, la doppia, lo pecchino e in ultimo il marengo corrispondente a 20 lire italiane.

Nelle colonie genovesi di Crimea si usavano dopo

il 1287 gli aspri e i sommi. Gli aspri coniati nel XV secolo portavano il solito castello con in giro Caffa e due iniziali che erano forse il nome e il cognome del .Console, dal rovescio era lo stemma dell'imperatore tartaro con intorno il nome dello stesso imperatore in lettere arabe. Il sommo non era moneta effettiva, ma consisteva in verghe d'argento di un dato titolo e d' un peso determinato.


Intorno all'antica moneta genovese si hanno finora incomplete e non esatte notizie; e solo fra breve, per opera della benemerita Società Ligure di Storia Patria, ci sarà dato avere un' abbastanza completa monografia sull' argomento.

XVI.

Genova e il Barbarossa.

Nel 1154, quando Federico I di Svevia detto Barbarossa, scese in Italia la prima volta e tenne dieta in Roncaglia, mandarono i Genovesi loro ambasciatori con ricchi regali per l'imperatore, il quale graditili, disse loro che Genova voleva sopra ogni altra città onorare, e segretamente li richiese se sarebbero pronti ad aiutarlo contro Guglielmo re di Sicilia, impadronendosi dell' isola.

Riferirono gli ambasciatori ai consoli ed al popolo quanto aveva fatto e detto l'imperatore non solo a riguardo di Genova, ma altresì delle città lombarde che a lui non volevano sottostare, e udendo come minacciasse la distruzione di Milano, deliberarono armarsi a guarentigia della propria indipendenza.

Quando poi nell' anno seguente Genova apprese la rovina di Milano, di Asti, di Cairo, di Tortona e di altri paesi per opera del feroce Federico, si accinse più seriamente alla difesa. Si pacificò coi nemici che aveva attorno, si fortificò al di dentro e si assicurò al di fuori. Si liberò dei debiti che aveva, e provvide alla costruzione di nuove mura e porte.

Federico distrutta Tortona chiese il tributo ad ogni terra italiana, Genova compresa; ma questa protestò che adempiva al debito suo. L'imperatore ne convenne e usò cortesie molte agli ambasciatori genovesi andati a lui per sua richiesta; tuttavia Genova, non piegandosi alle lusinghe, proseguì gli armamenti. Attorno alle mura della città lavoravano uomini e donne, vecchi e fanciulli, di e notte. Lo stesso arcivescovo Siro II metteva in pegno gli arredi sacri d'oro e d'argento per contribuire col denaro all' opera di difesa. In circa due mesi d'immane lavoro, Genova era cintata e solidamente fortificata da tener fronte, come dice Caffaro, a tutto l'impero.

Intanto i consoli non dimenticavano le grandi operazioni commerciali.

Poichè i privilegi di Terra Santa erano disconosciuti dal re di Gerusalemme, dal conte di Tripoli e dal principe di Antiochia, mandavano a lagnarsene col Papa il canonico Manfredi, uomo dotto e di molta autorità. Il Papa accolse benignamente l'inviato di Genova, ne ascoltò i reclami e mandò ordine a quei principi cristiani e ai primati orientali rispettassero i privilegi acquistati con tanto sangue dai Genovesi in Oriente e li reintegrassero nei loro diritti e domini.

Lo stesso Papa scrisse ai vescovi di Provenza acciocchè impedissero ai provenzali di violentare il commercio di Genova, e in ultimo al canonico Manfredi, accomiatandolo, donava un anello dicendo: Sia questo pegno di dilezione e grazia tra la santa sede e la tua repubblica.

Nel 1156 Ansaldo Doria e Guglielmo Vento recavansi in Sicilia, malgrado le lusinghe e le minaccie dell'imperatore Federico, a stringere alleanza con quel re, ottenendo franchigie pel commercio genovese e altri privilegi molto vantaggiosi per Genova.

Quando poi il Barbarossa pretese, in base alla sentenza dei giuristi di Bologna, che tutte le terre d'Italia gli fossero soggette, Genova arditamente negava riconoscerne la sovranità e pagargli tributo.

Federico sarebbe di gran cuore corso sulla città superba; ma la notizia degli apprestamenti di guerra da essa fatti, lo indusse a più mite consiglio, e venne ad onorevoli accordi per cui la repubblica, pur giurando fedeltà all' imperatore quale capo dell' antico imperio romano di cui la Liguria faceva parte , non era obbligata a fornirgli nè uomini nè danaro.

Poco dopo due messi imperiali sollevavano contro Genova i ventimigliesi; faceva Genova sue rimostranze all'imperatore; questi tentennava a rispondere, ed essa, senza più attendere, con numeroso esercito trasse contro Ventimiglia e la domò.

xvir.

Guerra col re di Valenza.

I consoli nel 1160 mandavano ambasciatori Oberto Spinola a Lopez re moro di Valenza in Ispagna ed Enrico Guercio ad Emanuele Comneno imperatore di Costantinopoli, ottenendo da quest' ultimo i fondachi e gli scali solennemente promessi nel 115 5 , e nuovi e maggiori privilegi e concessioni; ma non però la quiete e la libertà di commercio dal re di Valenza.

Violava anzi quest' ultimo le promesse fatte, e le sue navi scorrevano i mari predando. I consoli armarono cinque galere e sotto il comando dello stesso Oberto Spinola, le mandarono contro quel saraceno.

Giunta la flotta genovese in prossimità di Valenza, disarmò alcune navi del re Lopez che, impaurito, mandò subito un legato ad Oberto per venire ad accordi.

Lo Spinola, col consiglio dei consoli e governatori delle galere, rispose: versasse tosto diecimila marabottini, il commercio genovese fosse libero nel di lui regno; a queste condizioni avrebbe pace per dieci anni.

Accettò tali patti il re moro, fu firmata la convenzione e la guerra non appena cominciata fu tronca. ..

Nello scesso tempo, il legato genovese Ottobono degli Alberici concludeva un trattato commerciale per quindici anni col re di Marocco molto utile per gl' interessi della repubblica.

XVIII. Nuove guerre con Pisa. Federico Barbarossa distrutta la città di Milano nel 1161 si recò a Pavia, da dove invitò i genovesi a mandargli ambasciatori. Aderivano, e vi si recavano i consoli Guglielmo Burone e Grimaldo nonchè molti altri cospicui cittadini. Giunti in corte dall' imperatore, i gran signori furono loro attorno per indurli a consentire a' desideri imperiali nell'interesse della repubblica; ma quegli animosi rispondevano: Genova non temere alcuno, non essere soggetta all'impero, che servizio avrebbe reso a seconda del salario.

L'imperatore all' ardita risposta parve rassegnarsi, consentì a trattare cogl'inviati genovesi per l'impresa di Sicilia sempre da lui vagheggiata; e la convenzione fu fatta di perfetto accordo e reciproco vantaggio.

Ma è d'uopo osservare che mentre nel giugno 1162 firmava un tale trattato, altro simigliarne e in odio alla repubblica di Genova ne aveva concluso due giorni prima con Pisa.

Questa che in pace si stava fin dal 1133, scoperto il giuoco dell' imperatore, l' odio che covava in seno contro la rivale si manifestò terribile. Un giorno del citato anno 1162 mille pisani si avventarono improvvisi sui genovesi che abitavano Costantinopoli, che in numero di trecento si difesero strenuamente; ma vinti dalla preponderanza numerica dovettero le lor case, i loro fondi e negozi abbandonare ai pisani per salvare la vita.

Un urlo di sdegno e di vendetta corse per Genova all'arrivo dei concittadini tanto malconci dai Pisani, e subito i consoli mandano intimazione di guerra a Pisa. Armata intanto una flotta di dodici galere la spediscono in Portopisano, al cospetto dei Pisani ne distruggono le torri,-predano le lor navi. Altre navi veleggiando per Corsica e Sardegna assaliscono quelle pisane che vanno loro incontro e se ne rendono padroni.

Battaglia terribile stava per accadere tra Pisani e Genovesi, quando l' Arcicancelliere dell' imperatore Federico intervenne a pattuire una tregua che fu giurata dagl' inviati d' ambo le città.

XIX.

Barisone d'Arborea.

Regnava nell'isola di Sardegna un Pietro in Cagliari, un Barisone in Torres ed altro dello stesso nome in Arborea. I due primi collegati mossero guerra al terzo, gli tolsero lo stato, e l'Arborese anzichè tentare coll' armi di riconquistare il perduto, si volse a Genova per aiuto onde cingere la corona di Sardegna obbligandosi, riuscendo, a riconoscere la supremazia della repubblica.

Aderirono alla proposta i consoli e mandarono all' imperatore per ottenere a Barisone d' Arborea la regia corona.

Il Barbarossa, sedotto dalla promessa di molto denaro, dinnanzi a Genovesi e Pisani, concesse la corona al Barisone, e ordinò gli venisse innanzi il nuovo re a cingerla.

I Genovesi allestite le navi furono ad Oristagno a prendere Barisone, lo condussero con pompa in Genova il 29 giugno 1164 e di qui a Pavia per la incoronazione ch'ebbe luogo il i.° Agosto.

I Pisani facevano opposizione all'incoronazione; i Genovesi sostenevano arditamente l'operato dell'imperatore; lo confermava questi.

Intanto Barisone non avea i denari promessi quale prezzo del favore e che l'imperatore reclamava. I Genovesi lo aiutarono anche in questo, anticipando la somma, e a prestito gli diedero poi altre somme per far fronte alle spese della flotta colla quale conquistare il regno. Firmò un trattato per cui si obbligava alla restituzione di tutto il denaro avuto a mutuo e a pagare una somma annua alla repubblica oltre a concederle molti privilegi; ma quando fu in vicinanza d' Arborea, i Genovesi avvedendosi ch' egli tradiva la fede data e che se fosse sbarcato, si sarebbe unito ai Pisani contro di loro, volte le prore tornarono a Genova ove la sua persona tennero in pegno i creditori.

Rimase quattr' anni in Genova il Barisone, finchè fatta pace col signore di Torres, ricuperati gli stati vi ritornò nel 1171, e gli arboresi pietosamente si assunsero di pagare i debiti dal loro re contratti colla repubblica.

XX.

Proseguimento delle guerre con Pisa.

Abbagliato dall' oro pisano come prima lo era stato dall'oro genovese, Federico Barbarossa concedeva poco appresso a Pisa quanto a Barisone e ai Genovesi aveva conceduto per la Sardegna; onde rotta la tregua si rinnovarono le guerre tra Genovesi e Pisani.

Le galere degli uni inseguono quelle degli altri, predano i territori, s' incendiano reciprocamente le navi. Da Provenza in Sardegna la guerra ardeva fierissima, il più delle volte con vantaggio di Genova che le fortificazioni dei Pisani distruggeva fin sui confini del loro dominio.

Intervenivano lamenti d'una parte e dall'altra all'imperatore, che ora gli uni ora gli altri carezzava e favoriva; ma la guerra, rallentata un istante, più rinfocava.

Pisa esaurita di forze chiedeva pace, accordata subito da Genova; ma durò breve tempo, chè la lotta si riaccese tosto, allargandosi.

F. DoNAVBR. S

I Lucchesi, alleati da molto tempo coi Genovesi, levarono le armi contro i Pisani; poco appresso i Fiorentini contro Genova in aiuto di Pisa.

Interveniva nuovamente l' imperatore a mezzo dell' Arcivescovo di Magonza per rappacificare in apparenza le due repubbliche; ma in realtà per smungere loro denaro.

Breve pace era subito seguita da fierissima guerra, e le cose andarono innanzi in questa guisa fino al 1175, nel quale anno mille fra pisani, genovesi, fiorentini e lucchesi conclusero un trattato di pace in Pavia.

Pareva che allora la repubblica potesse tranquilla riposarsi, tanto più che nel frattempo aveva domate le interne discordie di cui dirò appresso; ma nel 1187 i Pisani rotti i trattati predavano a Cagliari i mercanti genovesi

Genova armata una poderosa flotta voleva correre a trarre dell'offesa sanguinosa vendetta; la pregava desistesse il re Enrico figlio del Barbarossa: acconsentiva; solo dieci galere partivano rovinando in Sardegna il castello di Bonifacio eretto dai Pisani.

Intanto la cristianità era minacciata di grave pericolo dalla potenza dei Saraceni. Il Barbarossa rotto a Legnano e fatta pace coll'Italia era eccitato insieme agli altri re e a tutti i popoli a crociarsi contro il barbaro nemico.

Tutti, ascoltando la voce del papa, si pacificavano; anche Genova e Pisa, per intermezzo di due inviati di Clemente III, concordavano la pace, che giuravano solennemente mille genovesi eletti da Pisa, e mille pisani eletti da Genova.

XXI. Le nuove Crociate. Saladino soldano d'Egitto, valoroso e accorto, profittando delle discordie che regnavano tra i popoli d'Europa e i principi cristiani in Oriente, aveva ricuperato gran parte del dominio dai Saraceni perduto, compreso Gerusalemme e altri importanti luoghi di Terrasanta.

La cristianità commossa di tanto avvenimento, eccitata dai pontefici Gregorio VIII prima e Clemente III poi, si levò numerosa in arme per riscattare quelle terre, sacre pel soggiorno di Cristo, e punire l'audacia di Saladino.

Federico Barbarossa risolse allora recarsi in levante. Vi si recavano pure Filippo re di Francia e Riccardo d'Inghilterra, imbarcandosi sulle galere della repubblica di Genova. Il Barbarossa con esercito di novanta mila soldati passava per l' Ungheria e la Bulgaria, arrivava a Gallipoli e, dopo mille traversie ed ostacoli superati con lotta, giungeva in Asia, quando la penuria di viveri e il lungo e tormentato viaggio gli avevano indebolito l'esercito. In Armenia bagnandosi moriva il io giugno 1190 senza aver ricavato dalla spedizione alcun profitto per la cristianità.

Anche gli altri principi che seguirono la crociata ebbero sorte poco favorevole, trionfando su tutti l' accorgimento e il valore di Saladino.

I Genovesi però, non dimentichi mai dei propri interessi commerciali, fin dal 1177 mandavano ambasciatori allo stesso soldano d'Egitto che li riceveva benevolo e accordava loro benefizi e privilegi; altri benefizi ottenevano nel 1186 dall'imperatore greco; nel 1188 col re di Majorca pattuivano la pace per venti anni. Concorrevano all' assedio della città d' Acri concedendo a noleggio le navi pel trasporto dei crociati, e inviando soldati e macchine proprie. Ovunque l'opulènza genovese cresceva, acquistava sempre maggiore autorità la repubblica e andava vieppiù elevandosi a grandezza formidabile, a ricchezza straordinaria.

XXII.

Le prime discordie civili e l'elezione del Podestà. I signori delle riviere che, per amore o per forza, avevano dovuto riconoscere la supremazia della repubblica e pigliare la cittadinanza genovese, entrati in città, mescolandosi alla nobiltà antica ivi esistente, cominciarono ben presto a volerla sopraffare, mentre quella vigorosamente ad essi si opponeva. La cresciuta prosperità dello stato e l'ingrandimento cui andava incontro, aumentavano l'ambizione nelle nobili famiglie aspiranti al consolato; e da qui ebbero principio le più funeste discordie civili.

Le famiglie più potenti si divisero nei due partiti guelfo e ghibellino, i quali seguendo le parti quello del papa e questo dell'imperatore furono causa di tanta rovina all' Italia. I consoli più volte rappattumarono gli animi, fecero giurare la pace e la concordia alle famiglie in lotta quando la repubblica correva grave pericolo; ma passato questo , la discordia rinasceva fierissima.

Per la venuta in Genova di Barisone d'Arborea vennero alle mani Fulcone di Castello e Orlando Avvocato, cospicui cittadini, guelfo il primo, ghibellino il secondo. Una battaglia sanguinosa s'impegnò per la strada fra i seguaci e gli amici dell' uno e quelli dell'altro, e molti furono i morti e feriti d'ambo le parti.

Trascorsi due mesi alcuni sicari uccidevano il console Melchiorre Della Volta; e da qui rinascevano lotte tremende. L'Arcivescovo Ugo convocò il popolo a parlamento: esortava tutti alla pace, alla concordia, e nominava di proprio arbitrio i consoli, per evitare che procedendo il popolo alla elezione in quel momento accadessero tumulti. I nuovi consoli ordinavano che ogni cittadino inerme e sicuro si recasse nel Duomo a giurare una tregua; quindi s'impadronivano delle case dei Della Volta e Castello, come quelli che erano provocatori dei disordini.

Ma non molto dopo, rotta la tregua, le morti e gli assassinii ricominciarono con grave danno ad infestare la città.

Da ben sei anni seguivano le lotte fra i Castello e gli Avvocato, quando nel 1169 deliberarono i consoli di venire alla pace, rimettendo la soluzione delle questioni ad un duello.

L' arcivescovo Ugone informato del giudizio, convocava a parlamento la cittadinanza, la chiesa faceva coprire di funebri stoffe, e quando il popolo fu presente, rammentate le sventure in cui versava la patria per cagione delle lotte fratricide, invocava, in nome di Dio, che pace fosse fatta. I consoli lo cooperarono.

Chiamò in prima Orlando Avvocato che giurasse la pace. Si prosternò egli nella polvere e dichiarò non poterlo. Lo pregavano l'arcivescovo, il clero, i consoli, e il popolo tutto. Le preghiere e le lagrime comossero quel cuore di macigno e giurò. Consentirono pure a giurare Fulcone di Castello e il suocero Ugone Della Volta; al giuramento loro seguì quello dei partigiani; e allora l'arcivescovo e il popolo intonarono l'inno di grazia, le campane suonarono a festa, la repubblica esultò.

Otto anni durò la pace; ma nel 1178 per la venuta in Genova dell' imperatore Barbarossa, la famiglia Mazanelli venne alle mani con quella dei Navarri.

L'anno seguente combattevano in Sturla Amico d'Amico Grillo con Pietro e Simone Vento; altrettanto

accadeva fra i Porcello e gli Scotti. Sedavano i tumulti i consoli, ma per breve tempo; chè tre anni appresso i Vento uniti a Fulcone di Castello attaccarono i ghibellini in val di Bisagno e arse battaglia fra di loro.

Alla notizia di tali discordie insorgevano alcune terre di Liguria contro il governo genovese; e allora si componeva una tregua per domare i ribelli. Domati costoro la guerra civile si riaccendeva.

Il 16 febbraio 1187 il console Angelerio de' Mari era assalito ed ucciso da partigiani di Lanfranco della Turca. Il fatto crudele sollevò il popolo, e i consoli con armati assalirono i Della Turca, ne atterrarono le case e i delinquenti cacciarono in esilio.

Il 2 maggio 1189 la guerra si riaccendeva sul mercato di S. Giorgio tra i Vento e i Della Volta, e proseguiva nel giugno ferocemente.

In quella il cardinale legato di Clemente III venuto in Genova componeva gli animi in pace ed eccitava i nobili a crociarsi. Aderivano i guelfi all'invito; rimanevano quindi padroni del governo i ghibellini. E costoro tolta in prima la sede del consolato dal palazzo Arcivescovile, decretavano senza parlamento, improvvisamente, che i consoli del Comune scadenti in quell'anno 1190 non fossero nè rieletti nè surrogati, e in loro posto si eleggesse il Podestà, alla quale dignità (d'istituzione imperiale e che già buona prova aveva fatto nelle città lombarde) prima chiamarono il bresciano Manegoldo del Tettuccio che cominciò gli atti del suo ministerio soffocando nel sangue le risorte intestine discordie.

I consoli dei placiti rimasero in carica, quasi simulacro del primitivo regime.

LIBRO SECONDO

DAL I191 AL 1339


Enrico VI, succeduto nel trono a Federico Barbarossa, agognando la conquista del regno di Napoli e Sicilia cui pretendeva aver diritto per ragione della moglie Costanza figlia di Guglielmo II, mentre la corona di quel regno era stata cinta dal principe Tancredi, e abbisognando egli d'una lotta invitò nel 1191 i Genovesi ad aiutarlo nell'impresa. E per adescarli meglio lodava molto la repubblica, dichiarando prediligerla sovra ogni altro stato d'Italia; accordava privilegi nuovi e gli antichi confermava; le permetteva di edificare un castello sopra Monaco; le infeudava la terra di Gavi tolta allora ai marchesi sollevatisi; prometteva che dell'impresa Genova avrebbe tutto il

beneficio, egli serbarsi la gloria, e in particolare le donava la città di Siracusa colla valle di Noto.

I Genovesi lusingati da tante promesse aderivano; mettevano in mare una flotta numerosa sotto il comando di Rolando di Carinandino e Bellobruno di Castello che navigava verso Castellamare. Veleggiarono quindi per Ischia indi a Ponza e Palmarola, fin che incontrarono la flotta nemica quasi tripla di forze. I Genovesi non si sgomentano e si accingono a battaglia; ma il nemico volge loro le spalle e si ricovera ad Ischia.

L'armata genovese riparò quindi a Genova in attesa di Enrico che si annunziava prossimo dalla Germania.

Ed Enrico venne poco dopo che i Genovesi tornati di Palestina avevano deposto il podestà, rimesso i consoli, riprese le lotte fratricide e nuovamente eletto un podestà nella persona di Oberto di Olevano pavese. Adescò meglio che mai i genovesi all'impresa, i quali nel 1194 apprestarono formidabili armamenti di terra e di mare e li misero a disposizione dell'imperatore.

La spedizione andò assai bene. Gaeta si arrese subito, e così Napoli; Salerno oppose resistenza ma pur dovette cedere; Messina fece lo stesso.

Quivi Genovesi e Pisani si scontrarono, favorendo questi ultimi il re Tancredi contro cui moveva Enrico. La guerra fu terribile; molte navi d'ambe le parti vennero calate a fondo; gli uni saccheggiarono gli altri. Il siniscalco imperiale Marcoaldo impose una tregua; l'osservarono strettamente i Genovesi, non così i Pisani occultamente protetti dall' imperatore.

Il podestà Olevano che in persona comandava la flotta di tanta ingiustizia soffrendo moriva di crepacuore. Gli, si ordinarono solenni funerali in Messina, e i Pisani tramarono fare strage dei Genovesi in occasione del funebre accompagnamento. Marcoaldo saputa la cosa ordinò non fosse più oltre seguito il cadavere e 'tutti tornassero alle proprie case; così fu sventata la trama.

Intanto i Genovesi seguivano l'impresa. Catania fu per opera lco liberata dai Saraceni; Siracusa tolta ai Pisani che l'avevano occupata; tutta la Sicilia era in mano dell'imperatore, solo Palermo continuava a resistere.

Ottone del Carretto che fungeva da podestà ricordava ad Enrico le promesse fatte, ed egli le ripeteva, eccitandolo a conquistare Palermo; e Palermo fu presa. Allora la gratitudine imperiale si fece manifesta. Non solo non attenne le promesse fatte, ma abolì i privilegi e favori accordati in passato ai Genovesi dai re di Sicilia. E più ancora minacciò la distruzione di Genova se un genovese fosse eletto console nel regno; quindi non pago di tanta slealtà eccitò i Pisani a tenere viva la guerra contro la nostra repubblica.

II.

Altre guerre con Pisa.

Pisani avevano riedificato un castello alle bocche di Bonifacio, donde davano la caccia a quante navi genovesi passavano procedendo pel Levante.

Genova irritata ne chiedeva ragione a Pisa che* ingenuamente rispondeva non essere suoi gli abitanti di Bonifacio. Arsero d'ira a tale risposta tre giovani, Ingo Longo, Enrico di Carniandino ed Otto Polpo i quali armata una piccola flotta a proprie spese nel 1195 corsero su Bonifacio e ne cacciarono i Pisani.

Allora tra Genova e Pisa divampò la guerra. Tentarono i Pisani ripigliare Bonifacio, la difendevano strenuamente i Genovesi. Molte navi pisane furono prese in Sardegna e Corsica e condotte trionfalmente nel porto di Genova.

A comporre la pace veniva in Genova il cardinale Gandolfo a nome del papa Celestino, ma senza riuscirvi. I Pisani organizzarono una grossa spedizione contro Bonifacio; i Genovesi sotto il comando del podestà Drudo Marcellino movevano loro incontro. Navigavano su Corsica; non trovando i Pisani e saputo che si stavano in Cagliari a quella volta veleggiarono. Il marchese Guglielmo di Massa che s' era impadronito del giudicato di Cagliari, prestò assistenza ed appoggio ai Pisani; per la qualcosa i Genovesi si rivolsero contro di lui, lo ruppero e gli tolsero la terra di S. Igia che distrussero, poscia tornarono in Corsica, mentre i Pisani nuove forze mandavano contro Bonifacio. Certo allora questa terra avrebbero conquistata se non fosse giunto in suo soccorso Anselmo Guaraco con diciasette galere che pose in fuga i Pisani, i quali poco appresso ritornarono all'impresa con diciannove galee e molte altre navi; ma incontratisi anche questa volta in alto mare colla flotta genovese ebbero la peggio. In questa guisa procedeva la guerra lungamente con danno reciproco delle due repubbliche, che andavano esaurendo le proprie forze in lotte punto fruttuose.

III.

Il dominio genovese in Liguria.

Le diverse comunità della Liguria e i feudatari che avevano accettato la superiorità di Genova, profittando delle lotte intestine che sempre, ora latenti ora aperte, regnavano nella città, e delle guerre in cui trovavasi impegnata la repubblica, si ribellavano e mancavano ai patti.

Così in questi tempi e cioè sul finire del secolo XII i marchesi di Gavi e gli uomini di Parodi s' erano dati a molestare i negozianti genovesi; gli uomini di Beccaria e di Vezzano aiutavano i Pisani a conquistare Portovenere; i Tortonesi levavano le armi contro la repubblica, e Ventimiglia non meno ribelle si opponeva alle convenzioni genovesi.

Ma la repubblica in breve domava i ribelli e imponeva loro maggiori servitù; solo Ventimiglia, che si governava indipendente, resisteva. Però quando i ventimigliesi videro tutte le forze di Genova ai lor danni, mandarono messi in Genova implorando perdono e pace.

Tale atto di sottomissione fecero pure altre terre della riviera di Ponente, e quei di Noli, di Savona e i marchesi di Gavi implorarono convenzioni amichevoli e di protettorato dalla repubblica; la quale promise a tutti aiuto e protezione, impose che ad essa si rimettessero nelle loro vertenze, che usassero pesi e misure genovesi. Si obbligavano i sottomessi tutti a fornire Genova di soldati per la guardia di Bonifacio e per le guerre cui andasse incontro.

Ma le convenzioni non furono da tutti osservate. Albenga, Savona, Portomaurizio e altre principali città si rifiutavano di fornire soldati a Genova e di pagarle le annualità imposte. Anche i conti di Ventimiglia ripresero le armi contro i patti; ma il podestà di Genova costringeva tutti alla sommissione. Quei di Ventimiglia anzi nel 1200 vendettero alla repubblica mezza città e porzione delle loro castella e da essa n' ebbero in cambio V investitura a titolo di feudo e promessa di difesa contro i soggetti.

IV.

I genovesi in Levante.

Ma nè le ribellioni dei paesi soggetti, nè le discordie cittadine, nè le guerre coi Pisani, impedivano a Genova di attendere allo sviluppo del proprio commercio. Una esuberanza di forze faceva allora tanto ricca la repubblica da poter provvedere a tutto senza discapito , almeno momentaneo ed apparente, e di quella esuberanza di forze usava ed abusava.

Or qui parmi conveniente riassumere alquante notizie intorno alle prime colonie genovesi in Levante.

Gli Amalfitani e i Veneziani furono i primi popoli dell'Italia medioevale che si spinsero nelle navigazioni marine in Levante, conquistandovi una elevata posizione commerciale sin dall'esordio del IX secolo; ma non tardarono lunga pezza a seguirli in quella via i Pisani e i Genovesi.

Le crociate furono singolarmente l'incentivo che provocò l'impianto di colonie pisane e genovesi in Levante; ma non si dee però credere che questi popoli aspettassero le crociate per estendere le loro relazioni mercantili fino all' Egitto e alla Palestina. I mercanti visitavano la celebre fiera che ogni anno si apriva sul Calvario per lo scambio delle merci orientali con quelle d'Europa; e Ingolfo narra nel suo Itinerario che nella primavera del 1064 molti pellegrini tedeschi,

F. DONAVER.

s'imbarcarono a Giaffa sopra navi provenienti da Genova che colà esercitavano il traffico. Come pure il Caffaro negli Annali racconta che verso l'anno 1094 Goffredo di Buglione, il conte di Fiandra e altri gentiluomini presero imbarco nel porto di Genova sulla nave Pomella, che li condusse in Alessandria d'Egitto, dove li accolse novellamente al loro ritorno dalla gita in Terra Santa.

Tuttavia fu solo in conseguenza delle crociate che gl' Italiani poterono stabilire sedi di commercio in Oriente. Così, come già dissi, i Genovesi ebbero allora quartieri propri in Gerusalemme e in Giaffa, in Arsuf, in Cesarea, in Berito o Beyrouth, in Laodicea e in Acri, dove godettero pure i proventi di una terza parte dei diritti che si riscuotevano alla catena di quel porto. Ebbero un terziere di Tripoli e tutta la città di Gibelletto che gli Embriaci tolsero in feudo dai conti di Saint Gilles e tennero dal 1109 al 1291.

Gli imperatori greci però, che dapprima avevano contribuito alle crociate, si mostrarono dappoi avversi allo stabilimento dei crociati in Levante, chè quante volte lo poterono ne attraversarono i disegni, e i genovesi ad esempio nel tornare dalla presa di Arsur dovettero pugnare con una flotta greca presso Itaca nel noi; ma in seguito, meglio consigliati dai propri interessi, favorirono con privilegi e benefizi i Pisani, i Veneti e i Genovesi. Questi furono ultimi a godere i favori del monarca greco, e quando ne godettero non fu per benevolenza, ma perchè cosi giovava alla politica bisantina che mirava a tenere in freno la crescente potenza di Venezia.

Già fu menzionato il trattato del 1155 con Emanuele Comneno ei successivi accordi del 1160; aggiungerò qui, che a ristorare i Genovesi delle perdite sofferte a cagione dei Pisani nel 1162, l'imperatore greco diede loro in Costantinopoli il quartiere di Santa Croce, scalo e fondachi nel luogo di Coparia, dove pure, poco appresso, ebbero a subire danni dai Veneziani.

Ma l'impero greco era allora in pessime mani, quelle dei Comneni che ogni vituperio e scelleratezza concepivano ed eseguivano colla massima indifferenza. L'imperatore Emanuele lasciava il trono ad un fanciullo di nove anni; lo zio Andronico toglieva la vita al fanciullo, usurpando l'impero con grandi atrocità. Isacco Angelo gli succedeva, e con lui la repubblica di Genova nel 1 186 ratificava un trattato commerciale concordato dai suoi legati Nicola Mallone e Lanfranco Pevere. Il fratello Alessio usurpava il trono dell'Angelo che acciecato fu chiuso in fondo ad una torre,

Costantinopoli, quasi ingresso d'Europa in Asia, era però sempre agognata dai Genovesi che già avevano ricevuto concessioni e privilegi, ora posti in non cale dagli imperatori ed ora contrastati dai Pisani e dai Veneti pure agognanti alla supremazia commerciale colà; quindi mandavano ad Alessio, Ottobuono Croce a chiedere l'adempimento delle convenzioni antiche e la conclusione di nuove.

In quel tempo due cittadini genovesi, CaSorio e Guglielmo Grasso predavano le coste e le navi greche recando il terrore nel mare Egeo e fino nella capitale. Contro Caftbrio moveva un' armata sotto il comando di Giovanni Stirione calabrese che lo vinse e fece prigioniero.

L'ardimento dimostrato dai pirati genovesi a migliori pensieri, pare consigliassero allora all'imperatore Alessio di fare buona accoglienza al Croce, poichè con diploma del 13 ottobre 1203 soddisfaceva a tutte le domande dei Genovesi e non solo concedeva loro quanti possessi avevano per addietro in Costantinopoli, ma altri nuovi ne aggiungeva.

La repubblica otteneva altresì nel 1201 privilegi assai importanti da Leone II re d'Armenia, principalissimo la libertà di commercio in quelle regioni, quartieri e fondachi in diverse città; i quali privilegi le venivano confermati colla concessione di nuovi nel 1215, per mezzo di Ugone Ferrari nostro ambasciatore a quel re.

V.

Principii della guerra con Tenezia.

Bandita dal papa Innocenzo III, partiva nel 1202 da Venezia una crociata, coll'intendimento di liberare la Terra Santa ricaduta nelle mani degl'infedeli, sotto il comando supremo del Doge veneziano Enrico Dandolo;

ma dietro preghiera del figlio di Isacco Angelo si volgeva a Costantinopoli per punire il ribelle Alessio; e in otto giorni l'impero greco cadeva nelle mani dei crociati, mercè il valore dei Veneziani che, fatto eleggere imperatore Baldovino di Fiandra, ebbero in guiderdone la quarta parte dell' impero.

Tra le molte terre e città toccate ai Veneziani in premio della cooperazicne data all' impresa fu l'isola di Candia, la quale nel 1208 fu occupata da Enrico Pescatore, conte di Malta, genovese d'origine e d'affetti, che si volse ai propri concittadini per aiuti. Essi gli mandarono subito navi, soldati e denari, coi quali aiuti il conte Enrico tenne validamente la preda.

I Veneziani armata una grossa flotta sotto il comando di Ranieri Dandolo la spedivano a riprendere l'isola; ma le sorti della guerra furono loro avverse. Il Dandolo stesso cadde prigione del conte Enrico, nelle cui mani morì; e il nobile conte con solenni onoranze rendeva il cadavere ai Veneziani.

L'anno 1210 il conte Enrico si recò in Genova a chiedere ufficialmente nuovi aiuti contro Venezia. Genova inviava ambasciatori a' Veneziani per pacificarli col conte; ma quelli non vollero ascoltare proposte di pace. Allora i consoli diedero al conte otto galere, una galeazza, tre altre navi, cento cavalli e molte provvigioni di roba e denaro.

La guerra allora fu come dichiarata tra le due repubbliche, poichè Venezia considerò come atto di ostilità gli aiuti dati al conte Enrico, e poiché ebbe tra

mani Leone Vetrano, che comandava il naviglio genovese sulle coste di Candia, lo fece impiccare a Corfù.

Le scaramuccie tra le due città seguitarono fino a che nel 1212 i consoli genovesi pensarono bene accomodare le cose, e per ciò mandarono Lanfranco Rosso e Oberto Spinola con ben armata galera a Venezia, colla quale stabilirono una tregua per tre anni, e altra tregua simile concordarono tra Veneziani e il conte di Malta.

VI.

Nuove guerre e tregue.

Enrico VI, morto nel settembre del 1197, aveva promesso ai Genovesi quale premio della cooperazione data alla conquista di Sicilia, la citta di Siracusa; ma, come dissi, con insigne slealtà, negava dappoi di mantenere i patti, anzi Siracusa donava ai Pisani. Federico II succedutogli nel trono, con diploma del 1200 restituiva ai Genovesi ciò che era di loro diritto; ma i Pisani mal soffrendo l'ingrandimento dei vicini corsero su Siracusa e, cacciatine i principali cittadini, se ne resero padroni.

I Siracusani chiesero soccorso a Genova che nel 1204 mandò una flotta a conquistare la perduta città e avutala la concesse in feudo ad Alamanno della Costa. Però i Pisani ostinati a voler possedere Siracusa, l'anno seguente l'assediarono per tre mesi; ma i Genovesi con grande stuolo di galere, valorosamente aiutati dal conte Pescatore, li misero in fuga, togliendo loro molte navi.

In quest'anno 1205 era eletto, a podestà Fulcone di Castello, unico dei sudditi genovesi che coprì tale carica, il quale non potendo conservarla oltre l'anno, tanto si adoperò che nel 1207 dopo il governo di un Giovanni Struzio, anzichè il podestà furono rieletti i consoli, primo tra i quali suo figlio, ma nel 1211 si ritornò al podestà che governava col consiglio di otto fra i più cospicui cittadini, fra quali Fulco di Castello.

Intanto la guerra coi Pisani durava animosa. I due abbati di Tiglieto e di S. Galgano si posero in mezzo per pacificare le due repubbliche; ma inutilmente, che la loro sentenza seguirono per pochi mesi i Pisani, i quali, alleati coi Provenzali, più fieramente si battevano coi Genovesi. Questi erano pure alle prese con Venezia, Marsiglia e Nizza e diversi marchesi che male sopportavano la menomata, per non dire distrutta, loro autorità sovrana. Ma le sorti della guerra tornarono piuttosto favorevoli a Genova che, addivenendo alla pace, s'ebbe da quasi tutti gli avversari considerevoli benefizi.

Cosi con Marsiglia nel 1208 la nostra repubblica venne ad una tregua convertita in pace per venti anni nel 1211; con Venezia la tregua conclusa nel 1212 si trasformò in pace più o meno duratura nel 1215. Nello stesso anno 1212 finalmente una tregua fu pure concordata, per cinque anni, coi Pisani. Nizza si riduceva ad obbedienza; e i marchesi Malaspina e di Gavi, che avevano levate le armi contro la repubblica, erano domati dal podestà e costretti a sottomettersi. Anche Tortona guerreggiante, domandava di ritornare in grazia dei Genovesi; Capriata si donava alla repubblica; i Malaspina venivano in Genova a rimettersi all'arbitrato del podestà per la definizione d' ogni loro vertenza.

Con l'anno 1216 cessarono definitivamente i consoli del Comune e quelli dei Placiti che erano ancora stati eletti sotto il regime del podestà. D'allora in poi si elessero, salve poche eccezioni, giudici forestieri in numero di cinque.

Detto anno si chiudeva in pace, e ciò in gran parte mercè l'intervento del pontefice che avendo il concilio lateranese tenutosi l'anno innanzi proclamata la necessità di una nuova crociata a liberazione di Terrasanta, desiderava fossero concordi e in pace tutti i cristiani.

VII.

La quinta crociata.

La crociata bandita nel concilio lateranese ebbe scarso, anzi infelice risultato, benchè cominciata con molto ardimento da Andrea II re di Ungheria, il quale si spinse fin sul monte Tabor e poscia ritornò nel suo regno.

Genova mandava dapprima Guglielmo Embriaco e Lanfranco Rosso in Francia per concordare le condizioni dell'imbarco dei crociati francesi; in seguito di che giungevano numerosi soldati e cavalieri in Genova da cui salpavano il mese d' Agosto 1218. Sbarcavano alla foce orientale del Nilo decisi a colpire nel cuore la potenza dei Saraceni, e posero, non senza molte difficoltà, l'assedio a Damiata, forte ed importante città d' Egitto, contro la quale si volsero pure i crociati rimasti in Palestina sotto il comando del re di Gerusalemme e dell'arciduca d'Austria.

Durarono circa un anno nell'assedio, ma senza frutto; chè i crociati erano pochi, divisi e malcontenti, mentre i Saraceni erano numerosi e guidati da un ardito capitano. Le continue sortite che facevano gli assediati decimavano l'esercito cristiano il quale era d'altra parte alle prese coi sultani del Cairo e di Damasco che con numerose truppe lo travagliavano dall'opposta sponda del Nilo.

A Genova, conosciute le tristi vicende di quell'assedio, si allestirono dieci galee sotto il comando di Giovanni Rosso della Volta e di Pietro Doria che unite ad altre quattro dei conti Alemanno della Costa e di Monleone, approdarono nell' Agosto del 1219 d'innanzi a Damiata quando i crociati stavano per abbandonare l'impresa.

Scorsi otto giorni dall'approdo dei Genovesi, il soldano d' Egitto si cacciava coi suoi sugli accampamenti cristiani. La battaglia durò sanguinosa tre giorni; i Saraceni s'impaurirono della eroica difesa e chiesero una tregua. Intanto correva voce del prossimo arrivo dell'imperatore di Germania, e questa notizia impensierì talmente quel sultano che, a patto di avere la pace, promise la restituzione dei prigioni e del legno della vera croce, di rimettere in pristino le mura di Gerusalemme e di restituire tutto il regno gerosolimitano, tranne due forti.

I capi dell'esercito consentivano all'accordo, ma i legati del Papa rispondevano negativamente. Si continuava l'assedio, ferocemente combattendosi da ambe le parti. Finalmente il 5 dicembre 1220 Damiata cadde nelle mani dei cristiani che vi raccolsero immensi tesori.

In Genova arrivata la notizia della strepitosa vil>toria, il popolo la festeggiò con giubilo infinito.

La primavera del seguente anno grande numero di crociati si recava ancora a Damiata; ma la discordia regnava nel campo. Il sultano d'Egitto ne profittava: offriva novellamente una tregua di trent'anni, la rifiutava il legato pontificio. Allora i Saraceni numerosissimi e migliori conoscitori dei luoghi, assalivano l'esercito cristiano furiosamente. Aprivano sbocchi al Nilo allagando d'ogni parte, di guisa che i cristiani si trovarono a lor volta assediati in più terribili circostanze in Damiata. Costretti di scendere a patti, ottennero la libertà colla reciproca restituzione dei prigionieri.

Guerra nella riviera di Ponente e con Alessandria.

Posate alquanto tempo le armi per l'esterno, si sviluppavano nell'interno le discordie e la guerra civile.

Per le turbolenze cittadine, i paesi sottomessi si ribellavano. La riviera di ponente si sollevava, e Ventimiglia per la prima insorgeva, cui seguivano San Remo, Diano, Albenga e Savona. La repubblica raccolte truppe le muoveva a domare i ventimigliesi che opposero lunga e fiera resistenza; e non minore resistenza fecero i Sanremesi: ma Genova trionfò e costrinse i ribelli alla sommissione Quanto agli altri paesi si quetavano alle intimazioni del podestà, il quale pur cercava di comporre le discordie cittadine.

Non si tosto la guerra era cessata nella riviera, che si riaccendeva con Alessandria, che alleata di Tortona, Vercelli e Milano turbava il commercio genovese e tentava impadronirsi di Capriata che, ben munita e guardata, mandò a vuoto il tentativo.

Il podestà Brancaleone di Andalò di Bologna muoveva su Montaldo degli Alessandrini e se ne rendeva padrone. Subito appresso fu ordinato un esercito di mille duecento uomini d'arme; si assoldò mediante istrumento fatto in Asti il 13 giugno 1225 il conte Tommaso di Savoia perchè servisse la repubblica contro quei di Tortona; quindi il podestà ripigliò le mosse contro i nemici. Ma la campagna fu infelice. Il podestà ammalatosi andando al campo, vi morì; l'esercito genovese diviso, mal guidato nulla operò di utile, e gli alleati proseguirono a molestare la repubblica, contro la quale tornarono a sollevarsi Savonesi e Albenganesi sobillati dal marchese Del Carretto ed altri feudatari desiderosi di riconquistare la perduta signoria.

Savona ed Albenga si diedero al conte di Savoia, che , abbandonando la parte dei genovesi, subito le occupò a nome dell'imperatore accettando la dedizione. Noli per contro rifiutò aderire, protestando voler restare fedele alla repubblica. Questa mandò dapprima Idone Lercari e Guglielmo Usodimare per richiamare all'osservanza delle capitolazioni le due città ribelli; ma essendo stati gli ambasciatori oltraggiati, fu ordinata un' armata che per mare e per terra combattesse i popoli sollevati.

Correndo l' anno 1227 si eleggeva a podestà Lazzaro di Gherardino Giandone lucchese, giovane ancora e arditissimo, il quale costrinse con atti amorevoli e severi ad un tempo i cittadini alla pace, e quindi levati soldati di Toscana e Lombardia, convocò il popolo sulla piazza di Sarzano. Distribuì le bandiere alle compagne ed eccitò i cittadini a mostrarsi valorosi.

L'esercito mosse contro Savona. Il castello di Stella fieramente bersagliato si arrendeva; piangenti chiedevano perdono quei di Albissola. Il 19 maggio i Genovesi si scontrarono con Savonesi, Albenganesi e Savoiardi collegati; la battaglia fu lunga e sanguinosa. Alfine i collegati voltate le spalle si diedero alla fuga.

Il podestà stringeva allora Savona, la bersagliava colle macchine, e ne devastava i dintorni. Il 23 maggio i Savonesi si arresero a discrezione.

Il podestà con decreto formulato in consiglio ordinò fosse spianata Savona, distrutto il molo, ingombrato il porto e nel sito più elevato fosse fabbricata una fortezza ad infrenare l'audacia dei popoli soggetti. I Del Carretto si scusavano e giuravano la compagna, sottoscrivendo i patti che piacque ai Genovesi di dettare.

Lasciato un presidio in Savona, il podestà correva su Albenga, che gli mandava incontro messi ad implorare perdono e pace. Si convenne l' accordo; e poscia ritornato il podestà in Genova mandava Giovanni Spinola podestà a Savona ed Enrico di Guglielmo Rosso della Volta ad Albenga, le quali città perdettero cosi il diritto fin allora conservato di eleggersi da loro il supremo magistrato.

Non è a dire quante liete accoglienze facessero i genovesi all'esercito trionfante: luminarie, canti, giuochi pubblici. Genova tripudiava.

Intanto l'imperatore Federico II, bramoso quanto il primo di signoreggiare tutta Italia, si faceva minaccioso ai lombardi e al pontefice. Questi lo scomunicava, e i lombardi rinnovando la lega di Pontida si preparavano a sostenerne gli assalti.

I Milanesi bramavano che Genova pigliasse parte alla lega e quindi fosse in pace coi vicini. Mandavano messi al podestà e tanto dissero che indussero i Genovesi ad un compromesso cogli Alessandrini, Tortonesi e Vercellesi; quale compromesso seguitò in Milano risll'anno 1228, ma non fu di lunga durata la pace, che gli Alessandrini non volendo osservare i patti di quel compromesso tornarono per qualche tempo a guerreggiare coi Genovesi, finchè s' indussero alla pace, con benefizio della nostra repubblica.

IX.

Genova e Federico II.

Federico II imperatore che nel 1200 aveva riconosciuto i privilegi cui i genovesi avevano diritto in Sicilia, nel reame di Napoli, in Palestina, nel 1232 glieli toglieva irritato perchè dessi, in opposizione ad un suo editto col quale proibiva alle città italiane di eleggere cittadini milanesi a podestà, avevano appunto eletto a podestà Pagano di Pietrasanta milanese. Anzi ordinò ai governatori di sequestrare e vendere le cose dei genovesi, arrestare quanti genovesi fossero nei suoi stati di Napoli e Sicilia e oltremare.

Guglielmo Mallone, Ansaldo Bolero e Bonifazio Panzano con buon numero di navi correvano il mare di levante a proteggere i concittadini contro le vendette imperiali e quei governatori costringevano a rimettere in libertà i genovesi arrestati e a restituire loro le robe tolte.

Federico II minacciato dalla lega lombarda, e dalle scomuniche del papa, dovette piegare, pel momento, alla forza di Genova e concesse libertà ai genovesi arrestati, magnificando quasi la repubblica. Appresso scendeva in Italia con poderoso esercito a cui si opponevano i lombardi eroicamente, ma a Cortenuova sull' Oglio dessi furono vinti e costretti a ritirarsi. La notizia di questa vittoria imperiale eccitò gli animi ghibellini in Genova, che, cogliendo l'occasione dell' elezione del podestà, misero la città e tutto

l0 stato a rumore. Eletto podestà Paolo di Soresina milanese, la nomina spiacque ai ghibellini perchè contraria agli ordini di Federico, e la guerra civile insanguinò le vie della città. E non solo, che quei di Savona, d'Albenga, di Portomaurizio e di Ventimiglia cogliendo l'occasione nuovamente si ribellarono.

1l governo della repubblica riusciva pel momento a sedare i popoli ribelli e a ripristinare la pace; ma non a lungo, che fiera guerra si rompeva coll' imperatore Federico.

Questi, non volendo cedere alle istanze del pontefice, venne novellamente scomunicato il dì delle palme del 1239 e gli fu predicata una crociata contro. La santa sede e le repubbliche di Venezia e Genova si collegarono per togliere all' imperatore il regno di Sicilia, e fermarono all' uopo accordi reciproci.

Intanto le popolazioni poc'anzi domate, di nuovo

sorsero in armi, tanto che tutta la riviera di ponente, tranne Noli, mosse guerra alla signoria genovese. Nello stesso tempo Marino di Eboli e Oberto Pallavicino, vicari imperiali, sostenevano colle loro truppe i ribelli. In Genova stessa i partigiani dell' impero provocavano disordini; ma il podestà seguito dalla maggioranza del popolo quei disordini arditamente sedava; come pure, dopo breve guerra, la riviera tornava a sottomettersi.

Federico non cessava dal guerreggiare le città libere di Lombardia e il papa, il quale irato convocava un concilio generale in Laterano per dichiararlo decaduto dal treno e fuori del grembo della chiesa, e ordinava ai prelati si radunassero a Nizza dove una flotta genovese sarebbe andata a prenderli.

Infatti i genovesi, malgrado le istanze in contrario dell' imperatore, si recarono a Nizza dove imbarcarono i prelati conducendoli in Genova.

Quivi erano già pronti altri prelati e ambasciatori di città lombarde, e la flotta genovese stava per partire, quando il governo scoprì lettere imperiali che eccitavano taluni cittadini genovesi a tener viva la parte ghibellina, annunziando che l'imperatore con poderoso esercito sarebbe presto sceso a punire Genova ribelle. I ghibellini vistisi scoperti, affrettarono i preparativi di rivolta; ma il podestà, che vegliava sui loro maneggi, procedeva all' arresto dei faziosi e al popolo congregato ne rimetteva la sentenza. Il popolo unanime urlò: Muoiano i traditori; ma la grave e giustissima pena il popolo stesso volle poi commutata. Alcuni furono puniti col carcere, altri vennero banditi dalla città, ai più ostinati rovinate le case, nessuno fu ucciso.

La flotta intanto che conduceva i prelati comandata da Giacobo Malocello, forte di ventisette galee, procedeva verso Civitavecchia. Pisa con armata più numerosa si opponeva al passaggio dei Genovesi, i quali senza attendere gli aiuti che da Genova stavansi inviando, appiccarono con quella fiera battaglia presso l'isola del Giglio il 13 maggio 1241. Il preponderante numero dei nemici sopraffece la flotta genovese che fu vinta, sgominata. Ventidue galee furono prese dai Pisani e caddero in lor mani prigionieri quasi tutti i prelati e molti cospicui cittadini genovesi.

Tale rotta non intimorì la repubblica, chè accingendosi con nuovo coraggio al lavoro, in brevissimo tempo mise in mare cinquantatre galee, poscia altre settanta.

Severi provvedimenti furono adottati dalla repubblica contro i ghibellini, che in Polcevera e nelle riviere tumultuavano in favore dell' imperatore; provvedimenti pei quali vennero ridotti alla quiete; ma talune terre, come Savona, Alassio, Andora proseguivano a rimanere in mano degl' imperiali e dei pisani, comandati da un fuoruscito genovese Ansaldo de Mari, i quali per terra e per mare in mille guise molestavano i Genovesi.

L5 armata genovese moveva loro incontro a combatterli; li seguiva a Portovenere, a Levanto, quindi a Savona, in Albenga, in Andora, nelle acque di

F. Donavsr- 1

Provenza, ma sempre fuggivano dessi al suo appressarsi.

I genovesi tentarono assediare la flotta del de Mari nel porto di Savona, e vi riuscivano, se il fortuneggiare del mare e la mancanza di materie incendiarie non avessero loro impedita la vittoria, costringendoli a ripararsi da ultimo in Genova.

Sulla fine del 1242 si formava la lega tra il comune di Genova, quei di Milano e Piacenza cui aderivano i marchesi di Monferrato, del Carretto e di Ceva, e l' anno appresso, le città di Vercelli e Novara. Formato grosso esercito, gli alleati muovevano contro Savona che allo stremo di fcrze invocava soccorso dall' imperatore.

Una flotta di 135 galere fra pisane e imperiali sotto il comando di Ansaldo de Mari e del podestà di Pisa era pronta a pigliare le offese contro Genova; ma qui non si perdeva d' animo il governo. Preparate le difese, sospeso pel momento l'assedio di Savona, armate le galere, quanti uomini erano atti alle armi furono chiamati a servizio. I Pisani vennero di fronte al porto di Genova il 19 settembre 1243; ma alla vista della flotta genovese che si preparava a difendersi, voltarono le prore e tornarono in Pisa.

X.

Innocenzo IT papa, de' Fieschi.

Il 14 giugno 1243 era eletto papa in Anagni Sinibaldo Fieschi che prese il nome d'Innocenzo IV. È fama che l'imperatore Federico a tale notizia dicesse: Ho perduto un cardinale amico per acquistare un papa nemico. E infatti il nuovo pontefice gli mosse guerra con tenacità ammirabile.

Eletto appena, accolse le proposte imperiali di pace con benevolenza; chiese però innanzi tutto liberasse i prigionieri del Giglio, restituisse le terre usurpate, si rappacificasse coi popoli amici della Chiesa. Federico prometteva, ma desiderava anzitutto gli fosse tolta la scomunica.

Rotte le trattative d'accordo, furono riprese le ostilità. Ansaldo ed Andreolo de Mari minacciavano il commercio dei Genovesi, che con numerose galee tenevano quanto era possibile libero il mare, salvaguardando le carovane che venivan d'Oriente.

Il papa meno sicuro in Roma, si recava a Civita Castellana e poscia in Sutri, dove lo assediavano le armi imperiali.

I Genovesi saputa la cosa, armata una flotta di ventidue galere, vi' salì il podestà che approdava poco appresso a Civitavecchia, da dove mandava avviso al Papa che ivi si recasse e sarebbe salvo.

Il 27 giugno 1244 lieto di tale aiuto, Innocenzo IV lasciava nascostamente Sutri con cinque cardinali e giunse in Civitavecchia dove, ricevuto con grandi onori, saliva sulla nave del podestà. Ai 7 di luglio sbarcava in Genova tra l' universale contento.

Federico irritato per tale fuga così abilmente protetta dai Genovesi, mostrò dapprima di volere venire ad accordi, poi eccitò i Pisani a muovere guerra alla città rivale.

Il Papa intanto convocava un generale concilio in Lione, dove, fra molti stenti si recava protetto dalle armi della repubblica; ivi (anno 1245) l'imperatore era novellamente scomunicato e dichiarato decaduto dal trono, ed erano sciolti i sudditi suoi dal giuramento di fedeltà.

Proseguivano intanto le ostilità tra Genova e gl'imperiali. Sul cominciare del 1246 il podestà Alberto di Mandello, milanese, ordinava numerosa armata di terra e di mare; mentre d'altra parte l'imperatore invitava i ghibellini lombardi, pisani, savonesi, albenganesi ed altri molti a muovere uniti a danni della repubblica. Egli poi col figlio Enzo cingeva d'assedio Parma che gli si era ribellata. Alla difesa di quella città erano inviati cinquecento balestrieri genovesi.

La repubblica intanto metteva a stipendio di S. Luigi re di Francia che crociato passava in Terra Santa sedici galere; mentre altre trentadue ne armava a propria difesa. L'imperatore adirato dalla resistenza di Genova e fors' anco temendo che la flotta data al re di Francia

fosse invece destinata alla occupazione di Sicilia, sollevò un più fiero nembo di guerra contro la coraggiosa repubblica che impavida ne sostenne l'urto.

Intanto i parmigiani con abile sortita assaltavano e distruggevano il campo imperiale che era stato trasformato nella città Vittoria, i bolognesi tornavano vittoriosi delle truppe di Federico prendendo prigioniero lo stesso suo figlio Enzo. Volgendo così a male le cose sue, V imperatore Federico tanto se ne accorò che il 13 dicembre 1250 cessava di vivere.

I genovesi mutarono in questo tempo il loro sigillo che aveva l'impronta del solo griffone, sostituendogliene uno che tra gli artigli si teneva un' aquila, insegna imperiale , e una volpe, insegna pisana, colla scritta: Gryphus ut has angit, sic hostes Ianua frangit; eternando cosi la fama della loro eroica resistenza all' impero ed a Pisa nel tempo stesso.

XI.

Sottomissione della riviera e tregua generale.

Morto l'imperatore Federico II, il podestà Menabò di Torricella, uomo valoroso e intraprendente, raccolse un forte esercito e mosse contro Savona dalla quale gli alleati avean tolto l'assedio dovendo concentrare tutte le forze contro l'impero.

Il marchese del Carretto e i rappresentanti di Albenga e Savona, visto avvicinarsi tanto pericolo, non l'attesero di piè fermo, ma andarono incontro al podestà di Genova supplicando pace.

Raccolti a parlamento sulla spiaggia di Varazze il 19 febbraio 1251, concordarono i patti che furono da tutti giurati.

Tornato in città l'esercito genovese vittorioso senza aver dovuto combattere, la repubblica acquistò larga fama di potenza in tutta Italia. Venezia bramando ristringere l'alleanza conclusa nel 1239 spedi a Genova due ambasciatori che insieme a due delegati della nostra repubblica convennero i nuovi patti che entrambi i governi accettarono e approvarono.

Intanto il Papa da Lione ritornava a Genova, dove lo accolsero festosamente i governatori e il popolo. Quivi lanciò la scomunica a Corrado figlio di Federico II che aveva cinto la corona imperiale; perdonò ai ribelli; approvò le convenzioni fatte dalla repubblica; concluse il matrimonio tra una propria nipote e il conte Tomaso di Savoia; donò trentasei lampade d'argento per le ceneri di S. Gio. Battista; quindi se ne parti recandosi a Gavi, Capriata, Vercelli e Milano.

Non rimaneva che Pisa in guerra con Genova. Mandavano i Pisani ambasciatori a chiedere la pace; e i Genovesi accoglievano favorevoli la proposta , ma a patto che prima quelli restituissero il castello di Lerici. Rifiutavano i Pisani; e allora i Genovesi si collegavano con Lucca, Firenze e San Miniato a danni di Pisa per dieci anni.

Il primo scontro fu fatale ai Lucchesi; nel secondo però i Pisani furono rotti dai Fiorentini che diedero il territorio pisano in preda alle fiamme.

Pisa vistasi in grave pericolo si rimise all'arbitrato di Firenze per la pace; quale giudizio arbitrale venne pronunciato l'1l gennaio del 1254 in Santa Riparata; ma Pisa, che al giudizio di Firenze s'era rimessa, non

l0 volle accettare, onde furono riprese le armi. Fiorentini e Lucchesi con forte esercito mossero per

le terre pisane; i Genovesi con ottanta galee e uomini e cavalli andarono a debellare il castello di Lerici. Quelli vinsero l'esercito di Pisa presso il Serchio; questi conquistarono il borgo e il castello per cui avevano levato l'impresa.

Ma dove più fiera prosegui la guerra fu in Sardegna. Si contendevano il dominio dell' isola i Pisani e i Genovesi, proteggendo questo o quello dei giudici o regoli delle varie provincie in cui era divisa. Quello di Cagliari invocava il soccorso di Genova contro quello di Arborea sovvenuto da Pisa. Dodici galere Genovesi erano subito spedite verso Cagliari, ne incontravano otto pisane e le disfacevano. Altre ventiquattro galee inviavano i Genovesi, ma nel frattempo

1l signore d'Arborea s'impadroniva di Cagliari. Venivasi quindi alla pace, secondo il lòdo dei Fiorentini, ivi compresa la provincia di Cagliari legata a Genova dal giudice che ne aveva il governo. Però , mentre i Pisani i patti della pace eseguivano per quanto si riferiva al continente, rinnovavano poco dopo la guerra contro Genova per la Sardegna con vicende or prospere ora infelici.

XII.

Guglielmo Boecanegra.

Nel 1257 scadeva di carica il podestà Filippo Della Torre, milanese, che nel suo reggimento aveva dato troppe prove di essere uomo corrotto e vizioso: tanto che si domandava altamente fosse sottoposto a severo giudizio, e punito. I giudici o non trovarono 0 non vollero trovare elementi di condanna; per cui il Della Torre, colla propria famiglia accompagnato da quella del nuovo podestà se ne usciva dalla città. Ma giunto nella contrada dei Pancogoli si levò il popolo a gridare: morte! morte! e a scagliarli contro delle pietre, onde fu costretto a rifuggiarsi in casa del nuovo podestà.

Il tumulto si fece grosso; si diè di piglio alle armi; fra il popolo si mischiarono potenti cittadini e a parlamento si traevano tutti nella basilica di San Siro dove, con grida tempestose, fu acclamato Guglielmo Boccanegra capitano del popolo e subito gli fu prestato giuramento.

Guglielmo Boccanegra era uomo ricco e di molto seguito, sebbene non fosse ascritto alla nobilita. Originario della valle del Bisagno, possedeva una villa a S. Tecla. I suoi maggiori erano stati al comando di navi, ed egli stesso s' era segnalato nelle guerre contro i mori. Di costumi austeri, era in genere ben veduto da tutta la popolazione.

Il dì seguente alla sua nomina, fu convocato regolarmente il popolo perchè la confermasse. Furono eletti allora trentadue anziani, quattro per ciascuna compagna con facoltà di riformare ed emanare le leggi in concorso del capitano del popolo. Questi venne stabilito durasse in carica dieci anni, avesse mille lire di Genova di assegno annuo, cinquanta soldati di guardia, dodici donzelli, un giudice e due cancellieri.

Il nuovo podestà vista così menomata, per non dire distrutta, la sua autorità, se ne andò, e a lui ne sostituirono due, uno per gli affari civili, l'altro per i criminali, che durarono in carica breve tempo, poichè gli anziani elessero a podestà Ranieri Rossi di Lucca.

Fu riformato intanto il governo della Repubblica. Menomati se non aboliti i parlamenti, fu istituito un consiglio maggiore a cui erano chiamati duecento cittadini, scelti fra i consoli dei mestieri, trenta anziani, otto nobili, il podestà e il capitano del popolo. Il consiglio minore era composto di questi due ultimi, dei nobili e degli anziani, e deliberava sugli affari ordinari dello stato; mentre l'altro consiglio

decideva per le guerre e le paci, le leghe e altri maggiori negozi.

Il Boccanegra appena si trovò saldo nel governo della repubblica, pensò a comporne lo Stato, e innanzi tutto si volse ai conti di Ventimiglia che sempre intorbidavano la quiete nella riviera di Ponente. Mandò ad essi suo fratello Iacopo e altri due anziani con pieni poteri di definire ogni vertenza. I conti di Ventimiglia accolsero le aperture di pace e il giorno 8 dicembre 1257 rinnovarono le convenzioni già in precedenza pattuite colla repubblica, riconoscendone la sovranità.

XIII.

Guerra tra Genova e "Venezia.

Proseguiva la guerra tra Genova e Pisa, quando il papa Alessandro IV desideroso di bandire una crociata per la liberazione del Santo Sepolcro, invitò quelle due repubbliche e quella di Venezia a mandargli ambasciatori e rimettere a lui la risoluzione delle loro vertenze, onde poi collegarle allo scopo santissimo. Aderivano le tre repubbliche all' invito e al giudizio papale si rimettevano, quando fiera contesa nasceva in Oriente tra Genovesi e Veneti.

Stavano in Acri veneziani e genovesi in pace da un ventennio, ma pieni di mal talento gli uni verso gli altri; un nulla bastava a provocare fiera lotta tra loro. Un veneziano batte un mercante genovese; i genovesi a tale affronto si levano in massa assaltano il palazzo dei veneziani e quanti incontrano di costoro li cacciano dalla contrada, ferendone alcuni. I veneti irati vogliono rispondere a misura di carbone. Cercano i governatori della colonia genovese di calmare gli animi, promettendo riparazione dei danni, quando un Baroccio Mallone genovese comprata una nave tolta dai corsari ai veneziani la reca nel porto d' Acri, e i veneti per forza se ne impadroniscono. Allora i genovesi, di tutte le navi veneziane ch'erano in porto, si fanno padroni.

La guerra tra Venezia e Genova, era così dichiarata. Una flotta veneta comandata da Lorenzo Tiepolo approdava in Acri e dava alle fiamme i legni dei genovesi e la stessa lor chiesa. I Pisani alleatisi ai Veneti, seguivano la guerra ferocemente contro i Genovesi.

La repubblica mandava una flotta di ventinove navi sotto il comando di Rosso della Torre e difesa dai suoi cittadini. La flotta gettava le ancore in Acri il 23 giugno 1258; le muovevano incontro i veneziani con ottanta galee, e si appiccava battaglia. Speravano i genovesi nell'aiuto di S. Giovanni Battista di cui riricorreva allora la festa, epperò sebbene inferiori di numero vennero alle mani. La pugna fu lunga e sanguinosa, ma i veneti, di gran lunga superiori, per numero trionfarono. I genovesi furono costretti ad abbandonare Acri, dove i veneti commisero crudeltà inaudite. Non una casa dei genovesi lasciarono intatta, e i prigionieri non vollero ad alcun patto restituire, malgrado i genovesi i propri prigioni restituissero. Una tregua di tre anni sospese per allora le ostilità.

XIV.

Convenzione di Ninfeo.

La fortuna però non aveva abbandonato i Genovesi, che anzi mai come allora salirono a tanta potenza.

L'impero latino, fondato in Constantinopoli da francesi e veneziani a seguito della quarta crociata, minacciava rovina mezzo secolo dopo la sua istituzione, per i dissensi nati tra gli stessi suoi creatori e per la depravazione dei costumi. I Greci che aspiravano all' antico dominio vigilavano da Nicea, da Trebisonda e dall' Epiro il momento opportuno per riacquistare il perduto imperio, e quando il momento parve giunto, Michele Paleologo richiese d'aiuto la repubblica di Genova. Il capitano del popolo, il podestà e gli anziani ben considerarono la gravità dell'impresa, ma le larghe profferte del greco l'indussero ad accettare e mandarono quindi Guglielmo Visconte e Guarnieri Giudice ambasciatori al Paleologo in Ninfeo (oggi Nif, nell'Asia Minore, non lungi da Magnesia e da Sardi) per combinare l'alleanza.

Il 13 marzo 1261 la convenzione era sottoscritta d' ambe le parti in Ninfeo e recata a Genova, dove fu ratificata il 28 aprile stesso anno. Mercè tale convenzione i Genovesi acquistavano nell' impero greco vasti possedimenti e quasi pari a quella dell' imperatore l'autorità e la potenza, con grave scacco dei Veneziani che tutta l' avrebbero perduta.

Seguita la conferma di tale convenzione, imprestate grosse somme al Paleologo, la repubblica gli spediva in aiuto per la vagheggiata impresa sei navi e dieci galee governate da Martino Boccanegra fratello del capitano Guglielmo.

XV.

I genovesi a Costantinopoli.

I Greci guidati da Alessio Strategopulo s'impadronirono di Costantinopoli il 25 luglio 1261 così improvvisamente che nè il Paleologo nè i Genovesi vi poterono in alcun modo prender parte. I greci che stavano nella città accolsero i seguaci di Michele con grandi evviva all' Imperatore dei Romani.

L'imperatore Baldovino se ne fuggiva, sulla flotta veneta comandata da un Gradenigo, in Italia, invocando l'ira del Papa e delle corti cattoliche contro Genova che aveva aiutato il Paleologo scismatico a torgli il trono usurpato.

Venezia saputa la dolorosa nuova, spediva numerosa flotta a tribolare Costantinopoli; ma la flotta dei genovesi comandata dal Boccanegra giunta in quel porto cacciava i nemici e assicurava sul trono greco l'imperatore Paleologo.

I Genovesi, sebbene scarsa parte avessero nell'impresa, occuparono le terre donate loro in forza della convenzione di Ninfeo, subentrando ovunque nei privilegi e possedimenti de' Veneziani, i quali per quel trattato erano banditi dal commercio dell' impero e delle provincie del Ponto. Così allora presero stanza nell'Arcipelago quelle famiglie di dinasti genovesi che colle loro prepotenze furono in seguito cagione di guai alla repubblica e non seppero conservarsi lungamente i domini conquistati. I Gatilusi si resero padroni di Lemno e di Eno, i Centurioni di Metelino, i Cattanei di Focea, un Zaccaria di Negroponte, tramutatogli poi dall' imperatore nell' isola di Scio.

I Genovesi presero poi stanza e largo possesso in Costantinopoli, quasi protettori del rinato impero, circondati d'onori e di ricchezze, e stabilirono che l'immagine di S. Giorgio a cavallo si congiungesse alla croce rossa nella bandiera del Levante.

A render poi la pariglia ai Veneti per le distruzioni da questi fatte in Acri, abbatterono il monastero e la chiesa di Pantocratore dei veneziani e le pietre trasportarono in patria adoperandole nella costruzione del palazzo detto poi di S. Giorgio.

In virtù sempre del trattato di Ninfeo, i Genovesi ebbero il dominio politico di Smirne, importantissima città pel suo porto, e stabilirono colonie in Anea, in

Adramiti e in Cassandria. Ma poco mancò che d'un tratto Genova perdesse, e per sempre, così grandi acquisti.

Venezia inconsolabile del perduto predominio in Oriente, ordinava numerose flotte per travagliare i greci e i genovesi nel possesso di Costantinopoli, e i due popoli collegati tenevano loro testa.

Nel 1263 addì 28 maggio armata una flotta di venticinque galee, Pierino Grimaldi e Paschetto Mallone navigavano verso la Morea, dove si univano ad altre tredici galee comandate da Ottone Vento e udito che ventisei galee venete stavano in quei pressi mossero loro incontro, ingaggiando battaglia. Mentre i veneti stavano per soccombere, il Mallone con venticinque galee abbandona i compagni che fanno eroici sforzi per tenere la vittoria, ma il numero preponderante dei nemici li vince e distrugge. Il Grimaldi valorosamente pugnando moriva.

L'imperatore Paleologo malcontento della condotta dei genovesi in tale occasione, e più ancora indispettito per una congiura che Guglielmo Guercio podestà di Genova in Costantinopoli ordiva l' anno seguente contro di lui a benefizio di Manfredi re di Sicilia , sebbene a questa congiura fosse estranea la repubblica , ordinò che tutti i Latini, senza distinzione di nazionalità e d'interessi, sgombrassero la capitale , e i genovesi mandò a confine nella lontana Eraclea. Nello stesso tempo il Paleologo intavolò negoziati coi Veneti, concordando una specie di tregua nel {26S per la quale i veneziani ricomparvero nell' impero greco, stabilendo un balio in Costantinopoli quale loro rappresentante politico e governatore.

In Genova frattanto alla fatale notizia della sconfitta dei Settepozzi, si processavano e punivano i rei, e una flotta sotto il comando di Simone Grillo era inviata a ricuperare il perduto. Il Grillo mandate alcune navi a Costantinopoli, col grosso dell' armata veleggiava nell'Adriatico gettando l'ancora nel porto di Durazzo. Una carovana veneta ricca di tesori che muoveva per l' Egitto scopre il nemico e ordinatasi a battaglia lo attacca. Il Grillo accettò la pugna che fu sanguinosa e terribile; ma la vittoria sorrise ai genovesi che predarono i tesori dei veneziani e tutte le loro navi.

Nella Siria seguiva altresì la lotta tra genovesi e veneti, prospera e fortunosa or per gli uni or per gli altri; lotta che malgrado la battaglia di Durazzo seguitava pure nel Mediterraneo con varia vicenda. Ora i veneti sopraffacevano i genovesi, sconfiggendoli; ora i genovesì ai domini veneti gravi danni arrecavano, riparando all' ingiuria prima sofferta. Lungo tempo si travagliarono così le due repubbliche, finchè per mediazione del papa e del re di Francia accettarono un trattato di pace per cinque anni.

I Genovesi non trascuravano intanto ogni pratica per essere richiamati dall' esilio a cui il Paleologo li aveva condannati, ma solo nel 1267 dopo una ambasceria di Franceschino de Camilla l'imperatore con


sentì alle loro istanze, richiamandoli non già nelle primitive loro dimore in Costantinopoli, ma limitando il loro soggiorno al sobborgo di Pera, diviso dalla capitale pel Corno d'oro.

Da questo umile prin:ipio ebbe origine la famosa colonia di Pera delle cui gloriose vicende non è mio còmpito occuparmi.

XVI.

La colonia di Fera.

Galata era detta dai greci e Pera dai latini; ma il quartiere oggi propriamente detto Pera sull'alto del colle era disabitato, chè i genovesi impiantarono la colonia più verso il mare, ampliandola successivamente, circondandola di muraglie e munendola di torri in guisa da trasformarla in una vera città, splendida per palazzi e altri edifizi, ricca, popolosa, fiorente alle-porte di Costantinopoli, nelle vicende della quale ebbe larghissima parte nel corso di due secoli.

Alla nuova colonia fu estesa la legislazione che vigeva in Genova, ma temperandola ed adattandola, con particolari provvedimenti emanati ogni volta se ne presentava il bisogno, alle specialissime condizioni di quello stabilimento commerciale e politico insieme.

Ordinariamente a capo della colonia fu mandato da Genova un Podestà, eletto ogni anno, che mentre governava i concittadini colà residenti e vegliava

F. DONAVER. 8

all' esecuzione delle patrie leggi, rappresentava la repubblica alla corte dell' imperatore; ma qualche rara volta fu mandato in sua vece un abaie del popolo.

Il potere di questo governatore non si limitava però alla sola colonia di Pera, ma si estendeva altresì a tutte le altre colonie che Genova possedeva nell'impero greco, e da lui dipendevano quanti genovesi abitassero o fossero solo di passaggio in quell'impero. Eccettuato quello di Caffa, i consoli delle colonie nell' Asia minore e nel Mar Nero ricevevano gli ordini dal podestà di Pera, il quale perciò s'intitolava Podestà o Vicario dei genovesi nell' Impero di Romania e nel Mar maggiore.

Questo importante magistrato teneva elevatissimo ufficio nella corte imperiale, dov'era ricevuto con singolare e splendido cerimoniale: egli serviva da intermediario tra l'imperatore e gli Osmanli e tutti i principi del Levante, e a volte assumeva il supremo comando dell'esercito e dell'armata.

Due Consigli, ne' quali entravano in egual misura nobili e popolani (trascrivo una pagina del chiarissimo Belgrano), e che si diceano il maggiore e il minore o di credenza, confortavano de' loro prudenti avvisi il podestà in ogni evenienza. Ma perchè il commercio e la navigazione erano i principali elementi della vita dei genovesi nelle colonie, e l'intervento dell'autorità dovea specialmente richiedersi intorno a codeste materie, così furono pure stabiliti in Pera, sotto la presidenza del podestà, gli uffici dì Mercanzia e di Ga^aria. Giudicava il primo di tutte le controversie attinenti ai traffichi ed alle arti: il secondo conoscea de' litigi che aveano per argomento il carico delle navi, i diritti dei padroni e de' marinai, la durata de' viaggi, l'applicazione dei balzelli marittimi ecc.

Inoltre componeano la curia del podestà il suo Vicario, ch' era un dottore di leggi, e cancellieri e scrivani, che all'occasione doveano farla anche da interpreti. Poi chiavigeri, massari e ragionali, che custodivano il pubblico denaro e ne scrivean le partite; ufficiali di polizia, di giustizia e d'annona e quant'altri ne chiedeva il buon governo di quel piccolo stato a somiglianza di quanto si usava nel maggiore stato della repubblica, dove tutte quelle cariche e quelli uffici esistevano.

Il governo della repubblica mandava poi tratto tratto dei sindici a verificare l' andamento degli affari; e i magistrati della colonia erano sottoposti, a termini degli statuti, al rendimento dei conti appena uscivano di carica, come vi erano obbligati i magistrati in patria; il sindacato era pubblico entro quindici giorni della loro uscita d'ufficio, e tutti avevano diritto di avanzare le loro querele.

Così ordinata e prosperosa la colonia di Pera tenne fronte nei due secoli di sua esistenza, ai nemici di Genova e fu più volte baluardo al debole impero greco contro le prepotenze d'altri popoli e le invasioni barbariche; come pure tenne fronte alla stessa corte imperiale costringendola a piegare dinnanzi alla sua potenza. Tuttavia Costantinopoli e il sobborgo caddero quasi ad un tempo nelle mani dei Turchi guidati da Maometto II, chè la prima fu presa il 29 giugno del 1453, il secondo il giorno seguente.

XVII.

La colonia di Caffa ed altre minori.

I genovesi che fin dal principio del XIII secolo s'erano inoltrati nel Mar Nero commerciando colle popolazioni indigene e impiantandovi delle stazioni, andarono man mano ampliando le loro relazioni in quelle regioni, salendovi poi a grande potenza, singolarmente dopo la convenzione di Ninfeo. Giovò ai genovesi persino la sventura, perchè relegati in Eraclea dopo la congiura di Guglielmo Guercio, si spinsero in Crimea o Gazzaria, com'era allora chiamata l'antica Tauride, e vi fondarono Caffa che, attorniata da altre minori, divenne in breve tempo colonia ricchissima ed importante.

Due volte Caffa ebbe a patire fieri assalti (copio anche qui il Belgrano) dai Veneziani nel 1296 e dai Tartari del Kipeiach nel 1308; ma la madre patria ne rialzò con amorevole sollecitudine le case e le mura, e munì la nuova città, i borghi ed i sobborghi di torri e castella, alcune delle quali rimangono tuttora in piedi. Cercò altresì di attirarvi gente in buon numero; e per questo proibì a' mercanti genovesi di far lungo soggiorno negli empori vicini. La confortò inoltre di savie leggi, che il Boccardo giustamente ravvisa modello del regime coloniale, e trova degne di lode per la sufficiente larghezza lasciata all'interna amministrazione dal governo centrale.

Presiedeva alla colonia un Console annualmente eletto da Genova, ed era come di consueto assistito dal Vicatio, dal Cancelliere, dai due consigli. Custodivano il pubblico tesoro due chiavigerì o massari; e i ministrali vigilavano su le arti, le vettovaglie, i mercati, le strade, insomma alla polizia ed all' igiene. Tre dì per settimana si apriva la curia all'amministrazione della giustizia, sedendo il console o il suo vicario al banco del giure; e i litiganti avean facoltà di presentare due o quattro probi uomini di lor fiducia, che assistevano come giudici del fatto. Spettava al console di provvedere all'esecuzione delle fatte sentenze: era lui che riscoteva le multe, e mandava in esilio, alla fustigazione, alla morte. Ma più guarentige si volevano del suo retto operare: depositasse una grossa somma'come cauzione, avanti di assumere l'ufficio; non accettasse donativi che superassero il valore di dieci soldi, sì da nazionali e sì da forestieri; nè manco partecipasse ne' commerci, negli appalti e generalmente in tutti gli affari che avessero scopo di lucro. Infine scaduto di carica e sottoposto a sindacato, doveva allontanarsi dalla città sulla nave che avea condotto il successore.

Il mercato di Caffa era dei più ricchi e popolosi. Gran parte dei prodotti del settentrione si raccoglievano ivi per essere distribuiti a Costantinopoli, nell'Asia Minore, nella Siria, nella Persia e altrove.

Ma non era solo Caffa la colonia fiorente in quelle regioni, chè la Tana alla foce del fiume Tanai e rispondente alla moderna città d'Azof, era pure colonia dei Latini ricca e potente. Prima i Veneti ed i Pisani vi ebbero predominio, poscia i Genovesi che molto la illustrarono: ma la colonia veneta ebbe forse importanza maggiore. I Genovesi per contro abitarono altri luoghi del mare d'Azof: Copa, ora Kopy sul braccio settentrionale del Cubon, Mastrega, oggi Tmutorakan nella penisola di Taman, che fu anche signoria della famiglia genovese de' Ghisolfi, e Bachtar presso il seno di Ochtar, che fu pure posseduto da Ilario De Marini,

Genova ebbe altre colonie e fondachi lungo le spiaggie della Caucasia e della Colchide, principalissima fra tutte quella di Savastopoli, oggi detta Iskuriah, da non confondersi con Sebastopoli di Crimea, come molti fanno. La memoria dei Genovesi dura viva ancora oggidì in quelle regioni, ove, è fama, contribuissero alla diffusione della fede cristiana.

Altre colonie importanti fondarono i Genovesi in Trebisonda, capitale dal 1204 di un impero indipendente; in Limisso, l'odierna Samsun, dove si mostra ancora un loro castello, in Samastro, oggi Amasserah, dove muri e torri serbano tuttavia gli stemmi di Genova.

XVIII.

Deposizione del Boccanegra.

Per l'aiuto tanto sapientemente e fruttuosamente prestato da Genova al Paleologo, i Veneti e Baldovino spinsero il papa Urbano IV a scomunicare la repubblica, poichè ad esso non volle rimettere la soluzione della vertenza, e a colpirla d'interdetto, sebbene, per antiche bolle, non ne avesse facoltà.

Alla notizia che l'interdetto era sulla città, i Genovesi, o quanto meno la parte guelfa contraria al capitano Guglielmo Boccanegra, ne chiamarono in colpa colui che aveva il supremo potere, e una forte congiura popolare si organizzò contro di lui.

Nel 1259 egli s'era fatto prorogare la signoria della repubblica, ampliando altresì i propri poteri, tanto che gli anziani e i nobili ingelositi formarono allora il progetto di torlo di mezzo. Il Boccanegra però scoperta la congiura, obbligava alla fuga i principali, altri ne puniva e la sua autorità maggiormente cresceva.

La nuova congiura popolare non era pure sfuggita alla vigilanza del Boccanegra, ma questa volta i congiurati lo prevennero. La notte del 6 maggio 1262 levato il popolo a rumore, s'impadronirono delle porte della città e armati si volsero contro la casa del capitano del popolo. Chiama questi all'armi le compagne, ma inutilmente; il fratel suo Lanfranco è ucciso; egli stesso si vede diradare i pochi seguaci. Allora s'intromettono alcuni cospicui cittadini, esortano il Boccanegra a dimettersi, e infatti il 7 maggio è deposto dal potere e a tarda notte si rifugia colla famiglia in casa di Pietro Doria.

Il dì seguente il parlamento convocato nel Duomo eleggeva quindici governatori, e poco appresso il podestà nella persona di Martino da Fano che prese possesso della carica nel giugno.

XIX.

I genovesi e San Luigi re di Francia.

Già avevano i Genovesi accordato aiuti al re Luigi IX di Francia, fatto poi santo dalla chiesa, per una prima crociata eseguita fra il 1248 e il 1254 che non riuscì di alcun effetto; quando una seconda ne volle quel re tentare d'accordo con Carlo re di Napoli e Sicilia nel 1270. I Genovesi (alla cui città intanto il papa avea tolto l'interdetto) in numero di diecimila presero parte a questa crociata, governati da Ansaldo Doria e Filippo Cavaronco.

L' armata anzichè volgere a liberare Terra Santa, com'era suo officio, per assecondare le mire del re di Napoli che volea guarentire la Sicilia dalle invasioni turche, approdò a Tunisi. Sbarcati primi i Genovesi, assalirono Cartagine di cui si resero in breve padroni. Fu quindi messo l'assedio a Tunisi, che ben munita e difesa rese difficile l'acquisto. Intanto nell' esercito cristiano per l'avanzarsi della state una fierissima pestilenza recava la strage più del ferro nemico. La repubblica mandava allora ai suoi Francescano de Camilla con pieni poteri per tutelarli.

La peste aumentava, ne perivano il re Luigi, suo figlio e il legato pontificio. Giungeva allora in campo il re Carlo che reputò più utile venire ad accordi col sultano di Tunisi. Questi si obbligò a liberare tutti gli schiavi cristiani, a pagare centomila fiorini d' oro, a permettere nelle sue terre la predicazione del Vangelo di Gesù, a restituire il doppio di quel che doveva alla repubblica di Genova e a pagare un tributo annuo di quarantamila scudi al re di Sicilia.

Il 28 novembre 1270 i crociati risalivano sulle navi per tornare in patria, ma in vista di Trapani una fiera procella gli fece naufragare. Quanto dal naufragio fu possibile salvare, usurpò il re Carlo irridendo alle giuste domande dei Genovesi che invocavano la restituzione di quanto loro spettava.

XX.

I capitani del popolo.

Le famiglie Fieschi e Grimaldi da un lato, Spinola e Doria dall' altro erano salite nella repubblica di Genova a grandissima potenza. Poco alla volta, aspirando ciascuna al predominio sulle cose dello Stato, s'erano formate largo partito nella cittadinanza, di guisa che ognuna aveva seguito numeroso e forte da mettere in serio pericolo la tranquillità interna di Genova.

Fieschi e Grimaldi erano di parte guelfa, Spinola e Doria di parte ghibellina, questa più di quella seguiva il popolo, il quale vagheggiava il ritorno del potere nelle mani di un altro Boccanegra. Questi ultimi avevano soprafatto i guelfi e la nuova podesteria era in mano a loro che tutto lo Stato governavano a beneplacito.

Oberto Spinola di grande ingegno e arditissimo, abile nell' arte della guerra nonchè in quella del governo, macchinò nel 1264 di mutare ordine alla repubblica. Scoprivasi la trama dai Grimaldi e per intromissione del podestà e d'altri pel momento fu scongiurata la tempesta; ma non per molto, chè la notte del 2 ottobre 1265 lo Spinola s'impadroniva della città e si faceva proclamare signore e capitano di Genova.

Gli si opponevano le famiglie de' Guerci e dell'Isola, guelfe; ma egli correndo loro incontro, ne rovinava le case, ne uccideva quanti più gliene capitavano sottomano e costringeva i Grimaldi a rifugiarsi nella riviera di Ponente.

Allora tra guelfi e ghibellini si trattò d'accordo. Fu licenziato il podestà ch' era in ufficio, e in suo luogo ne furono eletti due, Guido Spinola e Nicolò Doria.

Non durò neppur allora per molto la pace, chè poco appresso, cogliendo l' occasione di rovesci in Ventimiglia, Oberto Spinola collegatosi ad Oberto Dorin, levavano a rumore il popolo, occupavano il pubblico palazzo e la moltitudine acclamava: Vivano Oberto Spinola e Oberto Boria nostri capitani.

A due capitani del popolo veniva quindi commesso il supremo governo dello Stato, ai quali venne aggiunto un abbate del popolo, vera rappresentanza popolare, che sedeva in mezzo a loro; al podestà si lasciava solo la parte forense; i guelfi erano banditi a confine per tre anni.

Così finiva il regime del podestà, cui ne seguiva altro più militaresco che civile, il quale aprì la strada, dopo non molti anni, al governo dogale.

XXI.

Ultima guerra pisana.

Per la cacciata dei Fieschi e dei Grimaldi dalla città, sorsero opposizioni e ribellioni d'ogni parte alla nostra repubblica. Sorretti dal re Carlo d' Angiò che ambiva a signoreggiare tutta Italia, i guelfi iniziarono una viva guerra a Genova, la quale con vigore e fortuna la sostenne, tanto che nel 1282 quando Carlo ebbe a perdere la Sicilia per la solle

vazione famosa dei Vespri, e perciò ebbe a pensare a casi suoi, senza occuparsi di quei d'altri, venne quasi naturalmente liberata dai nemici, più che nol fosse in virtù dei trattati di pace concordati dal pontefice Innocenzo V, il 18 luglio 1276, tra il comune di Genova, i fuorusciti guelfi e Carlo d' Angiò.

Genova si trovò quindi allora libera da guerre in casa per tener testa a Pisa che, per antichi e recenti affronti, le serbava vivissimo odio e altro non attendeva che un' occasione per prendere le armi. E l'occasione si presentò appunto nel 1282, quando il Giudice di Cìnarca in Corsica mancando ai trattati conclusi colla repubblica genovese, si ribellava ad essa e messo alle strette, correva a Pisa per aiuti. Pisa non li rifiutò, malgrado le istanze in contrario di Genova, e gli fornì soldati e navi per ricuperare il perduto dominio in Corsica. Allora tra le due repubbliche scoppiò guerra, l'ultima e più sanguinosa che tra esse siasi combattuta.

Flotte pisane e genovesi si recano reciproco danno e corseggiano il mare in traccia delle carovane dell' una o dell' altra repubblica. Ora la fortuna favorisce gli uni, ora gli altri, ma singolarmente i pisani hanno la peggio. Nel 1283 una numerosa flotta genovese capitanata da Tommaso Spinola veleggia verso Pisa, ma per fortunale di mare è costretta a riparare per 27 giorni in Porto Venere. Pisa udito il grande armamento, mette in mare altra non meno numerosa flotta sotto gli ordini di Andreotto Saracino, che pur dovette trattenersi in Porto Pisano in attesa di mare più calmo.

Appena il potè, lo Spinola lasciava Portovenere, correva sull'isola di Pianosa, che, per mancata fede alla repubblica, è messa a sacco, quindi sorpresa una saettia pisana che in patria si recava ad avvertire il prossimo arrivo d' una carovana, lo Spinola con quindici galee sorprende la carovana pisana e se ne impadronisce, poscia volge le prore a Genova recando 930 prigioni e 28 mila marche d' argento.

I pisani assediavano Alghero rendendosene padroni dopo diciotto giorni di resistenza; i genovesi armavano cinquantaquattro galere che pigliavano il mare sotto il governo di Corrado Doria. Si avvicinavano a Porto Pisano, bersagliavano le torri, atterrandone una; si volgevano quindi ad assediare la flotta pisana che stava nel porto di Piombino, ma per burrasca dovettero ripararsi a lor volta in Portovenere.

D' altra parte Pisa armava nuove truppe e nuove galere che approdando a Portovenere lo devastavano.

La guerra cosi prosegui tutto l' 83 pel mare ligustico e pisano non solo, ma per Corsica, Sardegna, Provenza, Sicilia e in genere ovunque s'incontravano genovesi e pisani, fin che sorse l'anno seguente nel quale, con memorabile battaglia, Pisa dovette piegare a rovina.

XXII.

Battaglia della Meloria.

La flotta pisana forte di settantadue galere sotto il supremo comando di Alberto Morosini, veneto, muoveva sino a Genova, braveggiando per le riviere. In Genova si attendeva il ritorno di trenta galee che comandate da Benedetto Zaccaria stavano per assediare Sassari, mentre cinquant'otto galee e altre navi minori con rapidità fulminea si mettevano in mare, e ritornato lo Zaccaria, tutta la flotta, numerosa di oltre novanta navi, venne affidata a Oberto Doria capitano del popolo, che su quelle saliva coi figli e i congiunti.

Bordeggiava alquanto la flotta genovese nella speranza di sorprendere la pisana, ma questa essendole sfuggita, vigorosamente il Doria navigò verso Portopisano, e quindi il 6 agosto 1284 dava fondo alla Meloria, rimpetto alla spiaggia pisana. Il Doria divideva la propria flotta in due schiere, l'una comandata da lui in persona disposta a battaglia, l' altra comandata dallo Zaccaria in agguato dietro la punta di Montenero.

S'intimava la lotta. I pisani salite le navi con altissime grida, divisi in tre squadre, si muovevano contro i genovesi, che credevano di facilmente sopraffare. Benedivali l' arcivescovo di Pisa.

Le due flotte numerose e potenti vennero di fronte. I soldati dall'una parte e dall'altra impazienti di pugna, l'attaccano vigorosamente; mentre lo Zaccaria con le sue trenta galere esce dal nascondiglio e si schiera a sua volta in battaglia.

L'ardimento dei pisani è pari a quello dei genovesi; questi si stringono intorno alla capitana del Morosini e tentano strapparne lo stendardo. Difendono la bandiera i pisani con eroismo; ma il numero li vince: la loro bandiera è strappata, l' asta abbattuta e rotta. Il mare è ingombro di feriti e di morti; quanti tentano salvarsi sulle galere, a colpi di remo sono fracassati.

La vittoria volgeva manifesta pei genovesi, quando a renderla più completa il conte Ugolino della Gherardesca si allontana dal campo della battaglia sulle proprie galere e in Pisa si rifugia annunziando la sconfìtta. Perduti d'animo i pisani, diminuirono la resistenza. Il Morosini coraggiosamente pugnando è ferito e cade prigioniero del Doria, mentre quei pochi che possono fuggono in Pisa, inseguiti fin quasi nel porto dai genovesi.

La vittoria per la repubblica di Genova fu completa. Il Doria faceva ritorno in Genova alquanti giorni appresso conducendo oltre a 9000 prigionieri e ventinove galee. Calcolasi che alla Meloria morissero ben 5000 persone, e delle galere dei pisani sette furono sommerse.

I genovesi accolsero in trionfo Oberto Doria, e a perpetuare la memoria di tanto strepitoso avvenimento, il governo decretò che ogni anno il 6 agosto si offrisse un pallio di broccato d'oro alla chiesa di S. Sisto.

Il Morosini a richiesta del doge di Venezia fu lasciato libero, a condizione non tornasse più mai al governo dei pisani.

XXIII.

Fine delle guerre pisane.

Dopo la rotta della Meloria, Firenze e Lucca, sempre nemiche di Pisa, offrirono un trattato d'alleanza a Genova contro la rivale per distruggerla affatto.

I genovesi non ascoltando le proposte di pace dei pisani, convennero nella lega, cui aderirono Prato, Pistoia, San Miniato, Volterra, Colle e Siena; ma la colleganza non durò molta pezza, chè il Conte Ugolino il quale ambiva alla signoria di Pisa non alla sua distruzione, seppe abilmente pacificare gli animi dei Toscani, tranne Lucca; così Genova si trovò quasi da sola a proseguire la guerra con Pisa.

I pisani inferiori di forze, molto si valsero degli aiuti di Venezia e d'altri; ma i genovesi senza curarsi nè di questi nè di quella, quante volte s'incontravano nei pisani attaccavano battaglia, li vincevano e predavano.

Così proseguirono per diversi anni, mentre in Genova languivano le migliaia di prigionieri presi alla Meloria e che facevano dire: Chi vuol vedere Pisa

vada a Genova. Trattative di pace a quando a quando s'iniziavano, ma senza risultato concreto; finchè col principio d'aprile del 1288 si potè concordare un progetto di convenzione.

Il consiglio ed il senato pisano delegavano la facoltà di concordare la pace a Rainero Sampante; da sua parte Genova eleggeva Enrico Guercio. Radunatisi nella casa di Oberto Doria, il 15 aprile del detto anno firmavano l'atto di pace, che in Pisa si ratificava il 13 maggio successivo.

Le condizioni di pace dettate dai Genovesi erano gravissime: stabilivano un' assoluta superiorità della nostra repubblica su quella di Pisa; ma i Pisani subito non si diedero per inteso di mandarle ad esecuzione. Così la guerra durò ancora alcun tempo. I Genovesi alleati ai Lucchesi deliberarono di recare la guerra in Portopisano. Il 23 agosto 1290 la flotta genovese comandata da Corrado Doria salpava dal nostro porto e veleggiava a quello Pisano, ne abbattè le torri e mentre i Lucchesi devastano Livorno e la campagna pisana, i Genovesi distruggono dalle fondamenta Portopisano e otturano con pietre e con una nave piena di mattoni le bocche dell' Arno.

D'allora in poi più che battaglie furono scaramuccie tra Genovesi e Pisani, i quali andarono da quel momento rapidamente declinando dalla potenza a cui eran saliti, in ispecie nelle cose di mare.


XXIV. Fazioni civili. Nell'anno 1288 scadevano d'ufficio i due capitani del popolo, Oberto Spinola e Oberto Doria che tanto beneficio avevan prodotto alla repubblica, e fu deliberazione dei più di confermarli nella carica per altri cinque anni, solo sostituendo all' Oberto Doria il figlio Corrado.

La parte guelfa che mal vedeva continuare in quelle due famiglie la signoria, congiuntasi il 1.° gennaio del 1289 con gran seguito di armati s' impadroniva della chiesa di S. Lorenzo e tentava impadronirsi dei capitani e dell' abate popolare; ma non riuscì nel disegno, chè l'abate con pochi soldati fugò coloro che ai suoi danni erano mossi e il popolo in arme si cacciava addosso ai guelfi, uccidendone molti; e coloro che nella chiesa di S. Lorenzo s' erano rifuggiati furono graziati conchè giurassero di stare agli ordini dei capitani e del podestà.

Dopo un tal fatto, i maggiorenti dei ghibellini pensarono, a mitigare gli umori della parte contraria, di stabilire che fosse in Genova un capitano forestiere invece di due locali, che gli uffizii di anziano e di consigliere si dividessero per metà tra popolari e nobili. Il parlamento approvò queste riforme e nel 1291

fu eletto a capitano del popolo un bergamasco, Lanfranco de' Suardi.

In questa epoca il comune comprava tra S. Lorenzo e S. Matteo un'area da Accellino Doria per costruirvi la degna residenza del capo del governo; e allora furono gettate le fondamenta del palazzo detto poi


ducale, che anche oggi, malgrado le vicissitudini cui andò soggetto, si ammira in Piazza Nuova.

La mutazione così avvenuta nel governo della repubblica pareva dovesse calmare gli umori di parte; ma invece gli spiriti continuarono ad osteggiarsi. A studiare il modo di riparare ancora gl' inconvenienti, il consiglio maggiore eleggeva addì 29 gennaio 1293 diciotto fra i più prudenti cittadini perchè riformassero saviamente lo stato e le leggi. Stavano questi attendendo all'ufficio loro commesso, quando gli Spinola dichiararono che per amore della repubblica rinunziavano per cinque anni di partecipare al governo. Anche questa generosa dichiarazione non valse; già si correva pericolo di venire alle mani quando Giacomo di Varazze, pio arcivescovo nostro, esortava tutti alla pace, e riusciva a sopire per breve momento l'incendio che stava per divampare.

L'ultimo di dicembre del 1296 Fieschi e Grimaldi, sottomano favoriti da Carlo II re di Napoli, assalivano Spinola e Doria. Una guerra cittadina seguiva all'assalto, terribile, sanguinosa, che durò trent'otto giorni, finchè i guelfi vinti vennero cacciati in esilio. Allora furono eletti nuovamente due capitani del popolo nelle persone di Corrado Spinola e Corrado Doria.

Seguiva nel 1300 un'invasione in città per via di mare di fuorusciti guelfi capitanati dai Grimaldi. Grave tumulto accadeva, nel quale Lanfranco Spinola era ucciso; ma i Grimaldi s'ebbero la peggio: rotti e dispersi, parte caddero prigionieri, parte riuscirono colla fuga a salvarsi. E allora, per qualche anno, fu quiete nella repubblica giunta a grandissima prosperità.

XXV.

Terza guerra Yeneta.

L'ingrandimento della potenza genovese in Oriente dopo la convenzione di Ninfeo, non poteva non ridestare le antiche rivalità della repubblica veneziana, cui per diritto di precedenza, le pareva di dovere su tutte le altre città marittime d'Italia sovrastare; onde colse la prima occasione che le si presentò per ripigliare !a guerra con Genova. Sette galee di mercanti genovesi nel 1293 procedendo di Romania s' incontravano presso Corone in quattro galee veneziane armate da' Templari a difesa di Cipro. Queste, a quanto pare, provocarono quelle a battaglia e la vittoria fu dei Genovesi, i quali, senza abusarne, liberi lasciarono i vinti di proseguire la loro strada. Da Genova, saputo il fatto, spedivansi due frati di S. Domenico a Venezia esprimendo il rammarico dell' accaduto e proponendo di definire amichevolmente le vertenze in corso; ma non si venne ad accordi. La guerra cominciò prestamente.

Venezia mettea in mare quattordici galere a dare la caccia alle carovane genovesi, ed infatti pigliarono tre galee nostre cariche di merci preziose.

I mercanti genovesi che da Costantinopoli stavano per navigare in Romania con diciotto galere e due altre navi, appreso il fatto, sbarcano le merci, eleggono

a loro ammiraglio Nicolò Spinola e muovono alla ricerca della flotta veneta. Era questa forte di ventotto galee e di altre quattro navi comandata da Marco Basejo. I Veneziani, facendosi arditi pel numero, provocano i Genovesi a battaglia rimpetto a Lajazzo in Armenia (2 giugno 1293), ma vengono sconfitti colla perdita di venticinque galee.

Venezia armate sessanta galee le manda verso Sicilia ove stavano quaranta delle nostre; sfuggono queste al nemico il quale, a sfogarsi in qualche modo, si volge su Cipro saccheggiando la città di Canea.

Intanto a Genova era uscito decreto che nessun genovese navigasse; veniva eletto ammiraglio Oberto Doria e il consiglio di credenza gli affidava gli armamenti. Duecento galere ordinava il comune, oltre quelle che davano i privati cittadini.

I Veneziani ricorsero allora al papa che stabiliva una tregua sino al 24 di giugno 1295, la quale i Veneti voleano poi prorogata sino al settembre; ma i Genovesi che sotto quella proroga vedevano l'astuzia, rifiutarono ed avute pronte le duecento galere vi salivano quarantacinque mila combattenti. Quaranta navi si trattenevano a guardia della città; le altre si recavano in Sicilia in attesa del nemico che non venne. Approssimandosi la fine dell'autunno, Oberto Doria fece ritorno in Genova dove poco dopo mori.

L'anno seguente 1296, addì 22 luglio, una flotta veneta di settanta galee comandata da Ruggero Morosini traversava l'Ellesponto presentandosi dinnanzi a Costantinopoli. Si difendevano i Genovesi colà residenti, che per maggior sicurezza avevano abbandonato il quartiere di Pera, e a loro si univa Andronico II imperatore coi suoi greci. I veneti ributtati dai nostri, dato alle fiamme il quartiere di Pera, abbandonarono l'impresa.

Allora si ordinava in Genova un nuovo generale armamento per combattere strenuamente Venezia.

XXVI.

Battaglia di Curzola. Pace con Venezia e Pisa.

Ammiraglio della nuova flotta genovese di settantasei galee era acclamato Lamba Doria, che volgendo la seconda metà dell' agosto 1298 navigava per l'Adriatico.

Venezia armate novantacinque galere, ne affidava il comando ad Andrea Dandolo che si diresse verso Curzola sulle coste Dalmate.

Il Doria avvistato il nemico , avendo favorevole il vento, lo seguiva, e il mattino dell' 8 settembre s' accendeva la battaglia. Questa fu lunga e accanita; la fortuna però sorrise ai Genovesi. La stessa

Lamba Doria.

capitana nemica cadde in lor mano, ottantaquattro galee e 7400 prigionieri fra cui Andrea Dandolo. Più di diecimila persone morirono nella pugna.

La battaglia di Curzola fu per Venezia, almeno per il momento, come già quella della Meloria era stata per Pisa. Venezia ne fu sbigottita; Genova accolse in trionfo Lamba Doria reduce della vittoria.

La repubblica in segno di gratitudine donava al vincitore un palazzo presso S. Matteo che, con apposita marmorea lapide, ricorda ancora il trionfo dei Genovesi in quei giorni.

Più per breve tempo seguitò la guerra tra Genovesi e Veneti, i quali a mediazione di Matteo Visconti signore di Milano e Vicario imperiale fecero pace, annuendo all' atto arbitrale dal Visconti emesso il 25 maggio del 1299 nel palazzo Vecchio di Milano.

Pacificata Genova con Venezia, Pisa reputò opportuno di non stare da sola in guerra colla fortunata rivale, e questa volta convenne un definitivo trattato di pace che Genova ratificò l' ultimo di luglio e Pisa il 13 agosto del 1300.

XXVII.

I Genovesi e gli Almovari.

Gli Almovari costituivano una compagnia di venturieri catalani ed aragonesi che, sbarcati in Italia dopo il Vespro Siciliano a sostenere le parti del re d'Ara

gona cui s'era data la Sicilia, si videro costretti, per la pace pattuita nel 1302 tra Carlo d'Angiò e Federico d' Aragona, a cercare altrove fortuna e capitanati da un Ruggiero di Flor, audace ed ambizioso, andarono a Costantinopoli al soldo dell' imperatore Andronico II travagliato dai Turchi.

Per compiere la loro spedizione, abbisognando di denari, tolsero a prestito dai Genovesi 20 mila bisanti; e poichè dessi furono giunti a Costantinopoli, dove Ruggiero loro capo ebbe le insegne di granduca ed in isposa la nipote dell'imperatore, i Genovesi chiesero la restituzione del prestito e nascostamente cominciarono ad osteggiarli, poichè ben comprendevano che se i Catalani, o a meglio dire gli Almovari, rimanevano nel paese essi avrebbero perduto quella situazione potente ed onorata che vi godevano. Quindi i coloni di Pera si assunsero la cura di mettere in rilievo tutto ciò che poteva eccitare i sospetti dell'imperatore sulla compagnia; mentre da loro parte gli Almovari, favoriti dai Veneziani, non risparmiavano gli attacchi e le prepotenze contro i Genovesi, accrescendo gli odi. -~

Intanto Ruggiero di Flor affrontò i Turchi, respingendoli vittoriosamente; ma poichè la sua crescente potenza ingelosiva la corte bizantina, nel 1305 venne assassinato ad un banchetto, per istigazione del principe Michele figlio e collega dell'imperatore; il che fornì ai feroci catalani il pretesto di ammutinare. Il grosso della compagnia, occupata Gallipoli, acclamò per suo capo Berengario di Entenza ed inviò ad Andronico intimazioni minacciose che furono sdegnosamente respinte. Allora corse ferocissima guerra tra gli Almovari e l' imperatore greco, tremando la stessa Costantinopoli per la propria esistenza.

I Genovesi, dice l'Heyd, restarono fedeli alla loro linea di condotta; d'altronde i loro interessi si confondevano con quelli dell'imperatore, e l'allontanamento

0 la distruzione della compagnia era per essi questione di vita o di morte. Edoardo Doria incontrata la fiotta catalana nel mare di Marmara la mise in rotta facendone prigioniero il loro capo Berengario; un altro capitano genovese coll' aiuto di soldati greci andò ad attaccare gli Almovari in Gallipoli, ma, incontrata vigorosa resistenza, dovette ritirarsi.

Così per qualche tempo seguitò la guerra tra i Genovesi e gli Almovari; ma quelli, cui tornava dannoso pel commercio e la navigazione in Levante dover vivere in lotta continua con truppe agguerrite che in certo modo possedevano le chiavi dei Dardanelli, si decisero di scendere ad accordi e, senza inquietarsi di ciò che ne potesse pensare l'imperatore Andronico, fecero pace colla compagnia catalana; la quale in seguito, volontariamente, abbandonò Gallipoli e nel 13il si stabili nell'Attica e nella Beozia cacciandone

1 duchi della Roche che vi signoreggiavano.

XXVIII. Guerra civile. Scaduti di carica Corrado Spinola e Lamba Doria dopo la famosa sconfitta data ai Veneti, Genova si governò per quattr' anni da un podestà forestiero; ma essendo divisi gli animi dei cittadini in quelle due tristissime fazioni de' guelfi e ghibellini ohe furono la rovina delle città libere medioevali, nel 1304 cominciarono a ribollire gli animi, ai quali forse troppo pareva di essere rimasti in quiete, epperò poco appresso seguirono tumulti e disordini grandi che produssero un periodo disgustoso di guerra civile.

Il dì dell'Epifania del 1306 Fieschi, Grimaldi ed altri molti si levavano in arme contro gli Spinola del ramo di Luccoli che allora imperavano; ma il popolo pigliando le parti di questi ultimi, quelli cacciava in rotta e il dì successivo eleggeva a capitani e rettori della città Barnaba Doria e Opizzino Spinola. Gli autori principali del sollevamento erano, in punizione, banditi all'esilio. Costoro correvano armati la riviera di ponente, onde mosse loro contro Barnaba Doria a cui si arresero, ed ottennero così di rientrare in città. Qui si accordarono nuovamente Fieschi, Grimaldi, Doria e gli Spinola della Piazza o di S. Luca per cacciare gli Spinola di Luccoli, e tanto fecero che staccarono da Opizzino Spinola, Barnaba Doria, uomo potentissimo. Sorse allora guerra tra Opizzino e gli avversari, che, maggiori di numero, lo vinsero, entrarono in Genova, e le case dei Luccoli distrussero alle fondamenta.

Guerreggiossi allora per qualche tempo tra Opizzino Spinola e gli avversari trionfanti; ma questi già pensavano di venire ad un accomodamento, quando Enrico VII di Lussemburgo eletto imperatore stabili scendere in Italia.

Quivi giunto, si recava in Genova l'anno 13 n con grande seguito, accompagnato da Opizzino Spinola, il quale si studiava di ripigliare il perduto potere in patria. I suoi nemici allora, preferendo una signoria straniera a quella d'un loro concittadino, congregarono il popolo sulla piazza di Sarzano il i.° novembre del detto anno e conferirono ad Enrico VII la signoria della repubblica per anni venti.

Da qui l'imperatore bandiva guerra a Roberto re di Napoli, capo dei guelfi d'Italia, e ordinava si allestisse all' uopo una flotta; ma la peste che si diffuse allora in Genova e fuori, e, più che altro, la sua morte avvenuta due anni dopo, troncarono le imprese di lui e la sua signoria su Genova.

La morte di Enrico e la invadente potenza del re Roberto, che aspirava al dominio di tutta la penisola, misero di nuovo a sollevazione la nostra città. I ghibellini, profittando del trambusto, cacciarono i guelfi e s'impadronirono del potere; ma questi a loro volta, poco appresso, cacciarono quelli ed elessero il 10 dicembre 1317 Carlo Fieschi e Gaspare Grimaldi capitani e rettori del popolo.

I ghibellini genovesì allora, rappattumatisi tra loro, chiesero aiuto ai ghibellini lombardi, e, costituendo un forte esercito sotto il comando di Marco Visconti, mossero all' assedio di Genova.

Calava l' esercito ghibellino in Polcevera il 25 marzo del 1318 e cingeva d'assedio, bersagliandola in mille guise, la povera Genova, dove i guelfi facevano tenace resistenza.

Intanto costoro, temendo la furia degli avversari, invocavano l'aiuto delle città guelfe d'Italia nonchè del re Roberto di Napoli, il quale accogliendo subito l'invito recavasi accompagnato da due suoi fratelli in Genova con venticinque galere e grande quantità di cavalieri. Allora i guelfi deliberarono conferirgli la signoria della repubblica insieme al papa Giovanni XXII; e il 27 luglio 1318 solennemente, sulla piazza di San Lorenzo, venne investito Roberto della suprema signoria di Genova per dieci anni.

Re Roberto allora attaccò vigorosamente i ghibellini che, già divisi tra loro, non poterono lungamente resistergli e il 6 febbraio del 1319 levarono l'assedio.

I guelfi diroccarono le case dei ghibellini, portarono in trionfo per la città le ceneri del Battista, quasi fosse scampata da un terribile disastro; e Roberto se ne andò in Avignone lasciando qui per suo Vicario Riccardo di Gambatesa. Appena fu egli partito, Spinola e Doria rappattumati scendevano di nuovo su Genova per terra e per mare, rinnovando l'assedio. E la guerra civile tra guelfi e ghibellini genovesi seguitava altresì nelle riviere, in mare, in Sardegna, in Provenza e nelle stesse colonie in Levante, tanto era feroce l'odio che annidava allora ne' petti dei faziosi.

I ghibellini cercavano l'aiuto di Castruccio degli Intelminelli fattosi signore di Lucca, i guelfi quello di re Roberto e del papa che quelli scomunicava, e quasi bandiva contro di loro la crociata. Re Roberto tornava in Genova il 22 aprile 1324 e per altri sei anni gli era confermata la signoria della repubblica, sebbene venticinque ne desiderasse e con più larghi poteri.

Eletto poco appresso imperatore Ludovico il Bavaro, a lui per aiuto si volgevano tutti i ghibellini italiani, ed egli finalmente il 16 maggio 1327 scendeva a Milano da Galeazzo Visconti. Ma quel principe, percorsa l'Italia da bandito piuttosto che da monarca , se ne tornava in Germania senza nulla fare pei suoi amici italiani.

Cosi durò ancora per alquanto la guerra, finchè nel 1331 i ghibellini genovesi vedendo che in patria non potevano entrare e che la patria stessa pericolava per causa dei Veneziani e Catalani che a suoi danni scorrevano il mare, chiesero una tregua di quattro mesi che fu concordata e prorogata poscia fino ad un anno. Eletto arbitro per la pace il re di Napoli, questi la stabiliva il 20 settembre detto anno, lasciando libertà ai fuorusciti di rimpatriare. In Genova era questa pace solennizzata con grandi feste, poichè da oltre tredici anni durava la guerra civile e gl'interessi di tutti, nonchè quelli del popolo, n'erano stati gravemente turbati e d'ogni parte era vivo il desiderio della quiete interna.

XXIX. Megollo Lercari. Già dissi come i Genovesi fondassero colonie in Trebisonda, dove la loro prima apparizione non è di certo troppo posteriore al 1250, poichè nel 1292 risulta che colà si trovava un Nicolò Doria console di Genova, e nel 1302 vi si rogavano atti in logia in qua regitnr Curia lanuensium. Ancora oggi si vedono gl' immensi fondamenti del castello da loro colà fabbricato, detto il Castel del Leone, e vi ebbero stabilimenti ricchissimi e di molta importanza.

Ma pare che tra quell'imperatore e i Genovesi non regnasse sempre buona armonia, poichè questi ultimi avendo nel 1306 a quello richiesto i privilegi che l'imperatore greco aveva loro concesso in Costantinopoli, minacciando altrimenti di partirsene, Alessio, che allora imperava, rispose che partissero pure, ma pagassero quanti diritti dovevano sulle mercanzie introdotte nei suoi stati. Si rifiutavano di obbedire i Genovesi che vollero sulle navi imbarcare le proprie cose; ma i soldati di Alessio si opposero colle armi,

onde una battaglia che sarebbe riuscita dannosa ai Genovesi, se presto non l'avessero troncata con un amichevole componimento.

Si ha poi un trattato di pace in data 26 ottobre del 1314 pel quale tra l'imperatore Alessio di Trebisonda e Antonio Portonario e Andalò del Negro, ambasciatori di Genova, si convenne un accordo per danni gravissimi recati da genovesi a quell'imperatore e a.' suoi sudditi, dal quale è pur dato arguire che nuove lotte accaddero dopo il 1306 a turbare l'amichevole convivenza.

Ma la pace del 1314 sembra non sia stata di lunga durata, perchè nel 1316 si stipulava tra la repubblica e l'imperatore un nuovo trattato di pace, pel quale quest' ultimo prometteva che non avrebbe mai mosso reclami a cagione dei danni a lui e al suo impero

arrecati da Accellino Grillo e Megollo Lercari. Dei fatti di questo Lercari, barbari per noi, ma pel movente gloriosi, è bene dare un cenno.

Nel 1312 Megollo o Domenico della patrizia famiglia Lercari per negozio di mercatura recossi in Trebi

Megollo Lercari. ^ ^ ^jj, jm_

peratore liete ed onorifiche accoglienze, e fu ammesso nella sua corte con molta simpatia. Avvenne che tra il 1314 e il 1316, chè la data non è ben certa, mentre il Giustiniani registra il fatto sotto l'anno 1389, un cortigiano, favorito dell'imperatore, giuocando con Megollo si lasciò trascinare ad insolentire contro i genovesi e in ultimo a dargli uno schiaffo. Trattenuto dai presenti, il Lercari non potè prendere soddisfazione dell'offesa, e se ne richiamò all' imperatore che lo soddisfece di buone parole, ma non punì l'insolente cortigiano.

Megollo, tolta licenza dall'imperatore, venne a Genova, raccolse il parentado e gli amici, espose loro l'offesa ricevuta e disse aver deliberato trarre di quella solenne vendetta. L'approvarono, e l'aiutarono ad armare due galere colle quali navigò per Trebisonda, recando danni non lievi per terra e per mare ai sudditi di quell' imperatore, e tra l'altro a quanti uomini poteva avere nelle mani faceva tagliare il naso e le orecchie, che salate faceva conservare in un vaso.

L'imperatore mandogli contro navi a combatterlo, ma il Lercari con agilità e valore sempre le vinse, gettando nella costernazione l'impero di Trebisonda. Avuto in quella un vecchio con due figli, ai quali si disponeva a fare il taglio del naso e delle orecchie, il Vecchio gli si gettò ai piedi implorando pietà. Cómmosso il Lercari, o stanco della barbara vendetta, disse al vecchio che a lui e a suoi figli risparmiava il taglio conchè all' imperatore recasse il vaso che aveva pien di nasi ed orecchie salati, dicendo che Megollo Lercari non avrebbe cessato dal danneggiare

F. Domves. io

l'impero se non gli fosse consegnato il cortigiano insolente.

Il vecchio recossi dall'imperatore che, visto il vaso, e udita la dichiarazione di Megollo, andogli incontro alla riva col cortigiano colpevole. Lercari volle che questi gli fosse consegnato e quando se l'ebbe dinnanzi diedegli un calcio nel viso, e poichè quegli piangendo implorava la vita, Megollo lo fece alzare dicendo: non sai che i genovesi non incrudeliscono contro le femmine? e lo rimandò libero all' imperatore.

A seguito di questo fatto, in forza del trattato del 1316 l'imperatore concesse ai genovesi più ampia e comoda stazione che non fosse quella di Castel Leone, in un luogo detto la Darsena, onde il Senarega e il Giustiniani, che primi scrissero del Lercari, dicono che da lui derivò il grande emporio commerciale di Genova in Trebisonda.

XXX.

Guerra coi Catalani.

Poc'anzi vedemmo i Genovesi in lotta coi Catalani, costituenti il nerbo della compagnia degli Almovari, i quali s' erano dati a rivaleggiare con essi neh' impero greco, dove i primi avevano la somma dei loro interessi; ma la lotta rimase allora ristretta colla compagnia di ventura e per ragioni esclusivamente commerciali, mentre vera e propria guerra tra i Catalani e i Genovesi scoppiò più tardi e per opera indiretta d' un pontefice.

Bonifazio Vili, per favorire la casa d'Angiò, donava in feudo, ad Jacopo II re d'Aragona, la Sardegna e la Corsica, sulle quali isole il pontefice vantava sempre diritti di sovranità malgrado i brevi di cessione a Pisani e Genovesi dei suoi predecessori, conchè egli restituisse al re di Napoli la Sicilia.

Il re Jacopo accettò la permuta e mosse guerra ai Pisani che sulla Sardegna in parte signoreggiavano, ma essi lo placarono presto con una rilevante somma di denaro. Passato qualche tempo, cioè nel 1323, il figlio di re Jacopo, l'infante Don Alfonso, con una poderosa armata salpò da Porfangos per occupare definitivamente la Sardegna e, accordatosi all' uopo col giudice d'Arborea Ugone Serra, con Branca Doria che era quasi re nell'isola di Sardegna e coi Malaspini (quali genovesi possedevano il rimanente dell' isola), assalì le proprietà dei Pisani, i quali sebbene si difendessero energicamente furono nel 1326 costretti a sottomettersi.

Ma non tardarono molto i Catalani a volgersi contro i Genovesi che nell'isola aveano dominio, e contro la stessa repubblica, poichè nel 1331 quaranta galere uscendo di Catalogna davano'il guasto nella riviera di ponente da Monaco a Genova, e quindi seguitavano a saccheggiare nella riviera di levante, svillaneggiando la repubblica.

L'anno seguente 1332 i Genovesi armavano quaranta

cinque galere e sotto gli ordini di Antonio Grimaldi le mandavano a trarre vendetta dell'offesa e dei danni sulle coste di Catalogna. Anche l'anno appresso trascorse in reciproche depredazioni, senza che alcuno si segnalasse, quando nel 1334 un'armatetta comandata da Salagro Dinegro dopo aver liberato Alghero, ch' era assediato, seguitando quattro navi catalane che da Majorca correvano in Sardegna ad occupare le terre dei Doria, se ne rendeva padrone. Lasciava in Cagliari le donne che a bordo si trovavano, mogli di 180 nobili cavalieri Aragonesi, rispettandone l'onestà, e i feriti; e con 360 prigioni facea ritorno in Genova. Tornava al largo prestamente e pigliava prima sei navi al nemico, e poscia altre quattro. Entrava nel porto di Cagliari e sotto gli occhi della guarnigione vi faceva appiccare un corsaro catalano; onde può dirsi che tutto l' onore e la gloria di questa campagna i Genovesi la dovettero al valoroso ed onesto Dinegro.

Così seguitava la guerra nel mare di Cipro, nell' Egitto e sulle coste sarde, sempre colla peggio dei catalani, finchè sul cominciare del 1336 Genova faceva tregua col nuovo re Pietro IV d'Aragona, convertita in pace nel settembre dello stesso anno. In forza di tale accordo, il re d'Aragona conservava le terre acquistate in Sardegna, rispettando quelle dei Genovesi e rinunziava a qualunque pretesa sull'isola di Corsica, stata ceduta nel 1299 a Genova dai Pisani.

Mutazione di Governo. Il Dogato.

Governava Genova Bulgaro di Tolentino a nome del re Roberto di Napoli, e sotto di lui otto abati del popolo ed otto nobili, che le cose popolari e della nobiltà regolavano.

Che la nomina di quel governatore ai ghibellini dispiacesse, o rinascessero gli addormentati odii di parte, fatto è che guelfi e ghibellini sul principiare del 1337 venivano alle mani, rinnovando quella guerra civile che poco prima era cessata con letizia universale. Capitavano in porto otto galee dei ghibellini piene d'uomini e cavalli, volevano sbarcarli, ma si opponevano i guelfi; quelli sbarcavano egualmente e occupavano tutto quel tratto che è tra S. Luca e il Castelletto, s'impadronivano anche di Portoria il 27 febbraio.

Allora Giovanni Fieschi che capitanava i guelfi, visto che non poteva resistere, si ritirò in Torriglia, per cui alla fine di febbraio del 1337 il dominio della città e dei sobborghi era tutto nelle mani dei ghibellini.

Il 9 di marzo il parlamento eleggeva presidi e capitani dell'università e del popolo di Genova Raffaele Doria e Galeotto Spinola per due anni. Si stabiliva che Genova si governasse dal podestà, dai due capitani, dall'abate del popolo e dagli anziani; quindi si eleggeva a podestà Beccano di Beccaria cittadino pavese e dottore in leggi.

Dei guelfi taluni tornarono in città, giurando obbedienza al nuovo ordine di cose; altri, tra cui i Fieschi, molestavano la repubblica da Monaco e per la riviera di ponente quanto più potevano.

Impadronitisi poscia dell' isola di Sestri nella riviera di levante anche di qui minacciavano; ma una flotta comandata da Napoleone Spinola non sì tosto comparve alla vista di Sestri fece mettere in fuga i guelfi, che tutti in Monaco ripararono. Ma per terra e per mare proseguì quasi senza interruzione la guerra tra i due partiti fino al 1339, nel quale anno i nobili ghibellini desiderosi forse di padroneggiare a lor talento e dimentichi dell'aiuto che il popolo aveva loro dato, stabilirono che l'abate del popolo fosse eletto dal consiglio non dal popolo stesso.

L'abate era la magistratura popolare per eccellenza, era il diretto rappresentante della plebe nel governo della cosa pubblica, quindi non è a dire quanto tale determinazione increscesse ai popolani, i quali, eccitati senza dubbio da coloro che nei torbidi vogliono ricavare il proprio utile, altamente protestarono, minacciando gravi disordini.

I capitani, a scongiurare i pericoli d'un tumulto popolare, revocarono l'odioso deliberato, e il 23 settembre del 1339 il popolo di Genova e delle vallate di Voltri, Polcevera e Bisagno procedeva all' elezione di venti individui cui era delegata la facoltà di nominare l'abate.

Ora mentre questi elettori stanano radunati ed il popolo sulla piazza

attendeva la nomina, un tale

saltò a proporre si eleggesse Simone Boccanegra, siccome uomo giusto e caro al popolo. Questo senza più si dà a gridare: Viva il Boccanegra nostro abate, e presolo in trionfo lo porta innanzi ai capitani ponendolo in mezzo a loro.

Il Boccanegra, chetato il rumore, levossi a dire: Signori del popolo, vi sono molto grato della nomina di cui mi voleste onorare, ma abate io non posso essere, perchè i miei maggiori non coprirono mai tale ufficio; volendo dire con ciò che per la grandezza della sua casa, sebbene non fosse nobile, era troppo misera la carica di abate.

Allora il popolo ad una voce gridò: siate nostro signore; e vi fu chi disse: siate doge, unico signor nostro; cui non mancò l' unanime voto popolare a confermare la designazione della nuova carica.

Simone Boccanegra veniva quindi eletto doge rettore governatore del popolo di Genova, di tutta la comunità e università genovese e distretto a vita, con piena giurisdizione da esercitarsi personalmente o a mezzo di suoi deputati; e si eleggeva poscia una balia di sapienti del popolo con facoltà di stabilire le condizioni e modalità del governo dogale, di riformare gli

Simone Boccanegra. statuti e le leggi esistenti e crearne di nuove in conformità dei bisogni.

In questa guisa, il 24 settembre 1339 la repubblica di Genova passava al governo dei dogi popolari a vita che durò sino al 1528.

LIBRO TERZO

DALL'ANNO 1339 AL I528

Discordie cittadine. Abdicazione del Boccanegra.

Il doge, uscito dal voto popolare, ordinava popolarmente il governo. Si costituiva un consiglio di quindici popolani, e si determinava che il doge mai dovesse togliersi dalla nobilità; quale legge venne osservata sino al 1528. Ma siflatte disposizioni non garbavano alla nobiltà che, dimenticando gli spiriti guelfi e ghibellini che la dividevano, allora si collegò a danni del nuovo regime. Prima un uomo di Voltri,

poscia un, macellaio ed altri diversi all' uopo istigati e salariati attentarono alla vita di Simone Boccanegra: arrestati, vennero decapitati. Giorgio del Carretto, marchese di Finale, metteva a tumulto la riviera di ponente, per cui il doge dovette mandargli contro Giovanni de Mari a sottometterlo. Del Carretto, considerato il pericolo, spediva messi a trattare col doge, che lo invitò a recarsi di persona in Genova. Veniva e rassegnava nelle mani del doge le terre di Finale, Varigotti e del Cervo e le terre dei signori di Lengueglia che avevano preso le sue parti; ma scoprendosi eh' egli tramava insidie alla repubblica, veniva imprigionato e posto in una gabbia di ferro.

La riviera di ponente, colla scomparsa del marchese del Carretto, parve per un momento rimettersi in calma; ma i Grimaldi padroni di Monaco e i nobili ghibellini di Ventimiglia, non tardarono a sollevarla. Oneglia era tosto colle armi sottomessa; Antonio Doria che più inferociva nella ribellione veniva bandito.

Luchino Visconti signore di Milano tramava pure a danno di Genova, ma scoperti i complotti per suo conto orditi, i traditori vennero impiccati.

Intanto si faceva grosso il partito dei nobili fuorusciti in Monaco, dove armavano truppe che infestavano tutti i paesi della repubblica; per cui il doge congregava i conestabili della città, specie di rettori o assessori delle diverse parti nelle quali la città stessa era divisa, e proponeva loro di accogliere nel governo i nobili, affine di calmare tante ire. Accettata la proposta, si componeva un consiglio di sei nobili e sei popolani il quale provvedesse insieme al doge al governo dello Stato.

Questo temperamento non bastò a quetare gli animi, chè i nobili cacciarono gli ufficiali della repubblica da Rapallo, Chiavari e Recco, scesero in Polcevera e si avvicinarono minacciosi sino al borgo di Pre; tanto che il doge desideroso di pacificare la repubblica, altre concessioni faceva ai nobili; ma, poichè vide che aspiravano a torgli ogni autorità, deponeva il dogato (1345) e poco appresso, non tenendosi sicuro in Genova, riparava a Pisa.

II.

Giovanni di Morta, secondo doge.

Congregatosi il popolo in S. Lorenzo il 25 dicembre del 1345 eleggeva doge Giovanni di Murta, uomo fornito di molte virtù, che accettando l' ufficio dichiarò non volere stipendio di sorta, solamente gli fossero rimborsate le spese.

Il nuovo doge si accinse a mettere la pace nello Stato, ma invano; chè da una parte e all'altra era viva l' animosità. I popolani di Savona cacciavano la nobiltà, e quei di Genova assalivano le case dei Squarciafichi e d'altri nobili e le incendiavano. I consiglieri del doge si dimettevano impauriti, e di nuovo quindici consiglieri popolari venivano eletti; poscia si.cacciavano i nobili d'ogni parte della città, i quali si ritirarono nelle loro castella dei dintorni.

Da qui peggioramento nella guerra tra popolo e nobiltà. In Genova si armavano tre galere e con molti soldati erano spedite nella riviera verso Albenga; i fuorusciti, guidati da Antonio Doria, andavano loro incontro, ed erano vinti. Altro esercito di 1800 uomini e dodici galere, partivano da Genova, sottomettendo Oneglia, Portomaurizio e il Cervo. Antonio e Stefano Doria cedevano pure le armi.

Usciva intanto una sentenza arbitrale di Luchino Visconti per sedare questa guerra civile nel Genovesato; ina non l'accettavano i nobili che raccolti in Monaco ordinavano un esercito di 12 mila fanti e mettevano in mare trenta galere.

A tener fronte a tanti armamenti, il governo della repubblica, le cui finanze erano esauste, ricorse ad un prestito pubblico, col quale armò ventinove galere. Il 22 gennaio del 1346 il doge consegnava lo stendardo genovese a Simone Vignoso cui era affidato il comando della flotta; ma la partenza venne fissata pel 24 aprile.

In questa i fuorusciti riducevansi in Marsiglia e quindi andavano a servigi del re di Francia in guerra col re d'Inghilterra, liberando cosi, per allora, da un imminente pericolo la patria.

III.

La Maona di Scio.

Gli Zaccaria signoreggiavano in Focea, posta all'ingresso del golfo di Smirne, sin dal 1275, e nel 1304 Benedetto Zaccaria si era impadronito dell' isola di Scio, rinomata pei suoi prodotti e sopratutto pel suo mastice; ma l'imperatore Andronico II nel 1329 spogliava gli Zaccaria del possesso di Scio e costringeva a sudditanza Focea vecchia e Focea nuova dai Cattaneo fondata.

Ora nei Genovesi era vivissimo il desiderio di riacquistare l'isola di Scio, come quella che per la sua posizione giovava grandemente al loro commercio nel Mar Nero, dal quale voleano escluso qualunque altro popolo; epperò la flotta ordinata sotto il comando di Simone Vignoso, poichè i fuorusciti nobili andarono in Francia, la spedirono al vagheggiato riacquisto.

Navigando il Vignoso per il Levante, ad istanza degli abitanti, liberava Terracina dall' assedio del conte di Fondi, espugnava altre terre del regno di Napoli occupate da quel signore, e quindi giungeva a Negroponte.

Qui la flotta genovese ne incontrava una veneta capitanata dal Delfino di Vienna che parea .volta alla stessa impresa cui la genovese era incamminata, ed anzi pare che quel Delfino proponesse al Vignoso largo compenso se lo aiutava; proposta sdegnosamente rifiutata dal capitano genovese.

Il quale s' affrettò a Scio e mandò ai Greci informandoli delle intenzioni dei Veneti e del Delfino di Vienna e li invitò ad accettare la protezione dei Genovesi. Rispondevano superbamente i greci a tale ambasceria; quindi il Vignoso, sbarcate le truppe, occupò tutta l'isola, salvo la capitale che cinse d'assedio. I greci si difesero fino a che ebbero vettovaglie, all'ultimo stremati di forze, si arresero, e il 12 settembre 1346 Simone Vignoso ne pigliava possesso in nome della sua repubblica.

Lasciato un buon presidio in Scio, il Vignoso navigò verso le Focee, e prima assali la Vecchia, dopo aver intimato agli abitanti di ritornare sotto l'antico dominio, impadronendosene colla forza, e poscia la Nuova si arrese senza resistenza.

Fatto ciò, la flotta ritornava in Genova ov'era accolta con giubilo il 9 novembre.

Siccome poi il governo della repubblica non era in condizione di rimborsare gli armatori delle ventinove galere, delle spese incontrate, conferì loro nel 1347 il dominio utile e l'amministrazione di Scio e delle Focee oltre il diritto ad una parte delle rendite pubbliche. Donde nacque, scrive il Belgrano, una società per azioni, la quale, come gli altri simili istituti d'allora, 4si disse Maona dall'arabo Mà oùnah, che significa assistenza, rinforzo, contribuzione straordinaria per sopperire alla penuria del pubblico tesoro, e compagnia commerciale o industriale. Dalla Maona venne il nome di Maonesi agli azionisti, i quali, nel 1362, abbandonati i rispettivi cognomi, assunsero quello di Giustiniani.

Le Focee rimasero in potere dei latini sino al 1456; l'isola di Scio sino al 1556.

IV.

Guerra con Venezia.

L'occupazione di Scio da parte dei Genovesi e divergenze commerciali provocarono nuova guerra tra Genova e Venezia. Questa armate venticinque galere le mandava a caccia delle genovesi dirette al Mar nero. A quelle se ne aggiungevano altre dieci, e la flotta, forte cosi di trentacinque galere, arrivava nel porto di Caristo in Negroponte. Vi trovava quattordici navi mercantili genovesi, ne pigliava dieci, scampando le altre quattro colla fuga in Scio. Qui si armavano alcune galere che comandate dal podestà Filippo Doria assalivano Negroponte, pigliando molti prigionieri veneziani; nello stesso tempo anche l'isola di Cia era da loro presa insieme al castello dei veneziani.

Queste erano avvisaglie, chè Venezia concordata una lega con Pietro IV re d'Aragona e con Giovanni Cantacuzeno usurpatore dell'impero greco, con nume

F. DONATBB. II

rosi navigli si accingeva a regolare e formidabile guerra contro Genova. D'altra parte Genova provvedeva pure al bisogno. A Giovanni di Murta, perito nel 1348, era stato dato per successore nella dignità

dogale Giovanni di Valente non dissimile dall' altro nel desiderio di unire e fortificare la patria. I nobili scampati alla guerra franco-inglese, furono riammessi in città, e dalla concordia di tutti uscì una flotta di sessanta galere di cui fu affidato il comando a Pagano Doria. In questo frangente, dice il Serra, solo un uomo senza titoli, senza alcuna dignità eminente parlò di pace. Francesco Petrarca scrisse una lettera al doge di Venezia Andrea Dandolo, la quale così concludeva: « Prostrato a piè delle due repubbliche, pieni gli occhi di lagrime e d'amarezza il cuore, io grido loro: deponete l'armi civili, datevi il bacio della pace, unite gli animi vostri e le bandiere. Così l'Oceano e l'Egeo vi sieno favorevoli, giungendo le vostre navi prosperamente a Taprobana, all' isole Fortunate, a Tule incognita e fino ai due poli. I re e i popoli più lontani vi andranno incontro, i barbari dell'Europa e dell' Asia vi paventeranno, e la nostra Italia sarà a voi debitrice dell' antica gloria. »

Pagano Doria.

L' eloquenza del Petrarca aveva le debite lodi dal doge Dandolo, pure uomo di lettere, ma non arrestava la guerra fra le due repubbliche.

Greci e Veneti assaltavano la colonia di Pera, ma i coloni avevano preparata fortissima difesa. Gli attacchi per terra e per mare respingevano con grande rabbia dell'imperatore Cantacuzeno, il quale non sapeva darsi pace di essere lasciato solo all'impresa dall'armata veneta comandata da Nicolò Pisani che aveva ricevuto ordine di tenersi pronto a collegarsi con altre navi che da Venezia gli venivano spedite, per affrontare l' armata dei Genovesi che allora navigava per quelle acque.

Pagano Doria infatti, uscito dal porto di Genova, volgeva verso Costantinopoli, ed incontrava la flotta del Pisani, che non avendo forze sufficienti, riparò a Negroponte. La inseguiva e certo l' avrebbe presa se il Pisani arditamente non avesse sbarcato le truppe, e le navi non avesse dato in preda alle fiamme.

Il Doria tentò impadronirsi di Negroponte, ma dopo due mesi dovette ritirarsi per la eroica resistenza dei veneti. Lo chiamava in suo aiuto e difesa l'imperatrice Anna Paleologo contro l'usurpatore Cantacuzeno; ma non appena egli fu sulle mosse gli giunse dall' imperatrice Anna ordine contrario, per cui il Doria navigò verso la Propontide in traccia dei veneziani.

Intanto un'armata veneta di trenta galere, condotta da Pancrazio Giustiniani, navigava in Sicilia per riunirsi ad altra flotta catalana pure di trenta galere condotta

da Ponzio di Santa Pace. Queste due flotte dovevano riunirsi a quella del Pisani e all' armata greca, e tutt' insieme fare impeto su Pera.

Pagano Doria, informato del progetto da un veneto fatto prigioniero, disegnò impedire il collegamento dei veneti-catalani coi greci; ma il vento, contrario a sè, e favorevole ai nemici, non gli permise l'attuazione del disegno, ed egli si trovò nel Bosforo di fronte ad una flotta di gran lunga superiore alla sua e in posizione da non poter rifiutare la battaglia.

Era il 13 febbraio 1352. La pugna si appiccò senz'ordine, alla spicciolata, improvvisamente. Una fiera procella che si scatenò allora, rese più triste e feroce il combattimento. Genovesi, Catalani e Veneti e Greci combatterono senza tregua, con memorando ardimento, dal mattino alla sera, scambiando perfino gli amici per nemici. Solo la notte mise fine alla battaglia, detta delle Colonne, di cui la vittoria non si può asseverare arridesse ad alcuno; tutti però furono talmente malconci che l'imperatore greco s'indusse a concludere un trattato di pace in data 6 maggio coi Genovesi, pel quale ebbero ingrandita la colonia di Pera e il diritto d'impedire ai greci di navigare verso la Tana; i Veneziani e i Catalani lasciarono improvvisamente Costantinopoli; e il papa Clemente VI invitava genovesi, veneti ed aragonesi alla pace per collegarli contro i Turchi d'Asia e i Mori di Spagna. V.

Fine della guerra veneta.

Fu allora breve tregua, ma non pace. Gl'inviti del pontefice non furono ascollati; chè i Genovesi si allearono col re d' Ungheria, i Veneti coll'imperatore Carlo IV, e nell'agosto del 1353 i primi misero in mare 60 galee di cui affidarono il comando ad Antonio Grimaldi, i secondi ne armarono 45, e 35 gli aragonesi.

La flotta veneta entrata nel Mar nero travagliava i mercanti genovesi, predandoli e conducendoli prigionieri a Candia; gli aragonesi assediavano la città di Alghero in Sardegna che il 1 gennaio di quell' anno s' era data alla repubblica di Genova.

Antonio Grimaldi uscito dal porto di Genova colla sua flotta veleggiava verso Portovenere, ove una procella gli disalberava otto navi. Colle cinquantadue rimanenti arrivava qualche, giorno dopo in prossimità del golfo di Alghero e qui il 29 agosto s'ingaggiava Serissima battaglia tra genovesi e catalani sovvenuti dai veneti. Ma il Grimaldi, debole d' animo ed incapace, mentre più ferve la pugna con 11 galere fugge verso Genova, e così la vittoria è del nemico che preda 41 galere e fa 7500 prigioni.

In Genova sollevò grande tumulto la patita sconfitta, e il timore di maggiori guai, essendo il Mediterraneo padroneggiato dai veneti e catalani che impedivano il commercio genovese, mentre l'arcivescovo Giovanni Visconti signore di Milano tendeva ad invadere il genovesato dagli Appennini. In tale angustia, Genova si donava al Visconti per tutta la sua vita, sotto talune condizioni.

Mandava il Visconti a governatore della città Guglielmo Pallavicino marchese di Cassano con 700 cavalli e 1500 fanti, e la guerra si ripigliava con Venezia a riparare la sconfitta di Alghero.

Quattro leggerissime galee genovesi scorrevano l'Adriatico, danneggiando quante navi venete incontravano; e poscia una flotta di trentacinque galee sotto il supremo comando di Pagano Doria veniva mandata in cerca della veneziana che teneva il mare forte di 35 galere, sei grosse navi e venti minori comandata dal valoroso Nicolò Pisani.

Mentre la flotta veneta scorreva fino ad Alghero, la genovese si spingeva sino all' Istria, occupando e saccheggiando Parenzo, tanto che da grave timore fu turbata Venezia; poscia volgeva a Scio.

Il Pisani intanto erasi recato nella Morea, e si atteggiava a battaglia nel porto di Navarrino Vecchio. Il Doria saputo che ivi si trovava il nemico, vi si recò, invitando l' ammiraglio veneto a battaglia. Il Pisani che aveva progettato certo strattagemma pel quale sperava prendere in mezzo la flotta genovese, non volle uscire dal porto; allora quindici galee genovesi si lanciarono con impeto nel porto di Navarrino sconquassando le navi venete; il rimanente della flotta le seguitò e scendeva la sera del 4 novembre 1354 quando l'armata veneziana tutta era preda di Pagano Doria. In questa battaglia ben ^ooo furono i morti e 5000 i prigionieri veneti condotti in Genova dal Doria, al quale non mancarono onoranze e ricchi doni da parte del comune, e, morendo poco dopo, solenni esequie fattegli a pubbliche spese.

Dopo tale sconfìtta, i Veneziani vennero a trattative di pace coi Genovesi, e la pace fu fatta in Milano il 1 giugno del 1355 a mediazione di Matteo, Bernabò e Galeazzo Visconti succeduti all'arcivescovo Giovanni anche nella signoria di Genova.

VI.

Affari di Tripoli e Costantinopoli.

La repubblica dispiacente di aver perduto la città d'Alghero, mandò Filippo Doria con 16 galere a ricuperarla; ma il Doria non essendo riuscito nell'impresa e non volendo tornare in patria senza aver operato qualchecosa (o di sua iniziativa o fors' anco per segrete istruzioni del suo governo) navigò verso Tripoli dove un fabbro aveva usurpato il supremo dominio.

Era suo disegno impadronirsi di Tripoli, cacciandone P usurpatore; ma colle truppe che aveva non poteva d' assalto riuscire all' intento, onde coll' astuzia si studiò di raggiungere lo scopo. Entrato nel porto di Tripoli in sembianza d'amico, sbarcò persone incaricate di scrutare i luoghi, e com' ebbe le notizie desiderate partì. La notte improvvisamente faceva ritorno, sbarcava con tremila soldati, scalava le mura ed entrava nella città, che diede in preda al saccheggio.

Dicesi che il bottino fatto sali a quasi due milioni di fiorini, oltre a settemila prigionieri fra uomini e donne.

La repubblica, o che veramente il Doria operasse di sua testa, o che temesse guai dagli altri stati barbareschi, disapprovò ufficialmente il Doria, al quale ordinò sgombrasse da Tripoli.

Allora Filippo Doria vendette ad un saraceno per 50 mila doppie d'oro il dominio di quella città, lasciò i prigionieri e partì, imprendendo una campagna contro i catalani, dopo la quale fece ritorno in patria.

Altro affare non meno ardito e degno di ricordo è quello concepito ed eseguito da Francesco Gattilqsio a prò' dei Paleologhi.

Cantacuzeno aveva cacciato dal trono greco il legittimo imperatore Giovanni VI Paleologo, e se stesso aveva assunto alla sovrana dignità. Il giovane Paleologo insieme alla madre Anna di Savoia riparò in Tenedo, dove giunse appunto nel 1351 Francesco Gattilusio, cittadino genovese, con due galere, bramoso di avventure e di singolari imprese.

Egli si offerse al decaduto imperatore di ristabilirlo sul trono, cui aveva diritto, e il Paleologo a sua volta, accogliendo l' offerta, gli promise la sorella in

isposa e l'isola di Lesbo in dono se conduceva a bene l' affare.

Il Gattilusio colle sue due navi volge a Costantinopoli ove arriva di notte fingendosi mercante d'olio sbattuto dalla tempesta. Chiama ad aiutarlo i custodi di una porta della città, ed essi, senza sospettare il tradimento, escono fuori a sovvenirlo; quando alcuni genovesi armati, all' uopo imboscati, si lanciano sulle guardie greche e le uccidono, entrano nella città, s'impadroniscono della torre e v'innalzano lo stendardo dei Paleologhi; corre quindi il Gattilusio per Costantinopoli ad avvisare gli amici di Giovanni VI e il mattino il popolo si raduna sulla piazza dell' Ippodromo gridando: Viva per lunghi anni l'imperatore Giovanni Paleologo.

Il Cantacuzeno vistosi abbandonato, rifuggiossi nel Monastero della Vergine Maria e vestito l' abito religioso si trasferì poscia in quello sul monte Athos.

Giovanni VI Paleologo ricuperato il trono, mercè l' ardimento dei genovesi, conforme i patti, dava a Francesco Gattilusio la signoria sull'isola di Lesbo e in isposa la propria sorella.

VII.

Il secondo dogato di Simone Boccaneg-ra.

Morto l' arcivescovo Visconti doveva cessare la signoria Viscontea in Genova, ma i nipoti di lui, Matteo, Bernabò e Galeazzo vollero conservarla contro la volontà popolare. Forse l' avrebbero tenuta e lungamente, se le scelleratezze da loro commesse e dai loro agenti non avessero ribellato l' animo dei genovesi.

Simone Boccanegra che dopo l'abdicazione del dogato s'era ritirato in Pisa, aveva poscia stabilito la sua dimora in Milano, e qui ai fratelli Visconti che pieni di mal talento stavano contro la nostra repubblica, propose il suo ritorno in Genova dove avrebbe mantenuta la signoria Viscontea.

Accettarono l'insidiosa offerta i Visconti, ed egli di nascosto penetrò in Genova, quando più gli animi fervevano, pronti alla rivolta.

D'un tratto il 14 novembre 1356 i nobili seguiti da parecchi popolani levano le armi, la plebe si arma a sua volta e una nuova guerra civile insanguina le vie della città.

Allora Simone Boccanegra con 200 popolani si ritira in San Siro, poscia corre al palazzo pubblico e se ne impadronisce. Fa suonare a stormo la campana, e i nobili, che a ciò non si aspettavano, depongono le armi e si ritirano alle rispettive case.

Il domani il Boccanegra è nuovamente eletto doge, che con grande severità pacifica lo Stato. Caccia in esilio i nobili più potenti, stabilisce che i nobili non possano occupare pubblici uffizi e spettare solo ai popolari guelfi e ghibellini il governo.

Il secondo dogato del Boccanegra fu abbastanza tranquillo e glorioso. L'esercito comandato da suo fratello Bartolomeo Boccanegra sconfisse l'esercito Visconteo e si spinse vittorioso fino alle porte di Milano; anche per mare la sicurezza venne ristabilita e il territorio della repubblica visse ordinatamente tranquillo.

Tuttavia i nobili non potevano rassegnarsi a stare lontani dal potere, quindi congiuravano; ma le congiure prestamente erano scoperte e i colpevoli severamente puniti.

Ora accadde che Pietro re di Cipro passasse da Genova per recarsi ad invitare i re ed i principi a soccorrere i cristiani in Levante travagliati dai turchi. In questa occasione Pietro Malocello, che con quel re aveva dimestichezza, invitollo ad un solenne banchetto nella sua villa di Sturla, al quale intervenne pure il doge Simone Boccanegra.

Nel corso del banchetto al doge fu somministrato il veleno di cui presto si morì. Lo stesso giorno era levata a rumore la città, e i fratelli del Boccanegra, Bartolomeo, Giovanni e Nicolò, con tutti gli altri loro congiunti erano arrestati.

Ma ai nobili non giovò gran che il delitto, perchè il popolo, congregatosi, eleggeva a doge Gabriele Adorno, mercante ghibellino, che godeva fama di onestà ed intelligenza.

Simone Boccanegra morto fra gli spasimi del veleno, fu sotterrato senza onori, nella chiesa di San Francesco di Castelletto. Sulla tomba venne elevato un deposito di marmo sorretto da due leoni colla statua giacente e le armi del comune e di sua casa.

Il nuovo doge Adorno non tenne però lungamente l'ufficio, chè avendo imposto balzelli per aumentare le entrate dello stato, il popolo, eccitato da un Guglielmo Erminio e da Domenico di Campofregoso mercante popolare, si sollevò, assalì il palazzo pubblico e costrinse Gabriele Adorno a dimettersi.

In sua vece venne eletto doge Domenico di Campofregoso, che dapprima trovò alquanto contrasto per non essere stata la sua nomina fatta legalmente; ma confermata poi l' elezione, tenne l' ufficio.

Vili.

Conquista di Cipro.

I Genovesi fin dalla prima metà del XIII secolo ottennero concessioni e privilegi dai Lusignano nelle principali città dell'isola di Cipro, e ad essi seguirono poscia i Veneziani che, proseguendo le rivalità tra i due popoli, riuscirono ad eccitare contro i primi l'animosità dei cipriotti e in ultimo l'odio dello stesso re.

Era morto, trucidato dai fratelli, il re Pietro I, e il figlio compiuto il quinto lustro assumeva la regale dignità col nome di Pietro II con solenne cerimonia. A questa cerimonia, per ragioni di precedenza, venivano ad acerbe parole il console Paganino Doria e il veneto Malipiero; il diverbio sostenuto segretamente dagli zìi del giovane re, si fece più serio tolte le mense, tanto che in breve, nello stesso reale palazzo i genovesi e i veneziani vennero alle mani. I cipriotti secondano questi ultimi, e i genovesi sono trucidati, precipitati dalle finestre, inseguiti fin nei loro quartieri, dove la moltitudine dei nemici fa saccheggio delle ricchezze ivi trovate.

I veneziani diedero a credere al re Pietro II che quel moto era stato provocato dai genovesi per torgli la vita; per cui egli a capo dei suoi soldati assaltava a sua volta i genovesi facendone scempio. Intimava poi al console di Genova si presentasse a lui, confessandosi reo; al che rispondeva sdegnosamente il magistrato genovese, ricordando al re i benefizi che dalla Repubblica avevano ricevuto i suoi maggiori. Il re vieppiù eccitato ed indispettito, infieriva contro i genovesi, i quali decisero abbandonare il regno. Stavano già sulle navi le loro famiglie e le loro ricchezze pronti alla partenza, quando il re ordinò un generale massacro dei genovesi.

Giunta la nuova nella madre patria di tale feroce persecuzione, il governo ordinava una numerosa flotta che si recasse a trarre vendetta dell'accaduto.

Intanto Pietro II mandava legati al pontefice per informarlo dei fatti e prevenirne l'animo, qualora si fosse sollevata la questione a chi spettasse pagare l'ammenda di centomila ducati, stabilita nelle convenzioni tra il re di Cipro e i genovesi per colui che avesse primo rotta la pace. La repubblica spediva pure i suoi ambasciatori; e il papa sentenziava fossero consegnati al comune di Genova gli uccisori, si restituissero le

sostanze rubate, si compensasse d'ogni danno i genovesi, e quanto ai centomila ducati li pagasse il re Pietro, comprese le spese di una spedizione navale, se la sentenza non accettasse.

Temporeggiava il re ad accettare, per cui la flotta genovese di quarantatre galere e altre navi sotto il supremo comando del fratello del doge, Pietro di Campofregoso, prendeva il mare.

Il re di Cipro informato dell'armata che muovea a suoi danni, sequestrava le navi dei genovesi che si trovavano nei porti dell' isola e vietava ad essi di uscirne, quando sulla fine d'aprile 1373 compariva dinanzi a Famagosta l'avanguardia della flotta genovese sotto il comando di Damiano Cattaneo, gran maresciallo della Sedia Apostolica e senatore di Roma. Questi sbarcò un frate che si recò dal re a significargli che quella era la flotta inviata dal papa ad ese guire la sentenza. Il re volle pigliar tempo a trattare, ma effettivamente per preparare la difesa, onde la flotta del Cattaneo si avvicinò e le truppe furono sbarcate.

I genovesi percorrevano quasi l'intera isola, distruggendo borghi, devastando città, respingendo le truppe del re che loro voleano opporsi. E qui narrasi che il Cattaneo entrato in Nicosia onestamente volle fossero rispettate le donne fatte prigioniere e ai rispettivi padri e mariti restituite.

II 1 ottobre giungeva nelle acque di Cipro il grosso della flotta genovese. I genovesi si accingevano alla conquista di Famagosta, ma per l'accanita difesa, la fortezza del luogo e le tempeste di mare, che mettevano in pericolo le navi, furono costretti a ritirarsi. Si veniva poscia a trattative tra il re e il Campofregoso, per le quali quest' ultimo entrava con alquanti soldati nella città, ma accortosi il duce genovese che si ordiva un tradimento, improvvisamente si rendeva padrone della città stessa e del re nel suo stesso palazzo. Qui cominciò una lotta d'astuzie , d' imboscate, di tradimenti da parte di Pietro II prigioniero dei genovesi, sovvenuto dagli zii che stavano in Nicosia, contro il Campofregoso; ma alfine questi, superato ogni ostacolo, si rendeva padrone delle rimanenti parti dell'isola e col mezzo del Gran Mastro di Rodi si ripigliavano le trattative di pace, la quale venne così conclusa:

Il re Pietro accettava il regno che il Campofregoso gli restituiva a patto pagasse 40 mila fiorini d'oro di tributo perpetuo alla repubblica; che lo stesso re si obbligasse a pagare per 12 anni due milioni dodicimila quattrocento fiorini a compenso delle spese fatte e più 90 mila per le galere mantenute a difesa dell'isola; ritornassero i genovesi liberi e colle primitive concessioni nelP isola; che a garanzia del pattuito la città e il porto di Famagosta rimanessero per 12 anni in signoria di Genova, e fossero consegnati ai genovesi quali ostaggi Giacomo Lusignano zio del re e allora suo erede nel trono colla moglie e i figliuoli del principe d'Antiochia.

Ritornava quindi Pietro di Campofregoso in Genova, dove lo si accoglieva a festa, era donato di diecimila fiorini e del palazzo di S. Tommaso, e stabilito che il giorno 11 di ottobre si celebrasse ogni anno il solenne avvenimento.

IX.

Guerra di Tenedo.

Nell' atto di pace segnato in Milano tra Genova e Venezia il i giugno 1355, si legge che « bisognava si dissipasser le nubi fra due città le quali splendeano come due stelle sovra la terra; » ma fu splendore di breve durata.

I Veneziani da più anni bramavano la piccola isola di Tenedo, che per loro aveva grande importanza attesa la sua posizione all' ingresso dei Dardanelli. A conseguire lo scopo iniziarono pratiche nel 1375 con Giovanni VI imperatore, che, dimentico dei benefizi ricevuti dai genovesi, si dimostrò favorevole ai desideri di quelli. Lo seppero in Genova e subito fu pensato sviare il colpo e ottenere, a vece di Venezia, l'isola contrastata.

Andronico, figlio dell'imperatore, trovavasi carcerato per aver tentato sbalzare dal trono il padre, d'intesa col figlio del sultano Amurat. I genovesi si volsero a lui, lo colmarono di doni e conforti e infine gli promisero stabilirlo sul trono a patto cedesse loro l'isola di Tenedo. Andronico consentiva alla proposta; era perciò messo in libertà e coll' aiuto dei genovesi di Pera potentissimi, sbalzò il padre dal trono, lo rinchiuse nello stesso carcere in cui egli era stato rinchiuso e cinse la corona imperiale. Subito Andronico con apposito diploma concedeva ai genovesi la desiderata Tenedo, i quali con due galere andarono a pigliarne possesso. Ma gl' isolani fieramente si opposero, non volendo riconoscere il diploma di Andronico, protestando che essi ubbidirebbero solo all' imperatore Giovanni, che l'isola aveva donato intanto ai veneziani, e spontaneamente invitarono l' ammiraglio veneto Marco Giustiniani che navigava nell' Arcipelago ad accorrere e rendersene padrone.

Venezia si trovava allora in guerra col duca d'Austria e il signore di Padova; tuttavia, pensando di quanto benefizio sarebbe stato per sè possedere Tenedo, deliberò pacificarsi con quelli e inviare a sostenere l'isola quindici galee guidate da Giovanni Soranzo, e poco appreso altre venti con Pietro Gradenigo, Vittorio Pisani e Marco Giustiniani eletti provveditori.

Giungeva quindi a Costantinopoli Aronne di Struppa con quindici galere genovesi. Gli si univa Andronico colla propria flotta e a ripigliare Tenedo si movevano; ma i veneti gagliardamente opponendosi costrinsero gli alleati a tornarsene con grave danno.

Genova deliberava di procedere risoluta alla guerra e mandava Damiano Cattaneo a Venezia ad intimare che Tenedo fosse lasciata libera, a cui il doge rispon

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deva fosse ristabilito sul trono l'imperatore Giovanni e con quello si sarebbero intesi. Allora d'ambe le parti si apprestarono gli armamenti. Genova alleata di Marcoaldo patriarca di Aquileia, di Francesco di Carrara signore di Padova, del duca d' Austria e di Luigi re d' Ungheria; Venezia del re di Cipro e di Bernabò Visconti signore di Milano, si dichiararono reciprocamente la guerra e subito furono assoldate truppe, armate galere e ordinate macchine guerresche.

Genova e Venezia si trovavano allora nel periodo della maggiore loro ricchezza e potenza. Venezia meglio ordinata all' interno e quindi più forte; ma Genova la superava allora nell' ampiezza e rilevanza dei dominii: la guerra doveva stabilire a quale delle due spettasse la sovranità dei mari e l'assoluto monopolio del commercio orientale; valse invece ad indebolirle entrambe.

X.

Vittoria dei Genovesi.

Le prime avvisaglie ebbero luogo sull'isola di Cipro, dove quel re con cinque galere e io mila uomini assali Famagosta che valorosamente si difese e respinse l'assalitore. Quasi nello stesso tempo quattordici galere veneziane comandate da Vittor Pisani ne incontrarono dieci genovesi capitanate da Luigi Fiaschi e le debellava a Capo d'Anzo. Il Visconti poi sollevava i Del

Carretto contro la repubblica, onde Albenga, Noli e Castelfranco di Finale cadevano in loro potere. In Genova la plebe s' agitava smaniosa di dominio. Cacciava il doge in prigione, eleggeva Antoniotto Adorno, a cui si sostituiva lo stesso giorno Nicolò Guarco che riformò il governo chiamando a far parte, a metà, dei consigli ed uffici della repubblica i nobili; poscia si accinse a tornare in quiete lo stato. I Del Carretto si sottomisero e le terre ribellate tornarono in obbedienza; ma la Compagnia della Stella scendeva d'ordine del Visconti a predare Sampierdarena, e ci vollero 10 mila fiorini a farla allontanare.

Era intanto mestieri riparare alla rotta d'Anzo, e perciò si allestiva una flotta di 22 galee e 6 navi minori che sotto il comando di Luciano Doria s'avviava nell' Adriatico.

I Veneziani erano alle prese col Carrara che, largamente sovvenuto d' uomini e di danaro dal re d'Ungheria, fieramente li travagliava. Sulle coste della Dalmazia, Zara, Trau e Sebenico erano cadute in mano del re ungherese, ed appunto nel porto di Trau era penetrata la flotta del Doria sfuggendo a quella dei veneziani superiore per numero.

Vittor Pisani che comandava la flotta veneta che incrociava nell'Adriatico, tentò occupare il porto di Trau, ma inutilmente, tanto che avvicinandosi il verno ed essendo mancante di uomini e vettovaglie mandò al senato se gli permetteva di svernare in Venezia. Rifiutò il senato e gli mandò nuovi aiuti con ordine d'andare in Puglia a scortare una carovana di grani che veniva d' Oriente. Andò il Pisani, fece l'ufficio suo, ma sopra Ancona una fiera tempesta lo separava da alquante navi che rifuggiate in Ancona, quivi dai genovesi erano prese.

Colla buona stagione, il Doria usciva di Trau e di Zara e veleggiava verso l'Istria, occupando alquante terre sulla costa, mentre per terra il patriarca d'Aquileia e il Carrara di Padova sconfiggevano i veneziani. In quella Carlo Zeno, arditissimo veneto, con nove galere portava la guerra sulla riviera, di Genova, ma ne era ben presto cacciato da una flotta genovese di subito armatasi.

Addi 3 maggio 1379 il Doria usciva dal porto di Zara colle sue ventidue galere e s'incamminava verso Pola, di fronte alla quale il giorno 5 incontrò la veneta capitanata da Vittor Pisani. Con astuzia i genovesi trassero al largo la flotta veneziana e appiccarono battaglia. D' ambe le parti furono prodigi di valore; lo stesso Luciano Doria era colpito a morte; le navi genovesi erano sconquassate, ma la vittoria era per la nostra repubblica. Il Pisani a stento riuscì a salvarsi con sette galee fracassate; mentre le altre cadevano preda dei genovesi o erano calate a fondo. Ben 2407 prigioni arrichirono il trionfo di Genova.

Il dì 11 maggio giungeva in Genova la notizia della vittoria di Pola, di cui si fecero grandi festeggiamenti, con lutto però, per la morte del valoroso Luciano Doria, abile e generoso marinaio e ammiraglio.

Genova deliberata a proseguire la guerra, fin nelle mura della stessa Venezia, armava altre 15 galere e sotto il comando di Pietro Doria le mandava nell' Adriatico.

XI.

Guerra di (Moggia.

Dopo la sconfitta di Pola, il governo veneto aveva cacciato in prigione il valoroso Pisani, solo colpevole di non aver vinto, e i capitani delle sette galere scampate al disastro, e d' un momento all' altro s' attendea di vedere la flotta genovese impadronirsi della Laguna. Ma quella riparati i danni riportati nella battaglia, sotto il comando d'Ambrogio Doria, era passata innanzi a Venezia, aveva dato preda alle fiamme Chioggietta, predata una nave veneta carica di ricche mercanzie all' ingresso del porto San Nicolò, e s'era quindi ritirata in Zara. Quivi giunse Pietro Doria colle quindici galere; assumeva il supremo comando delle due flotte riunite che numeravano 47 galere, e deliberava portare la guerra su Chioggia come terra meno fortificata di Venezia e che d'altra parte sta proprio a' confini di questa. Ivi poi era facile congiungersi al signore di Padova che allora aveva espugnato il castello di Roman e altre terre confinanti.

Dapprima il Doria fece le viste di attaccare Venezia stessa, quindi rapidamente mosse con tutte le sue forze contro Chioggia, mentre il Carrara per terra la investiva con ventimila uomini.

I veneziani tentarono dapprima di impedire l'unione dei collegati e poscia di staccare il signore di Padova e il re d'Ungheria dalla lega coi genovesi; ma poichè i fatti tentativi non riuscirono loro a buon fine, provvidero come poterono meglio alla difesa di Chioggia.

II 9 agosto 1379 fu dato il primo assalto, ma i forti ripari e l'ardita difesa lo resero inutile; allora fu pensato portare l' attacco entro la laguna, per cui il dì 11 sospendevansi mediante argani dodici ganzaroli e si facevano discendere al dì là dei ripari. L'attacco ripigliò più accanito e malgrado la disperata resistenza i chioggiotti dovettero ritirarsi; il 12 si rinnovarono gli assalti per terra e per mare e si seguitarono senza posa il 13 e il 14. Chioggia si difendeva quanto più poteva, ma il numero dei soldati scemava di continuo, tanto che deliberarono inviare a Venezia una barca per soccorsi, che Venezia in quella misura che potè per le circostanze e i luoghi mandò, altri preparandone.

Il 15 si ripeteva l'assalto, respinto ancora dai veneti; allora Pietro Doria e Francesco di Carrara s'intesero per un nuovo e generale assalto. Questo con ogni accanimento fu dato il giorno seguente per terra e per mare, ma con pari accanimento respinto singolarmente dal ponte di Santa Maria, tanto che il Carrara stava per ritirarsi dall' impresa, quando un marinaio genovese varca il canale, caricata una sua barchetta di pegola, paglia e canne, appicca il fuoco alla paglia, si getta a nuoto nell' acqua e la barchetta con una mano afferrata, la scaglia sotto il ponte, quindi levasi un incendio che avvolge in larghe spire lo stesso ponte e i difensori, i quali rimangono atterriti dalle fiamme e dal fumo; vuol caso ancora che il fuoco si apprenda alla bastia che difende la testa del ponte; il terrore, il disordine, la fuga si fanno generali, e dietro ai veneziani e chioggiotti fuggenti, genovesi, ungheresi e padovani entrano nella città saccheggiando e massacrando.

La notizia della perdita di Chioggia giungeva a Venezia quando aveva allestito 50 bastimenti carichi di gente per soccorrerla, e produsse una generale costernazione. Suonava a stormo la campana di San Marco, la signoria sedeva in permanenza a difesa della patria pericolante, i cittadini del proprio allestivano trenta galere Si armavano i veneziani a disperata difesa, ma temendo un nemico vittorioso ed audace qual' era Pietro Doria, deliberarono aprire con lui trattative di pace.

Stava nelle carceri venete Luigi Fieschi fatto prigione con altri cinque genovesi a Capo d' Anzo: li liberarono e con tre deputati del senato li mandarono a Pietro Doria in Chioggia invocando pace; ma il Doria rispondeva che le armi non avrebbe deposto finchè non avesse imbrigliato quei cavalli sfrenati che stanno sulla piazza di S. Marco.

La fiera risposta spaventò i veneziani, i quali oramai videro che alle proprie forze dovevano rimettere la salvezza della patria.

Si armavano ventidue galere, per volontà del popolo era liberato dal carcere Vittor Pisani e affidatagli la difesa di Venezia, e mandato a Carlo Zeno che, con alquante galere, stava nel mare di levante che accorresse a difesa della patria; mentre la città d' ogni parte si fortificava ed era eccitato il Visconti a guerreggiare il nemico nel genovesato.

La Compagnia della Stella scendeva una seconda volta nella valle del Bisagno, forte di 4 mila soldati e 3 mila cavalli comandata da Astorre Manfredi signore di Faenza; ma in questa i genovesi non più col denaro ma con truppe la misero in fuga, facendo molti prigionieri e uccidendone molti.

E Genova era pur travagliata nelle colonie; chè l'imperatore Giovanni VI, per opera dei veneziani stato rimesso sul trono di Costantinopoli, assaltava la colonia di Pera, che con tanto ardimento si difendeva da consigliare la pace all' imperatore. Anche nel Mar Nero le colonie di Crimea erano travagliate dai Tartari; ma anche ivi la fortuna dei genovesi fu salva.

XII.

Vittoria dei Veneziani.

i

I genovesi stavano di malumore in Chioggia, discordi col signore di Padova e col patriarca d' Aquileia, e non più tanto caldamente aiutati dal re d' Ungheria che in segreto negoziava la pace con Venezia.

Questa per sua parte si armava vieppiù. Invocava l'aiuto di tutta la cittadinanza e trenta famiglie ascritte quindi, in ricompensa, alla nobiltà, cooperavano generosamente ad armare 34 galere, 60 ganzaroli e 400 barche, oltre a due cocche grandi tutte cariche di milizia e popolo armato.

Il vecchio doge Andrea Contarmi saliva sulla flotta e ne pigliava il supremo onorifico comando, mentre Vittor Pisani ne aveva il comando effettivo. Il Pisani partiva da Venezia giurando non ritornare senza la presa di Chioggia.

Era sua mente attendere l' arrivo di Carlo Zeno, ma poichè vide i genovesi tutti concentrati in Chioggia tentò arditamente un assalto che non gli fu favorevole. Un secondo assalto non gli riusciva a tutta prima neppur favorevole, ma avendo i genovesi dato fuoco alle due grandi cocche state collocate dai veneti a chiusura del porto, il fuoco stesso si appiccò ad altri bastimenti che calando a fondo ingombrarono il canale. Il doge Contarini, profittando dell' imprudenza dei genovesi, altri bastimenti faceva bruciare e calare a fondo colmando così il porto di Brondolo e il canal maestro che mette in Lombardia. Dopo cinque giorni di indefesso lavoro, a stornare il quale non valsero gli sforzi dei genovesi, questi si trovarono da assalitori ridotti ad essere assediati e quasi prigionieri nel porto di Chioggia, segregati da Padova per una flottiglia di cento barche guidata dal Barbarigo.

Allora i genovesi ogni sottigliezza d'ingegno e il valore impiegarono a liberarsi da quella cerchia di ferro. Combatterono eroicamente per tre giorni e misero di nuovo a cimento la fortuna dei veneti.

Questi vedendo oramai sparita ogni speranza di vincere, voleano partire, non durare più oltre in tanto affanno; quando giungeva da Venezia un decreto col quale si stabiliva che se entro quattro giorni Carlo Zeno non fosse giunto al soccorso, sarebbe richiamata la flotta e provveduto, occorrendo, a stabilire altróve la sede della patria.

Attendevano, e spiravano appena i quattro giorni che Carlo Zeno arrivò dai mari di Grecia con 15 galere ed una nave e poco appresso altre 4 galere giungevano da Candia. Si rianimava cosi il coraggio dei veneti, mentre i genovesi, per maggiore discordia col Carrara e perchè della vittoria oramai si facevano sicuri, s'indebolivano.

Ai soccorsi per mare, Venezia aggiungeva quei di terra, chè compagnie di ventura, fra cui quella comandata dall'Acuto, a suoi soldi, attaccavano Chioggia e le terre circostanti.

I genovesi ben comprendendo che a serio pericolo allora si trovavano, deliberavano con un ardito colpo di mano uscirne; ma i veneziani contrastarono loro il passo e furono costretti a tenersi in Chioggia. Pietro Doria per un colpo di bombarda era ucciso, e a lui succedeva provvisoriamente nel comando Napoleone Grimaldi. Il 18 febbraio 1380 si attaccava fiera battaglia tra genovesi e veneziani sul ponte che congiungeva Chioggia grande a Chioggietta; ma il ponte rovinava e più di mille genovesi ricevevano la morte o cadevano prigionieri; mentre il Barbarigo predava cinque galere che con ottanta soldati e nove bastimenti carichi di vettovaglie erano spediti dal Carrara ai genovesi.

In Genova udite le infauste notizie, si armavano tredici galee sotto il comando di Matteo Maruffo, e al Doria si dava per successore Gaspare Spinola di San Luca. Questi per terra si recava a Chioggia, e il Maruffo colle galee si volgeva all'Adriatico. Assaltava e predava i convogli veneti che incontrava, e, dopo aver tentato inutilmente di provocare a battaglia i veneziani dinnanzi a Chioggia, si ritirava nel porto del Fossone, dove lo raggiungevano altre cinque galere inviategli da Genova.

Lo Spinola con buon numero di balestrieri giunto a Ferrara onde recarsi in Chioggia come n'era suo dovere, trovò i passi così ben guardati dai veneti, che raccolti i fuggitivi dalla bloccata città tornossene a Genova; onde per fame furono ben presto i genovesi ridotti a tristissimo stato.

S'intavolarono trattative per la resa; ma i veneti rispondevano che a discrezione si arrendessero. Tentarono nuovi sforzi e disperati per aprirsi un varco tra i nemici; il Maruffo per mare fece quanto potè per invitare a battaglia la flotta veneta e liberare cosi Chioggia dall'assedio; ma tutto fu inutile. All'ultimo, decimati dalla guerra, stremati di forze, affamati, i genovesi deliberarono la resa.

Tazio Cibo governatore ebbe il doloroso incarico di dichiarare la resa al doge veneto, perorando la causa degli assediati. Gli fu risposto che il senato aveva ordinato fossero tutti quanti incarcerati.

Il 22 giugno 1380 i veneziani entrarono in Chioggia e per due giorni la saccheggiarono senza misericordia. Ben quattromila genovesi, oltre i soldati mercenari, furono condotti prigionieri in Venezia.

XIII.

Pace di Torino.

La flotta genovese, di cui finalmente aveva preso il comando Gaspare Spinola, visto che nulla piu le rimaneva a fare per Chioggia, si presentò innanzi a Trieste che i Veneti avevano lasciata senza guarnigione; e i triestini la ricevettero subito con entusiasmo facendo prigioniero il podestà veneto e dandosi al patriarca d' Aquileia. Si recarono poscia i genovesi a Capo d'Istria rendendosene padroni, saccheggiandola; il 7 luglio tornarono dinnanzi a Chioggia ma, vistala ben munita, corsero su Pirano e quindi su Parenzo da dove furono respinti e in ultimo gettarono l'ancora a Marano per rinvigorirsi.

Vittor Pisani preso il largo con 47 galere il 30 luglio ricuperò in parte le terre occupate dai genovesi, quando saputo che dodici galere genovesi erano andate sulle coste di Puglia, egli con sole otto ne andò in

traccia e trovatele presso il Vasto le assalì. Dopo lungo e sanguinoso combattimento, la notte separò i contendenti, e il Pisani si ritirò nel porto di Manfredonia ove spirò il 15 agosto di crepacuore.

Carlo Zeno succedutogli nel comando tentò invano di muovere contro i genovesi e il patriarca d'Aquileia, e d'impadronirsi di Zara e di Marano, come già in precedenza si era impadronito del castello di Bebbe . facendovi prigioniero Ambrogio Doria, chè con gravi perdite dovette retrocedere dall'impresa.

Avvicinandosi il verno, gli avversari si ritirarono: i veneti nel loro arsenale a riparare le proprie avarie, i genovesi in patria, lasciando alquante galere in Dalmazia.

Urbano VI tentava un amichevole componimento fra i due popoli e all'uopo si tenevano due congressi in Cittadella; ma senza alcun risultato, onde la guerra proseguiva ancora alcun tempo dall' Adriatico condotta nel mare ligustico da Carlo Zeno che per tal modo liberò la patria dal pericolo d'essere assalita dalla flotta genovese essendo accorsa a difendere la repubblica. Stava lo Zeno per salpare da Livorno e volgersi direttamente su Genova quando gli giunse avviso della pace conclusa. Infatti le parti belligeranti, dietro suo invito, si rimisero all'arbitrato del principe di Savoia Amedeo VI detto il Conte Verde, sotto la cui presidenza si radunarono la prima volta i rispettivi ambasciatori in Torino il 19 maggio.

L'otto agosto del 1381 nel castello di Tormo con intervento dei vescovi di Cinquechiese e Zagabria rappresentanti del re d'Ungheria, di Zaccaria Contarini e Michele Morosini delegati di Venezia, Leonardo di Montaldo, Francesco Embriaco, Napoleone Lomellino e Matteo Maruffo per Genova, Taddeo d'Azzoguidi, Antonio de' Sacchi e Giacomo Turchetto per Francesco di Carrara e infine Giorgio de' Fortis, Federico Savorgnan e Nicolò Gambini pel patriarca d'Aquileia, il Conte V<:rde udite le ragioni delle parti, proferì la sen- . tenza arbitrale che subito fu trasformata in atto di pace.

Furono restituiti i prigionieri fatti reciprocamente , e per la contrastata isola di Tenedo fu stabilito che il castello erettosi dai Veneziani fosse distrutto, e cosi pure fossero distrutti tutti gli edifizì, case, abitazioni ivi esistenti, rimanendo l' isola deserta nè proprietà dei veneziani, nè dei genovesi.

La demolizione di Tenedo incontrò non poche difficoltà quando l'inviato del duca di Savoia si recò ad eseguire la sentenza, e solo dopo un anno, per opera dagli stessi veneziani, coll'assistenza di un deputato genovese, tale demolizione fu compiuta.

XIV.

Il dogato di Montaldo.

Gli avvenimenti fin qui seguiti erano valsi in gran parte a tenere sopiti gli umori di parte; ma in quella vece s-'era venuto sviluppando, in modo quasi latente, l'antagonismo tra il popolo o borghesia e la plebe, la quale mal soffrendo che nelle mani di quello fosse il governo, aspirandovi a sua volta, rumoreggiava, minacciando tumulti.

Il doge Nicolò Guarco nel 1383 vedendo forse, a più segni, che que' tumulti non eran troppo lontani, volle aumentare la sua guardia per maggiore sicurezza; ma gli si opposero gli otto proposti alla moneta. Costoro richiesero altresì al doge che rimovesse il maestro di giustizia da lui nominato e il presidio di fanti che a propria difesa teneva. Nello stesso tempo i macellai, forse sobillati, si levarono a reclamare contro una tassa imposta sulle carni, si radunarono fuori porta S. Tommaso e decisero sollevare la popolazione a tumulto. Suonate a stormo le campane di S. Benigno e S. Bernardo, gli accorsi prorompevano per le vie della città gridando: Abbasso le gabelle, viva il popolo; e si congregavano quindi in numero di duemila nella chiesa di S. Domenico.

Ma il moto non si limitava qui, chè erano uccisi il capitano della guardia dogale e il maestro di giustizia, e la plebe correndo sotto il palazzo del governo prorompeva in altissime grida, tanto che a far quietare gli animi fu promesso che sarebbero abolite le gabelle e sarebbe data più larga parte al popolo nel governo; tuttavia il dì seguente, ch'era quello di Pasqua, il tumulto si fece più serio e fu data piena facoltà di governare a Leonardo di Montaldo leggista, Federico di Pagana, Tommaso degli Illioni, Antonio Giustiniano e Francesco d' Ancona mercanti, Giacomo Calloccio macellaio, Damiano Posono laniero e Manuello di Bobbio speziale, i quali presero il' nome di Provvisori.

Antoniotto Adorno era l'uomo caro alla plebe, poichè era de' suoi e salito per abilità propria a molta agiatezza e già nel 1378 era stato eletto doge, poscia deposto; questi dunque volevasi per doge, e altissime furono le grida, vivi i disordini che perciò ne nacquero a turbare la città.

Il Guarco fu costretto a fuggire; i cittadini deputati alla elezione del nuovo doge, malgrado le rimostranze della plebe, elessero Federico di Pagana, ma questi dovette fuggire per salvare la vita. Furono quindi ricercati i deputati perchè elegessero Antoniotto Adorno, ma si rifiutarono. Si dava infine facoltà a Leonardo di Montaldo di provvedere per la nomina del doge; egli a quaranta cittadini la rimetteva, i quali ad una voce indicarono lo stesso Montaldo.

Protestò egli che solo per sei mesi avrebbe tenuto il dogato ed assunse l' ufficio con ogni solennità. La città ritornò allora alla calma, tanto più che l'Adorno volontariamente si allontanò per non turbare gli animi plebei colla sua presenza.

Viveva in questo tempo in Genova Giacomo di Lusignano zio dèl re di Cipro, quale ostaggio di garanzia della pace conclusa nel 1374, quando venne a morte quel re Pietro II. Il Montaldo promise al principe Giacomo d'incoronarlo re di Cipro e con molti onori farlo trasportare nel regno, a patto cedesse in assoluta proprietà alla repubblica la città e il porto di Famagosta oltre a due leghe di territorio all'intorno. Accettò la proposta il Lusignano e coronato re, con molta solennità e festeggiamenti, si partì da Genova scortato da dieci galere sotto gli ordini di Nicolò Maruffo.

Erano già scorsi i sei mesi pei quali il Montaldo aveva accettato la dignità dogale, ma egli avrebbe continuato ancora lungamente nell' ufficio, con lode di tutti, se la peste che allora infieriva nello stato genovese non l'avesse ucciso il di n giugno del 1384. Gli vennero rese solenni onoranze funebri e fu seppellito nel duomo.

XV. Gli Alberghi. Sotto l' anno 1383, negli Annali di Giorgio Stella e in quelli di Agostino Giustiniani, si legge che gli Alberghi della città visitarono Giacomo Lusignano incoronato re di Cipro dal doge Montaldo. È questa la prima volta in cui si fa menzione degli Alberghi, istituzione sociale e politica, e perciò si dovrebbe ritenerla, col Serra, di recente introdotta; ma le sue origini sembra risalgano a molto tempo addietro.

Abolito il governo consolare ed affidato il supremo potere nella Repubblica ad un Podestà forestiero, questi — scrive il M.se Staglieno — si circondò di un

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consiglio di cittadini i quali, qualunque fosse la loro condizione, si chiamavano col distintivo di nobili e le famiglie di coloro che così avevano partecipato al governo si dissero nobili e le altre tutte popolari. Ciò durò senza gravi inconvenienti per qualche tempo sinchè in seguito, avendo tali famiglie acquistato molta preponderanza, formarono una specie di corpo fra di loro e vollero totalmente esclusi dagli affari le famiglie popolari. Onde le gravissime discordie fra i cittadini divisi nelle due fazioni, le quali furono causa principale della formazione dei così detti Alberghi, cioè che molte famiglie, per potere con maggiore vantaggio resistere alle nemiche, si unissero fra di loro, e lasciati i loro cognomi quello di una di loro od un nuovo affatto ne assumessero, formando così una nuova famiglia legata dalla comunanza del nome e dell' insegna.

Ad esempio, il cognome De Franchi venne dato ad un Albergo popolare di famiglie diverse costituitosi nell'anno 1393 ai 28 di gennaio, come in atti del notaio Deserino de Pastino, citato dall' Ascheri, le quali famiglie abbandonarono il rispettivo casato per assumere quello generale dell' Albergo.

Gli Alberghi eran quindi aggregati di famiglie, come già le Compagne che generarono il Comune genovese, i quali avevano per iscopo: di rimuovere le liti tra coloro che ne facevano parte, sovvenirne alla povertà e alla difesa contro ogni persona che si muovesse ad offenderli, perpetuarne il nome e la tradizione.

L'Albergo però non poteva essere costituito se non da chi discendeva di famiglia consolare; mentre coloro ch'entravano negli Alberghi non importava che avessero la medesima origine e meno ancora il casato che, dopo l'unione, sostituivano con quello dell'Albergo cui s' aggregavano.

Per così fatte riunioni le famiglie più antiche e più illustri, che col tempo sarebbero scomparse o avrebbero perduto della loro autorità, con'inuavano ad esercitare una grande influenza sulle cose della repubblica, ed acquistando alcuni beni in comune ed insieme per indiviso amministrandosi e riunendosi di sovente in certe logge, provvedeano alla loro forza reale e personale.

Le famiglie che non avevano tante case aperte o tanti capi quanti portava la legge, che variava a seconda dei tempi, venivano aggregate a quelle che potevano legalmente costituire un Albergo, mentre formavano due Alberghi quelle che ne avessero il doppio, pigliando nome diverso dalla piazza o strada ove tenevano la loggia.

Quanti Alberghi esistessero non si può precisare, poichè variavano a seconda della legge che richiedeva più o meno case aperte. Così una nota del XV secolo ne registra 35, mentre altra nota dello stesso secolo (anno 1414) ne segna 74. Vedremo poi come, per le leggi del 1528, venissero riformati a scopo costituzionale gli Alberghi.

XVI.

Urbano TI in Genova.

Bartolomeo Prignano arcivescovo di Bari, uomo di ferocissimi costumi , nel 1378 era eletto papa pigliando nome di Urbano VI; ma non lo vollero

riconoscere per tale una parte dei cardinali i quali elessero il cardinale di Ginevra che prese nome di Clemente VII. Ne nacque uno scisma che divise l'orbe cattolico, e Genova segui le parti di Urbano VI, come quello, che malgrado i suoi vizi, era stato regolarmente eletto. Stava, il 1385, questo pontefice nel regno di Napoli quando gli venne scoperta una congiura, vera o supposta non monta, tendente a deporlo dal soglio. Fra i congiurati gli furono indicati cinque o sei cardinali che lo seguitavano, ed egli subito gli fece arrestare e caricare di catene. Sottoposti poi alla tortura, fra i più atroci patimenti, li fece confessare rei, sebbene dappoi si dichiarassero innocenti. Fece arrestare pure il vescovo d' Aquila come sospetto loro complice e dopo averlo in più guisa barbaramente malconcio

Urbano VI.

sulla via di Salerno lo fece uccidere, mentre si conduceva dietro in catene gli altri miseri porporati.

Antoniotto Adorno che, dopo la morte del Montaldo, aveva senza contrasto assunto il dogato, sperando ricavarne onore per sè e per lo stato, invitò Urbano a stabilirsi in Genova. Accettò egli l'invito: dieci galere furono inviate a Salerno e imbarcarono il papa col suo seguito e i cardinali prigionieri. Giunto qui ebbe splendido alloggio nella commenda di San Giovanni di Pre; ma poichè s'avvide che il popolo genovese per la sua scelleratezza, nol gradiva, non si azzardò ad uscire, ed avendo inoltre sospettato che si tramasse la liberazione di quei poveri cardinali si affrettò a farli morire, secondo gli uni facendoli affogare in mare, secondo altri strangolare in prigione. Solo uno, il cardinale Adamo Eston, per intercessione del re d'Inghilterra, ebbe salva la vita.

Fra gli uccisi era Bartolomeo di Cogorno, dottissimo prelato genovese, che qui aveva già coperto la carica arcivescovile, e di animo pio ed onesto.

Il popolo saputa la cosa, assali i servitori pontifici consegnandoli ai birri reclamando fosse fatta giustizia. Il papa temendo che l'irritazione popolare si levasse contro la sua stessa persona, in fretta lasciò Genova, con somma letizia della cittadinanza e dello stesso doge Adorno, che aveva sperato ricavare benefizi dalla sua presenza in Genova.

Urbano in compenso delle spese fatte per l'allestimento delle dieci galee, tolse alcune castella alle mense vescovili di Savona, Noli ed Albenga e le diede alla repubblica, anzichè pagare i sessanta mila ducati a cui pure si era obbligato.

Partito il pontefice, l' Adorno a stornare le menti, ordinò una spedizione contro Tunisi, dandone il comando al fratello Raffaele. Questi insieme a galee siciliane e pisane navigò in Africa, tolse l'isola dei Gerbi che cedette all'ammiraglio siciliano per 36 mila fiorini. Altra successiva spedizione, comandata da Giovanni Centurione genero del doge, sovvenuta dai re di Francia e d'Inghilterra, stringeva d'assedio la città di Tunisi; costringendo quel re saraceno a liberare i prigionieri cristiani, a pagare 10 mila fiorini d'oro e ad astenersi da qualunque pirateria nel Mediterraneo.

XVII.

Il doge Adorno cede la signoria di Genova a Carlo TI re di Francia. Antoniotto Adorno non venne meno all'officio suo di governare la patria con decoro e lustro, chè anzi s'immischiò nelle guerre d'Italia e quale arbitro seppe conciliare le parti avversarie; ampliò gli stati della Repubblica e la città ornò di un nuovo splendido palazzo; ma ciò nondimeno lo spirito dei partiti non lo lasciò lungamente tranquillo. Il 3 agosto 1390 sospettando che gli si volesse tentare alla vita, fingendo di andare a

diporto in una sua villa fuori porta S. Tomaso, riparò a Loano , abbandonando la signoria che tosto, senza strepiti, venne occupata da Giacomo di Campofregoso.

Ma non tardò molto l'Adorno a pentirsi d'aver lasciato il potere, e con ottocento armati tornò in Genova e mandò a dire al Campofregoso gli sgombrasse la signoria. Questi che non era ambizioso e poco gli importava l' officio dogale, subito glielo cesse senza fare opposizione.

Allora Savona si ribellava alla Repubblica, e il suo Vescovo collegato ai Fieschi, ai Guarco, ai Montaldo ed altri muoveva a disordine tutto lo stato. Questa volta l'Adorno rimise il potere ad Antonio di Montaldo e s' allontanò da Genova, brigando coi Visconti di Milano per ricuperare la signoria.

Qui si avvicendarono nel dogato sino al 1394 sei cittadini, con lotte sanguinose fra le parti e tra famiglia e famiglia, incendi di case e palazzi che misero a soqquadro la città e tutto lo stato, finchè una quarta volta Antoniotto Adorno riprese l'officio di doge.

Le riviere andarono in fiamme: ovunque era ribellione e lotta. Le casse dello stato erano vuote, il doge non aveva mezzi di tenere un esercito per sedare i tumulti e le rivolte. Si congiurava dai Fieschi, dai Grimaldi, dai Doria contro il governo dogale: i marchesi del Carretto d'intesa coi Doria iniziavano pratiche col re di Francia per dargli Genova in dominio; quale dominio era pure agognato dai Visconti di Milano che quelle discordie e lotte intestine aizzavano e mantenevano vive sperandone benefizio.

In questo così grave momento, l'Adorno non vide altro scampo che di offrire la signoria di Genova a Carlo VI re di Francia, epperò esplorato prima l'animo di quel re con appositi suoi legati, radunò poscia guelfi e ghibellini, nobili e popolari a parlamento e propose loro di accettare la signoria del re di Francia. A grande maggioranza la proposta fu approvata, e subito gli inviati dall'Adorno ricevettero ordine di stringere accordi con Carlo. Questi a sua volta inviava in Genova a comporre il trattato Pietro Fresnel Vescovo di Meaux, Pietro Beaublé e altri due, e dopo lunghe trattative gli ultimi giorni di ottobre del 1396 si stabilì che il re di Francia avesse il titolo di signore di Genova e giuramento di fedeltà a lui e a' suoi successori quante volte lo desiderassero, che il regio governatore s'intitolasse nei pubblici atti Difensore del Comune e del popolo e avesse la stessa autorità dei passati dogi.

Il trattato era firmato il 4 novembre e il 27 stesso mese s'inalberava sul palazzo ducale lo stendardo del re di Francia, ed Antoniotto Adorno riceveva dagli ambasciatori francesi le insegne del comando, che egli stesso però prima aveva loro rimesse, ma non più quale doge bensì quale regio governatore.

XVIII. I Governatori francesi. L'Adorno breve tempo rimaneva al governo di Genova in nome del re di Francia, chè mal veduto dai proprii concittadini si faceva sostituire nel maggio del 1397 e poco appresso, colpito da fiera pestilenza che desolava la città, morì.

A lui succedevano due governatori mandati di Francia inabili all' officio , sotto i quali la plebe tumultuò e le fazioni intorbidarono la quiete della Repubblica, tanto che i nobili furono cacciati dagli uffici pubblici e si elessero quattro priori delle arti, un conciatore, un pizzicagnolo, un macellaio e un lanaiuolo con dodici consiglieri di eguale condizione. In ultimo il governatore fu espulso e la plebe acclamò suo Capitano Battista Boccanegra. Fregosi e Adorni, Guarchi e Montaldi si sollevarono in arme irritati di tale elezione; procedettero quindi le parti di comune accordo ad eleggere una balia di otto cittadini che al Boccanegra dimissionario sostituirono il 26 marzo 1400 Battista De Franchi-Lusardo. Non tardarono però lungamente i nobili fedeli alla Francia di radunarsi e invitare il re a ripristinare la sua autorità; onde nell'ottobre del 1401 Carlo VI procedeva alla nomina del nuovo governatore.

Era costui Giovanni Lemaingre maresciallo di Boucicault, detto da noi Bucicaldo, guerriero valoroso e crudele che molta fama s' era acquistato nelle guerre contro i Mori di Spagna, i ribelli in Francia e i Turchi in Bulgaria.

Giunse egli in Genova seguito da mille armati il giorno dei Santi di detto anno e ferocemente pigliava possesso della carica, ordinando che Battista Boccanegra e Battista De Franchi fossero decapitati. Il primo ebbe la testa mozza dal carnefice, e poichè l'altro riuscì a fuggire, il Bucicaldo volle fosse decapitato lo stesso carnefice.

A tanta ferocia, la città si calmò d'improvviso; e il Bucicaldo, a togliere ogni e qualunque occasione di disordini, proibì si tenessero parlamenti, non volle che tra popolari si eleggessero i vicari, i confalonieri e i conestabili, che le arti lasciassero i loro consoli e poichè li nominarono egualmente, gli eletti mandò in carcere. Proibì che i cittadini tenessero armi, fece costrurre due torri alla Darsena e altra sul piano di Castelletto per dominare meglio la città in caso di tumulti; proibì le feste ordinate a commemorare i trionfi della repubblica; tolse il castello della Pieve ai Del Carretto e Monaco ai Grimaldi. Poichè tutto fu tranquillizzato e ordinato, Domenico Imperiale e Cosma Tarigo andarono ambasciatori al re di Francia impetrando che il Bucicaldo fosse governatore di Genova a vita, avendo incontrato, dicevan essi, la piena soddisfazione della cittadinanza.

Nei primi giorni del 1403 giungeva in Genova T imperatore greco Emanuele Paleologo che s' era recato in Europa ad invocare l' aiuto dei re e principi cristiani contro l'invasione del famoso Bajazeth che minacciava l'esistenza di quell'impero. Gli furono fatti grandi festeggiamenti e parti nel mese di febbraio, dopo che fu donato di 31 mila fiorini d'oro e che a sua difesa e a quella delle colonie genovesi in Levante furono armate tre galere.

Il re di Cipro Giano Lusignano figlio di quel Giacomo stato incoronato in Genova dal doge Montaldo, aveva nello stesso tempo posto l'assedio a Famagosta di proprietà dei genovesi ai quali voleva, a qualunque costo, toglierla. Da Genova mandarono in soccorso della pericolante colonia tre galere comandate da Antonio Grimaldi, ma non riuscirono a liberarla dall'assedio. Allora il Bucicaldo ordinato l'armamento di nove galere, sette grosse navi e due galeazze., ne assunse egli stesso il comando e il 4 aprile 1403 partì.

Il re Giano tosto seppe di tale spedizione, gli mandò incontro a chieder pace; ma il Bucicaldo volle arrivare egualmente a Cipro dove per intromissione del Gran Maestro di Rodi quel re ebbe pace, pagando 30000 franchi e confermando le antiche concessioni.

Pacificatosi col re di Cipro, il Bucicaldo tentò qualche impresa coloniale, ma scontratosi con una flotta veneziana guidata da Carlo Zeno, essendo egli meno abile alle battaglie navali, fu costretto a fare ritorno in Genova.

Essendo qui rinate agitazioni, prestamente le soffocò nel sangue; volle quindi che Genova riconoscesse l' antipapa Benedetto XIII in luogo del vero e legittimo pontefice Gregorio XII, e vi riuscì, inducendo lo stesso Benedetto a recarsi in Genova dove ebbe onorifico ricevimento ed alloggio nel forte di Castelletto , fuggendone poi per la peste che novellamente infieri nella nostra città.

Nel 1405 il Bucicaldo indusse Gabriele Maria Visconti, che, per testamento del padre, signoreggiava Pisa, Livorno e Sarzana, a cedere alla repubblica Livorno e Porto pisano, e quindi Pisa ai Fiorentini per 206 mila fiorini. Sarzana e le castella di Val di Magra, eccitate, gli si ribellavano e davansi in potere de' Genovesi. Gabriele Visconti non avendo ancora nel 1408 riscosso 80 mila fiorini, di cui era in credito dai Fiorentini per la vendita di Pisa, venne in Genova a reclamarne al Bucicaldo che del pagamento si era fatto garante; ma il poveretto tenuto per alcun: giorni a bada fu poi tosto arrestato, accusato di macchinare contro lo stato e il 25 dicembre dello stesso anno decapitato, per sentenza del perfido governatore francese, che s'impadronì di tutte le ricchezze del Visconti da lui tradito, e più riscosse la somma dai Fiorentini dovuta.

Ma questa fu l'ultima scelleratezza compiuta in Genova dal maresciallo di Boucicault.

XIX.

La signoria del Marchese di Monferrato.

Per la morte di Gian Galeazzo Visconti il vasto dominio da lui conquistato s'era diviso in tante parti fra i condottieri di ventura ch'erano a' suoi stipendi, e ben poco più ne rimaneva a Gian Maria primogenito del Visconti; onde il Bucicaldo, per ampliare la dominazione francese in Italia e acquistare egli maggiori ricchezze ed onori, si convenne con quegli di aiutarlo a ricuperare lo stato paterno.

Il Bucicaldo credeva aver ridotto Genova a tale quiete, rassegnata ed umile, da poterla lasciare impunemente senza guari custodia; per cui l'ultimo di luglio del 1409 congregava tra Gavi e Novi un esercito di circa sei mila cavalli e cinque mila fanti e con esso muoveva verso Milano.

Ora i Genovesi della signoria francese e di quella particolare del governatore non voleano più saperne; d'altra parte Battista De Franchi, fuggito, come vedemmo, alla morte cui era stato dannato, invitava il marchese Teodoro di Monferrato e il celebre condottiero Facino Cane, che aveva occupato Alessandria, Tortona e Novara — entrambi avversi al Bucicaldo — a liberare Genova dalla signoria francese.

I due condottieri accettarono l'invito e Teodoro a capo di 800 cavalli e 2800 fanti, Facino di 1800 uomini d' arme e 2000 pedoni, mossero, l' uno per ponente, l' altro per levante, verso Genova.

Qui, tosto si seppe dell' avvicinarsi di tale esercito, il luogotenente del Governatore si dispose a difendersi, ma il popolo levatosi a tumulto gridava abbasso l' odiato governo.

Il luogotenente vista la mala parata cercò rifuggiarsi nel forte di Castelletto, ma inseguito da una turba di polceveraschi venne ucciso e insieme a lui quanti francesi in quel trambusto si trovarono.

Il giorno appresso, 13 settembre 1409 la popolazione temendo che le bande avventizie di Facino Cane entrando in città la depredassero, nominò dodici anziani, metà nobili e metà popolari, i quali Spedivano messi al Marchese di Monferrato, che accampava verso il Bisagno, pregandolo volesse entrare in città, e a Facino Cane che stava a Sampierdarena con preghiera se ne tornasse addietro non occorrendo più il suo aiuto per cacciare i francesi, e insieme alla preghiera gli rimisero 305 mila fiorini d' oro.

Il Facino accoglieva la domanda e si volgeva su Novi impadronendosene, e il Marchese di Monferrato entrava in città, venendo alloggiato, con grande pompa, nel monastero di San Domenico.

Subito la gran maggioranza della popolazione dichiarata abolita la signoria francese, eleggeva il Marchese Teodoro di Monferrato capitano e presidente della città di Genova per un anno, con riserva di prorogarne la durata, col potere e stipendio che godevano i dogi. Il Marchese pigliava stanza nel palazzo ducale, e assumeva il comando.

Nella Darsena e nel forte di Castelletto stavano però ancora dei presidi francesi; ma furono costretti ad arrendersl non essendo da alcuno sovvenuti; chè il Bucicaldo volendo tornare da Milano a ripigliare Genova dovette battersi con Facino Cane e poscia rifuggiarsi nel castello di Gavi, donde vista disperata l'impresa se ne parti per la Francia in capo a due mesi.

Cacciati i francesi, il nuovo stato di cose non piacque alle famiglie guelfe che suscitarono torbidi in città e nelle riviere. Qui furono bandeggiati dagli uffici pubblici, e a combatterli in riviera si spedirono truppe. Così Oberto Spinola e Raffaele di Montaldo snidavano i Fieschi da Portofino, facendo ottantatre prigioni; una casa di Luca Fiesco in Recco venne demolita; Corrado Doria s'impadronì per la repubblica di Portovenere, Trebiano e Vezzano che tenevano per Francia.

Ma se così quietava la riviera di levante, rumoreggiava quella di ponente e Savona che era tornata all'ubbidienza della repubblica, congiurava; però scopertasi in tempo la congiura, il tentativo di nuova rivolta era ben presto impedito. Per contro a sottomettere Ventimiglia occorsero quindici galere per mare e un esercito per terra, e fu data in preda al saccheggio poichè non volle rendersi ad amichevole patto.

A rassodar meglio la signoria del Marchese di Monferrato, i ghibellini radunavano il 21 aprile 1410 un consiglio di trecento cittadini che confermava il Marchese stesso governatore e capitano della città con 150 mila lire annue di stipendio. E poichè i Fieschi s'ostinavano nella ribellione, fu ordinata la vendita dei luoghi delle compere di San Giorgio che possedevano e il ricavo si destinò a combatterli.

Ovunque erano rivoltosi, i ghibellini con molto strazio li sottomisero; ma poiché il proseguire lungamente questa guerra fraterna non piaceva ai buoni cittadini, furono i Fieschi perdonati ed ebbero in restituzione i luoghi di San Giorgio stati loro tolti.

In questo tempo si segnalò Paolo Interiano che incontrato Barasia di Valenza, terribile corsaro, venne a pugna con lui e lo vinse, liberando il mare della sua presenza. Per tale vittoria la repubblica ordinava fossero l'Interiano e la sua famiglia esenti di gabelle pel vitto e vestito.

XX.

Il Banco di S. Giorgio.

Sotto il governo del Bucicaldo ebbe stabile ordinamento quel celebre Banco di S. Giorgio che per la sua disposizione e il suo funzionamento ebbe a riscuotere l'ammirazione di tutto il mondo e ad essere preso a modello di tutte le Banche posteriormente istituite; onde è mestieri dirne qui brevemente la genesi.

Per la guerra contro i Saraceni di Spagna (1148-49) il governo di Genova dovette contrarre un prestito coi cittadini, assicurandone il rimborso e il pagamento degl'interessi sui dazi e altri proventi dello stato. Da qui ebbe origine il debito pubblico genovese che, per successive imprese, per l'ampliamento della repubblica, andò crescendo via via notevolmente, costituendosi tante società di mutuanti quante volte lo stato ricorreva al prestito; delle quali società nel 1252 fu deliberata la riunione in una sola con la totalità di 28 mila luoghi pari a due milioni e ottocento mila lire d' allora secondo il computo di Gerolamo Serra.

Ma intorno al 1318, per l'infuriare delle fazioni civili, i debiti aumentarono ancora più, onde nel 1332, volendovi mettere un po' d'ordine, furono tutti raccolti in una sola compera che perciò fu detta Compera magnete pacis, costituente una vera e propria società anonima in azioni, come dice il Boccardo.

Però quest' unità non durò lungamente, chè nel 1346 si contavano 24 distinte compere, che riunite in sole cinque furono dette le Compere del capitolo.

Finalmente nel 1407 con decreto delli 23 Aprile, il Bucicaldo assistito dal consiglio degli anziani e dall'uffizio di provvisione fu stabilita altra notevolissima unione di debiti colla istituzione delle Compere di San Giorgio e con la riduzione delle diverse rendite nella rendita unica e fissa del sette per cento che più tardi si trasformò in un annuo provento in proporzione del prodotto netto.

F. DONAVKR. 14

L'Amministrazione del debito pubblico era nominata dagli stessi creditori e ad essa il governo cedeva per un dato numero d'anni l'esazione di certi dazi indiretti sia a estinzione del capitale, sia a pagamento degP interessi. Ogni amministratore aveva nome di console; ogni cento lire di credito si chiamava luogo, ogni creditore luogatario; colonna si diceva un certo numero di luoghi raccolti sopra una sola testa; proventi si chiamavano gl' interessi pattuiti o quanto meno quello che oggi si dice il dividendo; la totalità dei luoghi aveva nome di Compere, le quali s'intitolavano o dal creditore, o dalla ceduta gabella o dall'occasione o dall' impresa che aveva provocato il debito, o infine dal santo di cui ricorreva la festa il giorno del contratto. Cosi si avevano le compere per l'acquisto di Corsica, del Finale, di S. Pietro e Paolo, di Monaco, di Cipro, prò guerra Venetorum e della Magna pace de' Veneziani.

Coll' unione del 1407 tutte queste compere e le successive si conglomerarono in quelle di S. Giorgio che si dissero poi Banco, il quale ebbe sede nel palazzo fabbricato nel 1260 da frate Oliviero per decreto di Guglielmo Boccanegra quale residenza dei capitani del popolo.

Tutti i luoghi erano divisi >n otto cartulari fin dal 1303, cioè uno per rione o compagna, ai quali nel 1515 se ne aggiunse un nono intitolato Officium Misericordiae composto di tre quadernetti: i.° delle signore di Misericordia; 2° dell'ufficio di Misericordia; 3.0 di persone particolari per dispensare.

Alle compere riunite sotto il nome di S. Giorgio, si aggiungevano quelle di Metellino creata nel 1427, della Mercanzia nel 1443 e del Vino nel 1432, le


quali si tennero indipendenti fino alla loro estinzione che avvenne relativamente nel 1614, 1738 e 1728.

Il debito dello stato verso il Banco di S. Giorgio fino al 1539 fu redimibile; ma in detto anno venne mutato in perpetuo mediante un' operazione che si chiamò il Mastio contratta di consolidazione, la quale fece aumentare straordinariamente il valore delle azioni per la maggiore sicurezza che loro ne derivò.

Questo Banco di S. Giorgio, che ad un tempo era istituto di crediti, cassa di deposito, appaltatore di contribuzioni, era anche un corpo politico, uno stato, poichè ebbe in vario tempo, 0 per acquisto diretto o per cessione temporanea, signoria su Sarzana, Castelnuovo, Ventimiglia ed altre terre delle riviere, sulle colonie del Mar Nero e sull' isola di Corsica.

E qui cade acconcio ricordare come dopo la cessione che Pisa fece a Genova dell'isola di Corsica nel 1299, la nostra repubblica avendo dovuto sostenere una guerra quasi secolare coi pretendenti, estenuata di forze nel 1379 la cedette ad una società di cittadini che nomossi la Maona di Corsica a simiglianza di quella di Scio, e nel 1453 al Banco di S. Giorgio. Questo la fornì di eccellenti statuti, ma gli uffiziali mandati a governarla , pessimamente amministrando, provocarono quelle rivoluzioni e guerre di cui diremo in appresso.

XXI.

Ritorno al Dogato. — Guerra cittadina.

Savona sebbene tornata alla dipendenza di Genova, era di continuo agitata dalle famiglie Spinola e Doria, e minacciava una nuova sollevazione. Giorgio Adorno si recava colà con duecento soldati per pacificarla, e lo seguiva subito il marchese di Monferrato; ma non sì tosto fu egli lontano dalla città , Tommaso di Campofregoso levò a rumore il popolo, cacciando la signoria Marchionale.

Il Marchese saputa la nuova, rimandò a Genova Giorgio Adorno che, godendo grande reputazione, si fece in breve superiore ai Fregosi e venne eletto doge. Quanto al Marchese visto che gli sarebbe riuscito impossibile tenere colla forza Savona e Genova, mediante il dono di 24,500 genovine, ritornò ai suoi feudi nel 1413.

L'Adorno assunto il potere convocò il generale parlamento di tutto il popolo sulla piazza del Duomo, e fece proporre che a dodici riformatori, scelti tra nobili, mercanti ed artefici, fosse data facoltà di emanare quelle leggi che meglio tornassaro utili alla repubblica. Il popolo consentì, e subito furono eletti i riformatori che in pochi giorni presentarono le leggi redatte in 154 capitoli, approvate dal parlamento e giurate dal doge.

Per queste leggi venne stabilito che il doge dovesse scegliersi fra i popolari; che lo stato fosse ghibellino popolare, che però i nobili vi godessero la metà degli uffizi.

Allora fu dato alla repubblica di godere un po' di pace, ma la venuta deH'imperntore Sigismondo che scese sino a Gavi ricominciò a turbarla, sebbene quegli se ne tornasse senza entrare in Genova. Isnardo Guarco

con molti armati si ribellava contro il nuovo stato di cose; ma, gagliardamente combattuto, fu costretto a ritirarsi in Toscana. Scongiurato questo pericolo, un altro maggiore ne sopraggiungeva.

Correndo il dicembre del 1414 si accendeva fierissima guerra nelle vie della città. Da una parte stavano i Montaldo, gli Spinola, i Vivaldi, i Negroni, i Guarchi, i Boccanegra, i De Franchi; dall'altra gli Adorno, i Fregosi e coloro che appoggiavano il nuovo stato. Invano uomini dabbene, scrive il Canale, imploravano qualche tregua a quell ' insano conflitto; invano gli artigiani congregavansi insieme ed eleggevano otto di loro per recar pace negli animi concitati; la pazza ferocia di quei faziosi non aveva confine, la morte, l'incendio uccideva e devastava. Il clero provava se il rimedio spirituale valesse ancora a mitigarli, e una processione deliberavasi che col Santissimo Sacramento passando in mezzo alla batta- * glia, i combattenti richiamasse a più umani pensieri. Non il doge, non gli anziani v'intervenivano, ma le principali matrone della città, e i fanciulli innocenti che gridavano pace e misericordia; indi nelle chiese per la pace e misericordia si predicava, e un digiuno per tre giorni con pie orazioni ordinavasi; ciò nondimeno seguivasi a combattere, e coll' incendio delle case ad ampliare lo sperpero e lo sgomento. Finalmente tre ragguardevoli cittadini congregavano in San Domenico grande moltitudine di popolo, da cui si eleggevano nove cittadini, i quali composero la pace

mediante quattro arbitri di comune consentimento nominati.

Si era alla fine di febbraio del 1415, e fu stabilito che Giorgio Adorno tenesse il Dogato fino ai 27 di marzo; ma l' Adorno rinunciava tosto all' ufficio. I due priori pigliavano il governo della città e congregati gli elettori il 29 marzo nominavano doge Barnaba di Guano. Contro costui si levarono i Fregosi e gli Adorno collegati, lo costrinsero a dimettersi, e il popolo acclamò doge Tommaso da Campofregoso.

XXII.

Il dogato di Tomaso da Campofregoso.

Il doge Tomaso era figlio di quel Pietro da Campofregoso che conquistò l'isola di Cipro, ed aveva la mente vasta e l'animo capace di grandi imprese.

Reggeva da poco l' alto ufficio, quando arrivò in Genova Oddo fratello di Giano re di Cipro, e lo ricevette con magnificenza veramente regale; e regalmente donava alla repubblica 60 mila ducati d'oro per aiutarla ad estinguere i debiti che avea contratti nelle precedenti guerre.

Durante l'assedio dei ghibellini era stata cominciata la costruzione di nuove mura di cinta, e poi interrotta. Tomaso la riprese e condusse a termine. Opera di maggior momento (copio dal Canale^ fu l' accrescimento e l' espurgazione della Darsena; la bocca ne fu ampliata, il lato esteriore e più coperto fortificato con una muraglia alta dieci cubiti, aumentata la profondità fino a 15 piedi ed espurgata da capo a fondo; la qual cosa difficilissima si consegui con un argine di 25 piedi che impedisse il prorompere dell' acqua esteriore, e col prosciugare l' esterno per mezzo di 27 cicogne che ponea in moto una ruota con venti casse all' intorno di sei piedi ciascuna. Lavorarono all' opera fino ad 800 uomini per giorno.

Compagne a queste opere pacifiche andavano le opere guerresche. Battista Fregoso, fratello del doge, combattendo i marchesi Malaspina, toglieva loro quindici terre; una flottiglia di navi genovesi somministrata al re di Francia in guerra col re d'Inghilterra, compiva atti di grande valore. Specialmente una nave comandata da Lorenzo Foglietta si segnalò per l'ardimento di un marinaio che ferito gravemente tagliò un ponte che gl' inglesi avevano gettato sulla nave genovese, facendo precipitare in mare quanti inglesi vi stavano sopra; onde, così liberata la nave, il Foglietta potè riparare in salvo.

Ma gli Adorno, i Montaldo e altre famiglie che mal vedevano la signoria del doge Tommaso, reso già illustre dalle proprie opere, congiuravano a suoi danni. Costoro dapprima tentarono rivolgersi al marchese di Monferrato, poscia al duca Filippo Maria Visconti di Milano, al quale mandarono invito per Raffaele di Montaldo.

Mentre il doge provvedeva a tornare in ubbidienza Tommaso Malaspina che si era ribellato, il duca di Milano mandava le sue truppe contro Genova, dove, al suo avvicinarsi, doveva nascere tumulto giusta gli accordi coi faziosi. L'esercito visconteo scese fino nella valle del Bisagno e si spinse sino alle porte di S. Stefano o dell' Arco, ma non scoppiando il tumulto, per la guardia attenta che faceva il doge, se ne tornò occupando quante castella potè.

In quella Luigi III duca d' Angiò organizzava una spedizione contro il regno di Napoli e richiedeva Genova d' aiuto. Questa, che per suoi interessi commerciali propendeva in suo favore, ordinò l' armamento di sei galere le quali, congiunte ad altre sette di Provenza, sotto il comando di Battista Campofregoso condussero il duca a quell' impresa.

Ma a sopperire alle gravi spese della guerra contro i faziosi ed ora per aiutare la parte angioina, le casse dello stato non si prestavano essendo esauste le finanze genovesi. Allora il doge, d' accordo col Consiglio, deliberava ed eseguiva la vendita di Livorno a Firenze per 120 mila ducati d' oro, non avendo egli più modo di provvedervi del proprio, come ora vedremo.

La Corsica, insofferente del dominio genovese, per opera d' un Vincentello d'Istria s' era ribellata poco prima, e due fratelli del doge erano andati a sottometterla; ma il Vincentello ricorse ad Alfonso V re d' Aragona, di Sicilia e di Sardegna, il quale agognando al possesso della Corsica, subito mandò contro l'isola un'armata di 13 grosse navi e 23 galere.

La flotta aragonese s'impadroniva di Calvi e quindi poneva l'assedio a Bonifacio che strenuamente per tre mesi si difese. Scorsi tre mesi, i cittadini chiesero un armistizio di 40 giorni: manderebbero a Genova per aiuti, se, in quel torno di tempo, non giungevano, si sarebbero resi. Conclusa la tregua, una piccola nave fu spedita a Genova, che, udita la nuova, deliberò pronto soccorso alla fedele Bonifacio. Scarseggiavano però i mezzi e il doge Tommaso da Campofregoso dava a pegno in Lucca i suoi vasi d'oro e d'argento e le sue gioie, ricevendone diecimila ducati, coi quali armava sette grosse navi che sotto il comando di suo fratello Giovanni mandò a liberare la città corsa.

Il 25 dicembre 1420 la flotta genovese gettava l'ancora rimpetto a Bonifacio, di fronte alla flotta aragonese che s' era scaglionata in battaglia. La pugni fu lunga e micidiale e, malgrado il loro valore, i genovesi sarebbero stati vinti, senza uno stratagemma di Andrea Margone che gettatosi in mare tagliò l'ancora alla capitana nemica, per cui le navi nostre poterono introdurre in Bonifacio uomini e vettovaglie.

Intanto la regina Giovanna II di Napoli minacciata dalla spedizione angioina, mandava per aiuto ad Alfonso d' Aragona, adottandolo per figlio. L'Aragonese, allettato dal vistoso regno, abbandonava subito l'impresa di Corsica e scendeva nel Napoletano rendendosene in breve padrone.

La signoria del duca di Milano.

Filippo Maria Visconti, che fortemente desiderava il possesso di Genova, nel 1421 inviò contro di essa due eserciti comandati l' uno dal conte Francesco di Carmagnola e l'altro da Guido Torello; e per raggiungere meglio l'intento chiese al re Alfonso una flotta di otto galere, che congiunte ad altre due armate a Finale infestarono il mare ligustico.

Il doge Fregoso, provvedendo come meglio poteva alla difesa della patria, mandava contro la flotta aragonese il proprio fratello Battista che disgraziatamente era vinto e fatto prigioniero; mentre per terra gli eserciti del Torello e del Carmagnola congiunti travagliavano la città con grande loro vantaggio.

Allora il Fregoso vista pericolante la repubblica, avversato egli stesso dai faziosi, radunava il consiglio e deliberava cedere la signoria di Genova e del distretto al duca di Milano, con quelle condizioni e patti che già era stata data al re di Francia.

Seguita la convenzione, l' esercito visconteo cessò dalle offese e il conte di Carmagnola entrò in città a pigliarne possesso in nome del duca, mentre Tommaso da Campofregoso lasciava il dogato e riceveva in compenso la signoria di Sarzana, col patto di non cederla se non ai genovesi, e 30 mila fiorini per rifacimento di danni e spese.

Il Visconti poi, contro le convenzioni pattuite, otteneva che Genova gli si dasse in piena signoria senza vincoli di sorta. Nominava allora quattro governatori che la reggessero in suo nome, accordando ai cittadini, per grazia, quei privilegi e benefizi che aveano chiesto.

Il duca Filippo s'era intanto alleato colla regina Giovanna di Napoli e Ludovico d'Angiò contro Alfonso d'Aragona, che la regina aveva prima adottato per figlio e poscia dichiarato decaduto perchè ambiva a padroneggiare il regno. Ora, a combattere la flotta aragonese, il Visconti ordinò una flotta a Genova che comandata da Guido Torello conquistò in breve Gaeta, Procida, Castellamare, Sorrento ed ebbe da ultimo in dedizione Napoli, le quali città furono tosto consegnate alla regina Giovanna.

Sotto la signoria del duca di Milano, i genovesi si trovarono costretti a guerreggiare nuovamente coi veneziani, recandosi reciproci danni anche nelle colonie di Levante, e coi fiorentini; costretti pure a combattersi tra loro, militando assieme a' veneziani e a' fiorentini i Fregoso, gli Adorno, i Fieschi che il governo visconteo non potevano soffrire. Costoro tentarono più volte di occupare Genova, di farla insorgere e liberarla così dal dominio del Visconti, ma in città non trovarono mai chi gli secondasse e da loro, pochi com'erano, non potevano tenere fronte ad eserciti numerosi ed agguerriti comandanti da celebri venturieri, come Nicolò Piccinino, lo Sforza ed altri.

Non è il caso di seguire queste campagne, di registrarne le vittorie e le sconfitte poichè Genova non n'ebbe benefizio mai, il quale era tutto del duca, e il danno l'ebbe sempre, chè le spese erano fatte sopportare alla repubblica per uomini e denari.

Finalmente nel 1432, per opera dei marchesi di Ferrara e di Saluzzo, tra i contendenti si concluse la pace, rimanendo ciascuno nei propri confini, godendo solo allora, per breve istante, un po' di calma il popolo genovese.

Cade però qui opportuno ricordare che in questo tempo Zaccaria Spinola incontratosi in due galee capitanate da quel conte Vincentello d'Istria che aveva messo a rumore la Corsica, le abbordò, e impadronitosi del Vincentello lo condusse a Genova dove gli fu troncato il capo sullo scalone del palazzo ducale.

XXIV.

Difesa di Gaeta. Battaglia di Ponza.

Morta il 2 febbraio 1435 la regina Giovanna II di Napoli, Alfonso V d'Aragona accampando l'adozione di figlio da quella fatta, moveva con numerosa flotta alla conquista del regno, assediando in prima la città di Gaeta, che mandava per aiuti alla repubblica di Genova.

Mentre questa studiava il da farsi, il Visconti sperando averne qualche utile, mandava in Gaeta un suo fidato, Ottolino Zoppo, e spingeva a recarvisi pure Francesco Spinola con trecento soldati. Appena lo Spinola arrivò colà, fu acclamato governatore, ed egli si preparò a disperata difesa.

L'assedio fu lungo e tormentoso; ma la resistenza dello Spinola non venne meno un istante. Mancavano i viveri a sfamare la popolazione, ed egli allontanò dalla città i vecchi e i fanciulli che trovarono ricovero nel campo nemico dalla generosità d'Alfonso. I pochi combattenti rimasti non potevano più reggersi per la fame, ed egli ostinato a non voler sentire parlare di resa, fidando sempre nei soccorsi di Genova, decretava che avrebbe mozzo il capo chiunque di rendersi avesse fatto parola.

Ma l'eroismo dello Spinola avrebbe alla fine dovuto piegarsi dinnanzi al soverchio numero dei nemici, se la flotta genovese non fosse giunta a liberare Gaeta dall' assedio.

Qui, stremati di forze per le guerre del duca, e senza denari, i cittadini avevano fatto uno sforzo miracoloso per armare una flotta di dodici navi grosse, una navicella e tre galere. Vi salirono sopra 2400 uomini e ne assunse il comando Biagio Assereto, notaio, già peritissimo nelle cose di mare e guerresche.

Giunta questa flotta in vista dell'aragonese, forte di ventisette navi montate da più di 6000 soldati, il re Alfonso mandò a bordo dell' ammiraglia genovese Francesco Pandone per iscandagliarne le forze e gl' intenti. L' Assereto dichiarava che a liberar Gaeta era spedito dalla repubblica, che se di buon grado il re avesse ceduto, due armate avrebbe a' suoi ordini invece d' una, che altrimenti egli avrebbe colla forza compiuto l'incarico.

Alfonso cui pareva, atteso il piccolo numero dei nemici, di avere in mano la vittoria, attaccò subito la pugna. Era il 4 agosto del 1435, e le due flotte si trovavano presso l'isola di Ponza. La battaglia durò tutto il giorno, fu micidiale per ambo le parti, ma il valore genovese trionfò. Delle navi aragonesi una sola fu salva, la stessa capitana cadde nelle mani dell' Assereto che invitò il re Alfonso ad arrendersi, come già si era reso il fratel suo re di Navarra.

Alfonso, che da prode aveva combattuto, consigliato dagli stessi suoi amici, visto che inutile sarebbe stata la resistenza, chiese se tra i capitani genovesi ve ne fosse di stirpe nobile. Sentito che v' era Giacomo Giustiniani dei signori di Scio a quello consegnò la spada, dichiarandosi suo prigioniero.

Gli aragonesi morti in questa battaglia furono 600, e i prigionieri fatti oltre a 5000, fra cui i due re fratelli, altri principi e moltissimi baroni; la preda e il bottino furono tanti che mima vittoria li ebbe mai.

L' Assereto dopo aver liberato Gaeta, fece ritorno in Genova, dove la notizia della vittoria fu solennemente festeggiata con immenso giubilo del popolo.

XXV.

Il dogato tra i Fregoso e gli Adorno.

La vittoria di Ponza, gloria propria di Genova, ingelosì il duca Filippo, che volle trarne a sè tutto il benefizio con grande dolore dei genovesi che si videro tolto il frutto della battaglia.

Gli animi erano già mal disposti a tollerare il governo visconteo che, da grazioso, era diventato prepotente e tirannico, onde i più animosi congiurarono di liberare la città di quel governo la notte del Natale del 1435; ma la cosa non potè allora avere effetto. Quand'ecco un Opizzino d'Alzate che governava la città pel duca viene sostituito da Ermes Trivulzio. All'arrivo di questi, cui vanno incontro l'Alzate e i magistrati, i congiurati occupano la porta di S. Tomaso e gridano all' armi. Francesco Spinola esce per la città coi suoi armati, e in un lampo tutta la popolazione è sollevata. A tale sommossa, cercano riparo l'Alzate e il Trivulzio, ma quegli è preso e fatto in pezzi, questi ha salva la vita cedendo il Castelletto dove s' era rifuggiato.

Eguale sorte aveano gli ufficiali del Visconti in Polcevera e in Savona, e la repubblica tornava in brev' ora libera di se stessa.

Eleggevansi dei presidenti e difensori della libertà con divieto però di mutare le leggi, e poscia, ripristinandosi il dogato, a questa carica eleggevano Isnardo Guarco che, settantenne, la cedè dopo sei giorni a Tommaso da Campofregoso ritornato in Genova.

Ma il duca di Milano, che alla notizia della rivoluzione aveva mandato inutilmente il Piccinino per ricuperare la città, essendo stato respinto, tentò rendersene padrone per tradimento. Era da poco eletto doge il Campofregoso, e questi si trovava nella chiesa di S. Domenico quando il fratello Battista eccitato dal Visconti levava tumulto, occupava il palazzo ducale e faceasi nominare doge. Accorreva subito al rumore Tommaso che ricuperato il palazzo e la dignità, del fratello non traeva vendetta, sibbene lo nominava Ammiraglio e lo mandava a sostenere le parti degli angioini nel regno di Napoli contro Alfonso d'Aragona che, ricuperata la libertà, con buona fortuna aveva ripigliata l'impresa.

La nomina spiacque a Gian Luigi Fieschi cui pareva avere diritto a quel grado, epperò mise a tumulto la riviera di levante a sedare la quale ci volle non poco.

I Fieschi non quietavano, ed eccitati dal duca di Milano, un di loro, Gio. Antonio, aveva ordito di entrare nottetempo con alquante barche da pescatore in città edoccupare il palazzo. Il doge, avuto sentore dalla cosa, si mise sulle difese; ma poi visto che nulla accadeva, tralasciò di stare sull'avviso. Allora il Fieschi, colto il momento opportuno, entrò in città che d'un tratto si sollevò.

Tommaso da Campofregoso sulle prime resistè al

F. DONAVER. IS

Fieschi e al tumulto, ma poi gli fu d'uopo cedere, e in suo luogo venne eletto doge il 28 gennaio del 1443 Raffaele Adorno figlio di Giorgio e nipote del celebre Antoniotto. A lui erano aggiunti quattro cittadini per regolare lo stato.

Ma il nuovo doge ebbe poca durata, chè non potendo, insidiato dai Fregoso, dai Fieschi e dal re di Napoli Alfonso e dal duca di Milano, dare un istante di pace alla repubblica, nel 1447 si dimetteva. Erano allora deputati al governo dodici cittadini; ma Barnaba Adorno li cacciava e si faceva eleggere doge. A sua volta Giano Fregoso lo sbalzava di seggio, innalzandosi egli alla dogale dignità; ed essendo egli morto nel dicembre del 1448, con voti 331 era eletto suo fratello Lodovico Fregoso incapace a frenare le turbolenze.

Sotto il dogato di Lodovico, durato appena un anno, si consolidavano varie compere di San Giorgio, si muoveva guerra ai marchesi di Finale sempre ribelli alla repubblica, si rialzava la fortezza di Castelletto distrutta dopo la cacciata della signoria viscontea, ed era aiutato con io mila ducati Francesco Sforza che per la morte del suocero Filippo Maria Visconti tentava impadronirsi del Milanese.

Nel 1450 Lodovico era deposto e invitato Tommaso, che se ne stava in Sarzana, ad accettare la signoria; ma egli rifiutò, consigliando che tale dignità si conferisse invece a suo nipote Pietro Fregoso, il quale infatti venne eletto doge con 317 voti.

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Tre anni appresso i Turchi condotti dal loro sultano Maometto II assediavano Costantinopoli, cui non valse a salvarla l' eroismo dei genovesi di Pera. Lo stesso capitano generale Giovanni Giustiniani cadde combattendo, e dei sei mila soldati che sotto di lui abilitavano pochi salvarono la vita. La città e il sobborgo di Pera vennero saccheggiati per quattro giorni e ridotti in un mucchio di rovine.

La repubblica di Genova, travagliata dalle sue interne discordie, immiserita dalle sfrenate ambizioni di poche famiglie, non potè recare alcun soccorso alla sua colonia di Pera; e siccome in quel torno anche la Corsica, invasa nuovamente dal re d' Aragona, stava per passare nella signoria di questo, non vide altro scampo che trasferire il dominio di quell'isola e delle colonie che ancora le rimanevano nel Mar Nero al Banco di S. Giorgio perchè, colla potenza dei suoi mezzi finanziari, ne curasse la conservazione.

Pietro Fregoso reggeva il supremo ufficio della patria assai infelicemente. Gli Adorno s'accordavano con Alfonso di Napoli per ricuperare il perduto potere, e ad essi si facevano compagni i Fieschi. Il Fregoso vedendosi ridotto a mal partito indusse la città a darsi in signoria a Carlo VII re di Francia; signoria che questi subito accettava, promettendo larghi compensi alla famiglia Fregoso, e mandava Giovanni d'Angiò a pigliare possesso di Genova quale suo governatore l' il maggio 1458.

Alla nuova che Genova era caduta nelle mani del re di Francia, quello di Napoli ordinò un' armata di venti navi e diece galere che spedì ad assediare la nostra città. Per terra gli Adorno e gli altri fuorusciti, per mare la flotta napoletana e aragonese, Genova pericolava di cadere nelle mani del re Alfonso, quando questi venne a morte, e quasi nello stesso tempo morirono i fratelli Adorno.

Ma la misera città non cessò per questo di essere molestata. I Fregoso, malcontenti del re di Francia che non adempiva le larghe promesse loro fatte, eccitavano il nuovo duca di Milano Francesco Sforza e Ferdinando d'Aragona re di Napoli ad assaltare Genova, ma i francesi ne sventarono le trame. Per questo la città si vide in preda alla guerra tra i Fregoso e i francesi, i quali, smungendo il popolo con enormi balzelli, tanto fecero che questo il 9 marzo 1461 irruppe in aperta rivolta costringendo il governatore del re a rifuggiarsi coi suoi nel Castelletto.

Entrarono allora in città l' Arcivescovo Paolo Fregoso e Prospero Adorno che misero mano alle armi per tentare di cacciarsi reciprocamente; ma il consiglio degli anziani, considerato che di quella lotta cittadina avrebbero profittato i francesi, indusse le due famiglie ad un accordo, eleggendosi, col consenso dell'arcivescovo Fregoso, a doge Prospero Adorno.

Ad espugnare il Castelletto, dove stavano i francesi, fu chiesto aiuto al duca di Milano che subito l'accordò, e poichè il re di Francia mandò un esercito a ripigliare la città, il duca altre sue truppe mandò a

difenderla, costringendo i francesi a pigliare la fuga lasciando sul campo 2500 morti.

Ma fra Adorno e Fregoso non potea essere pace, chè, ripigliatesi le liti, Prospero fu costretto a lasciare il dogato, cui successe Spinetta Fregoso cugino dell'arcivescovo. Poco appresso Lodovico Fregoso, quello stesso che aveva tenuto il dogato nel 1448, da Sarzana recossi in Genova con armati, si fece consegnare dal governatore francese, che ancora vi stava, il Castelletto e il 24 luglio del 1461 si facea eleggere doge in luogo di Spinetta. Però Lodovico non tenne oltre a dieci mesi l'ufficio, chè lo zio, l'arcivescovo Paolo Fregoso, addì 14 maggio del 1462 lo sbalzava, per restituirgli il seggio lo stesso mese, e cacciamelo ancora l'anno seguente e tenere per se questa volta la doppia qualità di doge e arcivescovo di Genova.

In mezzo a queste intestine discordie, chi guadagnava era lo Sforza duca di Milano, mentre in Genova rendevasi odioso il governo dell'arcivescovo Fregoso aiutato nelle ribalderie da Obbietto Fieschi.

Il re di Francia Luigi XI cedeva nel 1464 al duca di Milano la città di Savona; a lui si dava pure Albenga; e Finale, Monaco e Ventimiglia, per opera di Giovanni del Carretto e Lamberto Grimaldi cadevano in suo potere; la riviera di levante stava pure per isfuggire al dominio genovese, quando i cittadini, immiserito il pubblico erario, il commercio quasi distrutto, il credito ribassato, non trovarono di meglio che invocare la signoria del duca di Milano su tutta la repubblica.

XXVI.

11 governo degli Sforza.

Francesco Sforza duca di Milano ricevendo l'invito di occupare Genova, non se ne meravigliò chè all'uopo egli stesso abilmente aveva preparato il terreno, prima cogli aiuti prestati alla repubblica contro i francesi, poscia gratificandosi gli Adorno, donando a Prospero, cacciato dal dogato, la terra di Ovada, e in seguito attirando a se Spinetta Fregoso e quelP Obbietto Fieschi che amico era dell' arcivescovo doge.

Non sì tosto n'ebbe l'invito, lo Sforza mandò su Genova Gaspare da Vimercate con grosso esercito aumentato per via dai nobili genovesi e altre genti;il che sentendo Paolo Fregoso, confidata la fortezza di Castelletto alla cognata Bartolomea e al fratello suo Pandolfo, con presidio di 500 fanti, prese il largo per mare con quattro navi rubate in porto.

Il Vimercate giunto a Cornigliano, pei monti scese in Bisagno ed entrò in città per la porta d' Archi occupata da Obbietto Fieschi. Il popolo lo ricevette con allegrezza e di peso lo portò nel gran salone del pubblico palazzo salutandolo presidente e governatore a nome del duca Francesco, e quindi si facea decreto pel quale Genova e il suo dominio erano date in signoria dello Sforza. Assediato il Castelletto, Bartolomea lo rendeva, vedendo di non poterlo difen

dere, concliè il duca le restituisse la terra di Novi, stata da lui occupata, e le pagasse 14 mila ducati.

Venivan quindi delegati ventiquattro ambasciatori al duca Francesco con incarico di confermare le dedizioni, le leggi ed i patti stipulati col Vimercate; quali ambasciatori il duca ricevette in Milano con solennità straordinaria, festeggiandoli per diversi giorni e creandone alcuni cavalieri a sprone d'oro.

Anche l'ufficio di San Giorgio gli cedeva il dominio dell'isola di Corsica, molestata di continuo da' catalani; mentre Francesco Spinola rompeva la flottiglia dell' arcivescovo Fregoso che, pirateggiando, guastava il commercio genovese.

Francesco Sforza tenne il governo della repubblica con moderazione, ingraziandosi i cittadini, non gravandoli di tasse, anzi, sotto questo rapporto contentandosi di sole 50 mila lire annue per pagare la guardia della città e del castello, di guisa che sotto di lui parve alla repubblica genovese di riaversi delle passate tribolazioni.

Ma la quiete non durò a lungo, che morendo nel 1466 il duca Francesco, il primogenito Galezzo Sforza neh" assumere il potere, co' suoi modi brutali, colle sue prepotenze cagionò nuovi turbamenti alla povera città.

Galeazzo cominciò a pretendere maggiore tributo, imponendo balzelli nuovi. Dubbioso e sospettoso per natura, ogni tratto voleva ambasciatori a giustificare F operato della repubblica, sentiti i quali parea soddisfatto, ma non si tosto eran partiti altri ne chiedeva e rampognava minaccioso. Egli desiderava la signoria di Genova convertire in assoluta padronanza, e a ciò meglio raggiungere colla forza, ordinò che la fortezza di Castelletto si ampliasse, estendendola fino al mare, rovinando case e distruggendo molti edifizi. Già si erano accinti all' opera, quando la popolazione, avvedutasi della cosa, forte s'indignò, e il Consiglio deliberò mandare una legazione al duca perchè lo rimovesse dal divisamento, e il duca comandò che otto dei primari cittadini si recassero a lui.

Andarono, e quando il duca li ricevette e sentì che i genovesi mai avrebbero consentito che il Castelletto si ampliasse, temendo la rivoluzione rimise ai nuovi legati P arbitrato della questione. Tosto a furia di popolo i nuovi lavori vennero distrutti; ma ciò spiacque al duca che insospettito di Prospero Adorno, il quale viveva ritirato in Ovada, lo fece imprigionare nel castello di Cremona, e divisò mandare su Genova un esercito di 30 mila uomini, dal quale divisamento poi si resistette per la forte spesa e temendo dell'esito.

Per questi fatti cresceva in città il malcontento contro il governo sforzesco, e un Geronimo Gentile, giovane animoso e amante della libertà, volle tentare di cacciare l' abborrito governo. Una notte del giugno 1476 raccolti armati in una sua villa suburbana entrava in città gridando: San Giorgio e libertà. Svegliavansi i cittadini, s'ingrossavano le sue file, occupava egli le porte della città; ma fatto giorno, molti l'abbandonarono. Il governatore Guido Visconti formava una commissione di otto cittadini che provvedesse a respingere il Gentile, il quale con soli trenta uomini si teneva padrone della porta di S. Tommaso. Gli artefici allora si frapposero quali pacieri. Il Gentile cesse, dicendo che un giorno i cittadini si pentirebbero di aver perduto l' occasione di liberarsi che aveva loro offerta; e mediante il pagamento di 700 ducati, ch' egli aveva spesi nel generoso tentativo, lasciò la porta di S. Tommaso e se ne andò.

Ma Galeazzo Sforza non tenne più lungamente la signoria, chè resosi odiato anche in Milano, il giorno 26 dicembre di quello stesso anno tre giovani congiurati, Lampugnani, Visconti ed Olgiati, lo uccisero mentre recavasi a messa.

XXVII.

Governo degli Adorno, dei Fregoso e del Moro.

A Genova non appena corse voce della morte del duca Galeazzo, i Fieschi e i Doria levavano in armi i contadini dei dintorni, e la città stessa, di guisa che il governatore milanese rifuggiossi nel Castelletto coi suoi, e il Consiglio elesse a governare otto capitani di libertà.

La vedova di Galeazzo Sforza, quale tutrice del figlio minorenne, consigliata dal segretario Cecco Simonetta, mandava in Genova un esercito di 12 mila

uomini a domarne la ribellione, al quale s'univa Prospero Adorno liberato dal carcere di Cremona e nominato governatore dei Genovesi per la duchessa se l'impresa riusciva.

I Fieschi, i Fregosi, i Guarchi ed altre famiglie che allora avevano la somma delle cose, si accinsero a disperata difesa, tanto che sarebbe riuscito difficile all'esercito milanese il trionfare colla forza, se Prospero Adorno, fatte lasciare addietro quelle truppe, egli coi suoi partigiani non fosse entrato in città, e impadronito del palazzo pubblico colle grida di Adorno e Spinola. Radunato il Senato lesse le lettere colle quali la duchessa Bona di Milano lo nominava governatore, fece ammirare la condotta dell'esercito milanese che s' era rimasto dall' entrare in città, per cui ai capi propose fossero dati sei mila ducati.

L'Italia era in quei tempi in grave trambusto. La successione del duca Francesco Sforza era fieramente contrastata dai fratelli; la repubblica di Firenze, per la congiura dei Pazzi, in disordine, scomunicata dal papa Sisto IV dei della Rovere di Albissola; il papa e Ferdinando re di Napoli guerreggiavano contro i milanesi, i veneziani e i fiorentini alleati

Prospero Adorno, in tale trambusto, era cercato di alleanza da una parte e dall'altra; e poichè il governo di Milano dubitava della sua fedeltà, mandò in Genova il vescovo di Como che segretamente radunò il Senato in San Siro e lesse lettere della duchessa per le quali l' Adorno era destituito dalla carica di governatore.

L'Adorno scoperta la trama, sollevò il popolo che lo elesse doge e a lui unì trenta consiglieri metà mercanti, metà artigiani. I milanesi furono costretti a ritirarsi nel Castelletto, donde facendo continue sortite recavano assai danno alla città, mentre un esercito di circa 20 mila fanti e 6 mila cavalli era spedito da Milano a ricuperare la perduta signoria.

La repubblica pigliava a propri stipendi Roberto di San Severino abile e valoroso capitano, e il re Ferdinando, per eccitamento di Lodovico Fregoso, mandava in suo aiuto sette galere.

Il numeroso esercito milanese travagliava i dintorni della città nel modo più orrendo, mentre i difensori, o impauriti o altrimenti compri dal nemico, fuggivano. Allora fu radunato il popolo e Roberto finse aver intercettato una lettera al vescovo di Como colla quale erano incoraggiati i soldati milanesi colla promessa del sacco per tre giorni.

I Genovesi a tale lettura, disperatamente si armarono e la mattina del 9 agosto 1478 si scagliarono fuori della città contro il nemico. La battaglia durò fino alla sera, i milanesi tentarono tre volte l'assalto, e tre volte furono respinti, finalmente costretti alla fuga, i genovesi gl' inseguirono uccidendone molti e molti pigliandone prigionieri.

Scampata la città dal pericolo di tornare preda del governo milanese, ritornò in preda alla guerra civile, tra gli Adorno e i Fregoso.

Entrato in Genova nascostamente Battista Fregoso, questi s'impadroniva di una parte della città; lo combatteva Prospero Adorno aiutato da Roberto di San Severino e lo cacciava; ma i Fieschi, che fino allora cogli Adorno avevano fatto causa, si allearono coi Fregoso e, costretto alla fuga Prospero, fecero eleggere doge Battista Fregoso.

e Lazzaro Doria, e aiutato altresì da Lodovico Sforza detto il Moro, che ordiva il tradimento con cui usurpare il dominio milanese al nipote, dal convocato Consiglio fece dichiarare decaduto Battista Fregoso ed eleggere sè doge con trecento voti.

La guerra che da più tempo affliggeva tutta Italia ebbe fine colla pace di Bagnolo sottoscritta il 7 agosto 1484; ma la pace fu presto rotta dai Fiorentini in base appunto a quel trattato, reclamando la restituzione di Sarzana stata dapprima loro venduta da Agostino Fregoso e poscia tolta e ceduta all' ufficio

L'arcivescovo Paolo suo zio desideroso di iicuperare l'antico grado nella sua città, dopo aver combattuto coraggiosamente per la liberazione di Otranto, stata nel 1480 occupata dai Turchi, si volse su Genova e quivi entrato, si mise d'accordo con Agostino Fregoso capitano generale della repubblica di S. Giorgio. La guerra tra fiorentini e genovesi dopo varie vicende fu tentato dal papa Innocenzo Vili di casa Cibo genovese, di acquietarla nel 1486; ma quando già gli accordi parean presti, ecco ripigliarsi le armi, e conducendosi la guerra gagliardamente da ambo le parti, Sarzana dopo ostinata difesa cadde nel giugno del 1487 in potere dei fiorentini.

La signoria di Paolo h»viii. Fregoso era intanto venuta

in odio all'universale, e un magistrato era stato creato con amplissima balia sulle cose della repubblica e di S. Giorgio. Obbietto e Gian Luigi Fieschi ed altri invitavano Battista Fregoso, che se ne stava a Frejus in Provenza a scrivere i Memorabili, a ricuperare il dogato. Agostino e Giovanni Adorno muovevano pure i loro congiunti contro l' arcivescovo doge. Ora tutti costoro penetrarono un giorno in città con buon numero d'armati, occuparono il palazzo ducale, e Paolo Fregoso, non tenendosi sicuro, cercò rifugio nel Castelletto. Il Senato elesse dodici cittadini a governare la repubblica; ma i faziosi ponean l'assedio alla fortezza, onde nuovo sangue cittadino bagnava le vie e le piazze di Genova.

Ricorrevano i governanti per aiuto al Papa e a Carlo Vili re di Francia, ma non erano ascoltati. Lodovico il Moro che da Milano vigilava sui moti della nostra città, mandò suoi fidati e truppe fingendosi paciere, e tanto seppe fare da indurre la maggioranza a dargli Genova in signoria cogli stessi patti che erasi data a Francesco Sforza.

Battista Fregoso fu per tradimento arrestato e ricondotto a Frejus; Agostino Adorno fu eletto governatore ducale per dieci anni; l'arcivescovo Paolo Fregoso cedette le fortezze che stavano ancora in sue mani, mediante largo compenso di denari, e ritirossi in Roma ove morì nel 1498.

Genova caduta in signoria del Moro, mentre per opera dei suoi commissari rialzavasi alquanto, per opera degli Adorno era angustiata come in passato dai Fregoso; onde il Moro, studiandosi avere Genova quale feudo, tanto fece che da Carlo Vili re di Francia, che vi pretendeva sovranità, ottenne nel 1490 quanto desiderava.

Quattro anni appresso Carlo Vili scendeva in Italia ad istigazione del Moro, per occupare il regno di Napoli, e Genova ne pigliava le parti, mentre l' Aragonese che regnava in Napoli appoggiato dai Fregoso e dai Fieschi inviava una fiotta ai danni di Genova. La riviera di levante era occupata e guasta in più modi così dai Fregoso e dai Fieschi che invadevano, come dai soldati italiani e svizzeri che, guidati da Giovanni Adorno e dal duca d'Orleans, la difendevano; ma poichè il Moro abbandonò Carlo VII! dopo la sua

conquista di Napoli, Genova fu oggetto di mira del re francese quando non si vide più sicuro nel nuovo regno.

Re Carlo, consigliato dai Fregoso e dai Fieschi che ora le sue parti avevano sposato, mandò numerose truppe per terra e galere per mare sulla Liguria; dove gli Adorno sostenuti energicamente dal Moro prepararono strenua difesa.

Le truppe francesi e dei fuorusciti si spinsero fino al colle d' Albaro, mentre per la Polcevera doveva scendere Battista Fregoso con nuovi soldati; ma gli Adorno sconfiggevano gl' invasori a Rapallo, costringendo gli altri a ritirarsi in fretta per non essere presi in mezzo.

Tornato Carlo Vili in Francia, salvandosi con meraviglioso ardimento alla battaglia del Taro, i Genovesi per denaro ebbero Sarzana e Sarzanello che quel re aveva tolto ai Fiorentini con promessa di cederle a loro; e malgrado che quegli cercasse a mezzo dei fuorusciti di conquistare il Genovesato, dovette abbandonarne l'idea, tenendo visi ferma e abbastanza forte l'autorità del Moro e degli Adorno.

XXVIII.

Signoria di Luigi XII re di Francia.

Morto Carlo VIII, gli succedette nel trono il cognato duca d'Orleans col nome di Luigi XII, il quale pretendendo aver diritto sul ducato di Milano scese in Italia con forte esercito, sconfisse in più scontri i soldati di Lodovico il Moro e giunse in Milano accolto trionfalmente, quasi liberatore.

Genova, che sotto la fede degli Adorno ubbidiva al Moro, non sì tosto vide volta la fortuna di questi, si offerse al nuovo re di Francia. Gli Adorno cercarono altresì di mettersi nelle sue buone grazie, ma, traditi da Gian Luigi Fieschi che fino allora li aveva appoggiati, furono cacciati dai Fregoso.

Luigi XII ricevette con grandi onori gli ambasciatori di Genova e accettando l'offertagli signoria, il 26 ottobre del 1499 dagli stessi ricevette solenne giuramento di obbedienza; quindi elesse a governatore della città suo cugino Filippo di Cleves Ravastein, che giurò a sua volta di governare Genova ad onore del re e secondo i capitoli dei genovesi. Gian Luigi Fieschi riceveva in guiderdone dei suoi servizi, il governo della riviera di levante.

Nel 1502 re Luigi, sceso nuovamente in Italia per dare sesto alle cose del milanese e del napoletano, venne a Genova, ove fu ricevuto con grandissima pompa ed ebbe alloggiamento prima nella villa di Campi e quindi nello splendido palazzo di Gian Luigi Fieschi in Vialata. Ivi dimorò otto giorni, festeggiato da tutti i cittadini e visitato da molti principi d'Italia venuti qui appositamente.

Era tanta l'abbie^ione del Senato e del governo genovese in quei tempi, che decretarono giorno festivo il 26 agosto nel quale era venuto in Genova il re di Francia affinchè la memoria de tale advento paia esser a lutti iocondissima!

In questa occasione sorsero litigi tra i nobili, feudatari e i popolari, ricchi borghesi, che per intervento amorevole del governatore regio cessarono subito; ma quei litigi si risollevarono nel 1505 quando si trattò nei Consigli della repubblica dell' offerta signoria di Pisa.

Tra questa città e Firenze si guerreggiava da un decennio: Pisa perchè voleva essere libera, Firenze perchè la voleva sottomessa. Volgendo l'anno 1505, i Pisani trovandosi oramai ridotti alla disperazione inviarono legati a Genova chiedendo che li volessero ritenere, quali sudditi, in protezione.

I popolari eran d'avviso si dovesse accettare l'istanza e mandar truppe in soccorso di Pisa; i nobili dicevano si respingesse. Il conte Gian Luigi Fieschi era il più accanito nel sostenere l'avviso dei nobili, poiché vagheggiava rendersi egli signore di Pisa e formarsi così un vasto stato che occupasse tutta la riviera di levante sino a Livorno; e d'altra parte sembra che l' oro dei Fiorentini non fosse estraneo a tale sua opinione.

II Senato non prese pel momento alcuna deliberazione, sebbene il partito dei Fieschi riuscisse vittorioso; ma, per temporeggiare, si mandarono ambasciatori a' pisani con buone parole, e si scrisse d' altro lato al re di Francia per chiedere il da farsi.

Non tardò molto a giungere la risposta del re , la

F. DonaVer. lé

quale a tutti parve scritta o suggerita dal conte Fieschi, con cui si lodava la deliberazione di rifiutare la dedizione di Pisa e si confortava il Senato a tenere fermo su quella.

Non è a dire, scrive il Canale, come l'odio universale, dopo ciò, si volgesse contro il Fieschi e suoi partigiani nobili, cui si ascriveva la repulsa del re. In privato ed in pubblico, nelle conversazioni popolari e nei convegni dei magistrati, se ne tenevano

i più caldi ragionamenti, il nome dei nobili risuonava abborrito dalla plebe, e il regio governo che li favoriva tornava oggimai odioso ed insopportabile. Quale odiosità era poi sovraccitata dal papa Giulio II dei della Rovere, che allora inalzava lo stendardo della libertà italiana al grido di: Fuori i barbari; onde la rivoluzione in Genova si sentiva prossima a scoppiare.

XXIX.

Il doge Paolo da Novi.

I popolari pretendevano, giusta le leggi precedenti e le stesse convenzioni pattuite col re di Francia, di avere due terze parti dei pubblici uffici e la terza fosse

riservata ai nobili, che ne avevano usurpata la metà. Ora i nobili appoggiati dal governo monarchico spadroneggiavano nella città, trattando ipopolari con disprezzo, minacciandoli e percuotendoli ogni tratto, cui rispondevano i popolari con fiero ardimento, tanto che di sovente accadevano vere battaglie nelle vie e sulle piazze tra le due parti. •

Attesa T assenza del governatore, il suo luogotenente , a scongiurare guai maggiori, promise e concesse ai popolari quanto domandavano circa il riparto dei pubblici uffizi; ma tornato indi a poco il principe di Cleves gli andarono incontro gl' inviati popolari a esporgli le cose, e Gian Luigi Fieschi, odiatissimo dal popolo, a sua volta pure gli andò incontro esponendogli le ragioni dei nobili.

Il regio governatore giunto a Genova, visto lo stato degli animi, dimostrossi favorevole ai popolari e indusse il conte Fieschi a ritirarsi nella villa di Quarto; per cui i popolari, come soddisfatti, si rimasero da qualsiasi altra domanda.

Ma la plebe che fin qui aveva lavorato d'accordo coi popolari, vedendo che alcun benefizio non riceveva, fece tumulto, e molti fra essa si radunarono nella chiesa di Santa Maria di Castello, nominarono un magistrato di otto che dissero Tribuni, li accompagnarono al pubblico palazzo e vollero che ivi avessero sede ed amministrassero la giustizia.

Questi tribuni s'imposero subito al podestà, agli anziani e alle altre autorità cittadine, col seguito

numeroso degl'infimi plebei i quali, perchè in misero arnese e cencioso, colle calze di tela ed un' angusta e sdruscita cappa, si dicevano Cappetìe, e qualunque cosa voleano ottenevano.

Armati 2500 polceveraschi, e mandati commissari a Spezia, tolsero parte della riviera di levante allà signoria del conte Fieschi che quale principe, col beneplacito del re di Francia, la teneva; e poichè la plebe si faceva sempre più impetuosa, fu chiamato da Pisa il capitano Tarlatino di Città di Castello, il quale, per segrete istruzioni ricevute da Giulio II, subito prese le parti dei plebei contro i nobili.

Fatta l'impresa della riviera di levante, la plebe volle pure cacciare i Grimaldi da quella di ponente e due galere comandate l'una da Gasparo Guano e F altra da Gio. Battista Davagna con alquanti brigantini furono spedite contro Monaco; ma senza risultato.

Intanto il re informato di quanto accadeva nella nostra città, ordinò al governatore il 6 ottobre 1506 di notificare la conferma dello stato popolare giusta la riforma fattane dal popolo e un ampio generale perdono di quanto era accaduto. Però nel contempo ordinava che al Fieschi fosse restituita la riviera di levante.

Mandavansi ambasciatori a Luigi XII perchè recedesse da quest'ultimo ordine, ma il re non li volle ricevere e più minacciò Genova di costringerla colla forza all' ubbidienza.

Qui allora il disordine si fece più grande. Il governatore di Cleves se n' era già andato; il suo luogotenente, vista la cattiva piega delle cose, abbandonò il palazzo pubblico e si ritirò al Castelletto, per cui il governo della città rimase nelle mani degli anziani, i quali il 28 marzo 1507 istigati dai tribuni, decretarono cessato il governo del Re di Francia e vendicata la repubblica in libertà.

Furono tentati gli accomodamenti tra il re e Genova per mediazione di diversi; ma poichè gli accordi non poterono aver luogo, i tribuni vennero nella deliberazione di ripristinare il dogaro, e a tale ufficio fu eletto Paolo da Novi della famiglia Catane! e di agiata condizione, sebbene fosse tintore di seta.

Il 10 aprile convocato un consiglio nella maggior sala del pubblico palazzo dove intervennero 4000 popolari, Paolo ricevette solennemente le insegne dogali.

Prima impresa del doge fu quella d'impadronirsi delle fortezze di Castelletto e Castellacclo che stavano ancora in mano dei francesi, le quali vigorosamente assalite dal popolo furono in breve occupate. Fu pure novellamente tentata l'impresa di Monaco, ma il capitano Tarlatino a quest' uopo inviato dovette ritirarsi in Ventimiglia, lasciando l' esercito dei francesi e dei nobili fuorusciti padrone di tutta la riviera di ponente. Per contro la riviera di levante si conservò in potere di Genova, e un'accolta di tremila uomini che, guidati da Girolamo ed Emanuele Fieschi, s'era impadronita di Rapallo e correva su Recco, venne messa in rotta dai popolani genovesi.

Il doge aiutò poi largamente la pericolante repubblica di Pisa, in soccorso della quale l'ufficio di San Giorgio inviò cospicue somme, e considerevoli imprestiti le fecero i cittadini genovesi, quali Battista Spinola di Cristoforo, Francesco Cibo ed Emanuele Canale. E già volgeva in animo di muoversi col popolotutto a soccorrere Pisa più gagliardamente e a ricuperare la riviera di ponente, quando giunse avviso che Luigi XII, varcate le Alpi con 12 mila fanti, 1800 cavalli leggeri e 800 lance e tutta !a corte, si trovava in Asti donde intendeva muovere contro Genova.

Paolo da Novi, a tanta procella, invitò il capitano Tarlatino che stava in Ventimiglia di recarsi qui a difesa della città; ma egli per terra fu impedito dai francesi, per mare dai venti contrari. Allora il doge raccolse quanti uomini potè formando un esercita di 8000 fanti che pose sotto gli ordini d'Iacopo Corso luogotenente di Tarlatino; e poichè seppe i francesi incamminati verso la Polcevera, mandò 600 uomini a custodirei passi più angusti, ma costoro appena sentirono l'appressarsi del nemico presi da forte panico fuggirono, trascinando nella fuga quei che stavano loro dietro, di guisa che i francesi scesero nella vallata, a sette miglia dalla città, senza colpo ferire.

Per la città corse subito grave timore: le donne e i fanciulli ricoveravansi nei chiostri, le cappette si ritiravano frettolose sui monti, lasciando come spopolate le vie; solo il doge, i tribuni e pochi popolari tennero saldo il posto, provvedendo coi mezzi di cui potevano disporre alla difesa. Fu munito il colle di Promontorio e la rocca di Castellaccio e tutto il recinto fra quei due punti compreso, per cui quando Luigi XII alloggiato a Rivarolo diede ordine dell'attacco, incontrò resistenza energica e coraggiosa tanto che la vittoria fu lunga pezza in dubbio da parte dei francesi, i quali all'ultimo, più numerosi e più agguerriti, giunsero ad impadronirsi di Promontorio donde dominavano la città.

Allora lo spavento del saccheggio indusse il governo genovese ad inviare Battista Rapallo e Stefano Giustiniani al re, incaricati di trattare della dedizione. Ma il re non volle riceverli e a mezzo del cardinale di Rohan fece loro sentire essere sua volontà che la città si rimettesse alla di lui clemenza.

Il popolo avuta la risposta reale, irato riprese le armi e combattè ancora con eroismo per ricuperare il Promontorio, e al Castellaccio, ma i francesi vittoriosi misero in fuga i cittadini ardimentosi.

Allora il doge Piolo da Novi e quanti aveano da temere della vendetta del re, presero la fuga, e il Rapallo e il Giustiniani ritornarono ambasciatori della resa a discrezione.

Il 28 aprile del 1507 Luigi XII entrò in Genova colla spada sguainata, preceduto da molte compagnie di francesi e svizzeri e seguito dal fiore dell'esercito. A Banchi gli si presentarono Gian Luigi e Filippino Fieschi con cento nobili a cavallo, festeggiandolo. Prese alloggio nel palazzo pubblico, ordinò fossero impiccati alcuni plebei e Demetrio Giustiniani fratello di quello che era stato ambasciatore della resa; e più forse avrebbe fatto se il timore di eccitare disordini non lo avesse trattenuto.

Il giorno 11 maggio il re ricevette, dagli anziani e altri ufficiali della repubblica, il giuramento di fedeltà e la domanda di perdono, ch' egli concesse. Volle però distrutte le convenzioni pattuite quando assunse la signoria di Genova, e quali privilegi di favore le accordò; ordinò inoltre la costruzione di una fortezza a Capo di Faro che si chiamò la Briglia, poichè il re diceva che con quella avrebbe imbrigliato la libertà genovese.

Il 14 successivo Luigi XII lasciò la città, dove i nobili ripigliarono il perduto dominio con poca generosità pei vinti.

Fine infelice ebbe Paolo da Novi che fuggito da Genova il giorno stesso dell' entrata del re, s' avviò prima a Bologna, ma per via retrocesse riparando a Pisa dove s'imbarcò per recarsi a Roma sopra il bastimento di certo Corsetto, dal quale fu tradito e venduto per 800 ducati al capitano delle galere francesi Pregent de Bidoulx, per cui il primo giugno venne condotto a Genova e rinchiuso nel Castelletto. Il 15 dello stesso mese dal Castelletto venne trasportato nel palazzo ducale e sulla piazza eretto il patibolo gli fu tagliata la testa, morendo egli con istoica fermezza.

XXX.

Fregoso e Adorno liberano e rimettono Genova in servitù. Giulio II che, per ricuperare alcune terre di Romagna, aveva mosso guerra a Venezia, collegato al re di Francia e agli altri principi d'Italia, non sì tosto ebbe raggiunto lo scopo e vide la repubblica veneta prostrata dalle armi dei collegati e il suo territorio fatto a brani, tornando al suo primitivo pensiero di cacciare i francesi dalla penisola, dov' erano quasi padroni assoluti, fece lega con Venezia, col re Ferdinando il Cattolico, coll' imperatore Massimiliano e il re d'Inghilterra contro quello di Francia, e gagliardamente s' accinse all' impresa di cacciare la signoria francese da Geneva.

Giano Fregoso da Padova, ove dimorava, recossi in Roma chiamatovi dal papa a concertare i modi di far insorgere Genova e occuparla, mentre a Venezia si armavano dodici galere. Ottaviano Fregoso, cugino di Francesco Maria della Rovere duca d' Urbino nipote del papa, doveva comandare l'impresa. In Genova fu ordita una congiura coi Doria, ma scoperta, i congiurati appena ebbero il tempo di salvarsi colla fuga.

La flotta veneta comandata da Gerolamo Contarmi corse le riviere, e i Fregosi per terra cercarono portarvi l'insurrezione; ma senza alcun risultato, chè il regio governatore vigilava sull'armi e molti furono i decapitati o dannati all' esilio come sospetti di congiurare.

Luigi XII a combattere il pontefice Giulio II aveva fatto ordinare da cardinali francesi e tedeschi un concilio in Pisa pel dì i settembre 1511, e i genovesi gli mandarono a chiedere volesse esonerarli dal parteciparvi, e nel contempo che togliesse loro il governatore che allora avevano, Francesco di Rochechouart Sire di Champdenier crudele e tiranno.

Il re accogliendo la prima domanda, respingeva la seconda, onde qualche turbamento nella cittadinanza approfittando del quale e della sfortuna che perseguitava i francesi dopo la battaglia di Ravenna, avvenuta l'u aprile 1512, Giano Fregoso con 50 uomini d'arme e 500 fanti entrò in Genova, ove il 29 giugno con universale consenso ed allegrezza venne eletto doge.

Egli appena prese possesso dell' ufficio, strinse d' assedio le fortezze dove stavano i francesi. Quella di Castelletto dopo otto giorni si arrese, ma quella costrutta a Capo di Faro, detta la Briglia, resistè energicamente lunga pezza. Stava però per arrendersi per fame, quando una grossa nave francese con bandiera genovese s'avvicina alla Lanterna e dato ivi fondo si mette a sbarcare le vettovaglie di cui penuriavano gli assediati.

Erano i genovesi atterriti di tanto ardimento, allorchè Emanuele Cavallo, cittadino popolare, si presenta al Senato e si offre di toglier via quella nave soccorritrice se gli viene dato un galeone armato di 300 giovani da lui scelti. È accettata la proposta, e il Cavallo scelti i giovani più audaci e valorosi sale sopra una nave e con quella si getta tra la francese e la fortezza. Da questa fulminavano le artiglierie e precipitavano enormi massi di pietra; ma il Cavallo arditamente salta sulla nave francese, colle proprie mani ne taglia il rimorchio, indi con uncini di ferro l'abbranca e trattala fuori a violenza, la trascina a dare attraverso sulla spiaggia di S. Pier d' Arena. Mentre egli opera tali cose, Benedetto Giustiniani visto che il capitano della nave nemica lanciatosi in mare cercava salvarsi a nuoto, gli si lancia a sua volta dietro, lo raggiunge, l'afferra e il conduce prigioniero a bordo.

Emanuele Cavallo, entrato in città dopo il fatto glorioso, s' ebbe gli applausi del popolo, 200 ducati d'oro e lo sgravio per se e discendenza di qualunque gabella.

Antoniotto e Gerolamo fratelli Adorno, divisando cacciare dal governo i Fregosi, invocarono l'aiuto dei francesi, e con una spedizione marittima e terrestre si volsero ai danni della repubblica. Gerolamo Fieschi, figlio del conte Gian Luigi morto da poco, alleatosi cogli Adorno, di dentro li favoriva; per cui, tostochè l'armata francese fu alle viste del porto e per terra comparvero i soldati dell' Adorno in Polcevera, egli pel Bisagno entrò in città sollevandola.

Giano Fregoso si battè disperatamente, ma il numero vinse ed egli dovette salvarsi sulle navi, veleggiando pel Levante. Entrati i francesi in Genova, Antoniotto Adorno prese possesso del pubblico palazzo in qualità di regio governatore.

Ma non andò molto che Ottaviano Fregoso, cugino di Giano, d'accordo cogli spagnuoli compariva dinnanzi a Genova, mentre la flotta francese era sconfitta dalla genovese. L'Adorno di ciò sgomentato e dalla rovina ond'erano state colpite le schiere di Francia a Novara, fuggi; e il 17 giugno 1513 Ottaviano entrò in Genova venendo eletto per acclamazione doge. Proseguito quindi l'assedio della fortezza del Capo di Faro,

Ottaviano Fregoso. , . ,

il 26 marzo 1514 il presidio s arrese; e la fortezza fu distrutta dalle fondamenta con plauso dell'universale.

Caduto a morte Luigi XII, il 1 febbraio del 1515 saliva sul trono di Francia Francesco I, cavalleresco e battagliero. Ottaviano Fregoso che con valore e abilità cercava tenere libera la repubblica dalle invasioni degli Adorno e dei Fieschi, sovvenuti da Massimiliano Sforza duca di Milano e dagli svizzeri, travagliato di continuo da costoro, vedendo pericolante la patria di cadere in mani men buone, negoziò e concluse un trattato col nuovo re francese pel quale egli assumeva la signoria di Genova alle stesse condizioni pattuite nel 1499 col suo antecessore. Ottaviano conservava il potere non piu col titolo di doge, ma con quello di regio vicario.

Ottaviano Fregoso nel savio intendimento di studiare il modo di formare l' unione di tutti i cittadini nell'interesse della patria, e riformare di conformità le leggi, fece eleggere dal gran Consiglio l' Ufficio dei Riformatori che furono in numero di dodici; e certo egli avrebbe condotto a bene le cose, saggio e dabbene com'era, se gli Adorno, non mai sazii di insaguinare la patria per cupidigia di potere, non avessero indotto Carlo V d'Austria, re di Spagna e imperatore, giovane ardimentoso e avversario di Francesco I, a fornirgli un esercito di 20 mila uomini guidati da Prospero Colonna e dal marchese di Pescara, col quale assaltarono Genova. Malgrado la difesa del Fregoso e del conte Navarro, spedito con quattro galee in suo aiuto dal re di Francia, il 30 maggio del 1522 quell'esercito di spagnuoli, tedeschi, svizzeri e fuorusciti genovesi entrò in Genova che, secondo i patti convenuti cogli Adorno in Cremona, fu data in preda al saccheggio.

Ottaviano Fregoso fatto prigioniero dal Pescara, venne da questi consegnato a Bernardo Gallo, creatura degli Adorno, perchè lo conducesse dal vice re di Napoli; ma a quanto pare il Gallo gli propinò il veleno: chè infatti, partito da Genova, appena giunse a Napoli, infermò e morì.

In mezzo alle soldatesche di Carlo V, Antoniotto Adorno era proclamato doge di Genova.

Proseguiva intanto implacabile la guerra tra Francesco I e Carlo V, per la preponderanza che ciascun d'essi voleva avere in Europa, e singolarmente in Italia. Ai prosperi successi che avevano lusingato le speranze di Francesco, seguivano i rovesci, di guisa che dopo la celebre battaglia di Pavia, fatto prigioniero, venne condotto nel monastero di San Gerolamo della Cervara in Portofino e quindi in Ispagna, donde non uscì se non dopo aver firmato il vergognoso trattato di Madrid del 14 gennaio 1526. Ma Francesco, appena fuori del carcere, strinse lega col Papa, i Veneziani, lo Sforza, gli Svizzeri e il re d'Inghilterra e riprese la guerra contro Carlo V. Per limitarmi a quanto riguarda la nostra Genova, dirò che la flotta veneta e quella francese, comandata da Andrea Doria, tentarono occupare le riviere; ma, tra per la fiotta spagnuola e genovese che lo impedì e pei tempi burrascosi, non poterono riuscire a utile risultato. Riuscì invece Cesare Fregoso che, con circa duemila soldati, penetrò in Sampierdarena e sebbene fosse assalito nei suoi stessi alloggiamenti da Agostino Spinola e Sinibaldo Fieschi, li respinse e inseguendoli giunse con loro fino alla porta di S. Tommaso che, per evitare maggiori guai alla città, gli fu aperta.

Il Fregoso entrato in Genova pigliò stanza nel palazzo pubblico, donde n' era fuggito l' Adorno ricoverandosi nel Castelletto. Intimatagli la resa, a patti onorevoli, lealmente osservati, lasciò la fortezza ritirandosi nel suo castello di Silvano.

Quanto al governo di Genova, il re di Francia, considerando che se lasciavalo in mano dei Fregoso la stirpe degli Adorno avrebbe sempre travagliato lo stato, mandò a reggerlo Teodoro Trivulzio, patrizio milanese. Fu allora ripreso lo studio per l'unione dei partiti come già aveva tentato Ottaviano Fregoso, e lo stesso governatore vi aderì, favorendosi però colla progettata unione la nobiltà e cercando che dagli uffici pubblici fossero esclusi Fregoso e Adorno, cagione di tutti i disordini che travagliarono Genova dal 1363. All'uopo tu nominata una balia di otto cittadini, portati poi a dodici, coll'incarico di riformare opportunamente le leggi e di trattare col re di Francia per l'adempimento dei patti, fra cui era quello di ritornare Savona sotto il dominio di Genova, dal quale s'era francata, facendo ad essa viva e terribile concorrenza commerciale.

Questa balia venne detta ii Magistrato dei Riformatori di cui vedremo ben presto il risultato degli studi.

XXXI.

Istituzioni dì Misericordia.

Le grandi istituzioni di beneficenza che onorano la nostra città, ebbero origine tra i secoli XV e XVI, e di esse parrai conveniente dare qui un breve cenno, come quelle che fanno parte integrale della storia civile di Genova.

Sotto il dogato di Tommaso di Campofregoso il governo, ad istanza di Pileo Demarini Arcivescovo di Genova si promulgava la legge costitutiva di quel Magistrato di Misericordia che ancora oggi reca tanto e largo soccorso ai poveri. Tale legge, in data 22 gennaio 1419, affidava a quattro probi cittadini, due nobili e due popolari, presieduti dall'arcivescovo, la cura di vigilare affinchè i legati pei poveri fossero adoperati al benefico scopo, di raccogliere limosine e convenientemente distribuirle ai bisognosi, e di giudicare altresì delle vertenze che intorno ai legati dei poveri potessero insorgere, con pieni poteri di dare esecuzione alle proprie sentenze senza facoltà d'appello. Pochi anni appresso e cioè nel 1423, Bartolomeo

mune e amministrato da quattro cittadini eletti ogni triennio dai Priori di S. Domenico di Genova, di S. Gerolamo di Quarto e della Certosa di Rivarolo.

Bosco dottissimo leggista, consultore della repubblica e di Filippo Maria Visconti, possedendo varie piccole case nella strada di Pammatone le volle dedicare alla cura degl'infermi poveri, ond' ebbe origine l'Ospedale che si ampliò dappoi nel 1741 e nel 1754.

Bartolomeo Bosco.

Il Bosco legò un' annua rendita per l'ospizio da lui fondato e ne scrisse gli ordinamenti con retto criterio. Egli volle che l'istituto fosse indipendente dal governo del co

La pia opera delle Dame di Misericordia ritrae le sue origini da tempi antichissimi, ma un proprio ordinamento, come pubblico istituto di beneficenza, F ebbe solo con decreto del Senato delli 28 dicembre 1428. Nel 1506 fu sottoposta alla vigilanza del Magistrato di Misericordia , però in processo di tempo se ne franchi come istituzione autonoma.

Anche V instituzione del Monte di Pietà in Genova risale al 1483, mentre già esisteva in Savona, e si deve alla predicazione del padre Angelo Craccario il quale la raccomandò ai cittadini facoltosi per soccorrere la povera gente con prestiti su pegno a modicissimo interesse. Detto istituto venne allora affidato ad un' amministrazione presieduta dall' Arcivescovo; cessò nel 1806, e si riaperse con decreto di Napoleone I del 4 dicembre 1809.

Sulla fine del secolo XV, e cioè nel 1497, Ettore Vernazza, notaio, istituiva la Compagnia del Mandiletto collo scopo di raccogliere e distribuire elemosine pei poveri. Quindi fondò l' 0spedale degV Incurabili le cui regole furono approvate dal Senato il 27 novembre del 1500.

Il Vernazza fu l'uomo più benefico del suo tempo e non per Genova sola, rfia altresì per tutta Italia,

F. Doma Tei. 17

chè in Roma e in Napoli, col concorso d'altri, fondò pure due ospedali pei cronici.

Edificò, in gran parte a sue spese, il Lazzaretto per gli appestati, istituì il Conservatorio di S. Giuseppe per le fanciulle povere, e provvide per la cura dei poveri vergognosi a domicilio.

Anche per gli studi fu mecenate generoso, chè istituì in Genova una cattedra di filosofia, altra di teologia, due di medicina e due di giurisprudenza. Era anche suo intendimento aprire una scuola d' arti e mestieri. Stipendiava avvocati e procuratori per la difesa dei poveri, e da lui ebbe origine la Compagnia di Misericordia pei carcerati.

Ettore Vernazza cessò di vivere di peste nel 1524, lasciando erede delle sue sostanze l'Ospedale dei Cronici.

La decadenza politica e commerciale della repubblica, ampliò per tal modo la miseria in Genova che non i soli privati, ma anche il governo dovette pensarvi. Come nel 1419 aveva istituito il Magistrato di Misericordia, così nel 1539 dovette istituire l'ufficio dei Poveri dal quale derivò un secolo dopo il grandioso Albergo dei Poveri in Carbonara.

Non è qui il caso di tessere la storia della beneficenza in Genova, ma posso ben dire che man mano s'andava invilendo questo Stato, si fondavano nuovi istituti pei poveri e gli antichi s'ingrandivano, poichè la miseria dello stato genera la miseria dei suoi cittadini, ed entrambe lo conducono a rovina.

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