Saturday, May 26, 2012
L'"Edipo" di Tesauro (1661)
Speranza
L’originalità dell’"Edipo" (1661) di Emanuele Tesauro si scorge già dai primi versi, recitati in musica da Anfione, redivivo.
Anfione, l’antico fondatore di Tebe, noto per aver eretto le mura della città al suono della sua cetra, è richiamato sulla scena per introdurre con la Protasi l’azione della tragedia.
Con il suo lamento per le condizioni di Tebe, Anfione denuncia la condizione pestifera in cui è precipitata la città.
Il suo straniamento, espressionisticamente caricato con ossimori, giochi di parole, rime ricche, offre le condizioni di partenza per la tragedia: ambiguità e rovesciamento, che si riflettono, dal punto di vista retorico, anche nelle sue parole.
Di qui la difficoltà di cantare lo stato presente, che ha cancellato gli antichi splendori.
La storia di Tebe viene rivisitata dal suo cantore alla luce della sventura, e tutte le tappe sono rilette sotto il segno della catastrofe.
Ecco allora che Cadmo
spargendo l’ossa di un crudel dragone,
la velenosa messe
d’un appestato popolo ha raccolto
e che la cetra
flebile ordegno
trasse dall’Ato e Rodope, e Citero
le viscere animate,
all’eccelsa struttura di queste sacre, or esecrate mura.
La ricostruzione della vicenda di Tebe si arresta su Edipo.
Anfione individua nell’incontro con la Sfinge l’episodio critico da cui inizia il rovesciamento.
Momento tragico per eccellenza, lo scioglimento dell’enigma, collocato quasi in epigrafe, diviene la chiave di lettura della tragedia:
Maledirò quel sasso lagrimoso,
dove dal genitor e dalla morte
Edipo rifiutato,
col suo sagace ingegno
vinse, uccise, disperse il mostro alato:
e liberato il regno,
del patrio seggio incestuoso erede,
la rovina del regno ebbe in mercede.
Nell’incontro con la Sfinge si congiungono la liberazione e la rovina del regno.
Attraverso le parole di Anfione, Tesauro evidenzia l’analogia tra la storia di Edipo e quella di Tebe.
Edipo e Tebe infatti vedono capovolgersi la propria fortuna, nello stesso istante in cui credevano di essere finalmente sfuggiti alla necessità del male.
La funzione della Protasi si rivela dunque centrale nel tentativo di collocare nella giusta luce il personaggio di Edipo, mettendolo fin dalla sua prima apparizione in relazione con la peste.
In particolare, da questa introduzione emerge subito l’interesse dell’autore per l’episodio della Sfinge, visto come momento culminante della vicenda edipica e della storia di Tebe.
Si potrebbero addirittura rintracciare nella Sfinge le ragioni del fascino del mito per Tesauro.
Non soltanto perché Edipo deriva l’identità dallo scioglimento dell’enigma, in quanto è l’evento che segna il suo destino, ma anche in virtù del compiacimento del gusto barocco.
Dalla descrizione che Edipo offre del mostro, appare chiaro il legame con la mentalità secentista dell’autore, che si sofferma a osservarne, più che l’aspetto ferino, la molteplicità e il meraviglioso.
La Sfinge di Tesauro deve stupire, prima che spaventare, dimostrando soprattutto di corrispondere a un’arguzia, di essere un’arguzia fatta personaggio.
Nella rievocazione dell’episodio, Edipo indugia sull’osservazione analitica del carattere molteplice, del particolare, degli opposti, i doppi, le metafore, in ossequio a quel gusto barocco di cui Tesauro si è fatto interprete, prima ancora che rappresentante.
Mirai con fermo viso i visi orrendi
del tergemino mostro: e un corpo misto
di tre corpi nocenti: e di tre fiere
angue, donna, leon, fatta una fiera:
già contro a me arrotava i denti ‘ngordi,
già strepeva con l’ali, e già scalpendo
con le branche falcate il sasso infame
m’inghiottiva con gli occhi. Allor ardito
chiesi l’enigma: ella il cantò: lo sciolsi.
Onde pien di furor quel perfid’angue
si gittò dalla rupe; e tra le coti,
e le balze svenato, infranto e pesto,
rese al suolo tebano il teban sangue.
È subito chiara l’identificazione della Sfinge con l’indovinello, di cui è presentata quasi come emblema.
L’aspetto più evidente di questo parallelismo è nell’immagine della triplicità del mostro che rimanda implicitamente a quella dell’enigma, ancora sottolineando la comune natura tra molteplice e meraviglioso.
L’osservazione minuziosa della fiera si riverbera sullo sguardo volto al reale, che si rivela attento al particolare e al suo moltiplicarsi.
Ma quello che diverte maggiormente il trattatista barocco è la giustapposizione ludica di immagini convenzionalmente lontane tra loro, che porta alla creazione di entità mostruose e quindi affascinanti.
La Sfinge viene allora descritta proprio in rispondenza al suo essere mostruoso, e per questo arguto.
Nel "Cannocchiale Aristotelico", Emanuele Tesauro cita la Sfinge tra i corpi chimerici, nella categoria delle Argutie de’corpi figurati, come immagine favolosa creata dall’intelletto
«parendo che questa Scienza metta la Natura sottosopra, col mescolar le sostanze, che quella studiosamente divise».
Se l’indovinello condivide con la metafora la capacità di significare «un concetto per mezzo di un altro molto diverso: trovando in cose dissimiglianti la somiglianza», e come questa è in grado di far «vedere in un Vocabulo solo, un pien teatro di maraviglie», per le stesse caratteristiche entra in relazione con la Sfinge.
La Sfinge, come tutti i mostri, è una delle argutezze della natura «oltre ogni credenza ingegnosissime, e degne di ammirazione anco a’Filosophi».
I mostri «altro non sono, che misteriosi Hieroglifici, e Imagini facete, figurate da lei [la natura] ò per ischerno, ò per documento degli Huomini».
Applicando il suo ingegno in queste creature, che la mostrano «arguta e faceta» , la natura non opera a caso, ma se ne serve come di un «capriccioso Emblema», per significare tuttavia concetti morali all’uomo.
Infatti la natura partecipa dell’intelletto divino, essendo unione di «intelletto creante e […] materia creata: la qual non essendo ne infinita, ne perfetta: eccoti, che quanto di bene opera la Natura, si deve alla perfettione dell’Ingegno Divino: e quanto di male, alla imperfettione della materia. […]l’una, e l’altra in quanto sorprende l’opinione degli improvidi Mortali, si chiama Fortuna, e Caso.
L’essenza simbolica, e quindi metaforica della Sfinge, come degli altri esseri mostruosi, si ritrova anche nella descrizione di un’altra creatura prodigiosa, la
fenice,
che molto ha in comune con la cantatrice di Tebe, soprattutto per la sua natura chimerica.
Il meraviglioso uccello, che muore e rinasce dalle sue ceneri, affascina in modo particolare la curiosità barocca di Tesauro, che gli dedica diverse pagine della sua opera.
Portatrice dei simboli di eternità (della vita), maestà (nei costumi) e felicità (negli auspici), la fenice è una delle «raccontabili maraviglie della Providenza fedele».
Dalla descrizione fornita dall’autore nel Panegirico sacro per la nascita del principe di Torino, appare un’immagine che nel gusto per il doppio e per gli opposti ricorda quella della Sfinge.
Muore e rinasce un solo Uccello, omicida e ostetrice à se medesimo, e con angoscia che par di morte e è di parto […], mentre getta prodigamente la vita, la presta avaramente ad usura.
Nella duplicità e ambiguità di questa definizione si scopre un’affinità con l’enigmaticità della Sfinge, nel suo carattere di metafora di opposizione . Non soltanto nella fenice si congiungono istanze tra loro in apparente conflitto insanabile, ma proprio come nell’indovinello della Sfinge l’inconciliabilità verte intorno alla questione dell’età:
Chi spereria, che un termine angusto di poca vampa dividendo due vite, la vecchiezza con la Infantia congiunga in un suggetto; che della fiamma non sente se non la luce; e nella fiamma altro non perde che gli anni?
Nella fenice emerge l’aspetto di metamorfosi insito nell’enigma, che la rende contemporaneamente «Testatore e Herede, Figliuolo e Padre, Fattore e Fattura, altro e non altro» . L’analogia con l’enigma sta proprio in questa equivocità che rende la fenice se stessa e il suo contrario, come dice il Lattanzio citato da Tesauro: «Ipsa quidem, sed non eadem, quia et ipsa, nec ipsa est» .
Attraverso l’enigma la fenice entra in contatto, oltre che con la Sfinge, con Edipo stesso, con il quale condivide la condizione anfibologica. Potrebbe sembrare un parallelo azzardato, per quanto fondato sull’analogia retorica, se non ci fossero prove per l’identificazione all’interno della stessa tragedia. È proprio all’uccello meraviglioso che Edipo si paragona quando, stremato dalla scoperta della sua identità di incestuoso e parricida, arriva a desiderare pene infernali, per espiare mali non compensabili con la morte:
Ti converria morire ogni momento,
e ogni momento ritornar in vita,
per riparar con nuove morti i falli.
Ma troverò ben io supplicio eguale,
troverò via, ch’io non andrò fra l’ombre,
ma le porterò meco; e in lunga notte
vivrò morendo, e rimorrò vivendo.
L’identificazione con la fenice non desta stupore nella tragedia di un autore che dedica all’immagine molta parte della sua opera. Non soltanto essa è presente nel Cannocchiale dove ricorre come esempio arguto, Tesauro la assume anche come impresa personale. Nell’Idea delle Argutezze Heroiche vulgarmente chiamate Imprese, propone come modello da non imitarsi la sua «nigmatica Impresa […] pingente in un Campo oscuro e notturno, quel volante uccello chiamato […] MICROPHOENIX: il quale […] nella più folta Notte fa lume à se stesso con le sue Penne» . In questo senso allora l’identificazione di Edipo con la fenice potrà essere letta come una firma dell’autore alla sua opera, oltre che come un’ulteriore insistenza sull’enigmaticità del personaggio. D’altra parte è lo stesso Tesauro a suggerire il parallelo, quando, proponendo esempi di mirabile dovuto a metafore di opposizione, cita sia Edipo che la fenice. Entrambi rientrano infatti nell’àmbito della «rappresentation di due Concetti, quasi incompatibili, e perciò oltremirabili» , e per questo sono creature mostruose. Se la fenice colpisce l’immaginario barocco in quanto «rigenerendo se stessa mentre si uccide; rinasce ove muore: sempre altra, e sempre quella» , Edipo viene ricordato per «le strane affinità» contratte, che lo iscrivono tra i «Relativi enigmatici» :
Avi Gener, Patrisque rivalis fuit. Frater suorum Liberùm: et Fratrum Parens. Uno Avia partu Liberos peperit Viro: Ac sibi Nepotes: monstra quis tanta explicet?
Per questa caratteristica l’autore, anticipando tanta psicanalisi, ci suggerisce un ulteriore parallelo con Mirra, la quale, desiderando le nozze con il padre rischia di essere «et Matris Pellex et Adultera Patris», così come «Soror Nati, Genitrixque […] fratris» .
L’attenzione barocca di Tesauro si concentra sull’ambiguità dei rapporti familiari che rendono l’individuo doppio, anfibologico, in una parola enigmatico. Non è un caso allora, che nel libro delle Inscriptiones che riporta la Patriarcharum Genealogia, Tesauro identifichi Adamo, «terrae Filius», con l’enigma. Il progenitore del genere umano si presenta nella complessità delle sue relazioni familiari, che lo rendono ambiguo risultato di una giustapposizione di ruoli tra loro inconciliabili.
Matrem habui, quae me habet.
Lignea Nutrix, sine lacte,
Virum me aluit, non Puerum.
Filiam non filiam Uxorem duxi,
Quae simul nata, et nupta,
Uno partu Nepotem mihi et Liberum genuit.
Da questa confusione che sconvolge l’identità, emerge l’enigmaticità di Adamo, che è padre e marito di una moglie, che gli dà figli e nipoti. La raccolta erudita di iscrizioni latine ci offre allora l’occasione per scoprire l’interesse di Tesauro per il mito edipico, fondato prevalentemente sull’identificazione di enigma e incesto. L’incesto è visto soprattutto come stravolgimento e intensificazione dei rapporti diretti. Come Adamo, Edipo deriva la sua ambiguità dalla coesistenza di diverse identità, che lo rendono padre e fratello dei suoi figli, figlio e sposo di sua madre. Edipo è l’enigma perché come nell’indovinello della Sfinge rappresenta la coincidenza in un solo individuo di realtà contrastanti, in quanto appartenenti a diverse identità. Per la stessa caratteristica egli entra in relazione con la Sfinge, che, oltre a cantare gli enigmi, appare come corpo chimerico.
Nella Poetica, Aristotele definisce il concetto di enigma come il «mettere insieme assurdità dicendo le cose reali», quello che Tesauro chiama «oratione ingegnosa, composta di più termini disparati». L’enigma è «l’ultimo, ma principalissimo e proprissimo parto del Mirabile», che trae il suo diletto da tre condizioni necessa-rie: «Unità nella diversità: Chiarezza nella oscurità: Inganno nella espettatione». La spiega-zione del primo punto è fondamentale per il rapporto di Edipo con la Sfinge attraverso l’enigma. Sembra pensare proprio all’eroe greco infatti Tesauro, quando dice che, in quanto «Mescolato di Metafore differenti», nell’enigma «tutti questi spropositi denno cadere à proposito; rappresentando un suggetto; quasi membra di nature diverse, componenti un Corpo monstruoso». L’enigma, da questa prospettiva, sarà allora in primo luogo la soluzione del conflitto insanabile tra le parti, e quindi preludio al tragico: l’omnis in unum.
Si può applicare con successo alla vicenda edipica anche la seconda definizione, trovando in essa la condizione della cecità del protagonista e più in genere l’ironia tragica da lui proverbialmente assecondata di fronte alla sua realtà enigmatica, di cui non riesce a sciogliere l’ambiguità: «la seconda proprietà è, che mentre tu l’odi, ti sembri tanto spropositato, tanto oscuro e difficile à indovinare che niuna cosa del Mondo paia poter esser quella […]. Talché l’Enigma quantunque paia offuscar l’Oratione, la rende però Dilucida: che è l’essenza delle Figure Ingegnose. Peroche tutte quelle Metafore disparate ti rappresentano circostanze di quel suggetto; che tu non haresti osservate, se il nome del suggetto havesti udito». L’enigma dunque offre la possibilità di osservare l’oggetto da diversi punti di vista, in una prospettiva quasi cubista ante litteram, che riflette l’instabilità e l’inquietudine della visione del mondo e il senso della relatività delle cose barocchi.
L’ultima condizione del diletto dell’enigma richiede che «non solamente ingombri il vero; ma ti faccia credere ch’ei significhi una cosa differentissima da quella che veramente significa» . Anche in questo caso si può ritrovare una certa somiglianza con la tragedia di Edipo, che effettivamente si lascia ingannare dall’enigma, convinto di interpretare correttamente i responsi dell’oracolo. L’apparenza sembra assecondare la sua decifrazione, ma, con la catastrofe, Edipo è costretto a ravvedersi, quando l’enigma si scioglie. «Il che all’uditore cagiona meraviglioso diletto, quando conosce il suo inganno, e applaude all’ingegno dell’Autore». Si nota in questa definizione un’ulteriore assonanza con il tragico, in particolare con la teoria della catarsi. Tesauro parla del piacere dello spettacolo scenico, in cui ogni personaggio diviene «Metafora parlante e Simbolo animato»:
Questa è la ragione, onde tanto ci dilettano etiamdio dolorosi oggetti; rappresentati nelle tragiche scene: che nel medesimo tempo ne piange la fronte, e gode il core. Peroché la imitation degli habiti passando all’occhio; e la imitation della voce passando all’udito: questi due sensi non ingannati nel proprio obietto, ingannano la fantasia: e questa delusa, muove le lagrime: le quali deluse dall’intelletto consapevole della fittione, generano quel mescolato affetto di gioia, e di tristezza.
Questa colorita teoria della catarsi tragica rimanda con forza all’immagine dell’inganno provocato dall’enigma. In entrambi i casi c’è una metafora che trae in errore i sensi, sciolta la quale, resta la soddisfazione dell’ingegno.
Alla stessa dimensione metaforica appartiene anche la Sfinge, che può essere considerata, oltre che argutezza della natura, anche arguzia prodotta dall’ingegno dell’uomo. Propriamente la Sfinge è un «Hieroglifico» dell’ingegno, che
sicome Iddio di quel che non è, produce quel che è: così […] di non Ente, fa Ente: fa che il Leone divenga un’Huomo, e l’Aquila una Città. Inesta una femina sopra un Pesce; e fabrica una Sirena per simbolo dell’Adulatore. Accopia un busto di Capra al deretano di un Serpe; e forma la Chimera per Hieroglifico della Pazzia.
L’ingegno secondo Tesauro accomuna l’uomo a Dio, nella sua capacità creatrice. Eppure, questo non basta a conferirgli la felicità, perché sebbene gli ingegnosi «hanno dalla Natura maggior’attitudine alle argutezze», spesso sono sfortunati, se non seguono le leggi della prudenza, che «conduce gli huomini alle dignità, e agli agi». La morale gesuitica di Tesauro fa da freno all’entusiasmo del concettista, portandolo a teorizzare la supremazia della prudenza.
Il rapporto tra prudenza e ingegno diventa molto interessante se indagato nella tragedia di Edipo.
Dalle parole di Tiresia scopriamo infatti che la colpa del solutore degli enigmi è proprio quella di aver confidato troppo nel proprio ingegno, credendosi per questo simile agli dèi.
La hybris di Edipo si è dunque cristianizzata in una mancanza di prudenza nei confronti degli ammonimenti divini.
L’uomo ingegnoso, colui che produce metafore e interpreta quelle degli altri, si è rivelato poco felice, proprio perché poco prudente.
Le arguzie umane sono prodotte, oltre che dall’ingegno, anche dal furore e dall’esercizio.
Il furore è «un’Alteration della Mente, cagionata ò da Passione, ò da Afflato, ò da Pazzia» , condizioni che acuiscono l’ingegno. Se le passioni sono all’origine di metafore argute perché muovono gli spiriti «facelle dell’Intelletto» , all’afflato si devono le «maravigliose visioni» dei profeti.
Nello stesso senso vanno intesi
gli oracoli,
dei quali
alcuni si rendevano per Afflato,
come nell’Antro Delfico, e nel Trofonio.
Dove persone illetterate e rozze, allo spirar di un’aura vaporosa di sotterra, precantavano cose maravigliose in arguti e misteriosi carmi di giusto e nobilissimo stile.
La pazzia, in ultima analisi, «altro non è che Metafora, la qual prende una cosa per altra».
Per questo «i Matti son di bellissimo ingegno; e gl’ingegni più sottili, come Poeti, e Matimatici, più son proclivi ad ammattire. Peroché quanto la fantasia è più gagliarda, tanto è veramente più disposta ad imprimersi li fantasmi delle scienze» che spesso divengono una «fantasticheria: e questa invecchiata, divien pazzia. Onde puoi tu conoscere in quanto fragil vaso quanto tesoro si serbi: poiché sì vicina all’insania è la sapienza».
La terza specie di uomini abili nell’elaborazione di arguzie è rappresentata dagli esercitati.
L’esercizio secondo Tesauro è un requisito fondamentale, al punto che potrebbe anche sostituire l’ingegno nell’attività arguta. In ogni modo la condizione migliore sarebbe quella dell’«ingegno congiunto con l’esercitio», proprio come nel caso di Edipo. Se risolvendo gli enigmi della Sfinge Edipo ha dimostrato l’abilità del suo ingegno, nel corso della tragedia egli si esercita ripetutamente sui «simboli arguti», quando gli vengono sottoposti i responsi degli oracoli da decifrare. E proprio in virtù dell’ingegno e dell’esercizio, egli vanta una superiorità sull’abilità arguta di Tiresia, che si basa, invece, sul furore profetico, quindi su una proprietà misconosciuta dall’intellettualismo di Edipo. Ma se Edipo si muove bene nel campo degli indovinelli con il suo sapere razionale, dovrà pur ravvedersi con gli oracoli, che, in quanto arguzie angeliche, e quindi trascendentali, competono maggiormente alle «maravigliose visioni» di Tiresia.
Pur essendo metafora dell’argutezza umana, la Sfinge viene vista come difesa del sapere divino dalle interpretazioni errate dell’«ottusa, e temeraria turba»:
Et perciò davanti alle porte de’Templi, solean collocarsi le Immagini delle Sfingi, per accennare […] che la Divina Sapienza si rivela a’ Sapienti per via di Simboli, e di Arguti Enimmi.
La Sfinge appare dunque come interlocutrice privilegiata dei «più felici e acuti ingegni, consapevoli de’ celesti segreti». L’abilità di questi uomini ingegnosi consiste nel penetrare il senso letterale, per appropriarsi del significato metaforico. La stessa abilità viene applicata nei confronti degli oracoli e dei sogni, che sono argutezze angeliche.
Accanto ai sogni e agli oracoli, nella tragedia del teorico dell’argutezza c’è posto anche per gli ostenti, l’ultima delle arguzie angeliche.
Detti anche argutezze geniali, gli ostenti sono apparizioni «rappresentate non alla imagination fallace, ma agli occhi fedeli, e vigilanti; in pegno delle cose future».
In questo senso può allora essere interpretata l’acquisizione, nella tragedia di Tesauro, della scena senecana dell’evocazione dell’ombra di Laio.
Nell’ambito dell’inchiesta sull’assassinio del re, Edipo consulta diverse volte le forze soprannaturali.
Dal primo pellegrinaggio di Creonte, arrivano le parole tuonanti della Sibilla, che condannano
un tebano uccisor del proprio padre […che] osceno ritornò là onde è nato.
L’oracolo diventa per il razionalista una dimostrazione di innocenza rispetto alla solo paventata eventualità di colpevolezza, vista la sua apparente estraneità al ritratto offerto.
Compiuti i sacrifici rituali per coglierne prodigi, Tiresia riporta un ulteriore responso, coincidente con il precedente, ma ancora avvolto nella sua oscurità riguardo al nome dell’individuo descritto.
L’indovino ora sa che il dio di Delfo parlando dell’oscenità del parricida, intendeva alludere alle «sacrileghe nozze» con cui «ha sovvertito / il dritto di natura, e delle genti», visto che si è reso figlio e sposo della madre. Ma se i sacrifici non ottengono la rivelazione dell’«abominando nome», né Tiresia è in grado di conoscerlo altrimenti, bisogna «eccitar dall’inferno il popol nero», per richiamare l’Ombra di Laio, poiché «infra morti e mortali altri non puote / nominar l’uccisor, fuorché l’ucciso».
Ecco dunque l’ostento, che, invocato con riti propiziatori e «carmi oscuri», entra in scena per emettere la sua condanna.
Un fuggitivo re morte mi diede,
dannato figlio, e uccisor del padre:
che del suo parricidio ebbe in mercede
il patrio seggio, e ‘l letto della madre:
fratel de’ figli, e di due scettri erede,
che armeranno fra lor cognate squadre.
Scacciatelo o tebani: il ciel si sdegna
contra voi, perché in Tebe Edipo regna.
Se anche il riferimento al passo analogo di Seneca è molto forte, l’intervento originale di Tesauro è comunque significativo. L’ombra della tragedia latina emetteva la sua condanna con parole chiare, che non lasciavano adito a dubbi. Dopo aver individuato ancora più ambiguamente e energicamente la colpa - «maximum Thebis scelus / maternus amor est» -, Laio identifica il colpevole,
rex cruentus, pretia qui saevae necis
sceptra et nefandos occupat thalamos patris.
Così, «magisque monstrum Sphinge perplexum sua» , è lo stesso Edipo a riconoscersi nella descrizione delle sue colpe:
Et ossa et artus gelidus invasit tremor:
quidquid timebam facere fecisse arguor.
Tesauro costruisce sull’apparizione dell’ombra di Laio un’immagine arguta, che si esprime attraverso metafore. I pochi versi concessi al defunto re di Tebe sono articolati in modo da sembrare ancora una volta un indovinello, di cui però si offre anche la soluzione.
Laio propone un enigma in cui si uniscono proposizioni contrastanti, chiaro nella sua oscurità, al punto che «quando ti viene detto, Egli è la tal cosa: tu dica subito fra te (come delle perfette pitture) ell’è dessa». Come da definizione, l’enigma di Laio propone «Metàfore disparate» che «rappresentano circostanze di quel suggetto; che tu non haresti osservate, se il nome del suggetto havesti udito». Offrendo anche la soluzione al suo indovinello, l’ombra di Laio si comporta come quegli ostenti presi in esame nel Cannocchiale, che fanno le parti «della Sfinge e dell’Edippo; proponendo il Simbolo, e insegnando a dichiararlo». Tiresia, che già una volta aveva cercato di nascondere nel suo silenzio l’orrore della colpa, sostiene la necessità della forma enigmatica per le rivelazioni di Laio. L’oscenità delle colpe di Edipo impone la loro segretezza. Come la sua identità indicibile si cela con metafore e detti arguti, di difficile interpretazione, così Edipo deve sfuggire alla vista della polis:
Ma esortalo a fuggir dalle infelici
mura di Tebe, e avviluppar fra l’ombre
due mostri infami, parricidio e incesto.
Nello stesso modo in cui aveva liquidato il «foglio fatale» con il responso della Sibilla, adesso Edipo affronta la risposta dell’ombra di Laio. Egli sottopone il nuovo testo scritto ad un’analisi puntuale, volta alla dimostrazione razionale della propria estraneità alle accuse. Se la prima volta la sua difesa si fondava sulle differenze di identità tra sé e il soggetto delle definizioni, in questo caso egli non trova attenuanti, se non l’inattendibilità degli informatori: «un forsennato e un cieco» .
L’ostinarsi di Edipo a non riconoscersi negli oracoli entra in collisione con la coscienza dell’intimo rapporto che lo lega all’enigma. Se nella lettura degli oracoli si dimostra piuttosto superficiale e disattento, egli è comunque abile con gli enigmi, e dimostra di esserne consapevole. Addirittura egli prova a sostituirsi all’indovino, quando, a Creonte che gli ricorda che «Propio è d’Apollo avviluppare i detti», risponde che «Propio è d’Edipo sviluppare enigmi». Pur essendo cosciente del proprio legame con l’enigma, che diventa la sua dimensione caratterizzante, Edipo non riesce ad accorgersi della propria enigmaticità, finché non la scioglie. Questa difficoltà è chiara quando l’Oratore gli rivela che Merope non è sua madre, dicendogli che, se anche si congiungesse a lei in matrimonio, la madre non sarebbe sua sposa. La reazione di Edipo dimostra la sua inettitudine di fronte agli enigmi della vita:
Questo non intend’io: con tal enigma
m’avria la Sfinge avviluppato, e vinto.
Non importa che egli non sia in grado di comprendere gli enigmi, è fondamentale però che si riconosca con l’enigma. Edipo sa di essere l’interprete, ma sa anche di essere coinvolto nell’enigmaticità. I segni divini si sono presentati in modo incomprensibile e arguto, deviandolo dalla giusta identificazione, proprio come in un enigma, che «sembri tanto spropositato, tanto oscuro e difficile à indovinare» . Ottenute le informazioni necessarie per il riconoscimento, tutto appare chiaro, e anche gli oracoli diventano comprensibili:«in questi fogli, / scritti sono i delitti, e ‘l fier decreto».
L’apice di questo percorso attraverso l’enigma si raggiunge però nel quinto atto, quando l’identificazione di Edipo arriva a livelli esponenziali. Intanto egli sceglie come supplizio per espiare le sue colpe oscene una pena metaforica, che con la cecità rappresenta la vita nella morte e la morte nella vita. L’inevitabile identificazione con la fenice arricchisce ulteriormente la sua immagine di enigmaticità, caricandola di nuovi significati ossimorici. Ma il culmine del processo si ha con la prima entrata in scena dopo l’accecamento. A catastrofe avvenuta, quando ormai non c’è più niente da sapere, perché tutti gli elementi sono emersi, Edipo diventa l’enigma. O meglio, si presenta come tale. Nel momento in cui si svela la sua identità, egli sceglie di nasconderla nell’oscurità dell’indovinello, come aveva consigliato Tiresia. Con la scoperta dei suoi delitti orrendi, Edipo decide per un ritorno alle origini, simbolicamente rappresentate dal Citerone, il luogo dell’esposizione al suo destino osceno, ma anche dalla Sfinge, l’incontro che ha deciso della sua vita.
La Sfinge non solo gli ha segnato l’esistenza offrendogli il trono e le nozze, essa in più è diventata la sua impresa.
Spignetemi alla rupe, onde la Sfinge
balzò se stessa: e su quel sasso infausto
fatto Sfinge più fiera, a’ passeggeri
reciterò questo implicato enigma:
«Genero all’avo io son; rivale al padre;
fratel de’ figli miei, padre a’ fratelli;
e de’ nipoti miei l’avia fu madre».
Io stesso rimarrò da sì confuso
e intricato parlar, confuso e vinto.
E di vergogna, e di stupor perplesso,
mi lancerò da quello scoglio istesso.
Il nuovo enigma genera confusione, perché rappresenta il mistero di cui si è fatto portatore l’eroe tragico. Edipo non ha saputo sciogliere l’«intricato parlar» che lo rappresentava, nonostante le sue acclamate abilità interpretative.
È proprio il mistero allora a diventare la sua dimensione caratterizzante, trovando nella Sfinge la sua «perfettissima impresa». Nel Cannocchiale Tesauro indica l’arte delle imprese come «la più nobile» e «la più difficile: richiedendo Erudition pellegrina, ma intelligibile, nella Propietà: acutezza Laconica nel Motto arguto; e un velocissimo anz’istantaneo volo dell’intelletto nell’accoppiamento del Motto con la Propietà; e della Propietà con la Persona».
Poiché «nella perfettissima Impresa si deve aggiugnere il Motto alla Figura», per ottenere la massima perfezione e argutezza, visto che il motto «serve di guida all’Intelletto», con il nuovo indovinello Edipo ne offre una prova, da utilizzare come epigrafe alla sua impresa. Pur essendo più volte entrato in collisione con l’immagine della Sfinge, questa da sola non bastava a chiarire l’identificazione. Perché la Sfinge, corpo chimerico e perciò mostruoso, doveva rappresentare oltre alla giustapposizione ossimorica dell’enigma, anche la sua essenza, cioè il parricidio e l’incesto, con il loro stravolgimento dei ruoli. A questo scopo serve un motto arguto, che offra la chiave dell’accostamento metaforico, per penetrare il «Concetto Intelligibile». L’impresa d’altronde è un procedimento comparativo, che si serve di un tramite per stabilire il paragone.
Edipo offre questo termine di paragone proprio nel nuovo indovinello, che illustra appunto il suo rapporto con l’enigmaticità, dimostrandolo enigma egli stesso. Egli, che è genero del nonno, fratello dei figli e padre dei fratelli, nonché sposo di sua madre, per la sua «unità nella diversità» - l’omnis in unum - diventa enigma. Ma l’accostamento di proposizioni contrastanti, che lo rende metafora di opposizione e quindi oggetto del mirabile, lo fa partecipare anche della mostruosità della Sfinge. In questa prospettiva Edipo è soprattutto un mostro, e in quanto tale simile alla Sfinge. Per entrambi si può infatti pensare che l’intelletto «metta la Natura sottosopra, col mescolar le sostanze, che quella studiosamente divise». Il corpo chimerico della Sfinge diventa dunque impresa di Edipo per via della sua mostruosità, che a sua volta trova un corrispettivo nell’enigma.
Proprio come Adamo, personaggio della Patriarcharum Genealogia, Edipo si appresta a recitare il suo enigma ai passanti. In questo senso allora, il suo indovinello può essere interpretato proprio come un’epigrafe, un’iscrizione appunto. Acuto, ricco di equivoci e costruito con una struttura antitetica, esso si presta a divenire il motto arguto della perfetta impresa.
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ReplyDeleteWith gratitude to Valeria Merola, who wrote the notes above in "Esperienze letterarie", Macerata.
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