Wednesday, August 1, 2012

La collezione RONDININI, Roma

Speranza

Tutti conoscono due famosissime opere d‘arte che appartenevano alla collezione Rondinini - sarebbe questo il nome corretto e non il più diffuso "Rondanini" - sculture che ispiravano artisti e poeti e che portano ancora oggi il nome degli ex-proprietari.

La 'Medusa Rondanini' (fig. 1A), copia romana di prima età imperiale da originale bronzeo greco del V secolo a. C., acquistata nel 1811 dal Principe ereditario Ludwig di Baviera per la Gliptoteca di Monaco (inv. 252; Ernst Buschor, Medusa Rondanini, Stuttgart 1958)

La ,Pietà Rondanini‘ (fig. 1B), ultima opera di Michelangelo passata solo nel 1952 dai conti Sanseverino-Vimercati (dal 1904 al 1946 proprietari del palazzo Rondinini a Roma, Via del Corso) al Comune di Milano e collocato nel Castello Sforzesco.

A noi sembra quasi scolvogente il fatto che nell‘inventario delle sculture della collezione Rondinini, compilato nel 1807 da uno scultore, Carlo Albacini, che l‘insigne opera, il testamento di Buonarroti al quale lavorava nel 1564 ancora sei giorni prima di morire (cf. Charles De Tolnay, Michelangelo, vol. 5: The Final Period, Princeton 1960 p. 154-157), non fu riconosciuta autografa e stimata solo 30 piastre, mentre per la 'Medusa Rondinini' nel 1811 venivano richiesto 6000 piastre e pagato 3500 (insieme a un rilievo bucolico, ora Gliptoteca inv. 251, fig. 23B, e una testa del cosidetto 'Brutus', ibid. inv. 323, fig. 25B tris).

Va detto che il prezzo richiesto per la Medusa dal marchese Capranica, uno degli eredi del marchese Giuseppe Rondinini (1725-1801), fu considerato esagerato e così appare ancora oggi il prezzo definitivo (comunicazione orale Prof. Raimund Wünsche, direttore delle Antikensammlungen di Monaco di Baviera).

L'agente del principe Ludwig, il pittore Johann Martin Wagner scrisse in una lettera del 13 Agosto 1811: „Allein wenn eine Mascke 6000 Scudi kosten soll, was soll eine ganze Statue von dieser Arbeit kosten?„ ("Ma se una maschera dovrebbe costare 6000 Scudi, quanto dovrebbe costare una statua intera di questo genere?" (citato in: Raimund Wünsche, Ludwigs Skulpturenerwerbungen für die Glyptothek, in: Glyptothek München 1830-1980, Ausst.Kat. München 1980 p. 37). - La Pietà di Michelangelo invece (della quale non si conosce la data d'acquisto da parte della famiglia Rondinini, sicuramente dopo il 1662 in quanto non nominato nell'inventario di quel anno) fino al 1920 ca. era collocata praticamente all‘aperto, nell‘androne di Palazzo Rondinini al Corso; l'inventario del 1807 la descrive così.

„In mezzo all‘intercolumnio dell‘Ingresso vi è posto un gruppo moderno abbozzato che si dice opera di Michele Angelo Buonaroti, ma si conosce essere stato un equivoco, il medesimo rappresenta una deposizione dalla Croce e si valuta 30 piastre„ (citato in: Luigi Salerno, Palazzo Rondinini. Con un catalogo dei marmi antichi di Enrico Paribeni, Roma 1965 p. 304).

In confronto due quadri del pittore settecentesco Joseph Vernet furono stimati 1.500 piastre, la statua di una Igea seduta 800 piastre (Salerno-Paribeni 1965 op.cit. p. 295, p. 308; per la statua di Igea cf. Giuseppe Antonio Guattani, Monumenti antichi inediti ovvero Notizie sulle antichità e belle arti di Roma per l'anno MDCCLXXXVII, Novembre 1787 p. LXXXI-LXXXII, tav. I). 
Ma poco si sa sulla collezione stessa, sia su quella dei dipinti, ancor meno su quella delle antichità - di cui vorrei occuparmi concentrandomi su alcuni pezzi significativi e possibilmente già appartenenti ai Rondinini nel Seicento. Fra altro proprio in quel secolo la famiglia ebbe la sua maggior fioritura. -

Siccome sulle antichità tuttora esistenti nel palazzo Rondinini a Roma in Via del Corso Enrico Paribeni nel 1965 ha redatto un catalogo completo, parte di una monografia di Luigi Salerno sul palazzo (Salerno-Paribeni 1965 op.cit. p. 159-274) preferisco porre l‘accento sulle sculture antiche disperse ormai da due secoli, immediatamente dopo la morte (1801) dell‘ultimo Rondinini, il marchese Giuseppe, appassionato collezionista in contatto con antiquari ed eruditi come il Cardinal Alessandro Albani e Johann Joachim Winckelmann.


Infatti mio contributo è un estratto da un „work in progress„ consistente in uno studio sulle collezioni di antichitá, sopratutto romane, con particolare attenzione alle opere d‘arte nominate da Winckelmann nelle varie pubblicazioni e nei manoscritti di Parigi e Firenze (Brigitte Kuhn, Italienische Antikensammlungen und Winckelmann, Mainz, Von Zabern, in preparazione).

E la collezione Rondinini e il suo proprietario, Winckelmann li conosceva bene.

Racconta di essere suo amico, e che il marchese Rondinini, personaggio schivo e in genere poco propenso a far visitare i suoi tesori, gli aveva dato persino il persino di studiare le iscrizioni nelle cantine del palazzo (cf. Winckelmann, Briefe. In Verbindung mit Hans Diepolder hrsg. von Walther Rehm, Berlin 1952–1957, vol. I p. 383 no. 222: lettera del Luglio 1758 al mecenate Bianconi). Winckelmann nelle sue lettere e in altre opere, sopratutto nella Storia dell'Arte del Disegno (prima edizione tedesca Dresda 1764), parla più volte delle antichità Rondinini. Non trascura neanche la raccolta di pittura (che annoverava opere di artisti famosi dal Quattro- al Settecento, cf. infra, purtroppo anch'esse in gran parte disperse), per la quale è pieno di lode: "... Palazzo Rondinini al Corso, ove il Padrone medesimo mostra li marmi ed i Quadri a chi viene in mio nome. Fra i Quadri è uno Schizzo di Giudo, il quale è un capo di opera nella pittura e merita annoverarsi fra le cose più belle di Roma" (Winckelmann, Briefe op.cit., vol. IV no. 8 p. 42, Luglio 1766) (in realtà non si tratta di un'opera di Guido Reni - così ancora nell'inventario del 1807, cf. Salerno-Paribeni p. 284 no. 32 - bensì di un bozzetto dipinto a olio su tela, raffigurante una 'Lucrezia' del romagnolo Guido Cagnacci [Canlassi; 1601-1663], ancora nel Palazzo Rondinini; cf. Marina Marinelli, Il Nuovo Circolo degli Scacchi, Roma 1990, tav. VI).

Per i Monumenti antichi inediti del 1767 Winckelmann fece disegnare ben cinque pezzi della collezione come vedremo (vol. II, frontespizio; no. 67, 103 150, 192). Come frontispizio del secondo volume scelse un rilievo con la nascita di Atena (fig. 2A), ora - diviso in due lastre - nelle Staatliche Museen a Berlino (fig. 2B, 3B), da Winckelmann (Geschichte der Kunst des Alterthums, 2. ed. Wien 1776, p. 164) descritta come „eine schöne griechische erhabene Arbeit des Marchese Rondinini, wo er [sarebbe Hephaistos/Vulcano] dem sitzenden und von der Pallas schwangeren Jupiter bereits den Schlag zur Geburt gegeben hat„. Vulcano dopo aver dato con un maglio un colpo alla testa di Giove per far uscire Atena, sta correndo via svolgendo la testa indietro verso il dio seduto. La figura è la replica di un puteale di età flavia conservato nel Museo Archeologico di Madrid (LIMC VII p. 290 no. 73; rilievo di Berlino: ibidem no. 73a). Il rilievo venne acquistato nel 1808 dal pittore, poeta e agente Friedrich Müller detto „Maler Müller„ (1749-1825) e venduto a Wilhelm von Humboldt, erudito e collezionista, fino a quell‘anno ambasciatore prussiano a Roma.

Humboldt lo portò nel suo Castello di Tegel (Ingrid Sattel-Bernardini, Friedrich Müller, detto Maler Müller, e il commercio romano d'antichità all'inizio dell'Ottocento, in: Bollettino dei Monumenti, Musei e Gallerie Pontificie 13 1993 p. 127-159, p. 157 Nr. 53), insieme con un altro rilievo Rondinini rappresentante le tre parche (moirai) (fig. 2A bis).


Il libro di Salerno e Paribeni (op.cit.) ha il merito di includere due inventari dettagliati (del 1662 e del 1807) scoperto da Salerno nell‘Archivio di Stato a Roma (1662: Miscellanea Famiglie, busta 7; 30. - 1807: Notai Capitolini, Francesco Parchetti. Ufficio 10, anno 1809), che sono di aiuto nella ricerca delle opere d‘arte disperse. Paribeni (op.cit. p. 269-270) accenna anche ad alcuni di queste sculture antiche emigrate da Palazzo Rondinini, talvolta erroneamente come nel caso di una Venere accovasciata del tipo Doidalsos (fig. 3A) che egli suppone nei Musei Vaticani ma che in realtà si trova nell‘Ermitage di San Pietroburgo (Inv. A 370 K 351; cf. Oskar Waldhauer, Die antiken Skulpturen der Ermitage, vol. III, Berlin-Leipzig 1936 p. 14 no. 237, fig. 17), passata dal marchese Rondinini per eredità alla famiglia Origo, in seguito alla prestigiosa collezione Campana e da lì intorno al 1860 in Russia. Il gruppo è molto restaurato, in pratica solo i due torsi, la gamba destra della Venere e una coscia del Cupido sono antichi. 
L‘antiquario Giuseppe Antonio Guattani il quale fra il 1786 e il 1788 pubblicò una ventina di sculture antiche della collezione Rondinini, nei suoi Monumenti antichi inediti ovvero Notizie sulle antichità e belle arti a Roma, illustrò il gruppo statuario da due punti di vista (Luglio 1788, tav. II-III; fig. 4A, fig. 4B). Nell‘inventario del 1807 viene indicato il posto d‘onore dove era stata collocata la "Venere rinicchiata": nella galleria di Palazzo Rondinini dentro una nicchia, ma la statua in quella data non era più in situ (Salerno-Paribeni op. cit. p. 311).

Altre due monografie su Palazzo Rondinini al Corso, una pubblicata nel 1983 (Palazzo Rondinini. Testi di Franco Borsi, Gabriele Morolli, Cristina Acidini Luchinat, Roma 1983) con un contributo di Cristina Acidini Luchinat sulle collezioni (pp. 108-119), l‘altra nel 1990 (Marina Marinelli, Il Nuovo Circolo degli Scacchi, Roma 1990, p. 63-119) si dedicano in primo luogo alle vicende costruttive del palazzo, agli arredi, ai dipinti, solo marginalmente alle antichità.

Nel libro della Marinelli i pezzi antichi elencati si limitano alla famosa Medusa e ad un curioso globo celeste marmoreo decorato con stelle e un nastro con i segni dello Zodiaco, ora al Vaticano (inv. 784; fig. 5A), opera del III secolo d. Cr. (Amelung, Vat.Kat. II, Berlin 1908, p. 59-531 no. 341; Giandomenico Spinola, Il Museo Pio-Clementino, vol. 2 [Guide Cataloghi dei Musei Vaticani 4], Città del Vaticano 1999 p. 117 no. 91). Nell‘inventario del 1807 redatto dallo scultore Carlo Albacini leggiamo che un tempo si credeva addirittura che provenisse dall' "obilischo solare di Augusto", cioè dal gnomos del Horologium Augusti in Campo Marzio; ma Albacini riconosceva che era troppo piccolo "in proprozione della cima del detto Obilisco" (Salerno-Paribeni 1965 op.cit. p. 309).

Infatti i studi degli anni '80 condotti da Edmund Buchner sul Horologium Augusti riconoscono in una sfera del Palazzo dei Conservatori quella dell'obelisco di Augusto (Helbig4 II no. 1581; E. Buchner, Die Sonnenuhr des Augustus, Ed. Mainz 1982, p. 327 e tav. 110,2). - Siccome sulla sfera Rondinini la decorazione è distribuita solo sulla fronte, si può secondo Giandomenico Spinola ( Spinola 1999 op. cit. p. 117) piuttosto attribuirla ad una statua di Atlante, come l‘Atlante Farnese. Uno degli eredi Rondinini, Monsignor Giuseppe Zacchia, nel 1835 donò il globo al Museo Pio-Clementino.
Come si vede, a parte la pubblicazione degli inventari e del catalogo delle antichità tutt'ora esistenti nel Palazzo Rondinini del Paribeni nella bibliografia successiva si tratta solo di accenni e di appunti sparsi. Quindi una ricostruzione completa delle vicende della collezione, una volta celebre, un‘indagine approfondita sulla provenienza e sulla collocazione attuale delle antichità disperse sarebbero davvero necessarie. 
    
In un solo caso Paribeni è riuscito ad accertare la provenienza di una scultura, si tratta di un altare cilindrico con divinità infere nel vestibolo dello scalone (Salerno-Paribeni 1965 op.cit. p. 161, p. 226 cat.no. 39, fig. 129-130) illustrato nella Galleria Giustiniana (tav. 126).
Paribeni scrive (Salerno-Paribeni 1965 op.cit. p. 161): „La raccolta ebbe infatti brevissima vita che si trovò a coincidere con la vita stessa del marchese Rondinini„, che sarebbe il sopracitato Giuseppe Rondinini morto nel 1801 senza eredi diretti. In realtà la raccolta nasce già nel Cinquecento, e famosi pezzi come la Medusa di Monaco, il cosidetto rilievo di Menandro dei Musei Vaticani (fig. 14A; v. infra) e il 'Fauno Rondanini' ora a Londra (fig. 10A; v. infra) vengono citati già nel 1662 nel testamento di Felice Zacchia Rondinini.

Ma andiamo per ordine cronologico. La famiglia Rondinini, di origine lombarda, si era stabilita a Faenza prima del 1425, quando vi è documentato un condottiere Rondinini di Fosco (o dei Rondi). Nel Cinquecento due discendenti, i fratelli Andrea e Natale Rondinini, si trasferirono a Roma e ottennero la cittadinanza nel 1572.

Andrea intraprese la carriera ecclesiastica e divenne coadiutore del Cardinale Niccolò Sfondrato, poi Papa Gregorio XIV, a Cremona. È Natale (1540-1627) il fondatore della collezione. Era avvocato concistoriale adetto all'erario pontificio, perciò molto agiato. In Via Campo Marzio fece costruire un ampio palazzo ora demolito per esigenze del Parlamento (si trovava dove adesso c'è il parcheggio di Piazza del Parlamento), e vi raccolse una cospicua collezione di dipinti e di antichità (Salerno in Salerno-Paribeni 1965 op.cit. p. 29-31; Carlo Pietrangeli, Rione III - Colonna. Parte II [Guide Rionali di Roma 8], Roma 1978 p. 106-108). Nel testamento scoperto da Luigi Salerno nell'Archivio di Stato a Roma (Salerno-Paribeni 1965 op.cit. p. 30) ma non pubblicato, Natale lasciò tutto all'unico figlio maschio Alessandro imponendo però a quest'ultimo e ai suoi discendenti il vincolo fidecommissario, gesto tipico del collezionista - come sottolinea giustamente Salerno - il quale intende in questo modo impedire la dispersione della raccolta per divisioni ereditarie o per vendita, cosa che purtroppo si verificò all'inizio dell'Ottocento.
Circa un decennio dopo la morte di Natale nel 1627 Pompilio Totti nella sua guida Ritratto delle grandezze di Roma (P. Totti, Ritratto delle grandezze di Roma, Roma 1638 p. 329) descrive il primo palazzo romano della famiglia Rondinini e i suoi tesori: "E qui presso habita il Signor Alessandro Rondanino: si vedono diversi quadri di pittori famosi, statue di marmi antichi, uno studio di medaglie e intagli ...".

Alessandro - il suo ritratto in marmo fu eseguito da Domenico Guidi (1628-1701) allievo di Alessandro Algardi (fig. 6A; già nella collezione Federico Zeri) - era membro del Collegio dei Segretari Apostolici. Nel 1610 aveva sposato Felice Zacchia (1593-1667), che vediamo in un ritratto da anziana di sorprendente realismo, opera dello stesso Guidi, conservato nella Galleria Borghese (fig. 5B). Nella pubblicazione di Italo Faldi sulle sculture della Galleria Borghese (1954) il busto passava ancora come „anonimo, ritratto di vecchia dama„ (I. Faldi, Le sculture dal secolo XV al XIX, Roma 1954 p. 15-16, fig. 10); è stato identificato nel 1977 da Ursula Schlegel (Antologia di Belle Arti I 1977 p. 26-28).

La coppia ebbe nove figli; Alessandro morì nel 1639.

Felice Zacchia Rondinini proveniva da una nobile famiglia ligure proprietari del Castello di Vezzano. Era figlia e nipote di cardinali: suo zio era il cardinale Paolo Emilio Zacchia (1554-1605; fig. 7A: busto marmoreo eseguito da Domenico Guidi [Firenze, Bargello) da un modello in terracotta di Alessandro Algardi conservato al Victoria & Albert-Museum, cf. Jennifer Montagu, Alessandro Algardi, New Haven - London 1985, vol. II, p. 447 cat.no. A 182; ibidem p. 447-448 cat.no 182 B.1).

Paolo Emilio era nunzio apostolico in Spagna. Nel 1605 fu considerato papabile; ma era gravemente malato e nello stesso anno morì. Il padre di Felice, Laudivio Zacchia (+ 1637), da vedovo entrò nella Curia, divenne pro-tesoriere di Clemente VIII, cardinale, vescovo di Montefiascone nel 1605, infine maggiordomo di Urbano VIII Barberini (suo ritratto marmoreo si trova a Berlino, Staatliche Museen). Felice, donna di grande cultura e doti letterarie (Salerno-Paribeni op.cit. p. 31-32, da Antonio Zacchia Rondinini, Memorie della famiglia Zacchia Rondinini. Cenni storici e biografici. Documenti, Bologna 1942), sopravisse al marito quasi trent'anni, tenne le redini della numerosa famiglia, tra cui l‘importante cardinale Paolo Emilio Rondinini (1617-1668), dal 1653 vescovo di Assisi. Nel 1662, cinque anni prima di morire Felice Zacchia scrisse un testamento molto importante per la storia della collezione Rondinini in quanto i quadri e le sculture vengono finalmente descritte, persino la loro collocazione nei vari ambienti del palazzo di famiglia (Salerno-Paribeni 1965 op.cit. p. 279-282).
Per la precisione, non si tratta più del Palazzo in Via Campo Marzio, ma di un edificio cinquecentesco in Via del Pozzo delle Cornacchie nel rione Sant'Eustachio alle spalle di Piazza della Rotonda, appartenuto al cardinale inglese Wolsey, ben visibile nella pianta del Maggi del 1625 (fig. 8A). Paolo Emilio Rondinini l'aveva acquistato dopo la sua nomina a Cardinale Diacono nel 1643 (Ferruccio Lombardi, Palazzi, Palazzetti, Case. Progetto per un inventario 1200-1870, Roma 1992 p. 365 no. 28). Ancora oggi Palazzo e Piazza portano il nome 'Rondanini'.


Luigi Salerno (Salerno-Paribeni 1965 op.cit. p. 31), analizzando i dipinti elencati nel testamento di Felice Zacchia - tutti di artisti operanti prima del 1620/30 (Bellini, Tiziano, i Bassano, Correggio, molti emiliani attivi a Roma: Carracci, Domenichino, Reni, Lanfranco), mentre i quadri di Pietro da Cortona, Salvatore Rosa e Gaspard Dughet non sono ancora presenti - arrivò alla conclusione che la collezione di Natale Rondinini non fu incrementata dal figlio Alessandro. Per questo motivo e per il fatto che il Cardinale Paolo Emilio Rondinini morì un anno dopo sua madre nel 1668, ritengo molto probabile che "lo studio di medaglie e intagli" nominato dal Totti nel 1638 nel primo Palazzo Rondinini in Via Campo Marzio contenesse già prima del 1627 - data della morte del fondatore Natale Rondinini - una gemma nel doppio senso della parola, intaglio e oggetto di primo ordine della collezione: un intaglio in diaspro rosso (3 x 2,5 cm) raffigurante il busto di una Pallade, firmato da Aspasios, copia fedele di prima età augustea della Athena Parthenos di Fidia come descritta da Pausanias (Roma, Museo Nazionale, inv. 52382; fig. 9A), che ha sempre goduto della massima celebrità ed è stato riprodotto dal Seicento in poi in numerose stampe, per esempio dal Bellori (1685) nella sua opera Imagines Veterum illustrium Philosophorum Poetarum Rhetorum et Oratorum Ex vetustis nummis, gemmis, hermis marmoribus, aliisque antiquis monumentis desumptae (Romae 1685, pars tertia, tav. 73; fig. 6B). Bellori indica la collocazione „apud D.D. Rondaninos„, e dà per la prima volta l‘identificazione giusta in alternativa a quella erronea di Aspasia, donna amata da Pericle (così precedentemente Giovan Angelo Canini, Iconografia cioè disegni d‘Immagini di Famosissimi Monarchi, Regi, Filosofi, Poeti ed Oratori dell‘Antichità, tav. 92;): Bellori scrive „Aspasia Periclis sive Pallas Dea„.


Winckelmann nel paragrafo „Anzeige einiger der schönsten geschnittenen Steine„ (Indicazione di alcuni dei più bei intagli) della sua Storia dell‘Arte del Disegno ( 2. Edizione tedesca, Vienna 1776, p. 553; anche Winckelmann, Briefe op.cit., vol. II, p. 56 no. 332; vol. III, p. 409 no. 332) mise la gemma di Aspasios al primo posto. Gabriella Bordenache Battaglia, in un approfondito studio apparso nel 1990 (La gemma di Aspasios, in: Bollettino di Numismatica 14-15 1990 p. 219-246, in particolare p. 224, p. 229, p. 238) ricostruisce i molteplici, quasi avventurosi passaggi di questo capolavoro della glittica da un proprietario all‘altro, dalla collezione Rondinini a quella del Cardinale Pietro Ottoboni, avvenuto prima del 1724, anno della pubblicazione dell'opera di Philipp von Stosch Gemmae antiquae caelatae scalptorum nominibus insignitiae. Pierres antiques graveés sur lesquelles les graveurs ont mis leur nom (Amsterdam 1724, tav. XIII; fig. 6B bis), quando si trovava già presso il cardinale collezionista allora residente nel palazzo della Cancelleria. 
Dopo il 1740, data della morte del card. Ottoboni, l‘acquistò Joseph Angelo de France, collezionista e fino al 1780 direttore del Münz- und Antikenkabinett del Museo Imperiale di Vienna. Nel Museum Francianum (Catalogo di F.W. Reiz, Descriptio Musei Franciani, s.a.) lo cita Domenico Augusto Bracci nelle Memorie degli antichi incisori che scolpirono i loro nomi in gemme e cammei apparse con molto ritardo nel 1784 (vol. I, Firenze 1784, p. 57, tav. XXIX). Per dono o vendita da parte del De France l‘intaglio giunse nel Museo Imperiale di Vienna prima del 1758/1760: nel catalogo della collezione del barone Philipp von Stosch redatto da Winckelmann (Description des pierres gravées du feu baron de Stosch, Florence 1760, p. 61-62 no. 190) viene indicato la nuova collocazione. - Il passaggio dal Kunsthistorisches Museum di Vienna al Museo Nazionale Romano avenne nel 1923 in seguito, bisogna dirlo, ad una indicazione di provenienza erronea fatta nel lontano 1884 da E. von Sacken, già co-autore di un catalogo del Münz- und Antikenkabinett di Vienna (1866). In un lungo articolo (Die Aspasios-Gemme, in: Jahrbuch der Sammlungen des Allerhöchsten Kaiserhauses II, 1884, p. 22) von Sacken ipotizzava („Ich kann vermuten„) la provenienza della gemma dalla collezione Medici: sarebbe giunta a Vienna da Firenze con l‘ereditá di Francesco di Lorena, morto nel 1765. Tale eredità portò effettivamente un cospicuo arricchimento al Gabinetto numismatico di Vienna (cf. Bordenache Battaglia 1990 op. cit. p. 236-237). In questo caso però si tratta di uno sbaglio evidente, perché 1) la gemma era già stata indicata a Vienna dal Winckelmann nel 1760, e 2) perché non era mai stata documentata nel tesoro dei Medici.

Nonostante ciò nel trattato di St. Germain del 1919, quando l‘Italia impose all‘Austria la restituzione di tutti gli oggetti e manoscritti „asportati in violazione del diritto delle provincie italiane„, la Toscana chiese a parte „i gioielli della Corona ... i gioielli privati della Principessa elettrice dei Medici, le medaglie componenti l‘eredità dei Medici, mobilio e servizio da tavola in argento dei Medici E LA GEMMA DI ASPASIOS, in pagamento dei debiti della Casa d‘Austria verso la Corona di Toscana.„ La città di Firenze fece istanza che l‘intaglio della Athena Parthenos venisse assegnato alle collezioni medicee, ma non essendo citato in nessuno dei inventari settecenteschi benchè molto accurati, il Consiglio Superiore lo donò al Museo Nazionale Romano, dove si trova dal 1923; in fin dei conti una decisione giusta visto la provenienza dalla collezione Rondinini. 

Fin qui i vari passaggi della gemma di Aspasios egregiamente ricostruiti dalla Bordenache Battaglia. Per quanto riguarda la durata della sua permanenza presso il primo proprietario, la famiglia Rondinini, l‘autrice evidentemente poteva solo fissare un Terminus antequem: la prima riproduzione grafica nell‘opera di Giovan Angelo Canini del 1669 (op.cit. tav. 92; Bordenache Battaglia op.cit. fig. 5) che la cita con il nome di „Aspasia„ come proprietà Rondinini. L‘autrice scrive (p. 224) che "almeno dal 1669" faceva parte della collezione Rondinini e suppone "con un ragionevole margine di verosimiglianza, che essa sia stata scoperta proprio a Roma, su qualche terreno di proprietà del principe". Uno sguardo più approfondito sugli inizi della collezione ci permette adesso di presumere con ragionevolezza che fù proprio Natale Rondinini a inserirla nel suo „studio di medaglie e intagli" prima del 1627.

Il testamento di Felice Zacchia del 1662, almeno nella sua parte pubblicata, non ci informa sulla glittica della collezione Rondinini. - Conosciamo invece l‘inventario dei quadri e delle statue. Le sculture più importanti erano collocati „nella Galeria del S.r. Card.le„ nel palazzo vicino al Pantheon. E qui in primo luogo leggiamo: "Un satiro figura più che del Naturale che sta in atto come di saltare tutto antico, eccetto che in alcune parti ristorato da Fran.co Fiamingo [sic] con il suo piedestallo sta nella Galeria del S.r. Card.le" (Salerno-Paribeni 1965 op.cit. p. 281). Si tratta del 'Fauno Rondanini' (fig. 10A), torso e coscia destra antichi, integrato da Francois Duquesnoy detto Il Fiammingo (1597-1643), portato in Inghilterra da Thomas Shew Esquire nel 1826 e nello stesso anno acquistato dal British Museum (cf. Sir Henry Ellis, The Townley Gallery of Classic Sculpture in the British Museum, vol. I, London 1846 p. 238-239, fig. p. 238; A. H. Smith, A Catalogue of Sculpture in the Department of Greek and Roman Antiquities. British Museum, vol. III p. 56-57 no. 1655; altezza senza base: 5 feet 9 inches). Dato che il Fauno è piuttosto una scultura seicentesca, opera di un eccellente scultore come Duquesnoy, ora sta in deposito dal British Museum nel Victoria & Albert Museum. La statua, oggi quasi dimenticata, dal Sei- al Ottocento godette di alta considerazione: Sir Ellis nel catalogo delle antichità Townley al British Museum apparso nel 1846 ci informa che il „Rondinini Faun„ era già stato venduto anni prima „to an English nobleman„. Ma fu stimato così pregevole che Antonio Canova (1757-1822), dal 1802 Ispettore Generale delle Antichità e Belle Arti, aveva impedito la sua esportazione. „The sculptor being dead, and the Marchese become minister of police, permission for the removal of the statue was given.„ Il marchese indicato erroneamente da Sir Ellis come Rondinini - il quale non avrebbe mai venduto il suo amato Fauno - è in realtà Bartolommeo Capranica, uno degli eredi di Giuseppe Rondinini. 
    
La statua faceva parte della raccolta di famiglia almeno dal 1657 circa, quando la descrive lo scultore e teorico Orfeo Boselli (ca. 1600-1667) in un manoscritto della Biblioteca Corsini con il titolo „Osservazioni della Scoltura Antica„ (Ms. Corsiana vetus, collocaz. 36-F-27, fol. 172; vgl. Phoebe Dent Weil ([Hrsg.], Orfeo Boselli. Osservazioni della Scoltura Antica dai Manoscritti Corsini e Doria e altri scritti, Firenze 1978 p. 100 no. 136): "Non tacerò la figura di un fauno saltante de‘ Signori Rondinini risarcito dal nominato Francesco di Quesnoi fiamengo, al quale sono rifatte coscie gambe braccia e testa, a meraviglia accompagnato la maniera antica„. E Giovanni Pietro Bellori nella Vita del Duquesnoy ( de' Vite pittori, scultori et architetti moderni, Roma 1672 p. 282) la annovera fra i due capolavori dello scultore nella categoria del restauro dell‘antico: „Due famose statue antiche ristaurate da Francesco, il Fauno del signor Alessandro Rondanini, supplite le braccia e le gambe che mancavano dalla ruina, e la Minerva d‘alabastro orientale del signore Ippolito Vitelleschi ...„.

Non sappiamo qual‘era l‘originale movimento della statua. Con molta sensibilità e affinità a simili statue antiche, Duquesnoy creò un Fauno ballando sulla punta dei piedi, accompagnandosi con il suono dei crotali, la testa rivolta indietro nell‘entusiasmo della danza. Ellis nel 1846 (op.cit. p. 239) e Jacob Heß nel 1936 notarono una stretta vicinanza con un fauno danzante della collezione Giustiniani illustrato nella Galleria Giustiniana (1631/35; vol. I tav. 132; fig. 7B) (J. Heß, Notes sur le sculpteur Francois Duquesnoy [1594-164], in: Revue de l'Art 69, 1936, p. 21-36; reprint in: idem, Kunstgeschichtliche Studien zu Renaissance und Barock in Rom, Rom 1967, vol. I, p. 129-157). Anche la testa assomiglia ad un busto Giustiniani (Galleria Giustiniana II tav. 47,1) ora nel Museo Torlonia (no. 111). La cosa non sorprende: Duquesnoy era impegnato per il Marchese Vincenzo Giustiniani come restauratore di statue antiche e fece per lui un gruppo bronzeo di Mercurio con Cupido che venne inserito come unica scultura moderna nella Galleria Giustiniana (vol. I tav. 84).
Ma sicuramente guardò anche al famoso Fauno danzante Medici, copia romana da un originale bronzeo del II sec. a. Cr., parte di un gruppo con una ninfa seduta intitolato „Invito alla danza„, dal 1588 ca. nella Tribuna degli Uffizi (Inv. 220; fig. 8B). Proprio con il 'Fauno Medici' Winckelmann paragonò il torso del 'Fauno Rondinini', anzi lo pose al di sopra della celebre statua degli Uffizi. Nel Luglio 1758 scrive in una lettera a Bianconi - e bisogna tenere conto che a quella data non era ancora arrivato a Firenze, conosceva il 'Fauno Medici' solo da un calco (Winckelmann, Briefe op.cit., vol. I no. 222 p. 383): "Il Marchesino [nota: Marchese Giuseppe Rondinini] è rimasto erede poco fa della casa sua, e portato per il buon gusto ha fatto trasportare una quantità di statue, busti e quadri raccolti da ducent‘anni in qua, da una sua Villa distante da Roma. Fra l‘altre cose di gran pregio v‘è un torso d‘un Satiro in atto di ballare, di grandezza più che naturale, d‘una maestria inarrivabile e può stare a fronte al Laocoonte ed è superiore al Fauno nella Tribuna del Gran Duca, a giudicarne sul gesso. Lui tiene la roba nascosta per paura delle voglioline del Card. Alessandro, ma amici che siamo me l‘ha fatto vedere, e io andrò a rilevarne il merito nella Parte Teoretica nell‘Istoria dell‘Arte.„ [nota: cosa che in seguito non fece].
La lettera risulta interessante anche su altri punti di vista: veniamo a sapere dei rapporti amichevoli fra Winckelmann e il marchese Giuseppe Rondinini, che quest‘ultimo ha arricchito il palazzo di città con opere d‘arte fatte arrivare da una villa lontana da Roma (probabilmente la residenza di Castel Bolognese), e infine il gustoso dettaglio che era necessario nascondere le sculture più belle in occasione di visite del cardinale Alessandro Albani (1692-1779), il più grande collezionista di antichità del Settecento chiamato da Winckelmann „das Haupt von allen Alterthumsverständigen„ (cf. Winckelmann, Briefe op.cit. vol. I p. 326, lettera del 4 Febbraio 1758).

Come il Fauno Medici, da immaginarsi accompagnato da una ninfa, anche Giuseppe Antonio Guattani accostò al Fauno danzante Rondinini una figura femminile, che chiama Baccante (Monumenti antichi inediti ovvero Notizie sulle antichità e belle arti di Roma per l‘anno MDCCLXXXVIII, Roma, Settembre 1788, p. LXXI; Baccante: tav. II, fig. 11A; Fauno: tav. III, fig. 9B): "Due nobilissmi pezzi di scultura del Museo Rondinini sono qui espressi, uno de' quali rappresenta una baccante in atto di danzare con crotali alle mani, l'altra un Fauno nella stessa attitudine, e con gli strumenti medesimi. ... molto da encomiare in essi riguardo all'arte, trionfando in uno la maestria del paneggiamento, nell‘altro l‘esattezza ed eccellenza del nudo, in ambedue poi l'espressione propria, la grazia, ed il movimento."
La baccante si rivela di essere la ben nota Venere Valentini (fig. 10B), una Aphrodite vicino al tipo Doria Pamphilj restaurata come menade, ora nel cortile del palazzo Valentini (sede della provincia di Roma) e sempre in attesa di restauro. Fu venduta nel 1808 dal Palazzo Rondinini al Corso attraverso il sopracitato "Maler Müller" (Sattel-Bernardini 1993 op.cit. p. 156 no. 7).
Dopo il 'Fauno Rondanini' l‘inventario del 1662 cita (Salerno-Paribeni 1965 op.cit. p. 281) „una figura d‘uno come senatore mezzo colcato in un letto, con una testa, e busto d‘una Imperatrice trà le mani, che si dice esser Domitio Corbulone, e la figlia Domitia alla Vigna„ (la vigna potrebbe essere una delle proprietà a Albano e a Nemi, la vigna di Fogalasino fuori Porta Portese oppure la villa a Roma a Termini divenuta nell'Ottocento proprietà dei Capranica, cf. Salerno op.cit. p. 40-41; le antichità ivi esistenti già prima del 1878 furono venduti, la villa demolita, cf. Friedrich Matz, Antike Bildwerke in Rom mit Ausschluss der grösseren Sammlungen. Nach des Verfassers Tode weitergeführt und hrsg. von F. von Duhn, vol. III, Leipzig p. 333). Nel Settecento nel nuovo palazzo di famiglia al Corso secondo Mariano Vasi era collocato al Piano nobile nella Seconda anticamera accanto al Gabinetto dei marmi (Roma del Settecento. Itinerario istruttivo di Roma di Mariano Vasi romano [1794; Anm.] con note di Guglielmo Matthiae, Roma o. J. (1970) p. 41) e venne illustrato dal Guattani nei Monumenti inediti (Gennaio 1788, p. IV-V, tav. II; fig. 12A). Allora venne interpretato („dicono in casa del possessore„) come "Gneo Domitio Corbulone, generale di Nerone che conquistò l‘Armenia, e sua moglie". Ora si trova nel Museo Nazionale Romano (indicazione di Paribeni op.cit. p. 270).

Due teste virili giovanili presenti nel 1662 nel palazzo Rondinini al Pantheon, poste su zampe di leone nella Galleria (Paribeni op.cit. p. 281), furono venduti ai Musei Vaticani nel 1824. Le teste sono antiche, i visi parzialmente rilavorati: il cosidetto 'Mario' (inv. 1493; Amelung, Vat.Kat. I, Berlin 1903, Museo Chiaramonti p. 646 no. 510A; Helbig4 I no. 335; fig. 13A), e una testa repubblicana, nell'Inventario indicato come Catone ("dicono essere Catone"; Musei Vaticani, inv. 1488; Amelung, Vat.Kat. I, Museo Chiaramonti p. 648 no. 512; Helbig4 I no. 334; fig. 11B). Di altre due teste citate nel testamento, un "Marcello" ed un "Diadumeniano", ho ritrovato solo una riproduzione del Guattani (Monumenti antichi inediti op.cit., Aprile 1788, p. XXXVI-XXXVIII, tav. III; fig. 11B bis); la loro collocazione attuale per adesso rimane ignota.
Nell'inventario dell 1662 in tutto vengono elencati una ventina di pezzi; a parte il Fauno e le teste citate "un busto con braccia e petto d'un Lucio Furo Bruto d'età in atto di ammazzare" (Salerno-Paribeni 1965 op.cit. p. 282). Si tratta di una mezza figura barocca con testa antica del cosidetto ,Brutus‘, ma non, come dice l'inventario, di Lucius Iunius Brutus il fondatore della Repubblica Romana, sempre rappresentato con una corta barba (cf. Guattani, Monumenti antichi inediti op.cit., Ottobre 1786, Taf. III u. p. LXXX, "Bruto Espulsore de' Tarquini"; fig. 25B quattro) bensì del non barbato Marcus Iunius Brutus o Brutus iunior (85-42 a. Cr.), come si vede chiaramente nella incisione del Guattani (Monumenti antichi inediti op.cit., Maggio 1786, p. XL, tav. IV; "protome eccellentissima di Bruto l'uccisore di Cesare che adorna le ricche e deliziose camere del Palazzo Rondanini"), con la mezza figura moderna sottostante giustamente solo abbozzata. La testa di Brutus junior, da Winckelmann (Anmerkungen über die Geschichte der Kunst des Alterthums, Dresden 1767 p. 108) definita „la più bella testa di Bruto giovane a Roma„ („Der schönste Kopf des jüngeren Brutus, welcher sich in Rom befindet, ist vermuthlich derjenige den der Marchese Rondinini besitzet"), fu segnalata a Ludwig di Baviera già nel 1808 da "Maler Müller" (come "Marco Bruto"; cf. Sattel-Bernardini 1993 op. cit. p. 141, p. 156 no. 17), ma acquistata dal principe solo nel 1811 dal marchese Capranica, insiema alla "Medusa" (fig. 1 A) e al rilievo bucolico (fig. 23 B) (Wünsche 1980 op. cit. p. 37); si trova nella gliptoteca di Monaco (inv. 323; Furtwängler-Wolters 1910 op.cit. p. 346-347 no. 323; fig. 25B tris). Invece la mezza figura barocca, di alta qualità, si conserva tuttora nel Palazzo Rondinini al Corso, con un'altra testa (cf. Paribeni in Salerno-Paribeni op.cit. p. 208 no. 20, fig. 113 ; fig. 13 A bis). Secondo il Meyer (in: Opere di G.G. Winckelmann. Prima edizione italiana completa, tomo III, Prato 1832 p. 675) "il busto moderno poi, su cui la testa predetta è collocata, potrebbe derivare dall'Algardi." Siccome tutti i busti delle famiglie Zacchia e Rondinini (card. Paolo Emilio Zacchia, fig. 7A; Alessandro Rondinini, fig. 6A; Felice Zacchia Rondinini, fig. 5B) furono eseguiti da Domenico Guido, è lecito pensare che egli scolpì anche la mezza figura per la testa antica di Bruto.

La testa barbata di Lucius Brutus (Brutus senior), illustrata dal Guattani nel 1786 (fig. 25 B quattro; v. sopra), si trova tutt'ora a Palazzo Rondinini al Corso nel Gabinetto dei marmi, posto sopra un busto diverso da quello inciso dal Guattani (cf. Matz-Duhn op.cit. vol. I, 1881, p. 508 no. 1954; Paribeni in Salerno-Paribeni op.cit. p. 210 cat.no. 22, fig. 115).
L'inventario del 1662 elenca inoltre vari bassirilievi, statue meno grandi del naturale di un Apollo appoggiato ad un tronco, di una Cerere (fig. 29B ?), di una donna panneggiata e di una Venere in piedi. Un altra Venere "che è su dal bagno con un amore che li porge una frezza" (Salerno-Paribeni 1965 op.cit. p. 282) si potrebbe in via ipotetica identificare con il gruppo marmoreo di Venere, Cupido e Delfino all'Ermitage (fig. 3A).
Il rilievo di Menandro (inventario 1662: "un Poeta a sedere con una Musa"), databile alla prima metà del I secolo d. Cr., risalente sicuramente ad un'opera greca del III/II secolo a Cr., dal 1838 al Vaticano (inv. 9985; Helbig4 I no. 1069; Gisela M. A. Richter, The Portraits of the Greeks, 1965, II p. 229 no. 11; fig. 14A), nell'inventario del 1662 viene descritto come un quadro di marmo con cornice di noce, "un Poeta a sedere con una Musa" (Salerno-Paribeni 1965 op.cit. p. 282). Adesso la figura femminile viene interpretata come Skene, la personificazione del teatro, o come Glykera, la donna amata dal commediografo. Il rilievo è stato illustrato più volte: 1685 dal Bellori nelle sue Imagines Veterum illustrium Philosophorum ...(pars secunda, tav. 69; nell'edizione del 1739: "Poeta proposito proemio carmina recitans / Apud D. March. Iosephum Rondininum"; fig. 12B), in seguito nel Thesaurus di Gronovius (1697; Ed. 1732, vol. I tav. Ga), infine da Winckelmann nei Monumenti antichi inediti del 1767 (no. 192, p. 252; fig. 13B). Quest'ultimo lamentò che la reproduzione del Bellori avesse un disegno scorretto e "un incisione ugualmente cattiva"; Winckelmann interpretò l'uomo seduto come poeta o attore tragico, la donna come figura allegorica del suo talento. Già nel 1808 Maler Müller aveva offerto il rilievo al principe Ludwig di Baviera descrivendolo come "Bottega di un venditore di maschere" (Sattel-Bernardini 1993 op.cit. p. 156 no. 13).
(La collezione Rondinini annovera tutt'ora una bella testa detta di Menandro [Paribeni in Salerno-Paribeni 1965 op.cit., p. 208 cat. 18, fig. 108; Matz-Duhn I, 1881, p. 508 no. 1953] già illustrata dal Guattani [Monumenti antichi inediti op.cit., Maggio 1788, p. XLIV, tav. III, a sinistra; "protome incognita"]).

Un "basso rilievo che rappresenta un che sostenta un giovane morto, dicono sia Apollo con Hiacinto, ma è stato mal ristaurato alla Vigna" (inventario 1662; cf. Paribeni op.cit. p. 282) potrebbe essere il frammento di un sarcofago con Oreste assistito da Pylades, passato dal Laterano ai Musei Vaticani (Museo Chiaramonti, inv. 1223; ASR II 178; fig. 15A). Winckelmann lo inserì nei Monumenti antichi inediti (op.cit. p. 202-203, no. 150; fig. 14B), citando Ovidio il quale spiega come Oreste "ogni volta dopo l'assalto della furia che l'agitava" venne abbandonato dalle forze.

Anche il futuro gioiello della collezione, la ,Medusa Rondanini‘ (fig. 16A, 15B), giá nel 1662 faceva parte della collezione; si trovava nella Galleria del cardinale Paolo Emilio: "Una testa d'una Medusa tutta antica con alcune serpi un poco rotti in alcune parti con il suo scabellone di noce" (Salerno-Paribeni 1965 op.cit. p. 282). Stranamente mai nominato dal Winckelmann, è stata molto ammirata da Goethe, che abitò proprio di fronte al terzo Palazzo Rondinini, quello di Via del Corso che la famiglia aveva fatto costruire intorno al 1750 (v. infra). Il giorno di Natale 1786 Goethe annota (Viaggio in Italia, 25 Dicembre 1786; ed. Herbert von Einem, München 1978 p. 151).

"Dirimpetto a noi nel Palazzo Rondanini si trova una maschera di Medusa dove su un volto nobile e bello di grandezza al di sopra del vero è espressa con squisitezza inarrivabile l'angiososa rigidità della morte. Ne possego una buona copia; ma il prestigio che dà il marmo è svanito, svanita la trasparenza della pietra di un giallo che si avvicina al colore della carne." Nel Luglio dell'anno seguente il poeta visitò di nuovo il Palazzo Rondinini in compagnia della pittrice Angelica Kauffmann (Viaggio in Italia, 29 Luglio 1787; ed. 1978 op.cit. p. 372). Appare particolarmente significativo che l'immagine della Medusa diventa il punto di partenza per riflessioni generali sull'arte: "Sonntag den 29. Juli 1787, war ich mit Angelika in dem Palast Rondanini. Ihr werdet Euch aus meinen ersten römischen Briefen einer Meduse erinnern, die mir damals schon so sehr einleuchtete, jetzt nun aber mir die größte Freude gibt. Nur einen Begriff zu haben, dass so etwas in der Welt ist, dass so etwas zu machen möglich war, macht einen zum doppelten Menschen. Wie gern sagt' ich etwas darüber, wenn nicht alles, was man über so ein Werk sagen kann, leerer Windhauch wäre. Die Kunst ist deshalb da, dass man sie sehe, nicht davon spreche, als höchstes in ihrer Gegenwart. Wie schäme ich mich allen Kunstgeschwätzes, in das ich ehemals einstimmte. Wenn es möglich ist, einen guten Gipsabguß von dieser Meduse zu haben, so bring' ich ihn mit ... Es sind einige hier zu Kaufe, die ich nicht möchte; ...". ("Mi recai con Angelica a Palazzo Rondanini. Ricorderete la Medusa di cui vi scrissi nelle mie prime lettere da Roma; già allora m'aveva fatto colpo, ma adesso la godo intensamente. Basta il pensiero che al mondo vi sia qualcosa di simile, che qualcuno abbia potuto crearla, perchè la nostra umanità se ne sente raddoppiata. Ve ne parlerei volentieri, se tutto ciò che si può dire su una tale opera non fosse che vano fiato di vento. L'arte esiste per esser veduta non perchè se ne discorra, o tutt'al più solo in sua presenza. Come mi vergogna di tutto quel cianciare d'arte al quale in passato univo la mia voce! Se mi sarà possibile procurarmi un bel calco in gesso di questa Medusa, lo porterò meco, ma bisognerà farne fare uno nuovo. Quelli che si trovano qui in vendita non mi piacciono ... Sopratutto la bocca è di una potenza indicibile, inimitabile."
Di interesse museologico è la notizia data dal Guattani circa l'allestimento della Medusa Rondinini nel Settecento (Monumenti antichi inediti op.cit., Aprile 1788, tav. II e p. XXXIV-XXXV), quando era nella Quarta anticamera che dà sul balcone della facciata (cf. Vasi 1794/1970, op.cit. p. 41): " Essa è situata sopra un tavolino, che ha dietro uno specchio. Ciascuno prende il piacere di vederla dentro il cristallo, e se la guarda con riflessione, nella malinconica di quel volto non può non risentire freddo e terrore. Quanto di armonia, e di forza non acquistano le belle sculture vedute a traverso di uno specchio o di una lente! Sembra che gli oggetti tutti della camera cedano il posto al marmo che vi trionfa, e il di cui merito si vede ingigantire senza che le parti e la figura crescano di mole. Quale incanto non produrrebbero così veduti l'Apollo di Belvedere, egli altri capi d'opera del fare antico!"
Per volontà testamentare Felice Zacchia Rondinini aveva confermato il vincolo fidecommessario della collezione istituito dal suocero Natale. Dopo la sua morte nel 1667 il terzogenito Niccolò (1623-1670), cavaliere dell'Ordine dei Gerolomitani e console capitolino, fu il prosecutore della famiglia. Ma presto il figlio Alessandro junior (1660-1740) cominciò a dilapidare il patrimonio paterno; era sposato due volte e aveva una concubina con la quale ebbe quattro figli. Alla sua morte nel 1740 lasciò debiti e disordine finanziario in quanto abitando con i figli naturali. Autrice del risanamento del patrimonio e della restaurazione del precedente prestigio della famiglia fu la seconda moglie Margherita Ambra (+ 1755), madre di due figli: il già nominato Giuseppe nato nel 1725, amante d'arte, e Tommaso nato l'anno successivo e morto all'età di 31 anni. Di Giuseppe conosciamo solo il ritratto in mosaico inserito nel monumento funebre a Sant'Onofrio sul Gianicolo realizzato molto prima della sua morte (1801) in quanto già descritto da Mariano Vasi nel 1794 (fig. 17A).

Quando suo padre morì, il marchesino Giuseppe aveva solo quindici anni, e per la seconda volta nella storia della famiglia era una donna a fare il capofamiglia ed ad amministrare il patrimonio: la energica marchesa Margherita Rondinini primo quietò le rivendicazioni dei quattro figli naturali con una rendita vitalizia, senza attaccare i beni immobili. Cercò di recuperare le finanze e di dare nuovo lustro alla famiglia. Neanche quattro anni dopo la morte del marito, nel ottobre del 1744 comprò un vasto edificio con vari annessi in via del Corso vicino a Piazza del Popolo, che era stato la residenza di Giuseppe Cesari detto Cavalier d'Arpino (1568-1640), pittore di primo rango nella Roma intorno al 1600. Si vede molto bene nella pianta del Falda del 1676 (fig. 16B). Il Cavaliere era morto nel 1640 lasciando il complesso in eredità ai padri Barnabiti della sua citta natale (Maria Vittoria Mancinelli, Il palazzo Rondinini da Gabriele Valvassori ad Alessandro Dori, in: Roma, le case, a città, ed. Elisa Debenedetti [Studi sul Settecento Romano 14], Roma 1998 p. 231-257).
Il progetto ambizioso della marchesa era di costruire un prestigioso palazzo per se e per i figli dove allestire in ambienti luminosi ed ampi le collezioni di quadri ed antichità della famiglia (fig. 18A). Diede l'incarico a Gabriele Valvassori (1683-1761), architetto del Palazzo Doria Pamphilj sulla stessa strada, al quale si affiancò dal 1758 Alessandro Dori (1702-1762), nominato nello stesso anno da Clemente XIII "architetto dei sacri palazzi apostolici". - Le varie fasi dei lavori protrattisi fino al 1768 sono stati recostruiti su base di fonti archivistiche da Maria Vittoria Mancinelli in uno studo recente (1998; op.cit.). Si iniziò con la ristrutturazione di una parte degli edifici esistenti e con nuovi costruzioni lungo i lati e nel cortile. Già nel 1746 la marchesa Margherita risulta abitante nel palazzo insieme agli figli (Mancinelli 1998 op.cit. p. 234). Nel 1750 vengono commissionati "piedistalli intagliati da posare le statue grandi cioè uno per il gruppo della Venere e l'altro per il Fauno" (Mancinelli 1998 op.cit. p. 234), molto probabilmente per ordine del Marchese Giuseppe che da quel anno in poi secondo i documenti d'archivio assume il ruolo di protagonista nella gestione dei lavori. Nel 1758 Alessandro Dori inizia la costruzione della facciata del palazzo prospiciente Via del Corso, con il significativo doppio portale (fig. 17B). Dato la sua passione per l‘arte, il marchese desidera una residenza-museo; ricordiamo il trasporto di numerosi dipinti e sculture al nuovo palazzo nello stesso anno 1758 raccontato da Winckelmann.

Spesso la Villa Albani progettata da Carlo Marchionni e costruita negli stessi anni (1755-1757) e il palazzo Rondinini sono stati paragonati nella loro funzione di sede di una collezione. Ma l'architettura del Dori è segnato dal barocco berniniano, e al collezionismo di Giuseppe Rondinini mancava il rigore filologico del cardinal Albani, egli seguiva solo il suo gusto personale. Nonostante ciò Dori, che molti anni dopo nel 1771 darà inizio alla costruzione del Museo Pio-Clementino con la galleria delle statue, realizza un palazzo con ambienti progettati per contenere molte sculture, rilievi incastonati nelle pareti, con una profusione di decorazioni in stucco, metallo e a fresco ancora sensibili allo stile Rococò (fig. 19A, 18B, 20A). Qui il marchese visse solitario - non aveva incarico pubblico e si sposò sola a 60 anni - e lontano dalla vita mondana dedicandosi solo alle sue collezioni d'arte e d'antichità che incrementò in modo gigantesco: Dopo la sua morte le venti antichità dell‘inventario seicentesco erano diventate più di 200, i quadri più di 450.
Le decorazioni del palazzo raccontano dello sfrenato amore per l'antico del suo padrone: Pezzi antichi sono persino inseriti nelle decorazioni architettoniche degli ambienti, come una testa di un atleta nel Salone (Paribeni in Salerno-Paribeni 1965 op.cit., cat.no. 6; fig. 19B). In un'altra stanza fece eseguire stucchi che copiano i rilievi del famoso 'vaso Medici' (allora a Villa Medici, dal 1780/88 a Firenze, Uffizi, inv. 307). Quando non poteva procurarsi gli originali, fece eseguire dei calchi (cf. una testa, Salerno-Paribeni 1965 op.cit., fig. 67) o semplici imitazioni dall'antico (lista ibidem p. 273-274).
Il marchese fece eseguire anche dei assemblaggi di frammenti antichi (per esempio Salerno-Paribeni 1965 op.cit. p. 241 cat.no. 66, fig. 141; cat.no. 71, fig. 155) e integrazioni molto estese come per esempio su un bel rilievo di una ninfa in barca collocato nel Cortile al di sopra della fontana (fig. 20A bis), pubblicato dal Guattani nel 1787 (Monumenti antichi inediti op.cit., Ottobre 1787, p. LXXIX, tav. II; Paribeni in Salerno-Paribeni 1965 op.cit. p. 212 cat.no. 26, fig. 119; fig. 19B bis), dove solo la parte centrale risulta antica, il resto è opera degli restauratori. In un altro rilievo solo il fondo - un muro - è antico, le figure sono tutte settecentesche (Salerno-Paribeni op.cit. o. 173, fig. 171).
Famosi scultori come Pietro Bracci (1700-1773) e Bartolomeo Cavaceppi (1716-1799) lavorarono per Giuseppe Rondinini come restauratori (Salerno in Salerno-Paribeni op.cit. pp. 11-12, 22; Paribeni in Salerno-Paribeni op.cit. p. 185). Bracci è documentato per il restauro di un fauno (Mancinelli 1998 op.cit. p. 238; probabilmente il "piccolo fauno" citato da Mariano Vasi nel 1794 nella seconda anticamera; cf. Vasi 1794/1970 op.cit. p. 41) e di una grande statua di Cerere sedente come racconta Winckelmann (Winckelmann, Briefe I pp. 390, 600; v. infra e fig. 27B). Nel 1766 lo scultore Giuseppe Moisé riceve da Giuseppe Rondinini 20 scudi per „risarcire le cose antiche del suo palazzo„ (Mancinelli 1998 op.cit. p. 239).

Nel Piano nobile sul lato della facciata c'è una fila di quattro anticamere, posteriormente di esse - verso il cortile - la galleria con un‘affresco nella volta, "La caduta di Fetonte" dipinto nel 1762 da Jacques Gamelin (fig. 20B). I lati corti della galleria formano due esedre tripartite con spazio per due statue (fig. 21A). Qui nel Settecento si trovarono, a parte dipinti di Tiziano, Carracci, Domenichino, le statue più pregiate (Vasi 1794 op.cit. p. 42): il Fauno di Londra (fig. 10A), la Venere accovasciata di San Pietroburgo (fig. 3A), una Pallade con una Medusa sul egide, secondo Paribeni (op.cit. p. 314) ora nei Musei Vaticani, ma temo che Paribeni per sbaglio l'abbia scambiata con un'altra statua della Galleria venduta al Vaticano: una figura femminile restaurata come Flora con testa antica non pertinente, replica del I sec. d. Cr. da un originale greco del IV secolo a. Cr. (fig. 22A, 21B) (Amelung, Vat.Kat. II p. 623 no. 410, tav. 59; Carlo Pietrangeli, La provenienza delle sculture dei Musei Vaticani, in: Bollettino dei Musei e Gallerie Pontificie IX,1 1989 p. 89 no. 16 (555); Alessandra Uncini, Nuovi documenti per servire alla storia die Musei Vaticani: Il „Registro Generale„ del 1823-1824, in: ibidem p. 172 no. 298; Giandomenico Spinola, Il Museo Pio-Clementino 2 [Guide Cataloghi dei Musei Vaticani 4], Città del Vaticano 1999 p. 20 no. 16). Nella base si vede ancora la fiera iscrizione del proprietario: „G.M.R.„, Giuseppe Marchese Rondinini (fig. 21B bis). La 'Flora' passò in eredità alla famiglia Capranica e fu venduta nel 1823 ai Musei Vaticani (dallo stesso marchese Bartolommeo che vendette il Fauno Rondanini in Inghilterra), insieme con altre tre antichità che passavano al Museo Lateranense e furono in seguito trasferiti al Museo Gregoriano Profano: un rilievo funerario con cinque busti, ritratti di liberti della famiglia Furia (ora Museo Gregoriano Profano, inv. 10464; O. Berndorf - R. Schöne, Die antiken Bildwerke des Lateranensischen Museums, Leipzig 1867, no. 467; Helbig4 I no. 1139; Uncini 1989 op.cit. p. 172 no. 297), il grande sarcofago con Marte e Rhea Silvia, Selene e Endimione (Museo Gregoriano Profano, inv. 9558; fig. 27A; v. infra; Uncini op.cit. p. 172 no. 296), e un bel bassorilievo di un Fauno in piedi che posa suo sguardo melancolico su una pantera seduta, sul fondo una pelle di leone (Guattani, Monumenti antichi inediti op.cit., Dicembre 1787, p. LXXXIX-XC, tav. I; ora Museo Gregoriano Profano, inv. 10420; Berndorf-Schöne 1867 op.cit. no. 443; Uncini 1989 op.cit. p. 174 no. 299). Nel Settecenti il rilievo funerario serviva come base per tre busti marmorei di cardinali della famiglia Zacchia-Rondinini (cf. inventario del 1807, Salerno-Paribeni 1965 op.cit. p. 311).

Nei piedestalli delle statue poste negli angoli della Galleria erano inseriti rilievi antichi, come riferisce Guattani (Monumenti antichi inediti op.cit., Aprile e Maggio 1788, p. XXVII). All'epoca sotte le statue di un 'Augusto' (citato anche da Winckelmann, Monumenti antichi inediti, 1767, Trattato preliminare p. XC; non identificato) e di un Fauno "di sublime scultura" (il Fauno ora a Londra, fig. 10A) si potevano ammirare un rilievo con una scena di sacrificio (fig. 22 A quattro) purtroppo finora non identificato: due uomnini togati e una donna velata che versa del liquido sopra un foclare acceso sorretto da un piccolo satiro con un lungo coltello in mano. - L'altro rilievo illustrato dal Guattani nella stessa incisione rappresenta una scena di difficile interpretazione: Winckelmann (Monumenti antichi inediti, 1767, p. 137-138, no. 103; fig. 22A bis) e Guattani (Monumenti inediti, Aprile e Maggio 1788, p. XXI-XXVI, tav. II; fig. 22A tris) vi vedevano "Edipo Re di Tebe privato della vista [...] mentre si allontanava da Tebe in compagnia de' suoi figliuoli Eteocle e Polinice, che lo constrinsero a partirsene [...]. Le arcate del muro sembrano le porte di Tebe" (Guattani).

Il rilievo venne già disegnato per il Museum Chartaceum di Cassiano dal Pozzo (British Museum, fol. 122, 123 [178, 179]); il disegno fu pubblicato da Carl Robert come confronto con un sarcofago della collezione Pamphilj di soggetto sconosciuto (ASR III,3 no. 436 tav. 141; disegno di Londra: ibidem fig. 436''), secondo Robert forse "Hypothoon portato davanti a Kerkyron". - Paribeni (in Salerno-Paribeni 1965 op.cit. p. 270), indicando il rilievo Rondinini nel Laterano, lo intitola "Edipo e Tiresia" (più verosimile "Edipo o Tiresia"). Invece si tratta di un frammento (angolo destro; 53 x 40 cm; databile ca. 170 d. Cr.) di un sarcofago con il trasporto del corpo di Meleagro, raffigurante Thestios fra due accompagnatori (Bildkatalog 1995, v. infra: "due figli"), dei quali si nota il bel giovane a destra visto di schiena, nudo con una clamide sulla spalla, la testa rivolta indietro verso il (non più esistente) corteo con Meleagro morente (ASR III,2 [1904] p. 354-355 no. 296, fig. 296, fig. 296'; Guntram Koch, Die mythologischen Sarkophage, sechster Teil [ASR 12,6], Berlin 1975 p. 115 no. 96, tav. 81d; Deutsches Archäologisches Institut. Bildkatalog der Skulpturen des Vatikanischen Museums, vol. I, Museo Chiaramonti, Tafelband III, Berlin - New York 1995, tav. 857 o. Nr., fig. XXXVIII,4). Da Palazzo Rondinini il rilievo passò al mercante Pietro Maria Vitali che lo vendette nel 1816 al Vaticano dove venne conservato nel Casino di Pio IV; dal 1921 si trova nel Museo Chiaramonti (inv. 1778). Il sarcofago è una replica di un esemplare già in Palazzo Barberini, ora disperso (ASR III,2 no. 287; Koch 1975 op.cit. [ASR 12,6] no. 79). Fra la pubblicazione del Winckelmann (1767) e quella del Guattani (1788) il rilievo Rondinini deve essere stato rilavorato: nell'incisione del 1767 vicino al giovane nudo si vede ancora il braccio di Althea, che si precipita verso il corteo. In seguito il braccio venne eliminato, forse per far apparire il rilievo meno frammentario.
Vasi nomina una quinta statua nella galleria che forse non stava in una delle quattro nicchie bensì al centro; è uno dei pezzi più famosi della raccolta: l'Alessandro Rondanini' (fig. 23A), secondo Winckelmann (Monumenti antichi inediti, 1767, p. 230) "l'unica vera ed intera statua di questo Re, per quanto io sappia, che lo rappresenta incirca ne'medesimi anni ne' quali è espressa la testa Capitolina ... Io la chiamo l'unica vera statua d'Alessandro, perché la testa illesa in ogni sua parte, non è mai stata staccata dal busto.' Si tratta di una copia forse di età antonina da un originale di Euphranor (Glyptothek München, Katalog der Skulpturen, Bd. II. Barbara Vierneisel Schlörb, Klassische Skulpturen des 5. Und 4. Jahrhunderts v. Chr., München 1979 p. 370-379, fig. 180-188). Venne anche interpretato come Achille, ma studi recenti tendono di vedere un‘immagine del re macedone..
Dalla Galleria di Palazzo Rondinini esiliata in una rimessa come risulta dall‘inventario del 1807 (Salerno-Paribeni op.cit. p. 314), sicuramento per essere venduto, venne ceduto nel 1814 da uno degli eredi di Giuseppe Rondinini, Marchese Camillo Zacchia per 1.300 Scudi al Principe Ludwig di Baviera (ora nella Gliptoteca di Monaco, inv. 298). Nel saggio di Maria Vittoria Mancinelli sulla costruzione del Palazzo Rondinini ho trovato un documento importante riguardo l'acquisto della statua, tratto dall‘Archivio Capranica nell‘Archivio Storico Capitolino (fondo Rondinini b. 823 p. 210; cit. Mancinelli 1998 op.cit. p. 238 e nota 57), una ricevuta di pagamento di 400 Scudi datata 30 Settembre 1765, firmato dal famoso scultore, restauratore e commerciante di antichità Bartolomeo Cavaceppi, „sono per prezzo accordato fra di noi di una figura antica restaurata dalla scola del Bernini rappresentante Alessandro il Grande„. La statua era quindi già conosciuta nel Seicento e già restaurata; il restauro è documentato nella stampa del Guattani (Monumenti antichi inediti op.cit., Settembre 1787, tav. I e p. LXV-LXVII; fig. 22B) con il sottobraccio destro alzato. Ma purtroppo Cavaceppi dice niente sulla provenienza dell'‘Alessandro‘.



A Monaco le integrazioni barocche vennero rimosse e sostituite dallo scultore Bertel Thorvaldsen che integrò anche il gruppo degli Aegineti dello stesso museo. Il braccio destro fu abassato, la mano sinistra teneva un vaso per l‘unguente (fig. 24A). Ma anche questo restauro si rilevò insoddisfacente e venne cancellato. Le interpretazioni della statua sono così molteplici, che basterebbero per una conferenza: Alessandro parlando con Giove, Achille che riceve le armi dalla madre Teti, Alessandro salendo sul carro prima della battaglia, Alessandro tenendo una spada, ecc. (cf. Raimund Wünsche, "Das einzig wahre Bildnis" Alexanders des Großen, in: Nürnberger Blätter zur Archäologie, Heft 15, Jgg. 1998/99, p. 9-22).
La stessa Gliptoteca possiede un rilievo bucolico con erma di priapo del I secolo d. Cr. (inv. 251; Dieter Ohly, Glyptothek München. Griechische und römische Skulpturen, München 1986 p. 107; fig. 23B), nel Settecento conservato nella Prima Anticamera del Palazzo Rondinini. Questa stanza, situata nell‘angolo sinistro della facciata del palazzo e fornita di tre nicchie per statue, fu chiamata più tardi „Gabinetto dei marmi„ (fig. 25A). Winckelmann inserì il rilievo bucolico nei Monumenti inediti (tav. 67 e p. 92), interpretando la figura giacente come Ercole Silvano, i buoi nella parte inferiore come quelli di Gerione portati via da Cadiz nel Lazio da Ercole. Vasi lodò „i bovi scolpiti con tanta eccellenza„ (op. cit. p. 40). - L‘incisione di Winckelmann è abbastanza fedele all‘originale, mentre Guattani esercitò una stretta censura sull‘erma (fig. 26A). Nella figura maschile Guattani vide Ercole in Italia in atto di sacrificare prima di segnare il pomerio.
Il miglior rilievo della Prima Anticamera era secondo Mariano Vasi „la Diana con Endimione„, in realtà Selene e Endimione, parte di un grande sarcofago del III secolo d. Cr. (fig. 27A) che nella parte sinistra rappresenta Marte e Rhea Silvia, ambidue con teste di ritratto (fig. 24B), sopra di loro Morfeo. Winckelmann vide nella coppia Peleo e Teti (Monumenti antichi inediti, p. 57, 124), mentre Guattani riproducendo il sarcofago in una stampa di grande formato (Monumenti antichi inediti op.cit., Febbraio 1788, p. X-XI e tav. II; fig. 28A; fig. 25B) optò più per Marte e Venere. Il ripetersi di due figure dormienti e seminudi - una maschile, una femminile, ciascuna con accanto un genio che le solleva il velo (fig. 25B bis) - è un elemento compositivo di grande densità. La scena di Endymione ispirò addirittura l‘affresco nella volta del gabinetto dei marmi, secondo documenti inediti dipinto da Domenico Corvi (1721-1803; gentile comunicazione Prof. Elisabeth Kieven). Il sarcofago fu ereditato dalla famiglia Capranica e venduto nel 1823 al Vaticano (Uncini 1989 op.cit. p. 172 no. 296), che lo conservò nel Museo Lateranense; ora è al Museo Gregoriano Profano (inv. 9558; ASR III,1 S. 108 Nr. 88, Taf. 20; Helbig4 I Nr. 1005).


Dallo stesso Gabinetto dei marmi, dove tuttora si conserva un calco, proviene un rilievo neoattico di grande qualità, databile al I sec. a. Cr., basato su composizioni del IV secolo a. Cr. (fig. 29A). Rappresenta un tiaso dionisiaco con poche figure, un sileno, Dioniso giovanile ebbro sorretto da un satiro, un‘altro satiro con pantera ( Amelung, Vat.Kat. II p. 707 no. 438; Werner Fuchs, Die Vorbilder der neuattischen Reliefs, Berlin 1959 p. 142 mota 129, p. 158 nota 76-77, p. 178 no. 23; Spinola, Museo Pio-Clementino op.cit., vol. II, 1999, pp. 160, 162 no. 29, tav. 78). Dal marchese Giuseppe Rondini passò alle familie Origo e Finelli, fu acquistato nel 1824 dai musei Musei Vaticani, insieme con altre antichità già viste: le due teste cosidetti Mario e Cato (fig. 13A, 11B), il frammento di Oreste agitato dalle furie (fig. 14A, 15B).
Nella Seconda Anticamera Vasi (Vasi 1794/1970 op. cit. p. 41) elenca il sopracitato piccolo fauno, il sarcofago del cosidetto Gneo Domitio Corbulone (fig. 12A) e una "testa antico di un filosofo" (fig. 29A bis). Friedrich Müller detto "Maler Müller" l'aveva offerta al principe Ludwig di Baviera in una lettera del 23 Aprile 1808 come "Senofonte" (Sattel-Bernardini 1993 op.cit. pp. 141, 157 no. 54); fu effetivamente acquistato per la gliptoteca di Monaco (Inv. 303), però più tardi, nel 1810 attraverso lo scultore e commerciante d'antichità Vincenzo Pacetti (Adolf Furtwängler, Beschreibung der Glyptothek König Ludwig's I. zu München. 2. Auflage, besorgt von P. Wolters, München 1910 p. 133 no. 303).

Mentre molte preziose notizie ho potuto ricavare in un articolo di Alessandra Uncini con la pubblicazione del „Registro Generale„ sulle entrate di antichità nei Musei Vaticani nel periodo 1823-1824 (Uncini 1989 op.cit. p. 154, 172-174 no. 296-299, no. 307-310), non so nulla su come sia approdato nel Museo Nazionale di Warsawia (inv. 147975; 112 x 148 cm) una singolare Tabula Iliaca di età augustea con la storia di Ulisse e Circe (fig. 26B), esposta a Roma nella mostra „Il mito di Ulisse„ (Ulisse, Il mito e la memoria, Ausst.Kat. Roma 1996, p. 138-139 Nr. 240; LIMC VI p. 51 no. 3, tav. 29). Ancora nel 1965 il Paribeni l'aveva annoverato "tra i pezzi più notevoli perduti, noti solo attraverso incisioni" (Salerno-Paribeni 1965 op.cit. p. 270). La Tabula Iliaca rappresenta tre scene dal X canto dell'Odyssea con didascalie in greco: in basso lo sbarco di Ulisse, la sua corsa verso il palazzo di Circe per aiutare i compagni e l‘incontro con il dio Ermete che gli dà l‘erba „moly„ per proteggersi contro la pozione magica di Circe; l‘incontro con la maga che egli minaccia con la spada tratta prima di piegarsi al desiderio della donna "di salire subito sul nostro letto, che uniti di letto e d'amore possiamo fidarci a vicenda" (Odyssea X,334-335); nella terza scena in alto: Circe con la bacchetta magica fa uscire dal suo palazzo i compagni di Ulisse trasformati con teste di porci, pecora e bue.
Il rilievo fu pubblicato nel 1761 dal Barthelemy (Mémoire, tav. 2), in seguito spiegato da Ridolfino Venuti e di nuovo illustrato dal Guattani (Monumenti antichi inediti op.cit., Febbraio 1788, p. XI-XVI, tav. III; fig. 30A).
Come si è visto, è proprio agli inizi dell‘Ottocento che la raccolta Rondinini, conservata ed arricchita con tanto amore dal marchese Giuseppe, viene dispersa. Infatti il marchese era morto nel 1801 vedovo e senza figli, dichiarando come erede universale un discendente, Camillo Zacchia il quale però si faceva sacerdote. Nacquero così violenti contrasti fra il fratello di Camillo, marchese Girolamo Zacchia, e altre famiglie imparentate con i Rondinini da matrimoni risalenti in parte al Seicento: Origo, Del Bufalo, Della Valle, Capranica. I liti si conclusero con un accordo nel 1806 secondo il quale i Capranica divennero proprietari del palazzo (l‘affittarono subito al nunzio bavarese, il vescovo Johann Casimir von Häffelin [1737-1827]). 1807 viene redatto l‘inventario completo dei dipinti e delle sculture, e nel 1809 tutto il patrimonio fu diviso con le conseguente vendite di antichità da parte degli Zacchia, Capranica e Origo che sappiamo. Già nel 1827 Antonio Nibby annota nell'Itinerario di Roma: „... il palazzo già Rondinini oggi Capranica, CELEBRE UN GIORNO PER UNA SUPERBA RACCOLTA DI ANTICHI MONUMENTI, alcuni dei quali vi restano ancora nel cortile e per le scale.„
Nel 1809, dopo la morto del marchese Giuliano Capranica, il palazzo Rondinini e la villa a termini passarono ai figli Bartolommeo e Domenico (come ricordato, Bartolommeo vendette il ,Fauno Rondinini‘, al Vaticano la statua della ,Flora‘ e tre rilievi). Nel 1841 il palazzo fu acquistato dalla Adelaide De La Rouchefoucault vedova del principe Francesco Borghese Aldobrandini, la quale nel 1851 lo alienò al banchiere Agostino Feoli. Questi l‘affitto all‘Ambasciata russa. Nel 1870 i Feoli vendettero Palazzo Rondinini alla principessa Sofia Branika Odescalchi, ma rimese sempre sede dell‘ambasciata russa ed ospitò la Zarina Maria nel 1873. Finalmente nel 1904 la proprietà passò ai conti Sanseverino Vimercati, nel 1946 alla Banca Nazionale dell‘Agricoltura (Marinelli 1990 op.cit. p. 66-67).

Per concludere vorrei lanciare un appello del tipo „chi l‘ha visto?„: una statua monumentale (12 palmi = ca. 268 cm) di una Cerere sedente, pubblicata dal Guattani nel 1787 come inedita (Monumenti antichi inediti op. cit., Novembre 1787, p. LXXXIV, tav. II; fig. 27B), scoperta in una vigna e acquistata dal Marchese Rondinini nel 1758, come apprendiamo da una lettera di Winckelmann (Briefe, op.cit., vol. I no. 223 p. 390-392, Giugno 1758 a Bianconi), diede luogo ad un dibattito erudito fra Winckelmann e lo scultore Pietro Bracci, esperto resrauratore di antichità (aveva restaurato l'arco di Costantino) e nel 1756 presidente dell‘Accademia di San Luca. Rondinini aveva fatto portare la statua da Bracci per farla restaurare, ma lo scultore "non la stimava antica", e toccò ad Winckelmann con argumentazioni come la lavorazione del trono con un il gradino, delle pupille, delle mani e unghie, di dimostrare che si trattava di un‘ opera antica: "([Un certo Sig.re Romano] la fece portare da uno de' primi Scultori Romani [nota del Rehm in Winckelmann, Briefe op.cit., vol. I p. 600: Pietro Bracci], per farla restaurare. Avra 12 palmi d'altezza. Lo Scultore non la stimava antica. Il possessore [nota Rehm, ibidem: marchese Giuseppe Rondinini, come si evince dal contesto e dalla lettera no. 222] mi ci condusse per sentire il mio parere. La statua era trovata in una vigna non già scoperta recentemente, ma non si sa per qual ragione, precipitata in un fosso buttatevi sopra molte carrette di calcinaccio. Quello che la comprò ebbe qualche sentore che ci poteva essere almeno un gran pezzo di marmo. Lui operò tanto che scoprì il naso e senza star a indagare più in giù per non essere soprafatto, la fece portar via con tutto il calcinaccio. Pulita e rinettata che fu la Statua, sentendo quegli lo sproposito dello Scultore, quasi se ne pentì. Convenne dunque allo Scultore esporre le ragioni del suo savio sentimento. La 1a fu il gradinato, cioè la Sedia della Statua e lavorata ruvida col gradino, e lui sostenne che che gli Scultori antichi non usavano questo strumento. La 2da fu il lume degli occhi, overo la Pupilla col forellino marcato d'una lunetta incavata, il quale preteso lo Scultore non era usato alle teste delle Deità / : Ideali doveva dire / mentre non poteva asserire che la testa della Statua era un Ritratto. Mi recò maraviglia questo suo piccolo discernimento. Prima di rispondere alle sue ragioni lo domandai, in che modo credesse lui che gli antichi Scultori diedero l'ultima mano alle loro Statue? Probabilmente, replicò, era il loro metodo quello che vien praticato da noi, cioè di darle l'ultima politura colla pumice, allegandomi l'Antinoo di Belvedere. Questo gli tirai della bocca per confonderlo meglio. Gli risposi dunque al 1o. Gli Scultori antichi fecero opere gradinate ciò che si vede chiaramente al soccolo o la base di Laocoonte e usavano gradini ma composti di più ferri uniti con una tenitura, qual strumento si vede al Monumento sepulcrale d'Apro, Capo Mastro Scarpellino e Architetto nel Campidoglio.
Al IIo Lo Scultore s'applaudì di questa ragione. E per vero dire, il lume accennato negli occhi non si trova che in poche Statue divine o Ideali, ma non in nessuna. E da sapersi che tali occhi sono un raffinamento messo in uso piu commune nel tempo dell'Arte già declinata, diventato poi universale sotto Adriano, come si vede ne' Busti degl'Imperadori [sic]. L'unica testa (non Ideale) à Roma che habbia gli occhi segnati da Augusto fin'all'Adriano e di Marcello Nipote d'Aug. Falso è dall'altra parte che non sieno usati affatto innanzi questo tempo. Gli ho scoperti in 4 teste dell'Obelisco detto Ludovisiano, che sta colcato in terra a S. Gio. Laterano. E quel punto che significa il forellino e il giro della pupilla, che si fece incavandoli nel marmo fu fatto già dal tempo antichissimo da'Greci prima di Fidia e dopo nel bel fiore dell'Arte, ma in rilievo. Cosi si vede nelle Medaglie di Gerone e d'Ierone di Siracusa come in quelle d'Alessandro etc. il punto e una linetta intorno in rilievo.

Questa era la parte negativa della mia dimostrazione: senta ora la parte affirmativa della predica. La mano, li dissi, non è fatta ni può essere fatta da uno Scultore Moderno. Perche no? Re[sp.]. Tutti i Moderni da Michel Ang. in quà non si sono potuto fare l'idea d'una bella mano, e siccome uno de'Caratteri dello Stile moderno e il Gonfio, tutti hanno dato in questo difetto, il quale poi ha peggiorato la già mal intesa grazia. Le mani moderne sono generalmente troppo gonfie, le membra delle dita vanno distinguendosi per trè elevazioni crescendo e smuendosi per tre curve. Poi vi sono le fossette su'nodi dell'attaccatura delle dita o sul carpo troppo visibili (e fatta a guisa d'umbelico) le quali non si trovano punto dagli antichi, o non se le sente che il tasto, almeno non compariscono. Le unghie sono piu convesse. Voltandomi alla testa, gli dissi, che non possa essere moderna, per far glielo toccar con mano, per cagion dell'osso del naso, che non è stato mai reso visibile in testa giovinili e donnesche. E in somma, dissi, non avendo io vedute le 4 figure donnesche di Michel Angelo a Firenze, facciamo il confronto della testa di quella statua colla migliore fra le moderne, che sia a Roma. Quale è questa? Quella che voi vantate tanto, della prudenza al Monumento di Paolo III. fatta da Guil. della Porta sotto gli occhi del suo Maestro Miche Angelo. Che contorno meschino, che poverta de'rilievi, che affettamento umile e che eleganza mal intesa."
Guattani basandosi su alcuni elementi della statua di Cerere sedente quale il diadema, il velo ed il trono deocorato, ritenne che si poteva anche trattare di una Giunone; racconta che nel Palazzo Rondinini era esposta in una camera con 4 quadri del Vernet, e che una copia altrettanto grande era stata mandata poco tempa fa a San Pietroburgo. - Tocca adeso di ritrovare l‘originale della Cerere/Giunone.

Lo stesso vale per numerose altre sculture della collezione Rondinini documentate dagli inventari e dalle stampe del Guattani, come per le già citate teste di un "Marcello" e di un "Diadumeniano" (fig. 11B bis), per una testa di un satiro barbato illustrato dal Guattani insieme con la 'Medusa Rondanini' (Monumenti antichi inediti op.cit., Aprile 1788, tav. II), inoltre per una testa "egregiamente scolpita" di un uomo anziano barbato che "si attenga alquanto all'idea di Antonino Pio" (Guattani, Monumenti antichi inediti op.cit., Maggio 1788 p. XLIV, tav. III), per una testa femminile, secondo Guattani (Monumenti antichi inediti op.cit., Agosto 1788, tav. II a destra, testo ibidem, Settembre 1788, p. LXVIII) "Faustina juniore", per una testa di bambino (Guattani, Monumenti antichi inediti op.cit., Agosto 1788, p. LXIX, tav. III), per la statua monumentale di Igea seduta (Guattani, Monumenti antichi inediti op.cit., Novembre 1787 p. LXXXI-LXXXII, tav. I) pendant della Cerere seduta (fig. 27B) e valutata ben 800 piastre nel 1807 (v. supra), per la statua di un Baccho con l'uva nella mano sinistra alzata (Guattani, Monumenti antichi inediti op.cit., Settembre 1787, p. LXVII, tav. II), per una statua di Flora (Guattani, Monumenti antichi inediti op.cit., Giugno 1788, p. XLVI, tav. IIl; fig. 28B), che secondo le parole del Guattani non era restaurata come tale: "Anzi se delle Flore cognite si è più volte dibitato essere state muse in origine, questa non è stata così ridotta sicuramente da moderna mano"; oppure per una bella statua di Cerere in piedi (Guattani, ibidem p. XLV-XLVI, tav. II; fig. 29B) con spalla destra nuda, che viene paragonata alla Cerere Mattei "ora al Museo Pio-Clementino" (Musei Vaticani, inv. 2826) "in quanto alla mossa, al garbo ed alla maestria dell'atteggiamento". Anche due rilievi illustrati dal Guattani risultano dispersi: uno con Marte in piedi visto da dietro (ibidem, tav. II), l'altro la già citata scena di sacrificio (fig. 22 A quattro); infine il sarcofago della bambina Artemidora (iscrizione in greco), con rilievi raffiguranti giochi di bambini (Guattani, Monumenti antichi inediti op.cit., Maggio 1786, tav. III, spegazione Giugno 1786, p. XLI-XLV).

Nel Settecento ornava il Cortile (inventario 1807, cf. Salerno-Paribeni 1965 op.cit. p. 306), dove marchese Giuseppe Rondinini nel 1764 aveva fatto mettere la seguente iscrizione: „GENTILITIAS AEDES ELEGANTI CULTO ADAUXIT / COPIOSIS AQUAE FONTIBUS ANAGLIPHIS STATUIS / IMAGINIBUS LAPIDISQUE SCRIPTIS / DECORAVIT / MARCHIO IOSEPH RONDININI / ANNO DOMINI MDCCLXIV„.
Resta dunque molto lavoro da fare.

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