Speranza
“Elisir di si’ perfetta, di si’ rara qualita’...”
Può essere divertente ma
anche istruttivo leggere “L’elisir d’amore”, la popolarissima opera che Gaetano
Donizetti compose su di un eccellente libretto di Felice Romani tratto dalla
commedia di Eugene Scribe “Il filtro d'amore”, come una parodia di Tristano e Isotta,
l’antica leggenda di origine celtica collocabile intorno all’IIX secolo d.C.,
ripresa più tardi dalle medioevali “canzoni di gesta” francesi.
Ma anche come
una sdrammatizzazione anticipata, semplice e sorridente, dell’opera di Wagner,
"Tristano ed Isotta", che segue quella di Donizetti di più di trent’anni: capolavoro, quello del
musicista tedesco, certo sublime, ma in un modo talvolta così ampolloso ed
enfatico – e per responsabilità degli esegeti forse più che dell’autore – da
prestarsi quasi inevitabilmente ad una presa in giro liberatoria.
Il
parallelo è suggerito dalla stessa Adina, la ricca fittavola di cui è cotto il
paesano Nemorino, che, nella sua cavatina, comunica ai mietitori che sta
leggendo una storia
che le dà molto gusto, quella appunto di
"Tristano ed Isotta".
Senza immaginare che di lì a poco sarà chiamata a riviverla in una chiave molto
diversa.
In effetti, il terribile filtro preparato dalla maliarda madre
di Isotta qui diventa una fiaschetta di bordeaux spacciato come elisir d’amore
da un ciarlatano ambulante.
I due amanti sublimi, provenienti da leggende che
affondano nella notte dei tempi, sono sostituiti da due tenere figurine da
idillio campestre, come la fittavola ricca e capricciosa e il giovanotto buono
ma ingenuo.
La solenne ambientazione araldica fatta di cavalcate e duelli lascia
il posto ad un contesto paesano di bucolica serenità ma anche chiuso e
pettegolo.
La passione erotica assoluta di Tristano e Isotta, tutta giocata
intorno al binomio amore e morte, viene ridotta al corteggiamento un po’ sciocco
di due giovani che si studiano, si annusano, si girano intorno fra mille indugi
e ripicche prima di scoprire che, insomma, in zona non c‘è di meglio.
Quindi,
tutto quanto nella leggenda è grandioso, sublime, terribile, nell’opera di
Donizetti è rimpicciolito, banalizzato, ridotto alla quotidianità, per cui dal
confronto fra le due dimensioni l’effetto parodistico scaturisce inevitabile.
Tuttavia, la maliziosa lezione impartita da Adina a Dulcamara, che cerca
di piazzarle l’elisir, vale per allora come per oggi, per la fresca favola
contadina di Donizetti come per l’universo corrusco e sublime in cui sono
immersi Tristano ed Isotta.
Non ho bisogno dei tuoi intrugli, dice Adina al
ciarlatano, per conquistare Nemorino, perché
“la ricetta è il mio visino, in
quest'occhi è l'elisir”.
Il che è come dire:
non esiste nulla che possa indurre
forzatamente un sentimento e tanto meno l’amore fra uomo e donna, che può
nascere solo dal libero incontro fra le persone.
Quindi non si può considerare
vero amore quello che lega Tristano e Isotta, perché è indotto dal filtro
magico, non il frutto di una scelta spontanea e consapevole.
Perde così ogni
connotato umano per assumere le inquietanti sembianze del diabolico, per cui
l’attrazione diventa ossessione, il cercarsi continuo una condanna, l’unione dei
corpi e dei cuori una costrizione, irresistibile ma anche inevitabile.
Per cui
si capisce che anche la piccola, semplice opera giocosa italiana della prima
metà dell’800, può contenere, seppure in via mediata, una piccola, semplice,
profonda risposta ai problemi posti da quei monumenti musicali e filosofici che
sono le opere wagneriane.
Ma, prima ancora, “L’elisir d’amore” è l’opera
che compie l’impresa, in apparenza impossibile, di andar oltre il comico
rossiniano, proponendo un umorismo meno meccanico, meno da cartone animato, ma
più realistico, più umano, ingentilito da quella vena sentimentale che a
Donizetti era molto congeniale.
Se si pensa, poi, che questa nuova comicità è
realizzata attraverso una miniera di melodie fresche e zampillanti,
irresistibili per grazia e felicità inventiva, capaci di caratterizzare con
singolare efficacia i caratteri psicologici dei singoli personaggi, l’assoluto
valore storico e artistico di “Elisir” balza agli occhi.
E alla Fenice è
stata riservata all’”Elisir” l’accoglienza dovuta ad un amico di famiglia molto
amato, che non si vede da tanto tempo e ritorna a trovarci più brillante e
divertente che mai.
Il regista è il veneziano Bepi Morassi, che
ripropone, con degli aggiornamenti, il suo spettacolo del 2003. E’ una regia
spigliata, scanzonata, la sua, che non sembra prendersi troppo sul serio né
prendere troppo sul serio l’opera, pur rispettandone l’identità. La componente
buffa è enfatizzata rispetto a quella sentimentale attraverso un profluvio di
trovate e gags, alcune proprio simpatiche, come Dulcamara che canta il suo pezzo
finale “Ei corregge ogni difetto” entrando dal fondo della platea accompagnato
da due assistenti-veline che distribuiscono dolcetti al pubblico, già visto nel
2003 ma sempre di bell’effetto teatrale; altre invenzioni, invece, risultano più
convenzionali e dal retrogusto di déjà vu. Ma, insomma, l’insieme diverte e
molto sia il pubblico sia gli interpreti, creando fra palcoscenico e platea un
simpatico clima di complicità. Quindi va bene così; anzi, molto bene, anche se
un lavoro di ripulitura che eliminasse qualche gags superflua gioverebbe, così
come una maggiore attenzione alla componente larmoyant dell’opera, che trova
proprio nel geniale equilibrio fra comico e patetico il suo principale motivo di
fascino.
Le scene di Gianmaurizio Fercioni, molto essenziali, che
incorporano alcune riproduzioni dei fondali dipinti utilizzati per la premiere
dell’”Elisir”, non sembrano sempre adatte alla rutilante regia. I costumi, dello
stesso Fercioni, sono gradevoli ed appropriati, nonostante qualche inopinata
oscilazione fra un look tradizional-paesano ed uno corrispondente ai canoni
estetici di oggi.
Sul palcoscenico opera un cast di straordinari
specialisti; un manipolo di marpioni, sia detto con l’intenzione più affettuosa
e ammirata, capace con una nota o un’occhiata di conquistare il pubblico,
metterselo in tasca e portarselo dove vuole. E il pubblico, naturalmente, non
chiede di meglio e risponde alla grande, vivendo la vicenda a stretto contatto
emotivo con gli interpreti e subissandoli alla fine di applausi grati e
commossi.
Il capocomico di questa compagnia di guitti sublimi non può che
essere il baritono napoletano Bruno De Simone, fuoriclasse del melodramma
giocoso e buffo. Detto questo, conta nulla che qualche nota grave sia appena
accennata, che il fiato talvolta sia un po’ corto (dovrebbe imprestargliene un
po’ il ben più giovane Nemorino), che lo strumento non sia mai stato iperdotato
né per bellezza di timbro né per volume. Conta, invece, che, non solo ma anche
attraverso di lui, erede sopraffino della leggendaria scuola dei buffi
napoletani, trovi moderna incarnazione il miracolo del teatro in musica,
permettendo a questa scatola magica ove si canta invece che parlare di
spalancarsi ancora e ancora sciorinando davanti agli occhi stupefatti di chi
l’ama tutte le sue meraviglie. De Simone nel suo repertorio è signore del canto,
per il fraseggio sempre espressivo, pertinente, incisivo e spiritoso, per la
musicalità spiccata e l’intonazione precisa; ed è signore del palcoscenico,
dominato con una presenza mai invadente, che trova nell’accenno, nell’allusione,
nel tic, la sua irresistibile cifra espressiva.
Accanto ad un capocomico
di questo livello si danno da fare altri artisti di assoluto valore. La
primadonna, il soprano palermitano Désirée Rancatore, è una Adina fresca,
spiritosa e molto divertita, ugualmente sicura e convincente tanto nel canto di
coloratura quanto in quello patetico. Difficile immaginare di meglio in questo
repertorio, che l’artista domina con esiti di alto livello e con sicurezza
assoluta.
L’amoroso, il giovane tenore canario Celso Albelo, è un
Nemorino prezioso, dal timbro cristallino e carezzevole, ma capace, quando
occorra, di accenti vigorosi. I fiati sono interminabili e quindi il legato è
agevole. L’interprete ha personalità, non ha paura del palcoscenico, su cui si
muove con assoluta disinvoltura, né del pubblico, con cui entra subito in
empatia: e questa è una dote importante almeno quanto le capacità vocali per
imporsi nel teatro in musica. Bisogna correggere qualche sporadica forzatura di
emissione, lavorare ancora sull’accento e sul fraseggio, non accontentarsi
insomma, e l’eccellenza è a portata di mano. Il direttore gli concede due
puntature fuori ordinanza, ben acchiappate e a lungo tenute. Scandalo? No, per
chi crede che il teatro d’opera sia vita, gioia e divertimento e non un museo
ove di tanto in tanto si scoprono dei simulacri polverosi per esporli al culto
dei devoti. Ben venga, quindi, entro i limiti opportuni, l’aggiunta di qualche
bell’acuto soprattutto per chiudere le cadenze, ove, nel melodramma italiano del
primo ottocento, si tendeva a lasciare libertà esecutiva al cantante; purché
quest’ultimo, ovviamente, oggi come ieri o l’altro ieri, sappia eseguire a
puntino. Il secondo buffo, il baritono Roberto De Candia, è un Sergente Belcore
ruvido e spiccio come il personaggio richiede, ma un’emissione più morbida e
rotonda in certi momenti poteva essere appropriata e avrebbe permesso di giocare
su di una maggiore varietà di tinte.
Il giovane maestro Matteo Beltrami
crea un bell’amalgama fra l’orchestra ed il palcoscenico, requisito fondamentale
per la buona riuscita di questo repertorio e fa sempre le scelte giuste di tempi
e di colori. Nelle dichiarazioni rilasciate alla vigilia comunicava la sua
preoccupazione per il bilanciamento tra le voci e l’orchestra, ricordando
giustamente come gli ottoni moderni siano più sonori di quelli che comparivano
nelle orchestre del primo ottocento. In effetti qualche eccesso dinamico di
tanto in tanto si è avvertito, ma non al punto da inficiare una prova che, nel
suo insieme, può considerarsi di ottimo livello. Il coro, cui Donizetti affida
un ruolo importante di accompagnamento e di commento delle vicende, è quello del
teatro, diretto da Claudio Marino Moretti, e si disimpegna bene sia nel canto
sia nella recitazione.
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