Thursday, May 24, 2012

Andrea Gabrieli, "Edipo re" -- libretto: Orsatto Giustiniano - Vicenza, Teatro Olimpico, 3 marzo 1585

Speranza "EDIPO RE" TRAGEDIA ORSATTO GIUSTINIANO. Musica di Andrea Gabrieli. Enchè in questa Raccolta d'Italiane Tragedie non sia per darsi luogo a quelle, che da altre lingue o antiche , o moderne sono state nella nostra recate. Si è creduto però di dover fare a tal regola un' appendice in grafia dell'"Edipo" per ragion dell' eccellenza di essa, e del grido. Questa, come ben dice ne la sua Dedicatoria il nobil traduttore , è stata fiímata da ognuno bellissima sopra tutte F altre , e della quale Aristotilt ifieffo in quella patte, oli' egli ragiona della Tragedia, fi vale per esempio (cioè di norma ) nel sormar la sua "Poetica". Fra volgarizzamenti che di essa si hanno, e che si annoverano nel catalogo de' Traduttori Italiani ( quale sta in ordine per una ristampa con molte'giunte ) si è scelto il presente, che si dice recitato già nel 1585. con sontuostffimo apparato dall' Accademia di Vicenza , essendo eslb superiore ad ogn' altro, fedelissimo al Greco originale, e steso in ottimo stile. L'Autor di esso fu Patrizio Veneto, di famiglia per se a bastanza famosa, e che fu in ogni tempo un de' principali ornamenti della Rcpublica. Quanta fosse la sua intelligenza, oltre all'Opera, si riconosce molto bene anche da queste magistrali parole della Lettera ali' amico Veniero premessa : saptr lui molto bene , quanto malagevole impresa su il riportar d'una lingua in un altra i Poetici componimenti ; avendo ogni lingua le sue proprie, e naturaii sorme difficilissime da esser espresse in altre lingue : e questo massimamente nella Tragedia y le azioni della quale rappresentandofi per via di ragionamenti di persone, e ciò col verso; egli fi conviene sarlo con tal temperamento, che senzt allontanarfi dalla facilità , e purità del parlate, riesca il verso infieme grave, ed ornato , di maniera che ambedue queste cose, che sono per natura ripugnanti tra loro , pajano naturalmente unite, d accordate in un istesso soggetto con diletto, e maraviglia di chi ascolta. ****************** L'istoria d'Edipo a chi non è nota? Figliuolo di Laio, re di Tebe, e di Giocasta, fu dal padre consegnato bambino ad un servo, perche gli tfesie morte, per aver inteso dall'Oracolo, ch'egli dovea esserne un giorno ucciso. Sospeso ad un arbore per li piedi traforati da un vimine, fu trovato da un Pastore, e portato a Polibo, re di Corinto. Questi , che non avea prole, l'allevò come suo figliuolo. Venuto in eta sentì dall' Oracolo in Delfo, com' egli dovea uccidere il proprio padre, e giacer con la madre. Per fuggire le quali atrocità, non tornò piti a Corinto, dove abitavano i supposti suoi genitori. Ma peregrinando si abbattè nel suo vero padre, eper accidentai contesa lo uccise. Liberò poi col suo alore, e con la sua prudenza il paese di Tec dall; infestamento della Sfìnge; in premio di . .he i Tebani lo elessero Re, mancandone per 1 morte dell'ucciso Laio, e gli diedero la veova Giocasta in consorte. Dopo alquanti ani essendo travagliata Tebe da una furiosa pele, fu risposto dall'Oracolo, che per liberarseie bisognava purgar la citta dal delitto com. nesso nell'amazzamento di Lajo ; Per lo che coninciatesi le ricerche per rinvenire l'occulto uc:isore, I;dipo venne in chiaro dell'orribili sceleatezze, nelle quali era caduto, e per l'orror di :sse egli si accecò, Giocasta si diede morte. Nel titolo della Tragedia fi è mutato il vocabolo di "tiranno", benchè usato comunemente dalle versioni, in quel di "Re", poichè tal termine ben fu usato da Sofocle in Greco, e in tempo, che nulla più significava, che Signore assoluto, a distinzione de' governi liberi, e popolari: ma troppo disdice in nostra lingua, dove si tratti di Principe, che nel principio della Tragedia così parla del suo popolo, io pià per quejsti, Che per salute di me steffo prendo Cura., et affanno. ' . ed il quale si chiama nel fine di essa : uom d'eccellente Virtà, che mai non declinò dal dritto Sentier, nè per savor de' Cittadini, Nè per sortuna prospera, e seconda. La Scena della Favola fi pone in Tebe. . Coro è dì Vecchi Tebani * PERSONE che parlano nella Favola. EDIPO, tenore. VECCHIO Sacerdote di Giove. CREONTE CORO di Vecchi Tebani. TIRESIA GIOCASTA NUNZIO di Corinto. VECCHIO Pastore. NUNZIO di casa di Edipo. EDIPO. O Figli miei Tebani, de l'antico Cadmo stirpe novella, qual cagione Or sa voi què seder col capo cinto Di supplicanti frondi.? e la Cittade Di vapori odoriseri ripiena Hisonar d'Inni , e gemiti dolenti? Stimando, che d'udir non fi convegna Ciò per Sacca d'altrui, donde proceda; 10 flesso vengo or qua celebre Edipo Per le lingue de gli uomini, e samoso. Ma tu, vecchio, a cui meglio fi conviene 1I parlar, essa quest'altri, or tu savella. Che vi muove a star qui? sete voi sorse Da timor spinti? o d'alcun male afstittiì Uulla più a cuor mi fia mai che la vojstra Salute, io sarò pronto a darvi aita.. Che sei vedervi in sì misero fiato, -/Í pietate di voi non mi movesse, Avrei dentro dì serro il petto cinto. Sac. O prefidio, e sostegno de la mia Patria, tu vedi quanta, e quale turba Staffi a gli altari tuoi raccolta intorno. De' quali alcuni son, che non sono atti, Quanto chiede il bisogno, a suggir presti Quinci in parti lontane: alcuni poi Son Sacerdoti d'anni gravi ; et io Tra lor ministro i sacrifici a Giove. "Et è questa una schiera di sanciulli S delti: e del rimanente M De De gli altri Cittadini, ognuno cinto Di ghirlanda le tempie in piazza, dove Son di Pallade aperti ambo li Tempj, A sederfi e ridotto; e dove a Febo I prossetici altari Ismeno irriga. E ciò perchè, sì come Tu stesso vedi, conquassata, e vinta Già la Città da tempestofi flutti, Non può il capo levar ne le procelle Mortali immerso, e più poter non spera. Le biade in ogni parte per li campi Giaccion corrotte, e sterile è la terra; Giaccion non meno estinti E gli armenti, e le gregge Sopra gli erbofi paschi: e pregne essendo, Si sconciano le semine, e i mariti Fraudan de li lor parti . A che fn estendo Questa peste crudel, nemico Nume, Mortal sebre recando, ha d'ognintorno La Città lacerata; omai la terra Di Tebe è vuota; e del continuo nostro Pianto, e dolor fi sa ricco s insserno. Quinci infieme sedendo a i sacri altari Questi sanciulli, et io supplici stiamo. E te non già tenemo eguale a Dei ; Ma quando avvien, ch'irato Mandi il Ciel sopra noi quaiche flagello, Te per conciliar gli ossest Numi, Tra gli altri uomini il primo esser stimiamo. Come col tuo venir qua liberasti La Città dal nessando empio tributo, E da le micidiali, e sanguinose Fauci de la indovina Sfinge, mosso Da te medesmo, e senza esser pregato, Nè avvertito da noi, ma col jaVore Divino è sama aver te questo oprato, Et a noi, ch'eraVant caduti, e oppressi, Aver data la vita; Tale or pietoso a noi miseri porgi, O sortissimo Edipo, ajuto : ognuno Di noi ten prega, a tuoi piedi prostrato, Tu da le sacre sorti de li Dei, Od altronde ammonito, et insegnato, Dà soccorso opportuno a tanti mali. Gli umani avvenimenti dal prudente Consiglio sono il più guidati, e retti, E rivolti da tristo a miglior fine. O di somma bontà più cF altro, raro, Deh ricrea la Cittade afstitta, e novo Favor a lei prestando, in lei ritoma Il suo antico splendor. Deh ti ricorda, Che con ogni tuo spirto aver dei cura; Poichè questa Cittade Per li primi tuoi gesti egregi chiama Te suo conservator unico, e solo De la salute sua sermo sostegno ; Che di questa tua lode una gran parte Scema non resti, o che non sta del tutto Posta in oblio, se noi già ristorati Da te, quafi da man porta a levarci, Ricademo di novo. Ma questi mali or scaccia, e la salute Publica con la tua prudenza rendi Stabile, e serma: e come Tu con selice auspizio già portasti In questa riostra alma Città le cose Tutte prospere, e liete, or ti dimostra D'esser verso di lei Ìtstefso ancora. Che se, come or tu reggi in. quejste partì L'Imperio, fia nelF avvenir che ancora Tu medesmo lo regga, ajjai più bello Il governo sarà, quand ' ella fia jyuomini sortì piena, che se sufse Vuota e priva di loro : a che ci serve Nave, o sortezza ignuda Di disensori} Ed. Ò figli Degni ben di piotate, Lo fiar vostro pregando in questo loco Supplici, è per cagion non già nascosa, Ma nota a me. Che ben so, che voi tutti Sete da morbo travagliati, e oppressi; Ma alcun di voi non è, cui prema quejìa Inssermità di me più; che què dentro Ridonda il duol di voi tutti y in me sola Egli tutto Saduna: egli me solo Crucia e nuli'altro, però chel cor mio Per la Città, per voi, per me fi duole Tutto in un tempo isteffo. Ne già quale uom sepolto Nel sonno, or m eccitate. Quante lagrime amare ho sparso , e quann Strade ho tentato co penfieri, e in quann Parti ho distratto sanimo, voi tutti Testimoni men fiete. Al fin quel?una, Che tenut'bo per medicina, a questa Nostra calamità potente, e sola, Quella ho sperimentato: e'l mio parente Creonte, figlio di Menezio, al sacro Tempio d'apollo in Delfo ho già inviato t Perchè ricerchi quello, Ch'io dir, o sar mi deggìa, Per render la Città libera : e se li Giorni dal suo partir vo noverando, Egli tarda oggimai Più del debito tempo, e mi dà noja, Perch'io non so tiò , eh' ei fi sa . Ma tosto. Ch'egli a noi fia tornato ; Detto ejjer voglio iniquo, Se tutto cio, che n avrà imposto Apollo , Ad esequir non sarò pronto. Sac. Or bene Sta, Signor, ciò e hai detto; Ma ci avvisano questi Fanciulli, cheCreonte or viene. Ed. O Apollo, Il tuo nume divin saccia, che questi Con sì prospero fato venga, come Tutto lieto nel volto ti s'appresenta, Sac. Ma per quanto fi vede, egli ci apporta Letizia, ch'altrimente ei non avrebbe Cinte le chiome mai di verde lauro. Ed. Or lo saprem, poich'egli è sì Vicino, Ch'udir ci puote. O amato mio congiunto , O di Menezio figlio, Creonte, or che ci apportano le sorti Del Dio crinito Apollo? qual novella M'arrccchi? Cre. Nulla di finistfo ; e quello, Che'di grave, e d'inssaustg esser vi putte, Se con ordine, e via retta s'osserva, Esser può allcggtrito, e in miglior stato M 3 " Anco in breve ridotto. EDIPO: Che parlar è questo che sai} poich'io Per effo né temer, nè sperar posso. CREONTE: Se tu vuoi, che presenti Cojtoro io parli, pronto son ; ma parmi, Che ctò in casa sia meglio. Ed. Ala presenza jy ognun savella pur, ch'io più per questi, Che per salute di me stesso prendo Cura, et affanno. Cre. Io dunque Tutto esporrò ciò cha sOracol detto. Egli in note chiarissime m espresse, Chel nessando delitto, che per lungo Tempo ha nodrito questa Region, da noi fia Scacciato, nè che più Fimmedicabilc Sceleratezza fi sopporti. Ed. Come Purgar devremlo} e dì qual sorte è il male} Cre. In ejfilio fi mandi, over purghiamo L'una morte con Ïaltra; Poichè sol questo sangue E', che conturba la Cittade, in tante Procelle conquassata. Ed. La morte di qual uom ci annunzia Apollo? Cre. Principe già su Lajo in questa nostra Ctttà, pria che di lei lo fren tu avessi. Ed. Aver già udito dir ciò mi rimembra, Però che lui veder mai non in occorse. Cer. Acerba morte, o Edipo, a costui tolse La vita y e in chiara voce il Dio cemanda, Che gli autor di tal morte abbian con pene, E supplie) a purgarla. EDIPO: In qual parte son quelli ? e dove , o come Ritrovar fi potrà vejstigio alcuno Di sì antico peccato? Cre. In queste parti L'Oracolo diceva esser il reo; E nulla, investigando, E', ch'uom trovar non pojsa; come ancora Facilmente fi perde, e di man sugge Ciò che per negligenza altri non cura. Ed. Ma su in casa, 0 pur suori ucciso Lajo, In qualche villa, 0 in parte a noi lontana? CREONOTE: Lungi peregrinando ito era al santo Oracol de li Dei, per quanto ei disse, Ne mai più a casa poi rivolse i passi. Ed. Non vi su nunzio alcuno, 0 nel viaggio Chi compagno a lui susse allor, da cui Come il satto seguisse, udir possiamo} Cre. Quel giorno a tutti insieme apportò morte: Un sol campò per tema in suga volto ; Nè riserir poteo di certo cosa Fuor ch'una sola. Ed. E che cosaè} savella; Però che dove spira Picciosaura di speme, da una sola Cosa, crea"io, potrem sottragger molto. Cre. Riserisce costui, che da ladroni, Ch'in copia l'assaliro, Egli estinto rimase, e non da un solo. Ed. Ma comè, che i ladroni, Se invitati non suro Da ingiusta speme di guadagno, a loro Da queste parti offerto, In sì nessanda audacia incorfi sono? Cre. Tale allor su sospetto: ma di Lajo In tal maniera ucciso, alcun non vebbe, M 4 Che vendetta prendesse. Ed. Deb qual ejser cagion poteo di tante Momento, che cader vedendo il Regno, Per venir di tal satto in luce, ognopra Spesa non s'abbia in ricercarne il reo? Cre. Ci ssorzò allor la Sfinge Con gl'intricati enimmi a por da canto Le cose incerte, e sermar gli occhi in quelle, Che ci erano presenti, e innanti a ' piedi. Ed. Ma ricercando da principio il tutto, Farò ben io, che queste cose ancora Verranno in luce. Ha con ragion apollo, E con ragion hai tu per un Re morto Tal diligenza presa ; anzi ancor io Presterò quanto posso ajuto, e infieme Vendichero li Dei con la Cittade; jV2 tal opera mia tanto a gli amici Di giovamento fia, quanto a me stesso; Però che quella mano, Che di è morte a colui, non meno ancora Me uccider puote: onde a lui dando ajuto, Stimo ajutar me stesso. Ma voi tosto movendo uscite, o fipji, Da questi seggi, e via portando ognuno Li suoi supplici rami, alcun di voi Il popolo di Tebe chiami, e avvifi, Che tutto fi raccolga in questo loco. Vo d'ogni cosa sar prova; et o noi Viveremo beati . .. .( Col savor de li Dei, .. . O del tutto sarem distrutti, e spenti. Sac. Leviamci dunque, poichè qui ridotti Ci fiamo sol per quejto , Che'l Signor nojfiro dice, Et è per sar ; quel Dio prego, che tale Oracolo spirò, che noi conservi, E medicina. apporti a tanti mali. CORO I --- Cor. Santo Oracol di Giove che s) soave spiri con che annunzio venisti da gli eccelfi di Delso aurati Temp) JL la nobile Tebe trema la mente in me stupida e tutta per timor sbigottita da sollecita tema scuoter il cor mi sento. Sacro, e possente Dio, Signor di Deh, I perigliojf i morbi, Te col cor tutto riverente onoro. Quali son or le tue risposte? e quali iVe l'avvenir saranno? Dinnelo or tu, sama immortal, soave Erutto ed amica, e preziosa spene. O del gran Giove nata Gloriosa Minerva, Te prima invoco, e l'alma A. te sacra Diana Protettrice del Mondo, ji cui debiti onor fi rendon dove E' il suo celebre Tempio jVir la piazza di Tebe; E te, Febo, ancor chiamo , Che risanando sgombri State voi tre propizj avoti m'iei, L'aspre morti crudeli Quinci lungi scacciando. Poichè per voi non men» Fur le fiame nocive, e peregrine, Ond'era la Città misera involta, Con orribile strage, In lei sopite, e [pente. Or qui benigni ancor, celestì Numi, Spirate in savor nostro, Voi, chel tutto scorgetey Cbe dovunque io mi volgo, Da cruda schiera d'infiniti malt Son açttato e spinto. Giace dal morbo asstitto il popol tutto; Nè so dond'io mimpetri O soccorss o , o configlio. Già de li frutti suoi ricca, e cortese La terra or nulla rende ; Nè refister poffirndo, Cadon da morte oppresse Le semine dolenti Ne le angoscie del parto. Come speffa tFaugci veloce torma Fende farta volando, Tal da li corpi un sopra l'altro estinti In largo, e solto stuolo, Pià chel soco leggere Fuggon r alme di Stige a i trifii liti. Ma Finfinita turba abbandonata Da la pietate altrui, A cruda morte giunta, Priva de l'altrui pianto, Sopra il nudo terren giace insepolta. E le tenere spose, E le madri canute, L'una de saitra a canto Piangon supplici, e meste i loro mali. In varie parti, dove Son per le rive i sacri altari alzati) Si raddoppiano gl'Inni; E con lor risonando, Fanno il pianto, e i sospiri Un doglioso concento. Levaci tu da tanti strazii omai, Bella di Giove figlia; È il dannoso nemico, Che senza scudo, et armi In crude fiamme mi consuma, e strugge, Quinci a suggir constringi; E da questa Cittade Entro al letto l'immergi De la grand'Anfitrite, 0 tra li scogli Del mar Trace lo scaccia; Però che quel, che ci lasciò d' intatto, E di salvo la notte ; Il dì venendo invola. Questo, 0 Giove, vibrando Le fiammeggianti saci, Col tripartito tuo pungente strale Struggi, e spegnilo in tutto. Tu, Re di Licia, ancora Il nervoso, et aurato arco tendendo, L'inssallibili tue sorti saette In In nostro ajuto spendi. Deh ci consenta il Ciel, cFanco Diana Da Falte cime , avella Per li monti di Licia errando vaffì, I suoi pià accesi lumi Scuota , in darci soccorso. E tu , Bacco, non meno, a cui le tempie Cinge aurata corona, E godi aver con questa Città comune il nome, A le Menadi tue compagno, e Duce Unico qua £ invia: E questo tra li Dei Spirto infame, e nocivo Fa che da la tua ardente Face traffitto giaccia. Ed. Tu chiedi, e ben ragion è , che tu chiegpa Soccorso da li Dei: ma se tu ancora I miei detti esequir vorrai, prestando L'opera tua, perchè da noi fi tolga Tanta Calamita > che d' ogni parte Crescendo abonda, io ti prometto ajuto Certo, e ficuro, e di sì cruda peste Sollevamento. Io come quel che sono Novo in tal satto, e non ebbi anco mat Prima ch'in questo dì novella alcuna Di sì enorme delitto, esporrò quello, Ch'io ne sento per me. Nè cura avrei Di ricercar l'origine di questa Sceleratezza, omai per così lungo Tempo posta in oblio, E quafi ne le tenebre sepolta, S'alcun ficuro indicio io non n'avessi Di già compreso. Essendo dunque anch'io Qui tra voi Cittadino, Comando a tutti i Cittadini infieme, Che qualunque di Labdaco ha veduto Uccider il figlimi, l'autor di tale Morte palefi a me toso : e se teme Il reo tal colpa conssessar, per quanto A lui s'aspetta, il timor lassi; poi che Non vo', ch'altro di grave egli sopporti, Ch'esser quinci sbandito, la sua vita Menar salvo pofsendo in altre parti. Ne mi fi celi ancor, se tal missatto Forastiero ha commesso; e chi lo scopre Avrà di ciò da me premio, et insieme Terrommegli obligato. Ma se meglio il celar ciò filmerete, Per timor di voi stesfi, 0 de gli amici, Ciò e ho in mente di sar, ciascuno intenda. Qualunque a'miei comandamenti in colpa Fia di non ubbidir, vieto ad ognuno, Quanto l'Imperio mio lungi s'estende, Il poter dargli albergo, 0 parlar seco: E se occorre placar l'ira celeste Con preghi, 0 se per voto in sacrificio S'ha da uccider le vittime a li Dei, Vo'che seco commercio alcun non segna, Uè parte in cosa alcuna abbia con lui; Nè li fia in pronto l'acqua, ond'eifipurghi Le man; ma dal suo albergoognun loscacci, Come cosa prossana, e sederata: Cesè ri ha imposto Apollo. Io dunque stimo, Che mio debito fia pormi in tal modo A contesa per salma d'un ucciso, E per lo /stesso Dio. Lo reo di tale Delitto ad ogni serte aspra, e crudele Bestemmio, e danno, e s'ba ciisol commesso, 0 con mols ' altri infieme, qual malvagio Et malamente, e agogni cosa privo, Povero viva, e misero. E quando anco De la samiglia mia tal reo fi trovi, Che, consentendol io, celato, e occulto Ne le mie stanze alberghi , a queste istejse Maledizioni io pfego, che non meno La sua testa soggiaccia. Ma voi tutti Prego, e scongiuro insieme, Ch'al mio publico editto ognun fi renda Ubbidiente in esequirlo: e questo Per rispetto d' Apollo, e di me stesso; E per la terra, ch'empiamente essendo Corrotta, satta í sterile, e ci nega Ogni nostro alimento. E quando a quest'oprar non vi spingesse Il voler de li Dei, fi conveniva Di non lasciar già mai senza vendetta Questa sceleratezza ; et era onesto, Ucciso essendo un Re di sì perssetta Bontà con morte sederata, et empia, Ricercarne sautor con ogni cura Più diligente. A questo ora m'accingo. Si come quei, che tengo in man lo scettro, Ch'egli avanti di me già tenne ; e quella, Ch'a lui su moglie, ho del mio letto a parte Per trarne prole in matrimonio eletta. Est E se di lei quelr insselice avesse Lasciato figli, io lor sarei comune Padre: ma poi ch'empia sortuna in esso Ha incrudelito , io prendero la pugna Per lui non men , che per mio padre istesso. Nè cosa lascierò, ch'io non la tenti, Onde di morte tale al fin fi possa Trovar l'autor. Questo fia caro al figlio Di Labdaco, et infieme a Polidoro, A Cadmo, e al vecchio Agenore. Ma prego li Dei, eh ' a quegli, che ricuseranno Queste cose esequir, da lor la terra Coltivata già mai frutti non renda, Nè san per lor le semine seconde; Ma senza prole estinti Cadan da questa peste acerba, o d'altro Morbo, se ve n'è alcun più grave ancora, Muojano oppresfi, e vinti: et in ajuto De gli altri Cittadini, da cui sono Talt cose gradite, Sia la giustizia in un con gli altri Dei Propizia sempre. Cor. 0 Re, com'or tu m'hai Con le maledizion iue crude astretto, Così savellerò. Di questa morte Io non son reo, nè chi commessa Fabbia Posso mostrar: ma ben l'istefso Apollo, Che tal dubbio ha proposto, Dichiararlo doveva. Ed. E' ben ciò vero, Ma il sar sorza a li Dei contro lor voglia, Non è al poter de gli uomini concesse. Cor. Una seconda cosa Ricorderò, ch'in mente ora mi viene. EDIPO. Giungi la terza ancor, se in pronto Fhaì. CORO. Quale Apollo tra Dei, tale è tra gli uomini Ne l'arte del predir Tirefia il primo. Ciò che saper tu brami, o Re, potrai Intenderlo da lui. Ed. Nè questo pure Ho tralasciato ancora: E per ricordo di Creonte, a lui Due mejsi ho già inviati, e meraviglia Prendo, che'l venir suo tanto egli tardi. Cor. Ma un' altra fama ve, ch è già invecchiati, E raffreddata. Ed. E qual è? dillo aperto. Esaminar, e ponderar io soglio Ogni minimo detto. Cor. E' fama, chin viaggio et stato sta Da viandanti ucciso. Ed. Et io riflesso Udit ' ho ancor; ma chi veduto F abbia Uccider, fin ad or non s'è scoperto. Cor. Ma, se vè conscio alcun d'opra sì rea, Pur ch'in lui punto di timor fi trovi, Tosto che fian da lui tai cose udite, Ei guarderà, cred'io, di non sopporfi A bestemmie sì crude. Ed. Chi non teme Commetter cose sederate , molto Men temerà parole. Cor. Eccoti omai Qui condotto il divin Proseta, a cui Solo è in grazia tra eli uomini concejso Di sar l'occulta verità palese. Ed. Tu, che ne l'alme scopri ogni penfiero Più secreto, o Tirefia, e ti son note Tutte le cose occulte De la terra, e del Cielo, Quanto per grave morbo afstitta giace La Città, bench'effendi) orbo, non puoi Scorger con gli occhi, in mente almen lo vedi. Per protettor di quejla ognun crediamo D'averti, e per prefidio unico, e solo Suo disensore perchè quantunque sorse Non udisti di ciò novella alcuna, 10 so però, che da te stesso il sai, CU a li nunzii da noi mandati in Delso, Per aver da l'Oracolo il consulto, Così Febo rispose: esser un solo Sollevamento al male ; e questo fia 1I dar morte, over bando a gli uccisori Di Lajo: ora tu adunque O da gli Augurii, opur d'alti'arte instrutto, Chel suturo conosca, Deh non invidiar a questi tuoi Cittadini un tal bene, ma te stesso Libera, e la Cittade, e me da questo Così enorme peccato, che ci aggrdva Per quel misero estinto. Ogni speranza è in te solo riposta, E la salute or da te sol dipende De la Città; nè riputar fi deve, Sia dovunque fi voglia, altra satica Più nobile di quella, Che nel giovar a gli uomini fi spende, Quanto ti poter altrui comporta , e quanto Il bisogno richiede. Tir. Ahi quanto è duro, e grave ad uom ch'è sagg io, Il suo saper, quando a lui danno apporta. Dal conoscer io ben ciò che fi cerca, Di duol perir mi sento ; N Nè qua venir dovea . Ëd. Per qual cagion sì mesto or ti dimostri P Tir. Deb mi rimanda in dietro ; Che se in ciò m'ubbidisci, sacilmente Il tuo mal schiverai, et io partendo, Schiverò il mio non meno. Ed. Iniquamente parli, e par, che poco Abbi a cuor la salute De la Città, che fhd riudrito, quando Non le discopti quello, Che fOracolo accenna. Tir. Non meri veggio per te poco opportuno Questo tuo savellar, e temo anch' io, Cìi'a me s iste (so savellando dvvegna. Cor. Non ti partir per' Dio, sapendo il tutto, Come tu sai ; noi tutti Supplici ten preghiamo. Tir. Ognun di voi poco l'intende, cïïio Di queste cose ragionar non pojso, Che non fi scopran'i tuoi mali ancora. Ed. Che? se s'è nota alcuna cosa, dunque Non la paleserai} Vuoi tu tradirci, e ruinar del tutto La Città? Tir. Io non radamè a me stesso, Ne" a te cagion di duolo: onde perchè Sì temerariamente or mi riprendi Del mio tacer, più non dirò paiola. Ed. O d'ogn'altro malvagio uom più malvagio; Destar Fira porta rie i sassi istessi Questa tua ostinazione : or finalmente Non vuoi parlar} in te fia dunque sempre La tua mente sì dura, che non sappia Ota mai piegasfi} Tir. In me riprendi f ira E la tua non conoscii ch'è in te stesso} Ma son io F incolpato , Ed. Qpal uom non moveriano a sdegno tali Parole} a la Citta sai così apertas E manisesta ingiuria? Tir. Si scopriranno beri da se U cose, Benchè sopirle nel filenzio io tenti. Ed. Ma sorza e pur, eh'a me palefi quello i C'ha da seguir. Tir. Non più di ciò c ho detto t Udirai tu, pero d'ira t'accendi Quanto esser può più grave, e piàpossente t Poichè Così ti piace. Ed. Ma sentendomi omai di sdegno tutto Alterato, e Commosso , Dirò ciò ch'io sospetto i e nulla in questo Son per lasciar da parte. Dico, che chi commesso ha tal delittot Fu da te spinto, essendone tu autore: E se cieco non sussi, aggiungerei, Che dì tua propria man satto l'avessi. Tir. Sì certo io sui di tal morte l'autore ; Anzi io t'avviso, o Edipo, Che tu Obbedisca a quel, che nel tuo editto Puf dianzi publicasti ; Poichè sei tu di quel delitto il reo: Et a me non è lecito, nè a questi Dal giorno d'oggi in poi di parlat teço, Come quello i che sei peste nesanda Di questa terra, Ed. Sì ssacciatamentt Hai ardir di parlare} Non penfi tu dover patire ancora Dì Di questa ssacciataggine la pina? Tir. Non temo no ; poi c'ho dal canto mio La verità, eh'è più altro pojsente. Ed. Dimmi, chi su che t'ha di questoinstrutto? JJarte tua nò, ciò sarte non t'insegna. Tir. Io da te I' ho imparato, Che m'astrìngesti a dir contra mia voglia. Ed. Che cosa è ciò ? ritorna a dirlo ancora, Perch'io meglio £ intenda. Tir. Non l'udisti tu prima, e pur mi tenti? Ed. Non ti ricerco or io, che tu mi dica Cose note, e palefi; ma che sono A me del tutto occulte. ' Replica dunque ciò che detto m'hai. Tir. Io ti dico, che tu QueWuom, di cui ricerchi l'omicida, Uccidesti. Ed. Farò, che più di questa Inssamia non sarò da te notato Senza tuo grave danno. Tir. Anzi altro ti dirò, eh'a te più fia Cagion di sdegno. Ed. Dì tiò che ti piace, Che sarà indarno ogni tuo detto sparso. Tir. Dico, che con persone a te congiunte Di strettissimo nodo, Commetti, nol sapendo, inssame stupro } Et i mali crudeli, Ove se' immerso, non conosci, e vedi. Ed. Penfi così a piacer tuo parlar sempre} Tir. Io l penso sì, pur che l'usata sorza La verità mantegna. Ed. Ella conserva Il suo poter, ma in te non regna alcuna Veritade, et hai ciechi Gli Oli orecchi, e l'intelletto Non men che gli occhi. Tir. Ah misero chesei! Quello, che a me rimproveri, fia in breve Non men da tutti a te rimproverato. Ed. L'esser cieco, e non altro ora ti salva ; Che quando ciò non sujje, io sar vorrei, Giuoni, che viva, più mai Per l'avvenir non ti vedrebbe. Tir. lo nulla Temo perir per la tua man; che i sati Lo vietano, e il possente Apollo cura Avrà de la mia vita. Ed. Questa è tua invenzione, 6 di Creonte? Tiresia. Nulla cerca d'osfenderti Creonte, Ma tu stesso il tuo danno a te procuri. Ed. O grandezza di Regni, e di ricchezze , O arte di regnar, ch'in adoperarti Per render l'uom beato, ogn'arte avanzi, Dal duro imperio de l'invidia, ahi come Sete calcate, e oppresse! Di quel Regno, che'l popolo a me diede Non ambito da me , nè ricercato f Ma da se stesso mosso , Con che infidie^ et inganni occultamenti . Creonte quel, quel che mi su sì amico, Or tenta di privarmi! e ciò cori sopra Di questo astuto, e federato Mago, E ciarlatore impuro i ch'è da lui Subornato, e corrotto; il qual là dove E' speme di guadagno, il tutto vede Mirabilmente, e poi ne Faitre cose Usa Farte del cieco, essendo cieco. Dimmi or tu, dove di Proseta mai N 3 Fa Facesti esperienza, o prova alcuna? Overa Farte tua quando il rapace Cane, enimmi sormando, la Citta de Di Jlrepitost verfi empiva? allora Perchè non dar tu ajuto a questi tuoi Cittadini ? poich'era Non impresa da ognun lo sciane il nodo De gl'intricati en'immi; allor sace» Bisogno eiun saper divino y e pure tugurio non avesti, nè alcun Dio, Che ti scoprisse allor le cose occulte, lo, io Edipo qua venendo, novo Quantunque, e nulla de le cose istrutto, Di quel garrulo mostro i detti oscuri Seppi chiarir con sacutezza sola Del proprio ingegno mio, non con altrartcj E raffrenai le fraudolenti sue Arguzie. E tu quest'uom del Regno suori Tenti scacciar quanto più puoi ì con speme Di tener tu dopo Creonte il primo Loco ne s avvenir? ma tu, ned egli, Che così astuto tradimento ordio, Spero, cFunqua potrete Oprar, se non con danno vostro grave Cotanta sceleraggine : e quanctio Non avejsi riguardo a la vecchiezza Tua, ti vorrei mostrar quanto dannoso Ti sojse questo tuo saper. Cor. Per quanto Noi comprendiamo, o Edipo, le parole Tue sono, e quelle di costui non meno Mosse da troppo impetuoso sdegno; Nè tra voi fi convien contesa tale : Ma più tosto pensar dovriast il modo jyubbidir a gli Oracoli di Delso noi mandati. Tir. Se ben Re tu sei, Què tenendo l'Imperio, nondimeno Nel dir liberamente ciò, ch'io sento, Debbo teca agguagliarmi, et a tuoi detti Dar conssorme risposta ; poi ch'in questo Ho libero dominio anch'io : nè vivo Tuo servo, ma d'Apolline: nè d'uopo ^4 me sa il patrocinio di Creonte ; Nè di star seco a li suoi seggi intorno, Dal suo voler pendendo. Ma ti dico, Poscia che l'esser cieco Per obbrobrio m'opponi, Che tu, ben ch'or non fii di luce privo, Non però scemi i mali in che ti trovi. Sai chi fii tu ? sai di chi fii tu figlio ? Conosci tu, che tu inimico vivi À. i vivi, e a i morti del tuo sangue isteffo? Ecco de l ' uno, e l ' altro tuo parente , Già le maledizion crude , et orrende, Impetuosamente in te serendo, Ti scaccian suor dì quejìa patria , e dove Or tu de gli occhi ufi la luce, in breve Cieco ti troverai. Qual fia loco in Citero, 0 in altre parti, Che non risponda a' tuoi stridi , et a' tuoi Lamenti? allor che sarai satto accorto Di quelle infauste, e sederate nozze, cui tu in casa già dejsti ricetto, Spinto da vento prospero, e secondo Di propìzia soriana a piene vele. In mal ficuro, e travaglioso portoj Ove entrar non doveafi. Misero te, non sai quanti altri mali Ti soprastanho ancora, Che ti saranno a proprii figli eguale. Et egualmente a loro, e a te daranno Travaglio. Or vanne, e su la propria saccia Mi villaneggia, e oltraggia anco Creonte. Tra mortali uom non fia mai, che .inselice Più di te viva, o muoja. Ed. Son queste cose tali, ch io le deggia Tolerar da costui? Or non te nanderai tu in tua malora? A che ninduggi? omai Non t'allontanerai da queste stanze} Tiresia: Venuto non sarei, quando chiamato Non mi ci aveffì ru. Ed. Non credev'io Sì stolte cose udir da te; che s'io Cio creduto m'avesfi, sarei stato Nel sarti .qua venir più tardo, e lento. Tir. Noi tali ti paremo, Che ci giudichi stolti, ma li tuoi Genitori ci tennero per saggi. Ed. Di qnali ? resta un poco : Dimmi, di cui nato son io? Tir. 7V questa Giorno ha da partorir, e infieme porti In estrema miseria. Ed. O come è oscuro E inviluppato il tuo parlar. Tir. Tu sei Di cose tali interprete perssetto. Ed. Quello, dì che or mi noti, è ornamento, E splendor al mio nome. Tr. Ma da tale sortuna origin ebbe La tua ejlrema ruina. Ed. Ciò non mi turba ; a me di gloria h il vanto D'aver salvato i Cittadini. Tir. Io dunque Quinci mi parto: or tu mi guida, o figlio. Ed. Guidals pur. Stando tu qui m'apporti No/a, et impedimento. ' Lontan non mi sarai tanto molesto. Tir. Mi parto, poichè tutto ho detto quello, Ch'io per dirti, qua venni, e nulla ho avuto De la presenza tua tema, o rispetto; Ch'in tuo poter non è mia vita: e dico Di novo, che colui, che ucciso ha Lajo, E che tanto minacci, e punir brami, Fattone sopra ciò publico editto, E' qui presente, e sorastier fi tiene ; Ma fia tosto a gli effetti conosciuto Esser di Tebe Cittadin ; ne lieto Sarà peri di tale avvenimento Per le tante miserie, in che fia posto. Che d'uom, cFer sana ha la sua vista , in breve Diverrà cieco, e povero di ricco. Vagabondo n'andrà per terre esterne , Servendofi per guida d'una Verqa, Del suo stato Regale indizio chiaro, E de li figli suoi fratello, e padre Pia discoperto, e de la madre ìstessa Figlio, e marito infieme, E adultero, e ucci/or del proprio padre. Or vanne in casa, e dì ciò che tho detto; Cerca se detto ho il vero ; e quando poi Scopri, eh ' in me fia salfita te alcuna Dimmi, ch'io nulla sappia, eallermi chiama Vanot e salso Proseta. Cor. Qual è, qual è colui, Che sOracolo accusa, Che con le man ne l'altrui sangue tinte Commejso abbia delitto Cost nessando, e grave í Tempo è già, ctíegli prenda Pià che destrier veloce, e più che vento, Giungendo ale a le plante, Presta, e fubita suga. Ch'omai di Giove il figlio, Di fiamme, e strali armato, Sta per serirlo in pronto ; E per compagne ha seco Le venerande, e inevitabil P'arche, Che non errano mai. Pero che da le parti più secrète Del gran Tempio vicino Al nevoso Parnaso, Novamente qua gionto Con chiarissime note L'Oracolo comanda, Ch'ognun di noi procuri Trovar Focculto reo ; Il qual per solte jelve, et aspri monti Errando va con piede lnssaufio, et inselice ; E per spelonche solitarie, e oscure, Quai tauro asstitto suole, Involandost al stuolo De li compagni armenti. Così suggir sperando Le minaceie del Dio, che i sacri altari Posti ba nel mezzo de la terra a punto; Ma sugga ovunque vuole, Schivar non può, ch'eterna Non gli fi giri intorno La destinata sorte. Ben gravemente mi spaventa, e turba Ciò, che predice il saggio Divin Proseta, il quale Cose di duol ci annunzia, e horror piene, Che sì come non sono Facili, ond'uom le creda, Così non son del tutto Incredìbili ancora; Onde dubbia ho la mente in quale parte Volger mi deggia, e dir non oso a quale Opinion m appìgli: incerta speme L'alma mi tien sospesa, Nè posso innanti, 0 indietro , 0 in altro lato Fermar la vista ancora. Che dianzi unqrn non seppi, che tra 7 figlio Di Labdaco, e tra quello, Che di Polibo nacque, Fosse contesa alcuna. E ancor saper nol posso; Che ragion non consente, Ch'al detto sol d'un indovin mi mova A savorir le parti Di Lajo, e a sar vendetta Contra un autor de la sua morte incerto, Cui non conosce altri che Febo, e Giove, Solo a quali è conceffo Il penetrar ne l'azioni umane. . E jlolta cosa è in ver? ch'altri pur creda Che tra mortali uom possa Saper pronojticando, Più di quel, che so io. Che d'ingegno quantunque L'urio a l'altro prevaglia, Quejsto, ch'altro non è che di natura Un prezioso dono, iscriver non convienfi À Prossetico spirto. Ma sermamente in me medesmo ho fisso Non dar credenza mai A tali note ingiuriose, e inssami Contra il Re nojstro sparse, y elle pria dal successo De le cose non sono Giustificate a pieno. Quando a lui già la mojstruosa Sfinge, Che sanciulla nel volto, L'ale tenea d'augello, Venne incontro ad opporfi, Ei di prudente, e saggio Ebbe da ognuno il vanto; Recando a la Città con tale impresa Gaudio, e certa salute. Onde non fia col mio giudicio mai 3 Ch' uom di merto cotanto D'alcun diletto io danni. Cre. O Cittadini ., udito avena" io quanto Gravemente m'accusa Edipo, tosto Qua condotto mi son, sì grave offesa Tolerar non potendo. Che s'egli in tante sue miserie immerso Teme da me., ch'in satti, od in parole Alcun danno io gli apporti, ci prende errore; Che più tojsto morir vorrei , che vivo D' inssamia così grave esser macchiato. Poichè non d'una sola ingiuria offeso, Ma di molte mi sento, essendo sparsa Di me tal voce, s'avvien , ci)io da questa Cittade, da gli anni ci, e da voi sta Uom malvagio tenuto. Cor. sorse da sdegno spinte Fur contra te l'ingiuriose note, Non da vera credenza. Cre. Qual vi su indizio mai, dtnde sospetto Prender fi possa, che da me sedutto Il Prosseta dett'abbia il salso ? Cor. Et questo T'oppose, ma con quale Intenzion, nel ver io non so dirti. Crc. Queste cose esprimendo, Diè ne gli atti egli segno, o nel sembiante Di tenerle per vere? Cor. Io non lo so, che non intendo quello, Che li Principi sanno. Ecco che a punto, Fuor di casa ei sen viene. Ed. 0 tu, e hai da far qui? sei tu s ì audace, Ch'ardisci ancor d'appropinquarti intorno A le mie stanze? essendo Di quest'uom tu omicida omai convinto, E de l'Imperio mio ladra palese? Dì , ti prego per Dio, ti risolvesti Queste cose tentar, me conoscendo Per codardo, o pef stolto ? o pur pensastí jyoprar gl'ingannì tuoi sì occultii cFio Di loro satto dCcorto , rton potejsi Schisarli, e contfa te fame vendetta? Ot non sori questi tuoi difegni vani? Sperando d'acqùistar tu senza amici, E senza popolar feguito, un Regno, Che Conquistar fi suole Col saVore de' popoli, e con Foro? Cre. S ai quel ch a te saspetta? avendo detto Ciò che di dir ti piacque, udit fneancoraf E saftene poi gindice te fiesso , Ed. So ctí eloquente sei, ma non son io Buon uditor per te, che sacilmente Persuaso timanga, avenaos'' io Per inimico acerrimo scoperto, Cre. Quejio , cFio son per dirti, prima ascottd. Ed. Pur che tu non mi dica, cFuom malvagin Non Jiif dì ciò che vuoi. Cre. Se fesser suor del giusto pettínace, Cosa bella, e lodevole effer fiimi, Grandemente (inganni. Ed. Se offender credi quei , cfia te congíunti Sono per sangue, e girtene impunito, Folle è la tua credenza, Cre. Vero e ciò, che tu dici, io lo conssessa / Ma sa, ch'io sappia almeno in cbeti chiami Effer da me sì gravemente offcso. Ed. Configliastimi tu, cFera opportuna Cosa il mandar alcuri mefso a quel tanto Celebre, e granProsseta? Cre. Io qíteWificffo) Ch'allor sentiva, or Jento. Ed. Quan EDIPO. Quanto tempo è trascorso omai, che Lajo Creonte: Che cosa ha egli satto? io non t ' intendo. EDIPO: Da occulto reo su crudelmente ucciso} CreONTE: Noverat fi potrian molti, e molt ' anni. EdIPO: Esercitava attor costui riflessa Arte d'indovinar} Cre. Egli in quel tempo N'era istrutto non meno, e non men faggio, Et in pregio da ognuno era tenuto. Ed. Fece egli attor di me memoria alcuna? Cre. Non già presente me, nè eli io lo sappia. Ed. Non su da voi con diligenza allota Ricercato sautore D'omicidio sì crudo, e sì nessande ? Cre. Lo ricercammo, perchè nò} ma nulla Se ne intese. Ed. Perchè quest'uem sì saggio Attor non palesò quel', ch'or palesa? Cre. Dir nol saprei, nè affermar soglio tosa, Ch'a me nota non sta. Ed. Ma tu sai questo almeno, e saggio essendo, A me lo scoprirai. Cre. Che co/a ? io mai Per negarlo non son, pur ch'io lo sippia. Ed. Dico, che se costui te per compagno Non tenesse in tal opra, ei non ntavria De la morte di Lajo unqua accusato. Cre. S'egli ciò dica, o nò, tu stesso sai : Ma ricercarti anch'io bramo in quel modo, che tu dianzi ancor me ricercasti. Ed. Ricerca pur, non fia però già mai, Che mi trovi omicida. Cre. Or mi rispondi, Non prendesti tu in moglie mia sorella? Ed. La prefi, e di negarlo a me non lice. Cre. Non è teca ella a parte anco del Re^no? Ed. Mai di ciò , che mi chiese, ella non ebbe Da me ripulsa. Cre. Io poi non tengo il terzo Cerchi di violar le leggi sante De l'amicizia, e pur ti scopri al fine. Cre. Ciò salso troverai, pur che tu voglia Ascoltar me, come te feci anch'io. Deh sa, che sopra ogn altra cosa prima Confideri in te flesso, s'esser stimi Alcun già mai sì di giudicio privo, Che più tosto regnar cerchi, vivendo Di timor pieno, e d'anfioja cura, Ch'aver dominio eçual senza sospetto, Dormendo i sonni suoi qucti, e ficuri. Non son io tal per mia natura, eh' io Ami meglio esser Re, che viver sottoposto di Re a l'Imperio: ne crea " io, Ch'uom moderato d'animo ciò brami. Or sotto sombra tua ficure io vivo ; Nè cosa chieggio mai, ch'io non s impetri Da te; dove se in man lo scetro avessi, Ch'or tieni tu, sarci ben spesso astretto Molte cose operar contra mia voglia. Qiial Regno altro più dolce, o più giocondi Esser mi può, che quel dominio , il qualt E' di cure, e timor libero, e sciolto? Non son io di ragion sì nudo, e caffo, Che posseder quei beni io brami, i quali Non apportino seco alcun guadagno. D'ogni cosa or mi godo; ognun .m'onora, E mi tien caro y e quando awicn, ch'alcun» Loco in onor dopo voi Da malvagio operando Argia del savor tuo bisogno, et tosto A me ricorre, come ad uom , ch'ei tiene Esser mezzo potente, ond'ei consegua Ogni grazia da te. Dunque perch'io Cotanto ben lasciar deggio , per pormi Sotto il peso d'un Regno ? uom, che non fia Di mente giusta, non sta mai ch'apprenda Configlio onesto . ne pur mai pensai Questo ch'ora m opponi: e s'io sapessi Ch'altri a tenderti infidie unqua mirasse, Telerar nol potrei. Ma se tu brami Averne certo indizio, a chieder manda In Delso, ìio con sedeltà f espofi Ciò, che spirò l'Oracolo: poi quando Trovi me col Prosseta aver già mai Comunicato alcun configlio, allora, Non pur col tuo , ma col mio voto istcsso, Vo' cFa morte mi danni . Ma pon cura Che per un vano, e semplice sospetto Tu non m' incolpi a torto, e non m inssami, Ch'ingiusta cosa è pur, ch'altri i malvagi Uomini buoni estimi, e t buoni rei. Il privar se d'un fido amico, io tengo Non men grave giattura, chel spogliarfi De la sua vita iste ssa, eh ' è piò cara Di qual cosa fi voglia ; e tu col tempo Tutto ciò scoprirai : però che solo La lunghezza del tempo è, che dichiara Quale fia*l buono amico ; e un giorno solo Basta a scoprirti il reo. or. Saggiamente egli ha detto ; e dei guardarti Di non lasci tir, che ti trasporti s ira ; o or Ch'uri frettoloso, e subito configlio Esser non può ficuro. Ed. Quand'altri a sarmi infidie occultamente Precipitoso viene, Condurmi a provedervi, e a porli freno Precipitosamente debbo anch'io: Che s'io men risoluto a vendicarmi Fojsi, e più negligente, / suoi trattati Passeràan più scuri, et io sarei, Senza poter più vendicarmi, oppresso, E condotto in ruina. Cre. Che dunque vuoi ? quinci scacciarmi in bando ? Ed. Non vo bandirti nò, vo\ che tu muoja. Cre. Sì, ma quando m'avrai tu pria dimostro Da che prendi cagion tsodio sì grave. Ed. Favelli tu così per dover poi Negar il tutto, e non mi ceder punto.? Cre. Veggio, che drittamente or non discerni Le cose. Ed. Io ben le mie scemo. Cre. Ma dei Affissar ne le mie non meno il guardo, E con egual bilancia ponderarle. Ed. Tu per natura tua malvagio sei. Cre. Che dirai, se,l sospetto ti sa cieco} E non sai ben ciò che sospetti ancora ? Ed. Tocca a me comandar pero . Cre. Non quando Malamente comandi. Ed. O Città, o Citta . Cre. Ma non è questa Città già di te solo, anch'io ne ho parte. Cor. Cessate, ambedue Re, s ira, e li sdegni; Ch'io veggio a punto uscir Giocasla in tempo, A la presenza de la qual convienfi Tra voi depor le liti, e le contese. G io. Qital G io. Qjial cagion così stolta ambo vi spinse Sì jlrepitosamente ad oltraggiarvi, O miseri, e insselici? ah non vi prende Di voi stejJl vergogna, essendo afflitta La Città da sì cruda acerba peste, Di suscitar tra voi rumori, nati Da private contese? che non vai Tu dentro in casa} e tu che non ritorni Al tuo albergo, o Creonte ? acciò che questa Lieve alterazion de vostri sdegni In qualche grave mal non fi converta. Cre. Gravi, et acerbe pene a me prepara, O sorella, il tuo sposo, poi eh'intende O con bando punirmi, o con la morte. Ed. Egli è'l vero, o mia moglie ; e ciò, pereh' io In lui scoperto ho infidie, e occulti inganni, Onde uccidermi tenta. Cre. Non goda io questa luce , e poss'io al fine Giunger con mille strazii a cruda morte ^ Se di tal sceleraggine son reo. G io. Io per li Dei ti prego, Edipo, che prestar sede gli vogli. Et a questo ti muova il giuramento, Ch'egli ha satto, e il rispetto di me stessa, E di quest'altri infieme, Che presenti a te sono. Cor. Deh cedi, o Re, dà saggio , e da prudente, Già rimettendo l'ira. Ed. Che chiedi tu? ch'io cedaì Cor. Ioti dimando Ch'abbi a costui riguardo, Che non oprò già mai cosa da stolto , E che chiamato ha in testimonio i Dei. O 2 Ed. Sai Ed. Sai tu ciò che dimandi? Cor. Io lo so certe. Ed. Fa, ch'io lo intenda dunque. Cor. Che mandar tu non voglia un innocente Amico in precipizio per sì vani Sospetti, e sì leggieri, e far , ' che a torto Da te disonorato, Lungi da la sua patria in bando e; vada. Ed, Sappi, che ciò chiedendo , a chieder vieni La propria morte mia, o ch'io mi tolga Bando da quello Regno. Cor. Nò per quel Dio, che luce apporta al giomo, E che più ch'altro Dio penetra , e vede. Morir mirer io possa, e abbandonato Da gli amici del tutto, e da li Dei, Se pur volfi il pensero a sì crudeli Opre già mai: ma mi tormenta, lasso, Il veder la mia patria in tanti affanni ; E ch'a i primi suoi mali anco s'aggiunga Questa nova sciagura, che le nasce Da le vostre contese. Ed. Salvo ei dunque len vada, ancora eh ' io Quinci a morir n'avesfi, o discacciato Fuor di quejìa Città m en gissi in banda Vituperoso, e inssame. Nè commosso Già fon io da costui, ma da tuoi preghi ; E dal vederti sì turbato in vista. Che vada ovunque ei vuole, eternamente Son per odiarlo a morte. Ck. Questo, eh ' or tu concedi, apertamente Mostri mal volentieri Concederlo, et astretto da gli amici. Ma se dura in te s ira, e questo tuo Ostinato penfier, verrà, che al fine Poi ritorni in te stesso, e allor pentito 1 Benchè tardi, sarai: tale è il costume De gli animi iracondi, e giustamente Se ne crucciano poi dolenti, e mesti. Ed. Non mi lascierai tu partendo omai? Cre. Portomi non da te ben conosciuto, Ma per dover presso a costoro sempre Rimaner quel ch'io sui. Cor. Perchè più tardi, O Signora, che in casa Il Re tu non conduci? Gio. Prima, eh'io vel conduca , intender voglio Qual sortuna gli ha indotti a queste liti. Cor. Da parlar dubbioso origin ebbe Tale tra lor tempesta , e da mordaci Accuse, ch'esser sogliono serite In generoso petto . Gio. Ambo l'uno da salirò ? Cor. E così a punto. Gio. Ma quai suro i lor detti ? Cor. Basti quanto fin or se n'è parlato ; Ch'ejsendo la Città sì afstitta, debbo, Tra lor ceffate le contese, anch'io Nel silenzio sopirle. Ed. Vedi ove sei trascorso / perch'essendo Tu di mente sì retta, or m'abbandoni ? E l'animo mi turbi} Cor. Torno, o Re, a dir ciò, cho più volte detto : Stolto mi tenga ognun , se da te mai Ho ptnfier di riirarmi, e abbandonarti : S'io non ti porto anzi ne l'alma impresso. Che tu la cara mia patria tornasti Nel suo primo ornamento, allor ch'oppressa Da gravitimi pefi ella giacea Languida, e omai distrutta : et or dì nova Ella caduta essendo, Da generoso Principe t'impieghi Con tutte le tue sorze in sollevarla. Gio. Dimmi, per Dio ti prego , oRe, qualcosa A tanto impetuosa ira ti spinse? Ed. Io tel dirò, poiche tu sola sei Da me più, che qualunque altro pregiata: Crudi trattati ha contra me Creonte. Gio. Scoprili a me, pur ch'evidenti, e chiare Le cose stari, di che l ' accufi. Ed. Ei dice, Ch'io sui di Lajo Fomicida. Gio. Afferma Egli saper da se questo, o d'altrui Averlo pure udito? Ed. Egli il Proseta sederato ha indotto, Che con ogni suo spirto audacemente Contra di me savella , e ognuno accende A sar ristesso ancora. Gio. Quello, che a dir di te già cominciasli, Lascia da parte, et i miei detti ascolta. Uom non è tra mortali in alcun loco, Chel suturo predir sappia, o ch'intenda L'arte d'indovinar, com or navrai Chiaro indizio da me. Di Delso venne Un Oracolo a Lajo {ora io tralascio Se dApolline ei susse, o d'alcun suo Ministro) eh ' egli ucciso esser dovea i Per man d'un proprio suo figlio, il qual io Era per partorirli: nondimeno {Se ne vera la sama) ei da ladroni Forajìieri su.estinto, ove in tre parti Sì divide una strada, eh'è dal corso De li carri segnata: e il figlio, ch egli Ebbe di me , di tre dì nato a pena Con'egncllo ad un servo, che co i piedi Ledati in su la cima D'un alti (fimo monte lo recasse. Talchè ne sar poteo Febo, che questi Il suo padre uccidesse, 0 pur che Lajo Fufse dal figlio utciso, il che temeva Ei gravemente: e Oracolo era questo, Che cose tali predicea di Delso. Nè tu prender ten dei cura, od affanno, Pero che quel, che Dio dispone, e vuole, Ch'avvenir degçìa, al fine Non lascierà eh'a noi rimanga occulto. Ed. O quanto il tuo parlar mi turba, 0quanti M'empie d'orror il petto, e dì spavento. Gio. Qual neva cura or sì t'attrista, e move A parlar in tal modo? Ed. Parmi, ch'abbi tu detto esser già stato Ucciso Lajo tò, dove fon giunte Tre strade infieme. G io. Allor così fi disse, E tale ancor di ciò sama fi serba. Ed. In quali parti è il loco, ove sì grave Caso succcesse? Gio. Focide è la terra Nomata, ove in due capi fi divide La strada, l'un de' quali i viandanti Conduce a Daulia, e l'altro in Deljo mena. Ed. Quani'esser può, che son tai cose occorse? Gio. Poco anzi il tempo, che lo scetro avesti Di questo Regno, ciò s'intese. Ed. 0 Giove, Che cosa hai tu di me disposto in Cielo} O 4 Gio. Qual Gio. Qual penfiero ti turba, o Edipo} Ed.Cessa Il ricercarmen or: ma dimmi prima, Che sembiante avea Lajo, e qual etate Era la sua in quel tempo? Gio. Egli invecchiar già cominciava, el capo Di canizie avea sparso, e non già molto Era dal tuo difstmil il suo aspetto. Ed. Oimè, misero, oimè.' A che atroci bsfiemmie io, noi sapendo, M'ho sottoposto ?Gìo.ORe, che parli ? io tremo Nel riguardarti in saccia. Ed. Temo, misero me, ch'aggia pur troppo Il Proseta veduto, se tu d'una Cosa mi chiarirai, potrò più certo Rendermene, e pià scuro. Gio. Tutta son d'orror piena, nondimeno Nulla ti celerò, pur ch'io lo sappia, Di ciò, che chiederai. Ed. Era Lajo da pochi accompagnato, O pur da schiera tal, quale conviens A Regia dignità} Gio. Fur cinque in tutto, Tra questi annoverando aneo il Trombeua, E Lajo istesso, il quale Sopra un carro sen giva. Ed. Ahi, ahi, son queste cose maniseste. Ma qual fu il nunzio allor, eh'in tal maniera A voi riportò il satto esser suceffo} Gio. Questi su un servo, il qual solo rimase Salvo da quella strage. Ed. Ma dovè egli? è dentro in casa sorse} Gio. Nò, che poi ch'egli a noi tornandor intese, Che dopo morto Lajo, eri tu stato Eletto Re, le man mi prese, e tutto Supplice mi pregò, ch'io lo mandasfi J4 custodir gli armenti in villa, avendo Ei la Cittade a schivo, e nel compiacqui; Poi ch'era servo in vero Di maggior beneficio anco più degno. Ed. Fa^li saper, eh'ei qua tosto sen venga. G io. Egli in breve vi sia: ma che ne vuot} Ed. Temo per me d'aver pur troppo inteso: E quinci è, cho defio Di parlar seco, e di vederlo ancsra. Gio. Lo vederai tu què tosto: ma parmi Che sora giusto, eh ' io La cagion intendessi, onde ti prendi Tanto gravoso astanno. Ed. Nulla ti tacerò, poichè mia speme A cotal fine è giunta, Che in così gravi, 0 tempestose cure Ritrovandomi involto, a cui le deggio Discoprir, più che a te? Pclibo di Corinto è il padre mio, E Merope di Doride la madre ! Io poi tra gli altri Cittadini il primo Tenuto sui da ognun, finchè m'avvenne Strano ateidente, e da stupirne in vero, Ma ben del viver mio modesto' indegno. Quivi, a mensa trovandofi, e già tutto Caldo di vino, et ebto Un cerfuom m'appellò bastardo, e disse Ch'er io parto suppofito a mio Padre; Del che sentendon' io sdegno, a gran pena L'ira potei frenar quel giorno solo; Ma Ma il dì seguente poi Gli ne seci querela, e me ne dolfi Col padre, e con la madre, Che sel presero a male anch'esfi molto. 10 benche' m acquetaci a detti loro, Sempre interno doler rodeami il petto, Per così grave offesa, ch'altamente Nel prosondo del cor serbava impressa, E senza tardar punto, o sar dimora Da suno, e l'altro mio parente occulto Mi tolfi , e me n'andai d'Apollo al Tempio, 1I qual nulla in propofito rispose Di quel, ch'io richiedeva ; ma in sua vtte Altre cose mi disse orrende molto, E crudeli, et atroci, e íuron quejfie: Ch'io con la madre ifieffa esser congiunti Di commercio carnal doveva, e trarne Prole a tutti odiosa, e al proprio padre Dar io stesso la morte : onde ciò inteso, Fuor del paese di Corinto andai, Misurando il suo fito a me lontano, Con so "servar, a gui'a di nocchiero Le stelle ,. e gir cercava Ov'io suggir potessi Del reo destìn la sorza, e da bruttarmi In sì nessando, e sederato incesto. E mentre or qua, or là m en giva erranìo, In quejie parti io mi condussi al fine, Nel loco a punto, ove dett'hai, ch'ucciso Il Refi giacque: e a dirti, emoglie, ilvero, Giunto ch'io fui là, dove Son le tre firade unite , ivi il Trombetn, . E y E un uom d' aspetto tal, quale hai dipinto, Sopra un carro sedendo da cavalli Guidato, incontro a me.vennero, e a un tempo Quei, che i destrier reggeva, e il vecchio a sorza Spinsermi suor di strada y ond" io già pieno D'ira, il rettor del carro, che l'in [ulto Fatto mavea, percossiy e il vecchio, quando Mi vidde al carro appropinquar, due volte Diemmi sopra la testa con la sserza: Nè con egual serita io gli rispofi y Però che una sol volta egli d'un legno Da me sendo percosso, già del carro Cadde, e morto rimase, e gli altri tutti, Ch'erano seco, uccifi. Ma se sufse Tra me, che son què sorastiero, e Lajo Di parentado alcun no/io , qual sora Tra mortali uom pià mai di me insselice} Qual pià in odio a li Dei ? vietato essendo jf Cittadini, e a ' sorastieri il darmi Ne le lor stanze albergo, e il parlar meco? Fuor d'ogni casa sarò spinto y e queste Dure condizion nuli'altro impose, Fuor eh'io stesso a mestejso. Io macchio il letto Di quel misero uom morto con l'isteffa Mano, ond'ei cadde estinto. Non son io sederato ? non son io Empio pià d'uom, che viva? S'a suggir quinci son astretto, e mai In sì misero efilio a me non lice Gir dove fiano i miei, nè de la dolce Mia patria unqua goder l ' amato aspetto: O se pur con la madre in se nefande Noz. Nozze giunger mi deggio ,. o se dar morte A Polibo mio padre, da cui nato, E nodrito fon io ; Chi non dirà, ch'io ndcqui a dura sorte? Chi non Marnerà iniquo il mio Uno r Santa religion, pietà divina, Deh non sta, non fia mai, Che sì misero storno io miri y e saccia Il Ciel più tosto, ch'io Questa vita abbandoni, che vivendo Provi tanta sciagura, e ch'io mi senta D'opre così nessande unqua macchiato. Cor. Gravi, o Re, sono a noi le cose udite: Ma dìsperarten già rion dei tu prima, Che dal Pastor del tutto a pien t ' inssormi. Ed. Questo è quanto di speme ancor ni' avarivi' Gio. Giunto ch'egli quafid, tu che sar penfi? Ed. Io tel dirò : s'a' tuoi detti conssormi Saranno i suoi, di tal miseria allora Sarò libero in tutto. Gio. Da le parole mie , chai tii compreso Che più, eh'altro ti salvi? Ed. Detto hai tu, riserir costui, ch'ucciso Lajo su da ladroni, ch'in gran schiera Vennero ad assalirli: or se ristesso Numero ei ci conserma, non son io Di questa morte reo. Altro è morir per man di rrìolti, et altro Da un solo esser ucciso. Ma sei dirà, eh'un sol ciò sece, è chiaro, Ch'io son quell'uno, e che sopra me cade Tutta questa ruina. Gio. B.:n Gio. Renditi certo pur, ch'egli ritrarfi Non può da quel e ha detto ; essendo ch'io Non sol, ma la Città tutta in tal guisa L'udì parlar: ma quando egli or diversa- mente il satto spiegasse, Dica ciò, che fi vuole, et dir non puote, Che fiato ucciso sia Lajo dal figlio, Che del mio ventre nacque; poichè certi Siamo, ch'ei non l'uccise, ejsendo fiato Il misero sanciul gran tempo innante Fatto morir. Però non fia, ch'io miri, Per saper del suturo alcuna cosa Nè qua, ne là già mai. Ed. Bene hai tu detto, ma non sar, che manchi D'inviar alcun servo, che costui Faccia qua venir tosto. Gio. L'invierò : ma dentro in casa entriamo ; Ch'io non son per sar mai, mentre avrò vita, Se non quanto saprò, eh'a te Jia caro. Cor. O voglia il Ciel, ch'io sempre Tanta selicità provi in me stesso, Ch'ogn'opra, ogni mio detto Puro, e casto fi mostri. E quel tanto abbia sol nel petto impresso, Ch'ordinan Falte leggi Date, e prodotte in Ciclo, Non da mortal natura, Ma da Dio stesso solo. Queste non fia, che mai L'onda di Lete asperga Di tenebroso oblio; Però ch'in esse occulto £' Dio srande, ed eterno, Ch'invecchiar non le lascia. Ben la ingiustizia ha in terra Partorito il Tiranno : La qual poi cha di molte ingiurie, e molte Cose dannose, e indegne, Importuna operando, Un gran cumulo accolto, Giunta nel maggior colmo, I suoi seguaci in precipizio menu; Che dal dritto sentiero Torsero sempre i passi, e li conduce, Ove in miseria ejstrema Soi d'ogni cosa privi, Prenda pur cura ognuno Di ritrovar il reo, che Lajo uccise, Ch'a la Città fia quejto Di gaudio, e di salute. E Dio supplice prego , Che tale impreja mai Abbandonar non lasci: Nè per tentar son io Cosa, che meco ognora Dio non abbia dinanzi, e per mia gtritk' Chi la giustizia sprezza, E in satti, od in parole. Le sacre leggi offende, E chi religion non teme, o cura, Nè rende a Dio ne i tempj I suoi debiti onori ; E chi pien ^avarizia ingiusìamente Ad arricchirsi attende, Per poter de la vita I piaceri seguir tristi, e insselici, Ni le sceleratezze Empie abbonisce, o fugge, Nè di por mano astienfi Ne le illecite cose, Da malvagio, e da stolto, Perir pojsa distrutto Da cruda morte, e ucciso. Ma chi fia tra mortali, Che de l'affetto a gli empiti refista, E'l suo suror raffreni? Sei vizio a vizio non s'ascrive, et anzi Via più tosto s'onora} A che debb'io più con diletto amai Ne i dì sacri, e solenni Menar sestofi balli ? Qual di religion pietoso zelo Fia, che più a gir mi spiìíga D'Apolline a gli altari Venerandi, * riposti Nel mezzo della terra? O a vifitar gli eccelfi D'Abi, o d'Olimpia Tempj? Se non fi scuopre il vero Di queste cose occulte, Sì che con man lo tocchi Chiaro, et aperto ognuno. Ma tu, ch'a voglia tua reggi, e governi Il tutto, o sommo Giove, Se i giusti preghi ascolti, Volgi a quell'opre gli occhi Dal Dal tuo seggio immortale. Or gli Oracoli antichi De la morte di Lajo Si scancella» del tutto, Nè più rendonfi a Febo I suoi soliti onori. Va del divino culto Ogni cosa in ruina. Gio. O voi, chel primo loco avete in questa Citta, preso ho di girne a i sacri Tempj De li Dei, ne le mani Queste ghirlande avendo , e questi incens : Che troppo grave duol cruccia, e tormenta Mìseramente Edipo, il qual non come Ad uom saggio convienjt, da le cose Del passato argomenta le presenti y Ma porge orecchi solo a chi gli apporta Cose di timor piene, e di spavento. Poichè col consolarlo io non gli giovo, Supplice or te pregando, a te ne vengo, Sacro Apollo, il cui Tempio è qui vicino: Perchè tu da li mali, in che noi fiamo, Senza nota d'inssamia abbi a levarci: Però che ognun di noi teme, vedendo Ch'egli quafi nocchier nel mar turbato, Giace timido tutto, e sbigottito. "Hun.Piacevi dirmi, o Cittadini, dove E' il palaggio Regal d'Edipo? o dove Egjì stesso fi trova ? Cor. Son sue stanze Queste, che vedi, o scrastiero, et ora Eçli vi dentro, e questa è la Reina, C ha partorito a lui tutti i suoi figli. Nun. Sia Nun.5Vrf selice ella sempre, e con selici Lungamente abbia vita, poscia ch ella E' moglie sì perssetta. Gio. Prego eh'a te Ristesso ancor awegna, Poichè degno ne sei, parole usando Di così buono augurio. Ma qual cosa Qua t'ha mosso a venir? che nunzio apporti} Nun.Grate novelle io porto a quejìa casa, Et al tuo sposo infieme. Gio. Quali sono? Fa ch'io l'intenda; e tu donde ne vieni? Nun..dì* Corinto ne vegno; e per usarti Poche parole, ciò ch'io reco, è lieta Novella, perchè nò ? ma potrà sorse Esser, che tu ten doglia. Gio. Che cosa è questo ? o come ha doppia sorza Il tuo parlar? Nu . La terra deismo omai D'eleggerlo suo Re fi pensa, come N'era la sama al partir mio. Gio. Non tiene Polibo vecchio ivi dominio ancora} Nun. Nò, che morto, e sepolto egli fi giace. Gio. Che mi dici ? ti prego, è morto dunque Polibo? Nun. Se non è ver ciò, ch'iodico, Mi contento morir. Gio. Che tardioserva, Che non rechi tu al Re quejìa novellai, O de li Dei Oracoli ove sete? Per timor di non dar morte a cojtui, Si tolse bando volontario Edipo, E pur di natural sua morte è chiaro, Ch'egli è mancato , e non per man di lui. Ed. O piti d'ogn altra a me cara, e diletta Giocasìa a che m'hai tu qua suor chiamato} 3io. Odi quejt'uom quale a te nunzi» apporta, E fra te /lesso pensa, in che risolti Si sono questi venerandi Oracoli De li Dei. Ed. Chi è cojtui? che nove arreca? Gio. Ei di Corinto porta, che più vivo Non è Polibo tuo padre i e ch"estinto Egli fi giace. Ed. 0 sorastier , che dici? Narra tu stesso il tutto. Nun. S'ho pur u Quinci da incominciar ciò e ho da dirti, Sappi che morto ei giace. Ed. Morì egli da morbo alcun gravato? O pur per qualche tradimento} ìiun.Unlevt Accidente , e di minimo momento Basta a uccider il vecchio. Ed. Per quanto intendo il misero fi giacque Per gravezza di morbo. N un. E per la molta Sua etade .' Ed* Oimè , oimè, A che ricorrer mai più de li Dei Ai prossetici altari} a che d'augelli Più ne saria osservar le strida, e il volo? . Da cosali pronostici guidato Dovevo uccider io mio padre isteffb, Et è pur egli omai spinto, e sotterra, Què ritrovandomi io, senza che mosso Abbia alcun arma mai contra di lui. Ma chi sai sorse il misero per troppo Dejfiderio di me pervenne a morte; E quinci uom dir potrid me averlo uccisiii Ma tutti questi Oracoli egli seco Portò la già d'effetto voti a S tige. Gio. Non t'ho io poco sa predetto tutte Queste coseì Ed. Egli è vero: Con tutto ciò temea. Gio. Guarda tu adunque Di non v'applicar pià l ' animo. Ed. Come? Non mi convien ch'io sugga anco il periglio Del commemo materno ? G io. Di che temer uom deve, Se la sortuna ha prospera, e seconda? De le cose i succesfi incerti sono : Ma sopra ogn altra vita, io lodo quella D'uom che intrepido viva, e senza cure; Quanto può maggiormente. Nè già temer dei tu, che con la madre A congiunger tu Saggia, poiche molti Giacquero in sogno con le madri istejse. Ma chiunque non prende Di cose tali cura, e le disprczza, Mena la vita sua lieta, e tranquilla. Ed. Fora ver ciò, chat detto, quando quella, Che predetto m'ha in vita, estinta su (se: Ma poi ch'ella è pur viva, ancor che parli Tu ben, guardar men deggio. G io. Grand'argomento, onde il timor tu scaccia, Il sepolcro del padre esser ti deve. Ed. Grande argomento è in ver, che lo so anch'io ; Ma pur, mentre ella vive, a me convienfi Non lasciar di temere. Nun.Per cagion di qual donna hai tu semenzai Ed. Di Merope, eh'a Poltbo su moglie. O vecchio, io temo. N un. E qual ragion ti move Ad aver tal timore. Ed. L'Oracolo tremendo de li Dei. tiun.Lecito è ch'io l'intenda, 0 pur peccato Jet il riferirlo altrui ? Ed. Già mi predisse Apollo, ch'io doveva P 2 Con Con la madre giacermi, e bruttarmi anca Le man nel sangue di mio padre islejso. Questa cagion mi spinse a gir lontane Da Corinto, e con sorte affai selice ; Se ben cosa dolcisfima è l'aspetto De' proprii genitori. Nun.Dunque di ciò temendo partisti indi} Ed. Per non esser del padre io l'omicida Da lui mi tolfi, o vecchio. Nun.Mi* che sto io a sar, poichè qua venni Con defiderio di gradirti, ch'io Te non libero, o Re, di tal timore ? Ed. Obligo te n'avrò degno del merto. Nun. TV con speme a trovar verni'io, che quando Fossi tu a casa ritornato, avessi A mostrarti ver me largo, e cortese. Ed. Non son io per venir già mai lh, dove Siano i miei genitori. Nun.Per quanto chiaramente fi comprende, Tu poco sai de le tue cose, o figlio. Ed. Perchè ciòi deh sa ch'io l'intenda, o vecchio. "Nvin.Se ciò ti tien, eh'a casa non ri tornì. Ed. Temo che non mavvegna Ciò, che di me già m'ha predetto Apollo. Nun.D/ non commetter cose scelerate Verso i .tuoi genitori} Ed. 0 vecchio, quejl» Mi sa temer ognora. Nun.iWiì non hai già cagion tu da temere. Ed. Perchè nò, se fon io nato di loro? Nun.Teca non è d'alcuna parte giunto Polibo in parentela. Ed. Che dici? non son io nato dì Polibo? Nun. Non Nun.ATów più di lui, che di quest'uom nascesti. Ed. Ma contesser può, eh'egli . Padre mi sta, com'un, che non rriè padre? Nun.Caj} come di me nato non sei, Così ne ancor di lui. Ed. Perchè dunque teneami egli per figlio} Nun.Gw ti prese egli in don da le mie mani. Ed. Come m'amava tanto, avendorri egli Da Valtrui mani avuto } Nun.L'ejser privo di figli a ciò F indusse. Ed. Me d'altrui comperato, 0 de li tuoi Proprj figli a lui desti} Nun.77 trovai ne le valli di Citero. Ed. A che ten gisti in quelle parti ? Nun. Andai A custodir gli armenti in su que' colli. Ed. Dunque eri tu pastor, che per mercede Or qua, or là n'andavi . Nun. Allora sui Conservator de la tua vita, 0 figlio. Ed. Da che mal mi serbasti ? Nun.Efser ne ponno indizio i nodi offefi De li tuoi piedi. Ed. 0 come a me rinovi De li miei mali la memoria antica. Nun./ piedi ti slegai, ch'eran sorati. Ed. Ahi che fin da le sasseie origin ebbe Questa ignominia in me. Nun. Da tale caso, E dal tumor de li tuoi piedi mosti, Ti poser nome Edipo. Ed. Or dì per Dio ; Ivi m'espose il padre, 0 pur la madre? Nun.ib non lo so : colui, che mi ti diede, Lo sa meglio di me. Ed. D'altrui m'avesti, O mi trovasti tu? Nun. Dato mi sosti Da un certo altro pastor. Ed. Quale su egli? Dirlo a me non puoi tu? N u.Per quanto io stimo Egli de la samiglia era di La/o. Ed. Di colui, che lo scettro Tenne di questo Regno? Nun.Così sta, che custode era costui De gli armenti del Re. Eà.Viv egli ancora, Onde vederlo io possa} Nun. Esser ciò meglio Noto dovrebbe a questi Cittadini. Ed. E' di voi qui presenti alcun, che sappia Qual h il pastor, di cui savella or questi} Chi veduto l'ha in villa, o a la Cittade, Lo manisesti: il tempo ora richiede, Che fi scopran le cose. Cor. Non cred'i», Ch'altri egli sta, che quel, che suori in villa Mandato hai tu a chiamar : ma la Reina Potfà meglio d ognun di ciò chiarirti. Ed. Sai tu, moglie, che questi Sia quel pastor eh' a chiamar qua mandammo*. G io. Dì chi parla cojtui ì deh non ti mova Ciò ch'egli ha detto, e non vi metter cura. Ed. Ubbidirti non voglio in questo; e poi Che Cosi chiari indizj io nho scoperto, Non cejserò già mai, fin ch'io non trovi Di cui nato son io. G io. Nò, per li Dei Ti prego, se la vita hai cara , lascia Di cercar cose tali, e fiati assai Il dolor di me sola y e il mio tormento. Ed. Non ti smarrir per ciò, che bencii io soffi Trovato esser d'oripine servile Da tre gradi materni in su, per questo Non sarai tu minor di quel, ch'or sei. Cio. Con tutto ciò torno a pregarti, o Edipo, Ch'ubbidir tu mi voglia. Ed. Ho in mente fisso Di sottraggerne il vero. Gio. Io, che so quello Che mi dico, il tuo meglio ti consiglio. Ed. Ma questo meglio, che ricordi, è molto Tempo, che'l cor mi preme, e mi tormenta. Gio. Misero te, non voglia il Ciel , che mai Tu la tua stirpe riconosca. Ed. Or via Tojto alcun quel Pafior qua mi conduca; E lasciam che cojlei fi goda il sasto ' D'esser di fiirpe generosa. Gio. Ahi, ahi! O misero pià, ch'altro, et insselice, Poichè sol questo nome, ond'io ti chiami, Mi resta; e fia l'ultima voce questa, Ch'abbia a udir tu da me. Cor. Dove n'è gita La tua consorte, o Edipo, cosi mesta ? Temo, che'l suo filenzio non prorompa In qualche male al fine. Ed. Quanto piace Al Ciel ne segua . Io rimaner non voglio Di ricercar, che ben ch'il ceppo mio . Fosse ignobile, e basso, io però bramo Di ritrovarlo. Ella qual donna altera, E d'animo superbo, a scorno tienfi, Che fi ritrovi il mio lignaggio oscuro. Figlio de la sortuna esser mi fiimo, Pur ch'ella mi secondi, già cagione Non ho io di temere, Che quinci inssamia alcuna unqua m'avvenga; Però ch'ella mè madre: e i giorni, ch'io Ho corfi di mia vita, Mhan collocato in baffo, e in alto stato. Io dunque nato con tal sorte mai Non rimarrò di gir cercando quale Del suturo presaga, • . v Chiamo, o Citero, in testimonio il Cielo Che pria che del seguente Giorno il lume risplenda, Chiaro, e aperto ti fia La sua origine tragga or dubbia, e incerta; Poichè quinci poss'io . Innalzar con soavi, e dolci lodi; E celebrar con balli, . ,. E con Inni sonori .'. .• • Lui, che nodrtsti, e quella Che l'ha prodotto in vita, Quejsti successi come Etano grati a i miei Re , così non meno, 0 saettante Apollo, /.i.'. E a che tu li gradisca. Qual de li Dei del Cielo. T'ha generato, o figlio? E or se su qualche Ninssa, Che per gli monti errando, ' Del Dio Pan t'ha concetto? O d'Apollo la figlia, a cui fin grati Gli alti gioghi, e le rupi? Su gli elevati monti? o Bacco Dio Abitator de' colli, D'alcuna de le Ninss e d"Elicona, e regna I cui giuochi amar suole, Nobile , e degno parto T'ha sorse egli prodotto} Ed. Se giudicar posi'io di quèsto vecchio, Con cui non ebbi mai commerzio dianzi, Parmi, ch'egli Pastor fia , che cerchiamo. L'età sua di molt'anni corrisponde A quella di co/lui: poi me n'accerta Il vederlo guidar da' miei ministri: Ma conoscer lo dei tu meglio, essendo Che per l'adietro l'hai veduto ancora. Cor. Il ver pensasti, io lo conosco: questi Tenuto su, quans'altro sujse mai, Pastor sedele a Lajo. Ed. Io ti dimando prima, o tu, che vieni Da Corinto, se questi è quel, di cui (chio M'haisavellato?'Nur,. Eglin'e desso. Ed.O vec Guardami, e mi rispondi a quello, ch'io Son or per dimandarti. Fosti mai In alcun tempo tu de la famiglia Di Lajo} Ser. Fui suo servo , non da lui Già comperato altrove , ma nodrito Ne la sua propria casa. Ed. A che attendevi} Che vita era la tua } Ser. La maggior parte Del viver mio son io stato custode De gli armenti. Ed. In qual parte eri tu usato D'abitar più ch'altrove} Past.Ov'è il monte Citero, e ne li campi A lui vicini. Ed. Conoscesti mai In quelle parti tu quest'uom ? Pali. Che cosa Facevas'egli , o di qual uom favelli? Ed. Di questo quì presente: avesti mai x :.'.u Seco Seco commercio alcuno? Past.io»ow ho pronta Sì la memoria, eh' a la prima vista Riconoscer lo possa. Nun.Meraviglia non è, Signor, di questo, Ma gli tornarò io ne la memoria Ciò ch'egli s'è scordato; ch'io so certo Lui ricordarfi ben, ch'ambo fui monte Citero, io d'una greggia, et ei di due Pastor, tutta una efiate Infieme dimorammo Da Primavera infino Al nascer de l'Autunno; e cominciando Appropinquarfi ti freddo tempo omai, La mia greggia menai nel proprio ovile, Et ei le sue non meno in quel di Lajot Non è ver ciò ch'io dico ? Past. Il vero hai detto, E' cosa di gran tempo. Nun. Ti ricorda Ch'un sanciullin mi dejìi attor, perch'io Come proprio mio figlio lo allevassi? Past. Che ti move a richiedermi di questo ? ÌJun.Questi, o mio amico, era ilsanciullo allora. Past. Che non ne vai tu in tua malora ? puoi Tu tacer} Ed. Ah dunque tu riprendi questo Vecchio} son degne più d'esser riprese Le tue parole, che le sue non sono. Past. In che cosa, o Signor mio buon, pecch'io} Ed. Perchè tu non ridondi A quel che del sanciul questi ti chiede. Vìù.Egli non sa ciò che fi dice, e in damo Se ne affatica. Ed. Se scoprir non vuoi Di volontà ciò che ne sai, piangendo Lo paleserai poscia, e con tuo danno. Past. Deh Past. Deh ti prego per Dio non sar, che un vecchio Battuto fia. Ed. Gli leghi alcun le mani Dietro a le spalle. Past. Oimè, misero me! Perchè questo mi sai? che cosa è quello, Che intender vuoi; Ed. Dejti gia tua costui Il sanciullo , ch'ei dice} Vati. logli lo diedi : Ma Dio volesse, che Fistejso giorno Morto foss ' io. Ed. Ne morirai ben quando Dir non ci vogli il vero, che dovresti Dirci pur di ragion. Past. Morrò più tosto Dicendolo. Ed. Qucst'uom, per quanto appare, Cerca mettervi tempo. Past. Non già certo, Che consseras ' ho pur, eli io gli lo diedi. Ed. Dove lo ritrovasti} erti tuo sorse, O pur d ' altrui Favesti} Past. Et mio non era, ma a " altrui Febb'io. Ed. Da qual di questi Cittadini dunque L'avesti, oda qual casa} Past. Jlh nò per Dio, Non ricercar più altra, 0 Re. Ed. Se* morto , Se fai, eh'un'altra volta io te ne chiegga. Past. Un, che de la samiglia era di Lajo. . Ed. Era egli ftrvo, 0 suo parente. Past. Oimè, Male ho, se parlo, e male ancor se taccio. Ed. Et io non men s'ascolto: nondimeno E' pur sorza, ch'io soda. Past. Era la sama, Ch'egli suo figlio su (se ; ma di questo La Reina potrà, ch'è dentro in casa, Benisfimo chiarirti. Ed. Ti su dato Il sanciullo da lei} Past. Me lo died'ella. Ed. Qual ne su la cagion ? Past. Perch'io l'avessi A sar morir. Ed. L'istesso di lei parto} ÍAft.Per timor de l'Oracolo. Ed. Per quale} Past. Si Past.57 diceva di lui, Ch'egli uccider doveva il padre.-istejso. Ed. Perchè dunque lasciarlo a questo vecchio) ¥&!i.Pietate eòi? io di quel sanciullo, e speme Avea, ch'in altre parti ei lo recasse, Che dove egli era nato; ma serbollo Egli in vita a gran mali y e se sei qutlli Tu, ch'esser questi afferma, a cruda font Nascesti, e sotto crude stelle. Ed. Amiti'. Chiare son or tutte le cose, e aperte. O bei raggi del Sole, questa è pure L'ultima volta, ch'io vi miro. Io nato So» di cui non doveva : ho il letto offeso ( Ch'a sol pensarvi era peccato : ucciso Ho chi a me diede vita. Cor. Misera umana prole, Mentre qui dura la tua vita, o come Nulla ti stimo ; poichè quale uom mai Visse selice quanto Più bramar fi potesse, E agogni suo desto pago, e contento, Che di sortuna al fine Ne le rapaci, e torbide procelle Non fi trovi sommerso} Quinci a l'esempio tuo mirando, o Edipo, 0 miserrimo Edipo, E al vario stato incerto Di tua sorte pensando , Tra mortali uom non tegno Veramente beato. Poscia che tu , nel maggior colmo giunto De la selicitate, Da Da ognun tenuto a pien beato fusti. O come, 0 sommo Giove, Fu di tua mano uccisa La vergine crudel da i curvi artigli t Ch'iraconda sormava Sanguinolenti note. Tu quafi torre ben sondata, e salda, Opponendoti a lei, Da le calamitose acerbe morti, Ond' era vinta, e oppressa, la mia patria salvasti. Quinci, ottenuto avendo Regal titolo, e scettro, Con sommo onor governi L'alto Imperio di Tebe. • Ma chi più di te misero per grido Universal sudio? Chi più involto su mai Per variar di stato, e di sortuna, In pelago prossondo Di saticose cure, E di danni più gravi? Oimè, inclito Edipo, Tu quell'utero ìstesso, Che su del padre tuo prima secondo, Di tua colpa macchiasti. Ma com'è, chel paterno Letto, com'è, che tanto Senza same querela al mondo, e al Cielo Tolerar ti potesse? Te manisesta al fine, Quando di ciò nulla temevi, il tempo, Cfs Ch'ogni cosa discuoprej Accusando le nozze, Non legittime nozze, E in un soggetto istefso Te generato, e generante infieme* O del seme di Lajo inssausta prole, Piacesse al Ciel, piacesse, Ch'io più ne F avvenir, più in alcun tempo Non ti vedesfi mai. Me la tua dura sorte A lagrimar costrignt, E a ssogar suor del petto Mesti, e lugubri accenti. Che, se'i ver debbo dir, per te da gravi Mali già risorgendo, Godo in tranquillo stato I miei sonni ficuri. Nun.0 principali Cittadini , soli Ornamento, e sostegno De la Città di Tebe, oimè, quai cose Con gli orecchi udirete, e scoprirete Con gli occhi ! 0 quanto fia mai, se la cast Di Lajo in pregio vè, quale esser deve, Il dolor, che n'avrete ? poichè i mali, Che son dentro rinchiufi in questo tetto, Non può Flstro lavar, nè il Fasi infiemt Con quans'' acque in lor sono ; i quali in brnt Fuor fi dimostreranno aperti, e chiari, Non per sorza commessi, Ma per libero assenso ; che più gravi Esstr sogliono i mali, Che volontariamente uom fi procaccia. Cor. Gra. Cor. Gravi suro» pur troppo, e di duo! pieni I primi mali uditi. Ma che cosa, altra quelli, ora ci apporti? ììur,.Perchè topo intendiate, io mi ristringo A brevità. Morta è Giocafia , donna Veramente divina. Cor. 0 ssortunata ! Ma qual su la cagion de la sua morttì Nun.E//a se flessa uccise; E in quejio così misero accidente, Quel, che render potria più grave il duolo, Fora il veder con gli occhi il satto ifiesso, Che di veder nm lice; ma per quanto Potrà servirmi la memoria, a voi Narrerò gFinselici avvenimenti De la misera donna , la qual poi Ch'in casa entrata su, di sdegno ardendo, TJe la camera, ov'ella Dormir solca, con impeto fi trasse, E tutta suribonda, a se stracciando Con ambe man le chiome, vi fi chiuse Subito dentro, l'anima chiamando De Finsselice suo sposo già morto: E ripetendo la memoria antica Del figlio, che l'uccise, fi doleva, Ch'ei lasciata lavesse ji partorir del seme Del proprio figlio figli ; Maledicendo ti letto, osella avect Generati a se stessa Marito del marito, e figli al figlio. Dir non so poi, camelia al fin morisse Però che sopragiunto allora Edipo, Furioso, e gridando Cotf sì orribili voci, Che timor pose in tutti, ci ritrasse Da f ojservar più oltre il fine acerbo Di lei, gli occhi a"ognun volti in lui solo, Ch'or qua, or lh girandofi veloce, Non potea trovar loco, ove sermarfi: E che gli susser date armi chiedea Da ciascuno di noi; Cercando pur dove trovar potesse L'inselice sua moglie, non già moglie, Ma madre sua non meno, Che de gli proprìi figli. E mentre in 'tal maniera egli già tutto Fuor di se stesso suriando andava, Non so che spirto lo guidasse al loco , Dov'era la Reina, Però che alcun di noi, ch'ivi eravamo, Non gli ne diede indino: ov'egli giunto, Fuori mandando un paventojo grido, Come sufse da alcun percosso, o spinto, Diè con empito ejlremo entro a la porta; E svelto suora il chiavistel, s aperse, Correndo là, dovera posto il letto In parte pià rimota ; e vi trovammo Ad un laccio sospesa la Reina; La qual poi ch'agli vide, orribilmente A fremer cominciò; E la sune allargando, ondsera appesa, La se in terra cader. Quel, che dapot Ne seguì, su spettacolo a ciascuno Miserabile, e orrendo: però ch'egli Tcltd uria fibbía d'oro da la vssta Di lei, ci,'in .terra iiii giacea , con ejsd. Cominciojs a sorar gli occhi, gridando, Che mirar non potea mai pià nè lei) Nè i mali, cFei pativa, nè men quellt, Ch'egli commeffo avea.; e che volea Viver ne savvenir di luce privo, Ter non veder color, ch'era nesanda Cofa il vederli y e perchè quelli ancord Coaveffero et ussar seco , ei non potejse Riconoscere : e queste Voci ifieffe piu volte Reiterando, le palpere apertèt Gli occhi fi lacero spargendo il volto Tutto di sangue: il qual gìà non parea Ch'a stilla, a fitlla uscijse, ma che d guisd Tsatra pioggia scendejse. : . Nè tal calamità nata e da un solo1 Ma d'amho loro injttme, effendo misti, Et uniti i lor mali : e quella prima Loro felicita, che veramente Di tal nome era degna, oggi in vergognat In danno, in pianto, in morte sècangiata, E nel celmo maggior d'ogni gran maie, Che più esprimer fi poffa. Cor. Ma in che stato di male or fi rìtrovd Quelmisero, einselice} Nun.Eigrida,echiede Che gli s'apran le porte, acciò chei poffa Di suor mostrarfi a tutti i Cittadini , Sì come parricida, e de la madre i ( Ma non ardisco riserir parole . ^ . Così esecrande, et empie ) e poi partir fi Q. Fuor Ch'or ne gli occhi mi trovo, inesplicabile, Invincibile , e senza Rimedio alcun., ne mai Per aver fin, ma per durarmi eterna, Oimè, oimè, come m'affale a un tempo Isteffo il duol, ch io sento, e la memoria De le mie gravi colpe! Cor. Meraviglia non è, se in tanti mali Effendo immerso, è doppio il duol, che senti. Ed. 0 fidissimo a me più ch'altro amico, Pur mi staisempre a canto, e m accompagni ; E d'un misero cieco avendo cura, . Già mai non m abbandoni. Io ben conosco La voce tua, quantunque io non ti scerna. Cor, O che cosa nessanda hai tu commesso! Come mai ti sofferse il cor di trarsi Gli occhi in questa maniera } da qual Dio Fojsti tu stimolato ? Ed. Apollo, 0 amici , Apollo su, che m ha condotto in tanti Mali, e in queste angosciose, e gravi cure; Ma non m offese alcun gli occhi, suor ciuo Solo, che volfi sol trarglimi io stesso. A che me d'uopo più la luce, sto Nulla posso mirar, che più. mi giovi} Cor, Così e, combat detto. Ed. Che veder più, che più gradir mi resta} Che posi io più parlari che udir più mai, Che mi porga diletto} 0 amici tosto Fuor spingetemi in bando : Mostra sì sederato, e sì dannoso, E *} in odio a li Dei Lungi da voi scacciate. Q. 2 Cor. Ahi Cor. Ahi , che di doppio mal gravar ti senti Dal comprender tu stejso La tua calamità. Volesse il Cielo, Che conosciuto miti non t'aveji' io. Ed. Perir po(sa colui di morte acerba, Chel duro laccio a me da t piedi sciolse, E su cagion, che tra i filvestri paschi Ove gittata sui, morte campai. Obligo non gli ho alcun per così crudo Merto: tempo era allora, alltr tempo eraf Ch'io con leqgier mio duolo, e de gli amici Render salma potea. Cor. Ristesso anch'io Vorrei, eh'a te su (se avvenuto. Ed. Allora Macchiato non avrei le man nel sàngue Del mio misero padre, nè sarei Stato sposo di quella, che mi diede La vita: or io son misero, et essendo Nato di stirpe sederata, ebb'io Di chi mi genero prole ; e se male Alcun altro è maggior, tra quanti mali Son più gravi, et attroci, dir fi puote, Ch'in Edipo eçli fia. Cor. Non veggio come Approbar possa il tuo parer, poi ch'io Stimo meglio il morir, che'l viver cieco. Ed. Non tentar più di sarmi creder, ch'io Queste cose a ragion fatte non abbia. Con quali occhi avrei io là già ne i bassi Lochi di Stige il padre unqua potuto, O la madre mirar? così la pena Del mio grave peccato è in me maggiore, Che se ucciso io m'avessi appeso a un laccio. Ben il veder i proprii figli è cofa Dolcissima più ch'altra; ma ciò, quando Fiorisco» sì, che la lor vista al padre Possa accrescer diletto. Io potrei mai Queste mura guardar, 0 le sue torri, O l'immagini sante de li Dei} Di tutte quejste cose efsendom io Misero più eh'ogn altro, Che nobilmente sui nodrito in questa Città , spogliato , e privo ? Cd mio iste (so decreto commettendo, Ch'ognun l'empio da se scacciar dovesse, Che per sentenza de li Dei, e de la Stirpe di Lajo, su tenuto reo Di nessando peccato: avend' io questa Mia colpa a tutti omai satta palese, Come costor mirar potrei con occhio Dritto già maìì se de l'udito ancora Io potessi Spogliarmi in un con gli occhi, Otturerei gli orecchi a questo inssame Corpo, e vorrei de l'un, e s altro senso Rimaner privo in tutto. Però che l'esser senza senfi è dolce Sollevamento a i mali. Perchè , 0 Citero, già mi ricevejli ; O perchè ricevuto almen non darmi Subito morte 3 acciò che scoprir mai Non fi avesse potuto il mio lignaggio. O Polibo , 0 Corinto, 0 patria un tempo Falbamente tenuta mia, con quanto Splendor tra le Recali alte grandezze Me d'ogni impurità macchiato, e lordo Nodristc ? or scelerato esser mi trovo Di sederati nato. 0 tripartita Strada, o voi boschi ombrofi, o verdi selve, O stretto angusto loco, Ove son le tre vie , che già bevejste Il sangue di mio padre da me sparso Cori le mie proprie mani ; or vi rimembra De £e [celeratezze da me allora Commesse? e di quelle anco, ch'io, venendo Qua, commesso ho non meno ? o nozze , o nozze! Voi me qui generasìe, e generato Poscia, o sceleratezza, ritornaste Nel ventre de la madre il seine istejso, Concependo di lui parti nessandi. Fratelli, padri, e figli produceste D'un sangue iste (so, e d'un istesso ventre E nuore, e mogli, e madri, inimmifchianâo Tutto ciò, che più turpe, e più nessando Tra mortali fi stima. Ma le cose, Che son nel sarfi obbrobriose, sono Ne le parole poco oneste ancora. Deh celatemi tosto in qualche parte Fuor di qua, ve ne prego , o me uccidete E nel mar mi gittate, ovio non possa Esser ne l'avvenir più mai veduto Da voi: quest'inselice omai prendetey Ubbiditemi in ciò, nè vi ritegria Alcun timor: però ch'i mali, ch'io Sopporto, altro mortale uom non fia mai, Che possa tolerar. Cor. Ma ecco et viene Opportuno Creonte, Che far potrà quanto tu chiedi , e darti — Anco utile configlio, poscia ch'egli Sol Sol di questa Cittade in vece tua E' rimaso al governo. Ed. Ahi con qualsaceid Potrò parlarli? e quale Fede appresso di lui più aver poss'lo} Avendol io con tante ingiurie offeso ? Gre; Non vengo, Edipo, or qua per dileggiartif Nè per gittarti in occhio i proprii inali. Ma voi, se aver rispetta Pur non volete a gli uomini, vi innova Almeno a riverenza L'alto Nume d'Apollo, da cui tutte Le cose han nutrimento ; e non vogliate Espor dinanzi a gli occhi di ciascuno Questa sceleratezza, Che nè 7 mar, nè la terra, nè la luce Tolerera già mai. Lui dentro in casa Portate; poichè giusto è, che coloro, Che fon per sangue, e per natura uniti, Veggi an soli tra loro Le lor miserie, e l'odano essi solt. Edi Pascid eh io veggio apertamente quanto Falso il giudicio su, ch'io di te seci, Uorri di somma bontà y poichè con tale Benevolenza ad un sì sederato Or vieni, io ti protesto per li Dei, Che tu voglia ubbidirmi, perchè quello, Ch'io' ti cbieggio , appartiene Al tuo pfoprio interesse, e non al mio. Crei Che cosa è ciò $ che sì supplice chiedi Dd me, che ti fi saccia} Ed. Fuor scacciatemi subito di questa Città, me conducendo in parte, ov'io Q, 4 Véce Voce umani! non oda . '< •\ \ \ Cre. Fatto l'avrei fin or, quando pensato "Non m ave fs ' io di chieder a li Dei Ciò che sar sen dovssse. Ed. Ma di questo Già f Oracolo avesti, che comanda, Ch'io parricida, et empio sta distrutto , E mandato in ruina.. . . Cre. Vero è, che cio fu da sOracol detto ; Ma si come ii birogno or ci richiede, Fia constglio prudente il ricercarne Ciò che sen debba sar. Ed. Di nuovo dunque Ricercar per me misero volete Gli Oracoli divini} Cre. La tua trista Fortuna, e questa tua miseria , sorza Averà di lottrar con più chiarezza Il voler de li Dei. Ed. Ti esorto, e prego A providtr, che sta sepolta quella Mi 'era, che fi eiace in casa estinta, In qual guisa ti piace . Uste io è questo, Ch'u'ar conni enfi a te verso il tuo sangue; Me questa patria mia, mentre avro vita, Più non vedrà già mai : lascia ch'io .vada Ad abitar tra i monti, ove s'innalza Il mio Citero, quel che çià la madre Vivendo, e il padre infieme m'afsegnaro Per proprio mio sepolcro, acciò cih'iomuoja, Ove da lor fui destinato a morte. Che so ben io, che nè per peste io posso , Nè per altra maniera ejser ucciso. Nè da morte fin or sarei campato, Se non mi riQrbaffero li Dei A molto maggior male. Ma ne segua, Come già cominciò, mia dura sorte. Tu de la viril mia prole, o Creonte, Nulla cura averai, ch'uomini essendo, Non può loro mancar il vitto ovunque Andran: ma le mie misere sanciulle, Nate, oimt, per provar miseria eterna, Raccomandati, lajso. Non pr e ser elle mai cibo., che meco Non sedessero infieme a la mia mensa ; Ne vivanda assaggiar potel mai, ch io Non ne sessi a lor parte: or solamente Per cagion de le misere mi doglio. Ah lascia, eh ' io con le mie man le tocchi E le miserie lor pianga, e i lor mali. Fammene grazia, o Re, ti prego, figlio D'ottimi genitori: che s'avviene, Che toccarle pass io con queste mani Per tua cagion, mi parerà non meno Tenerle, di quel eh ' io già sar solea, Quando non era ancor privo di luce. Che dico ? non odo io la voce de le Mie carissime figlie, el pianto loro} Che pietoso di me Creonte i miei Dolci pegni d'amor qua m'ha condotto Sopra tutti a me cari? Non è ver ciò ch'io dico ? Crc. Il vero hai detta Ch''io stesso què presente a te le assegno, Memore essendo io ben quanto tu soglia Dilettarti di loro. Ed. Or sacciami beato ì Dei per quejìa Strada, che sì anfioso hai preso, e cura Abbia» di te più che di me non hanno. 0 Û figlie, dove sete ? omai venite, Appressatevi a queste man del vostro Frate, le quai trasser la luce al padri Vostro da gli occhi suori, * in guisa talt, Qual li vedete, gli guastaro: io venni A generarvi, o figlie, incauto e ignaro liel ventre di colei, che mera madre, Nulla sapendoti io. Piango, non vi vedendo, in vece vostra, Mentre in mente mi vien quani'aspra, e duri Vita ne l'avvenir menar dovete. Tra qual consorzio mai di Cittadini Andar potrete? a quai seste trovarvi? Ch'in vece di piacer non riportiate, A casa ritornando, Pien di lagrime il seno? Quando poi Giunte a l'età sarete , Che l'alme unirfi al matrimonio invita , Chi fia mai, che avvilir tanto consenta I proprj figli suoi, che fi contenti Porli a parte con voi de la vergogna, Che da li genitori e vostri, e miei Fora per nascer loro} che alcun male Non è da noi lontano ì Suo padre iste (so il padre vostro uccise, E con la madre sna misero giacque, Voi di lei generando, dal cut ventre Nato era prima anch' esso: A voi saran queste ignominie opposte. Chi fia dunque colui $ che voi per spose $ E per compagne del suo letto prenda? Non ne fia alcun già mai: misere* e .sole Vivretê ognor di matrimonio prive* O di Menezio figlio, poìchè solo Padre a îor sei rimaso, ambeduo noi, Da cui nate .son elle essendo estinti, Deh non lasciat, ch\lle mendiche errando Vàdano, e senza sposo, effendo teco Pur di sarigue congiuntei Non voler misurat con K miel malt L'innocenta di lor. Tu stejso vedi Di che tenera età son elle, e come Son d? ogni ajuto prive, quando loto Manchi il tuo patrocinio y ond' io ti pregO j Ch abbi di lor pietade. A questi miei Prieghi di consentir mojsttami segno, XJom di bontà pefsetta, e le ìnselici Prtndi pet mdn. Io d' insltuirvi , o figlie f Di molte cose avreì difio $ se fusse X' età vostra S) tenera capace D' alcun awertimento : ma li Dei Pregate pus ne i vojlri voti ognorat Che la sutura vostra vita fia Più di quella del padre almen selice. Cre* A bastanza bai tu p/arito, o Edipo, dove Ti trasporta il dolor ? deh vanne in casa. Ed. Ubbidirti convienMt in ciò, bencïìio Mio mal gtado lo saccia. Cre. Opra degna fi Jlima Vaccommodarst al tempo. Ed. Sai tu cil ch'io vorrei? Cte.Dilloi perch io Saper lo possa. Ed. Che lontan mi mandi Da quesla terra, e mi rileghi altrove. Cre. Quello mi chiedi tu, che già concejso T Tè da li Dei . Ed. In odio m hannoi Dei. Cre. Tosto avrai quanto brami. Ed. Ciò m'avermi per vero? Cre. Dir non soglio Già mai ciò ch'io no»'enta. Ed. Però quinci Fa che fuor tu mi mandi. C<"e. Or vanne dunque E le fiplie qui lascia. $À.Ah,ah ti prego, Che di lor tutte almcn tu non mi privi. Cre. Deb non cercar. più omai D'ogni tuo desiderio esser contento: Che t'hanno abbandonato i tuoi diletti, E tutto V ben, che per l'adietro avesti. Cor. O di questa mia patria incliti, e degni Cittadini, or vedete queslo Edipo, Che scioglier seppe gl'intricati enimmi De l'irritata Sfinge, uom d'eccellente Virfù, che mai non declinò dal dritta Sentier, nè per suror di Cittadini, N£ per jortuna prospera, e seconda; Ved.te in quanti tempestojfi stutti Di prosonda miseria or giace immerso} Però tu, che mortal sei nato, ognora E'ultimo dì risguarda; e alcun beato Non giudicar già mii, se pria nol vedi, . Senza percojsa di fortuna avversa, Giunto de la sua vita al fine estremo. **************** IL FINE. Distinzione della Tragedia. :? FU recitata da' Comici in questa Citta' nel seguente modo, sostituendo al Coro il Personaggio d'Eurnolpo. Atto Primo. Scena Prima. Edipo. Sacerdote. con truppa di giovinetti . Scena Seconda. Creonte. Detti. Entra Creonte alle parole di Edipo, . 0 amato mio congiunto. Atto Secondo. Scena Prima. Eumolpo. che dice i versi del Coro fino a quello, Quinci lungi scacciando. Scena Seconda, Edipo< Detti. Scena Terza. . Edipo. Detti. Il Coro susseguente si lascia. r Atto Terzo. Scena Prirria. Creonte. Eumolpo. Scena Seconda. Edipo. Detti. Scena Terza. Giocajia. Detti. . Al verso, Rimaner quel ch'io fui, Creonte via. Scena Quarta. GiocaJia. Edipo. Eumolpo. Atto Atto Quarto. Scena Prima. Eumolpo. dice i versi del Coro, de' quali si potrk tagliar qualche parte a piacere di chi dirigerà la recita. Scena Seconda. Giocasta. Detto, Scena Terza. Nunzio di Corinto, Detti. Atto Quinto, Scena Prima. Edipo, Eumolpo. Nunzio, Paslore, Scena Seconda. Eumolpo dice la parte del Coro, che potrà abbreviarsi secondo il genio. Scena Terza. Nunzio secondo. Detto, Al verso , Gf inimici suoi fieflì, s'apra l'Ori. zonte. Scena Quarta. Edipo, Eumolpo. Scena Ultima. Creonte con due sanciulle. Detti, g L'ultimo Coro si recita da Eumolpo. *

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