Monday, April 2, 2012

"Tu, che in seno agli angeli" -- Don Alvàro; ossia, la potenza del fato -- Torna 1862

Speranza


"La forza del destino" (ossia La potenza del fato, ossia Don Alvaro) è un melodramma in quattro atti di Giuseppe Verdi su libretto di Francesco
Maria Piave (Murano, 1810 – Milano, 1867), tratto da "Don Alvàro; ossia, la Forza del Fato", un dramma, parte in prosa parte in versi, del Duca di Rivas, Angelo Saavedra Perez.

La prima rappresentazione della "Potenza del Fato" andò in scena al Teatro Imperiale di Pietroburgo, il 10 novembre 1862.

A causa di una grave malattia del Piave, Verdi incaricò Antonio Ghislanzoni (Maggianico di Lecco,
1824 - Caprino Bergamasco, 1893), di rimaneggiare il libretto dell'opera.

La nuova versione della
Forza del destino, con l'aggiunta della Sinfonia iniziale, le modifiche al terzo e quarto atto e il
rifacimento del finale, andò in scena al Teatro alla Scala di Milano il 27 febbraio 1869.

Nell'opera Verdi accosta il comico al tragico, con l'inserimento di elementi "buffi", rappresentati da
personaggi di secondo piano ben caratterizzati e caricati, quali Fra' Melitone, mastro Trabuco,
Preziosilla e di scene che spesso e volentieri travalicano i confini del comico.

L’azione si svolge in Spagna ed Italia (Velletri) nel XVII secolo (1744 -- La battaglia di Velletri).

Tra il primo e il secondo atto passa circa un anno.

Tra il secondo e il terzo alcuni anni.

E tra il terzo e il quarto oltre un lustro.

Personaggi:

Il marchese di Calatrava (basso)

Donna Leonora di Vargas, figlia del marchese (soprano)

Don Carlo di Vargas, figlio del marchese (baritono)

Don Alvaro Inca (tenore)

Padre guardiano, francescano (basso)
Fra Melitone, francescano (basso buffo)
Preziosilla, giovane zingara (mezzosoprano)
Curra, cameriera di Leonora (mezzosoprano)
Un alcade (basso)

Mastro Trabuco, mulattiere, poi rivendugliolo (tenore buffo)
Un chirurgo, militare spagnolo (tenore)

Primo atto

Siamo a Siviglia, nella casa del marchese di Calatrava (nulla a che vedere con l’architetto Santiago Calatrava [Ordine militare di Calatrava]),
questo è un altero e spocchioso nobilissimo di Spagna.

Da buon padre rompicoglioni (anche un po' leghista "ante litteram"), egli si oppone all’amore ed alle nozze della sua giovane fiola, "Donna Leonora di Vargas", con Don Alvaro Inca.

Giovane che egli ritiene indegno
della propria figlia perché meticcio (mulatto, indiano) essendo figlio di una principessa inca e di uno spagnolo.

Ovviamente la stirpe regale inca della madre di Alvaro Inca non vale nulla per un conquistador.

Donna Leonora di Vargas è nella sua cameretta e sta per coricarsi,
almeno così ci fa credere.

Il padre, il marchese di Calatrava, è andato a darle
il bacino della buonanotte, tronfio di averla convinta a troncare la relazione col mezzosangue.

Il povero pirla non sa che invece
i due hanno organizzato, proprio
per quella notte, la cosiddetta
fuga d’amore.

Rimasta sola con Curra, la sua fida cameriera,
Donna Leonora di Vargas è triste e angosciata all’idea di fuggire con
l'innamorato.

"Me, pellegrina ed orfana, lungi dal patrio nido."

Ma la camariera Curra, spensierata e svelta di gamba, favorisce gli amori della sua padrona con Don Alvaro Inca.

Leonora da una parte non sa decidersi a fuggire,
dall’altra teme che l'amato non venga a prelevarla.

Siamo tutti lì che aspettiamo con ansia nell’incertezza, e finalmente
a mezzanotte suonata arriva
Don Alvaro Inca.

Alla buonora.

Don Alvaro Inca entra naturalmente dal verone e bambana su un po’ di scuse insensate, come in genere fanno gli
uomini quando tardano agli appuntamenti.

"Da lung'ora
Mille inciampi tua dimora
M'han vietato penetrar;
Seguimi, lascia ornai la tua prigione.

Leonora esita: Ciel, risolvermi non so.

Ma Don Alvaro Inca l’incalza:

Pronti destrieri di già ne attendono,
un sarcerdote ne asspetta all'ara.

‘Sta pugnetta di:

Seguimi – Arresta - Su, via, t'affretta -

Ten prego, aspetta –

va avanti per dieci
minuti.

Quando, finalmente, Donna Leonora di Vargas la pianta di menare il torrone e si decide:

Ti seguo. Andiam,
Dividerci il fato non potrà

-- è troppo tardi, il fato divisore arriva.

Si ode uno strepitio e rumore di passi (questa volta non di orme) che salgono in fretta le scale.

- Per forza ragazzi, avete fatto un casino che metà basta -

Poi vari colpi violenti alla porta.

Tutti si c*gano addosso dalla fifa.

Donna Leonora di Vargas vuole nascondere Don Alvaro Inca nel classico armadio, ma questi rifiuta di farlo ed estrae una
pistola.

"Orrore," grida donna Leonora.

Il Marchese di Calatrava entra incazzato come Sgarbi al Maurizio Costanzo Show, brandendo una spada, seguito da due servi coi candelieri e urlando:

Vil seduttor.

Infame figlia.

Ma Don Alvaro difende l’onore dell’amata.

Signor di Calatrava.

Pura siccome gli angeli
È vostra figlia, il giuro.

Reo sono io solo. Il dubbio
Che l'ardir mio qui desta.

Sì tolga colla vita. Eccomi inerme.

Così dicendo getta via la pistola che,
cadendo al suolo scarica il colpo, e ferisce mortalmente il
Marchese di Calatrava.

- C*zzo! Perché non metti la sicura! -

Che c*lo però, l’ha centrato in pieno
così muore quasi
sul colpo senza cantare.

Fa solo in tempo a
maledire la figlia:

Lungi da me. Contamina tua vista la mia morte!… Ti maledico!

Cade tra le braccia dei servi
che lo portano via, mentre
Don Alvaro Inca trae seco verso il verone
l’implorante Leonora:

Cielo, pietade!

Commento della sala udito ad una rappresentazione nella Romagna:

"Ohi poverina, ha ragione
di lamentarsci, è vero che
è sctato un inzidente mo
è anche vero che il
scuo morosco gli
ha amazato il babbo."

----

Secondo atto

E’ passato quasi un anno dagli eventi funesti del primo atto.

Il figlio maschio del Marchese di Calatrava, Don Carlo di Vargas, marchese di Calatrava, fratello maggiore di Leonora, l’ha giurata ai due amanti in fuga che da tempo sta inseguendo, ma di cui ha perso le tracce.

La prima scena dell'opera è un troiaio inverecondo,
con un andirivieni di gente che non si capisce
niente.

Siamo nella grande Cucina di un’Osteria con diversi avventori, uno Studente, alquanti Mulattieri,

fra' quali mastro Trabuco, Paesani, Famigli, Paesane, comparse varie e l’Àlcade.

E qui ti volevo.

O' Francesco Maria, mi tocca tirare fuori il vocabolario.

Ma chi è l’Àlcade?

Àlcade = sp. Port.

Alcaide, dall’arabo Al-Qäid governatore, da Qäda governare, condurre –

Titolo
dei governatori di province o di città spagnole, e dei capi militari, comandante di fortezza.

Tre coppie ballano la seguidilla, se bevono anche della manzanilla e l’osteria è ubicata près les remparts de Siviglia, potrebbe essere quella di Lillas Pastia, ma non è così perché siamo nel Villaggio di

Hornachuelos, ridente località che non si sa dov’è.

"Olà, olà, olà!
Ben giungi, o mulattier,
la notte a riposar.
Olà, olà, olà!
Qui devi col bicchier
le forze ritemprar!"

Cantano in coro gli avventori.

Alla porta si presenta uno strano individuo, che a stento riconosciamo essere Donna Leonora di Vargas vestita in abiti
maschili, non chiediamoci il perché.

Quando la parte di Donna Leonora di Vargas viene interpretata da certe soprano di peso, nel senso literale del
termine, cioè che superano tranquillamente il quintale, è una bella sfida per il costumista infilare
loro degli stivaloni alla coscia, un giustacuore
e un cinturone in vita, senza farle sembrare delle
cucine economiche con due tubi della stufa al posto delle gambe.

Essa guarda dentro, esclama:

"Che vedo! Mio fratello!"

E se ne va.

Boh; quale sarà suo fratello?

Entra saltellando Preziosilla, giovane zingarella, bella sveglia, civettuola e interventista, che esorta
gli astanti a correre a belligerare:

In Italia, dov'è rotta la guerra contro il Tedesco.

E si esibisce in questo capolavoro:

Al suon del tamburo,
al brio del corsiero,
al nugolo azzurro
del bronzo guerriero;
dei campi al sussurro
s'esalta il pensiero!
È bella la guerra,
è bella la guerra!
È solo obliato
Da vile chi muore;
Al bravo soldato,
Al vero valor
È premio serbato
Di gloria, d'onor!
È bella la guerra! Evviva la
guerra!

Se vieni, fratello,
Sarai caporale;
E tu colonnello,
E tu generale;
Il dio furfantello
Dall'arco immortale
Farà di cappello
Al bravo uffiziale.
È bella la guerra, evviva la
guerra!

Tutti cantano con lei:

Morte
Ai Tedeschi!
Flagel d'Italia eterno,
E de figlioli suoi.
Tutti v'andremo.

Ogni riferimento alla dominazione austriaca in Italia NON è casuale.

Lo studente di Salamanca ("Don Carlo di Vargas") mostra la mano alla zingarella chiedendole di conoscere il suo destino.

Lei la guarda e
sentenzia:

Ah, tu miserrime vicende avrai…Non mente il labbro mai.

Poi, senza farsi udire dagli altri, sottovoce aggiunge:

Ma a te, carissimo,
Non presto fè.
Non sei studente,
Non dirò niente,
Ma, gnaffe, a me
Non se la fa,
Tra la la la!

O c*zzo!

Vuoi vedere che lo studente è "Don Carlo Vargas, marchese di Calatrava", l’hermano de Dona Leonora?

Perché è travestito da studente di Salamanca, non si sa.

Non dev’essere neanche
travestito tanto bene, dato che
sua sorella l’ha riconosciuto subito.

Senza alcun motivo valido ai fini della trama, a
questo punto entra nell’osteria, come puro
riempitivo, un gruppo di pellegrini
di passaggio che si sta recando al Giubileo (?).

Tutti lasciano la mensa e s'inginocchiano a pregare con loro.

Intanto che ci siamo entra pure Leonora che prega anche lei, ma a modo suo:

Ah, dal fratello salvami
Che anela il sangue mio.

Se tu nol vuoi, gran Dio,
Nessun mi salverà.

Signor, pietà.

Che c*zzo entri a fare allora?

E che c*zzo sei andata a fare lì?

Forse solo il padreterno lo sa.

Buon
per lei che quell’invornito (*) del fratello non l’ha riconosciuta, scambiandola per la stufa.

Non sapendo più che pesci pigliare per far andare avanti la storia, che langue a centrocampo e
rischia di spegnersi in una miriade di passaggini trasversali inutili ai fini del risultato, il mascherato
Don Carlo Vargas narra la sua fasulla storia di studente,
cioè il riassunto del primo atto come, ahi
noi, è prassi wagneriana,
ma in questo caso è
funzionale a farci
capire chi egli sia in realtà:

Lo vuoi saper?
Ecco l'istoria mia.

Son Pereda, son ricco d'onore,
Baccelliere mi fe' Salamanca;
Sarò presto "in utroque" dottore,
Che di studio ancor poco mi manca.

Notevole Francesco Maria.

Che cacchio vuol dire sta roba?

La locuzione latina "in utroque" è per giuristi, tradotta letteralmente, significa "nell'uno e nell'altro diritto".

Colui che diventa "in utroque" dottore vuole dire che si laurea in diritto civile e in diritto canonico.

Il sedicente Pereda non è altro che uno studente di legge che prima si è diplomato
(baccellierato) a Salamanca.

E allora Francesco Maria!

Cosa stai lì a menarla col latinorum, di che è uno studente di
giurisprudenza e buona lì.

El sedicente Pereda dice che è stato in
viaggio con l'amico Don Carlo di Vargas, marchese di Calatravaq, alla ricerca della sorella e del di
lei amante, don Alvaro Inca, che dopo averne ucciso il padre l’ha rapita.

Li avevano inseguiti fino a Cadice, poi
avevano sentito dire che la sorella Donna Leonora era morta e che l'assassino suo amante era fuggito in Sudamerica, dove l'amico Vargas l'ha inseguito mentre lui è tornato ai suoi studi.

L'Alcade, che si è rotto le
balle di sentire tutte queste
stronzate, si alza, guarda l'orologio e dice a
tutti che è tardi e che è ora che si cavino dai maroni.

A questo punto il troiaio raggiunge il massimo, perché ognuno canta per c*zzi suoi delle frasi
sconclusionate:

Partiam, partiam, partiamo. Buona notte, buona notte. - Holà! Holà! È l'ora di
riposar. - Allegri, o mulattier! Holà! - Son Pereda, son ricco d'onore, ecc. - Sta ben. - Ah, tra la la
la! Ma, gnaffe, a me no se la fa. - Buona notte. Andiam, andiam.

Cambia la scena.

Una piccola spianata sul declivio di scoscesa montagna. A destra precipizii e rupi.

Di fronte la
facciata della chiesa della Madonna degli Angeli.

A sinistra la porta del Convento, in mezzo alla
quale una finestrella.

Da un lato la corda del campanello.

Sopra vi è una piccola tettoia sporgente.

Al di là della chiesa alti monti col villaggio d'Hornachuelos.

La porta della chiesta è chiusa, ma
larga, sopra dessa una finestra semicircolare lascerà vedere la luce interna.

A mezza scena, un po'
a sinistra, sopra quattro gradini s'erge una rozza croce di pietra corrosa dal tempo.

La scena sarà
illuminata da luna chiarissima.

Donna Leonora di Vargas, figlia del marchese di Calatrava, giunge ascendendo dalla destra, stanca, vestita da
uomo, con pastrano a larghe maniche, largo cappello e stivali.

Suona la campanella della porta dell’eremo e da una finestrina appare Fra Melitone: con sta pioggia
e con sto vento chi è che bussa al mio convento?

Leonora chiede di avere un colloquio col Padre guardiano dal quale si fa riconoscere nella sua vera
identità di donna, non in quella di cucina economica:

Una donna son io.

Infelice, delusa, rejetta,

Dalla terra e del ciel maledetta,

Che nel pianto prostratavi al piede,

Di sottrarla all'inferno vi chiede.

Gli confida di essere Donna Leonora, figlia del marchese di Calatrava e di voler espiare in quel
luogo di pace e solitudine i suoi peccati.

Il padre l'avverte che saranno cazzi amari, e cerca di convincerla a non ritirarsi in convento.

Ma
Leonora è risoluta nella sua decisione, e il padre alla fine cede.

Se tu vuoi l'assoluzione, bacia su
questo cordone!

Fatta la penitenza la fa entrare nel convento, dove potrà restare ma isolata dagli
altri monaci (e te credo!):

Sol io saprò chi siate. Tra le rupi è uno speco; ivi starete.

Presso una fonte, al settimo dì, scarso cibo porrovvi io stesso.

Le fa indossare un saio taglia XXXL, e chiama a raccolta i monaci.

La grande porta della chiesa si apre. Di fronte vedesi l'altar maggiore illuminato. L'organo suona.

Dai lati del coro procedono due lunghe file di Frati con ceri ardenti.

Leonora irriconoscibile, insaccata nel saio e incappucciata, viene fatta inginocchiare di fronte a loro.

Il Padre Guardiano vuol essere ben certo che nessuno dei suoi confratelli vada a tramescare (**) vicino allo speco e picchia duro:

Un'alma a piangere ~ viene l'errore,
in queste balze ~ chiede ricetto...
Il santo speco ~ noi ti schiudiamo…
A quell'asilo ~ sacro inviolato
nessun s'appressi. ~
A chi il divieto ~ franger osasse,
o di quest'anima ~ scoprir tentasse
nome o mistero, ~ maledizione!

I frati hanno ben recepito il messaggio del boss, che quando s’inc*zza non guarda in faccia nessuno:

Maledizione. ~ Maledizione.
Il cielo fulmini ~ incenerisca
l'empio mortale ~ se tanto ardisca;
su lui scatenisi ~ ogni elemento...
l'immonda cenere ~ ne sperda il vento.

Il Padre Guardiano-Cerbero incoraggia fra’Leonora ad andare con questa bella prospettiva di vita:

Alzatevi, e partite. Alcun vivente
più non vedrete. Dello speco il bronzo
ne avverta se periglio vi sovrasti,
o per voi giunto sia l'estremo giorno...
A confortarvi l'alma
volerem, pria ch'a Dio faccia ritorno.

- Hai voluto la bicicletta? Adesso pedala! -

Leonora, ribacia il cordone del padre Guardiano e s'avvia sola all'eremo.

Il Guardiano, stendendo le
braccia verso di lei, la benedice e tutti intonano:

La vergine degli angeli
vi copra del suo manto,
e voi protegga vigile
di Dio l'angelo santo.

Tappata viva in un antro pure lei come Aida e Radamés.

Ma nessuno si chiede perché non è andata
a rifugiarsi in un convento di suorine invece che in uno di frati?

Lì poteva ricamare, fare l’orlo a
giorno, lavorare all’uncinetto, fare quattro chiacchiere al caldino con le sorelle, mettere su un
coretto come Sister Act o fare la maestra come Suor Pinguina.

Invece no.

Ma va nei frati!

Note:
(*) Invornito: Dial. Romagn. Tonto, addormentato.
(**) Tramescare: Dial. Romagn. Rovistare

Terzo atto

Siamo in Italia, in un bosco vicino a Velletri.

È notte fonda e buia. L’aria è lepega (*), e c'è odore di
relento (**).

Infuria ancora la guerra alla quale inneggiava Preziosilla anni addietro.

Dall’oscurità avanza un soldato in uniforme di capitano dei granatieri del re di Spagna.

Uellà, è Don Alvaro Inca, il capitano dei Grantieri Federico Herreros.

Che cacchio ci fa lì in divisa,
non avevano detto che era fuggito in Sudamerica?

Invece è qui a
stracciarci i maroni con le sue lagne:

La vita è inferno all'infelice.
Invano morte desìo!

Va ciccio che non occorre
aspettare che ti sparino addosso i nemici,
basta che ti tiri un colpo te ed è
fatta.

Invece no,
si piazza lì, al buio, e
ci canta la storia della sua vita,
a partire dall’infanzia.

Una roba demenziale, che
neanche Salgari, con tutta la
sua fantasia, sarebbe stato capace di
inventare.

La storronata narra di suo
padre spagnolo, che si era un
po’ montato la testa e voleva
diventare re
del Perù, perciò aveva sposato
l'ultima erede della dinastia Inca.

Il piano ovviamente era fallito
miseramente.

Lui e la principessa Inca avevano fatto
una brutta fine perdendola la testa, altro che
coronarsela.

Dalla loro unione era nato, in prigione,
lui, il frugoletto Alvaro Inca,
sopravvissuto alla
morte dei genitori solo
perché nessuno conosceva le sue origini reali.

Non bastasse, il tapino, si mette anche a delirare invocando l’aiuto celeste di Donna Leonora di Vargas, che crede
morta e assunta al cielo come una santa,
affinché lo tiri fuori dai patimenti.

O tu che in seno agli angeli,
eternamente pura ---------------- a
salisti bella, incolume
dalla mortal iattura ------------ a

non iscordar di volgere
un guardo a me tapino ----------- b
che senza speme ed esule,
in onta del destino ------------- b
pugno anelando, ahi misero,
la morte d'incontrar ------------ c

Leonora, deh soccorrimi,
pietà del mio penar -------------- c


Ma invece di queste stronzate
perché non ci raccontate che
c*zzo ci fa lì in Italia, e come fu che lui
e Donna Eleonora di Vargas si smarrirono per le vie del mondo?

Ad un tratto, si sente un cozzare di spade e le grida di un soldato in difficoltà provenire da dietro le
quinte.

Don Alvaro Inca, accorre in suo aiuto e gli salva la vita dall’aggressione di alcuni sgherri, per un alterco al
gioco.

Il soldato dice di essere
giunto da poco e di chiamarsi:

"Don Felice de Bornos",

aiutante del duce

(ogni riferimento è puramente casuale).

C*zzo, però è una
stampa e una figura del baritono che
fa "Don Carlo di Vargas, marchese di Calatrava".

Don Alvaro Inca si presenta come:

Io, Capitan dei Granatieri, Don Federico Herreros.

O bambini, cosa facciamo?
Ci prendiamo per il c*lo?

Don Felice de Bornos e Don Federico Herreros?

Cos’è la Legione straniera?

Uno è Alvaro e l’altro è Don Carlo.

Cos’è tutta sta
messa in scena, già
la faccenda è incasinata e
l’andiamo a incasinare ancora di più?

Tutti li hanno riconosciuti, anche
il nonno che ronfa nel fondo del palco,
ma loro no, non si
riconoscono.

[They never met before].

Si odiano, si rincorrono da una vita
e si rincontrano qui,
ma guarda te com’è
piccolo il mondo, e
non si riconoscono.

Comunque sia e chiunque
siano i due deficientoni
si giurano eterna amicizia.

Amici in vita e in morte
Il mondo ne vedrà.

Uniti in vita e in morte
Entrambi troverà.

E’ un pensiero che starà in
piedi come una gallina su una zampa sola.

Cambio di scena.

Il mattino seguente alcuni soldati entrano correndo nella stanza
dalla cui finestra si sentono
provenire i rumori della battaglia di Velletri (1744) che infuria:

Arde la mischia.

Prodi i granatieri!

Li guida il capitano dei granatieri, Federico Herreros.

Ciel! . . . Ferito ei cadde.

Piegano i suoi! . . .

L'aiutante li raccozza,

Alla carica li guida! . . .

Già fuggono i nemici.

I nostri han vinto!

Battaglia sbrigativa, dall’esito rapido.

I granatieri portano nella stanza il ferito Don Alvaro Inca sedicente capitano Federico Herreros, con loro è l’afflitto Don Carlo
sedicente Felice di Bornos, con la divisa tutta imporbiata (***) e padelenta (****).

E’ lui quello
che ha
raccozzato su i granatieri
e lo ha salvato.

Alvaro/Herreros è malmesso,
è rimasto offeso al petto
e la fa tragica:

Lasciatemi morire.

Ma il
grande chirurgo dell’ispanico esercito gli fa coraggio:

Vi salveran le nostre cure.

Premio L'Ordine vi sarà di
Calatrava.

Alvaro si tocca le palle e ribatte:

"Di Calatrava! Mai! Mai!"

Chiama a sé l’amico e gli affida una
chiave, poi indicando una valigietta gli
chiede di giurare che alla sua morte dovrà distruggere il
documento che vi è contenuto.

Con essa trarrete
Un piego celato.

L'affido all'onore,
Colà v'ha un mistero
Che meco morrà.

S'abbruci me spento.

Don Carlo/Don Felice di Bornos giura di farlo.

Don Alvaro Inca (Don Federico Herreros) viene portato via.

Carlo, rimasto solo, apre la valigia.

La curiosità non è solo femmina.

Tramescando dentro trova un ritratto:

Suggel non v'è . . . nulla ei ne disse . . .
Nulla promisi . . . s'apra dunque . . .
Ciel! Leonora!

E meno male che almeno sua sorella l’ha riconosciuta,
forse perché non era vestita da caldaia.

No
perché diciamolo, qui sono tutti invorniti come delle seppie, si incontrano, si vedono, si parlano, si
cantano l’un l’altro e non si riconoscono neanche di profilo.

A questo punto Don Carlo fa una pensata molto difficile.

Allora se il capitano Federico Herreros ha nella valigia dei segreti il
ritratto di mia sorella, vuole dire che lei glielo ha dato, e -- a chi si da il proprio ritratto nella Spagna nel XVII secolo
se non all’uomo che si ama?

Ma chi amava mia sorella?

Don Alvaro.

Inoltre siccome il capitano Federico Herreros, quando il chirurgo gli ha detto che si sarebbe salvato e gli avrebbero dato
come onorificenza l’Ordine di Calatrava, l’ha schifato, non sarà che per caso dietro il nome di "Don Federico Herreros" si cela in realtà "Don Alvaro Inca", amante di mia sorella e assassino di mio padre?

Don Alvaro è il ferito.

Hostia che bravo.

Va che c’è arrivato tutto da solo, non era mica facile.

E pensare che a vederlo
sembrava scemo, e invece…

Entra il chirurgo euforico:

Lieta novella, è salvo!

E la gioia di Carlo esplode, adesso lo può ammazzare lui, poi rivolge subito un grazioso pensierino
anche a’ssorata:

Ah, felice appien sarei
Se potessi il brando mio
Ambedue d'averno al dio
d'un sol colpo consacrar.

Che carino.

Cambia di nuovo la scena.

Siamo nell’accampamento militare presso Velletri.

E’ passato un po’ di tempo.

Don Alvaro Inca è ormai
guarito dalle ferite riporatate in battaglia.

Gli fa visita Don Carlo di Vargas che dopo un po’ di falsi
convenevoli:

La ferita vostra sanata è appieno?
Sì.
Forte?
Qual prima. Allora ti sfido a duello.
Ben mò, perché?

Perché sei quella faccia di merda di Don Alvaro, l’indiano che mi ha forzato la
sorella ed ammazzato il padre.

Don Carlo di Vargas, tremate, io sono.

Usciamo, all'istante un di noi dée morire.

A Don Alvaro Inca gli trema l’orello delle mutande.

Cerca di dissuadere Don Carlo dallo scontro
facendo leva sull’amicizia,
sull’omicidio involontario,
ma quest’ultimo non ne vuole sapere.

La sua furia è come l’urlo di Chen, terrorizza anche l’occidente:

Stolto! Fra noi dischiudesi
insanguinato avello;
come chiamar fratello
chi tutto mi rapì?

Ma quando Don Alvaro Inca apprende dal rivale che la sua amata Leonora non è morta come egli crede, ma lo sarà molto presto perché Carlo ha intenzione di accopparla subito dopo di lui.

D'eccelsa o vile origine,
è d'uopo ch'io vi spegna,
e dopo voi l'indegna
che il sangue suo tradì

accetta di combattere per proteggere l’amata.

Voi pria cadrete nel fatal certame.

Nel certame? Cos’è il certame?

Forse le chiome degli alberi?
No, quello è il "fogliame".

Il rivestimento del manto stradale?
No, quello è il "catrame".

Le deiezioni animali? No quello è il letame.

Un insieme di gallinacei? No quello è il pollame.

Allora l’insieme di fili, trucioli, ritagli vari, residui della lavorazione di materiali diversi. Neanche,
quello è il "cascame".

Ah già, mi sovviene: il certame altro non è che il duello.

Benedette rimembranze di studi classici.

Ma quando sembra che siamo finalmente giunti all’epilogo, il duello è interrotto dalla Militar Police.

Mai una soddisfazione, ma lascia che si ammazzino per la gioia di tutti, sono tre atti che si corrono
dietro per mezza Europa.

Don Alvaro ne ha piene le palle e con gesto plateale getta a terra la spada, arma questa dalla quale
stavolta non può partire un colpo, ma deve stare attento che non rimbalzi al suolo e colpisca Don
Carlo, che potrebbe rimanere offeso nelle parti intime, e poi non sapremmo dove andrebbe a finire
la storia, e pronuncia queste storiche parole:

Al chiostro, all'eremo, ai santi altari
l'oblio, la pace chiegga il guerrier.

Che, tradotto dal piavese, vuole dire che ha intenzione di trascorrere il resto della sua vita in un
convento.

Ma no! Ma basta!

Non ci credo, anche lui in convento, non è possibile.

Inventate qualcosa di
diverso, fategli fare il mozzo su una nave, il boscaiolo, il croupier, il trapezista.

Per essere ancora più originali proviamo anche a scommettere, con tutti i conventi che ci sono in
Spagna, dove finirà Alvaro?

Crediamo che l’atto sia finalmente terminato, invece no!

Ci viene regalata un'altra scena, puro
riempitivo, che con l'opera non c'entra una mazza.

Spunta il sole.

Il rullo dei tamburi e lo squillo delle trombe danno la sveglia al campo militare. La
scena un po’ alla volta si riempie di soldati canterini:

Lorché pifferi e tamburi
par che assordino la terra
siam felici, ch'è la guerra
gioia e vita al militar.

Un coro di poveri pirla. Neanche i marines americani in marcia di addestramento riescono a cantare
una stronzata simile.

Arriva Preziosilla.

- Cazzo ma anche la zingara è andata a Velletri? -

E’ lì a leggere la mano e a predire il futuro ai militi.

Arriva anche Mastro Trabuco, mulattiere e rivendugliolo.

- E vai, sono venuti tutti in Italia. -

Lui compra a strozzinaggio e rivende a caro prezzo, robaccia ordinaria e dozzinale.

Arrivano anche contadini, ragazzini, questuanti, nuove reclute in lacrime. Tra canti e balli,
l’accampamento militare è un troiaio.

Qui proprio non si sa come far finire l’atto.

Siamo al delirio, arriva anche Fra Melitone dritto dalla Spagna, che si mette a cazziare tutti:

Che vedo! È questo
un campo di cristiani, o siete turchi?

Dove s'è visto berteggiar la santa
domenica così?...

Alla sua predica moralista fa da contraltare la seconda aria capolavoro di Preziosilla per incitare i

soldati alla battaglia:

Rataplan, rataplan, della gloria
Nel soldato ritempra l'ardor;
Rataplan, rataplan, di vittoria
Questo suono è segnal percursor!
Rataplan, rataplan, or le schiere
Son guidate raccolte a pugnar!
Rataplan, rataplan, le bandiere
Del nemico si veggon piegar!
Rataplan, pim, pam, pum, inseguite
Chi la terga, fuggendo, voltò …
Rataplan, le gloriose ferite
Col trionfo il destin coronò.
Rataplan, rataplan, la vittoria
Più rifulge de' figli al valor! . . .
Rataplan, rataplan, la vittoria
Al guerriero conquista ogni cor.
Rataplan, rataplan, rataplan!

E con questo orrore sediovuole termina finalmente l’atto.

Va comunque rimarcata la bellezza del termine berteggiare, che non può essere lasciato passare
così sotto silenzio.

Note:
(*) Lepego: Dial. lig. viscido, bavoso, umidiccio, appiccicoso.
(**) Relento: Dial. lig. ammuffito
(***) Imporbiata: Dial. Romagn. Impolverata
(****) Padelenta: Vedi note opere precedenti (Nabucco)

Quarto atto

Siamo nel convento della Madonna degli Angeli.

Entra una caterva di pezzenti che, scodella alla mano, chiede un po’ di sbobba a Fra Melitone
opportunamente rientrato nei ranghi.

Lui li tratta malissimo: Ma tai pezzenti son di fecondità davvero spaventosa.
Alla faccia della carità cristiana.

Loro si lamentano delle sue
sgarberie preferendogli un altro
frate ora destinato ad altro incarico:

Più carità ne usava il padre Raffael.

Melitone s’incazza e li caccia via prendendo a calci la pignatta:

Pezzenti più di Lazzaro,
Sacchi di pravità . . .
Via, via bricconi, al diavolo,
Toglietevi di qua.

E torna al computer a giocare a rimbalza il pezzente.

Il padre guardiano lo redarguisce.

Il suono della campanella del cancello pone fine alla tiritera.

Melitone va ad aprire e si trova di fronte un losco figuro avvolto in un grande mantello che con
modi bruschi chiede di Padre Raffaele.

Alé mi sa che ci siamo, infatti lo sconosciuto soliloquia:

Invano Don Alvaro Inca ti celasti al mondo, e d'ipocrita veste
scudo facesti alla viltà.

Del chiostro ove t'ascondi
m'additâr la via l'odio e la sete di vendetta;

Colpo di scena!

Padre Raffaele è Alvaro e lo sconosciuto è Don Carlo, e mo’ so’ cazzi.

Giunge Alvaro/Fra Raffaele, Carlo si fa riconoscere e lo provoca in tutti i modi per costringerlo
ancora a ‘sta menata del duello.

Che palle, sono passati cinque anni e sei ancora lì con ‘sta storia, rassegnati non vuole duellare, si è
fatto frate, non ne vuole più sapere di armi e di vendette.

Alvaro gli chiede di avere pietà di un innocente:

Le minacce, i fieri accenti
portin seco in preda i venti,
perdonatemi... pietà.

A che offendere cotanto
chi fu solo sventurato?...

Deh chiniam la fronte al fato,
o fratel, pietà, pietà.

S’inginocchia ai suoi piedi, ma Don Carlo di Vargas insiste con gli insulti e i coretti razzisti:

Sangue il tinge di
mulatto.

Alvaro, non è di legno e nell'intimo non è neanche tanto frate, comincia a infumanarsi, prende la
spada che gli offre Carlo ma poi la getta a terra implorandolo di andarsene.

Don Carlo lo schiaffeggia e a questo punto ad Alvaro gli girano proprio i c*glioni:

Ah, segnasti la tua
sorte! Morte.

Raccoglie la spada e accetta di battersi e duettando:

Ah! Vieni a morte, A morte
andiam!

I due galletti corrono via e sarà quel che sarà.

Pochi metri più in là Leonora esce dal suo antro per andare a prendere alcune provvigioni deposte dal padre Guardiano, ed invoca:

Pace, pace, mio dio, cruda sventura
m'astringe, ahimè, a languir;
come il dì primo da tant'anni dura
profondo il mio soffrir.
L'amai, gli è ver!... Ma di beltà e valore
cotanto iddio l'ornò,
che l'amo ancor, né togliermi dal core
l'immagine saprò.
Fatalità!... fatalità!... un delitto
disgiunti n'ha quaggiù!...
Alvaro, io t'amo, e su nel cielo è scritto:
non ti vedrò mai più!
Oh dio, dio fa ch'io muoia; ché la calma
può darmi morte sol.
Invan la pace qui sperò quest'alma
in preda a lungo duol.

Perché essa è ancora tormentata dall’amore per il suo Alvaro.

Ovviamente erano nello stesso convento a pochi metri l’una dall’altro e mai si sono visti.

Eh, è il destino; o il Padre guardiano.

Si ode uno sferragliare di spade e un urlo disumano: Io muoio! Confessione! L'alma salvate.

E un’altra voce gli risponde:

E questo ancora sangue d'un Vargas.

E finalmente ci siamo arrivati, Alvaro ha
infilzato Carlo come un tordo bottaccio.

Poi corre verso
l’antro nel quale gli hanno detto che vive un eremita, per chiedere a costui di confessare il
moribondo, perché lui non può farlo è ormai maledetto in quanto assassino.

Leonora rifiuta di uscire, grida aiuto e suona la campana per chiamare il Padre Guardiano, poi
sollecitata da Alvaro esce.

Quando si vedono:

Tu Leonora!

Egli è ben desso, rimangono di merda entrambi, sia Leonora che
ben desso.

E Viva-la-madonna finalmente eccone
due che si riconoscono al primo colpo.

Don Alvaro le dice di aver ferito a morte Carlo.

Leonora si precipita dal fratello fuori scena.

Si ode un altro urlo disumano.

Poi Leonora, ferita, rientra in scena sostenuta dal Padre Guardiano.

Nell'ora
estrema perdonar non seppe. E l'onta vendicò nel sangue mio.

Seppur in fin di vita, il
fratello crudele è
riuscito a pugnalare la
sorella portando a compimento il
suo giuramento solo a metà.

I due amanti, dopo
dieci anni e quattro atti,
sono ora una nelle braccia
dell'altro.

Il padre Guardiano le impartisce l’estrema unzione, Alvaro lancia una maledizione, ma Leonora ormai in odore di santità, con voce morente lo rasserena:

Sì, piangi... e prega.

Di dio il perdono
io ti prometto...

A beh, allora…

Alvaro si getta ai piedi di Leonora bel tranquillo:

Leonora, io son redento,
dal ciel son perdonato!...

Leonora muore.

In ciel ti attendo, addio!

Ah . . . ti precedo . . . Alvaro . . . Ah . . . Alvar . . . Ah!

Si avverte la spettabile clientela che di Vargas non ce n’è più.

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