Thursday, April 25, 2013

Ketterer, Ancient Rome in Early Opera -- romanità -- Otone in Villa -- I Romani sulla scena operistica

Speranza

C. O. Tommasi Moreschini.


Premettiamo col dire che la scelta di scrivere questa recensione
in italiano è motivata da un ideale omaggio
alla lingua che nei secoli ha caratterizzato
la storia della musica lirica e dell'opera seria
in particolare.

Il libro in questione, il cui autore si divide tra gli studi classici, essenzialmente sul teatro antico, e quelli musicali (è, tra l'altro, vice presidente dell'American Händel Society) costituisce una presentazione di una serie di opere in musica aventi come sfondo la romanità.

Il mondo antico, tanto con le vicende storiche che con i racconti mitologici, offrì peraltro una facile rispondenza agli intrighi e alle trame complesse che fin dagli albori caratterizzarono il melodramma.

A questo proposito salutiamo con piacere un altro libro e un'altra recensione con analoghe caratteristiche,

Michael Ewans, Opera from the Greek: Studies in the Poetics of Appropriation. Aldershot/Burlington, VT 2007, BMCR 2009.06.32.

La ricerca di Ketterer è incentrata soprattutto sui
libretti e sulle sue fonti, benché non manchi,
qua e là, qualche esempio musicale
che meglio serve a sottolineare determinati snodi e passaggi contenutistici.

Peraltro, va ricordato che spesso il medesimo libretto
veniva riutilizzato, talvolta con adattamenti
e poche variazioni, da più autori.

In maniera assai opportuna, le
opere prese in esame sono divise per temi:

-- il trionfo dell'amore
-- il "locus amoenus"
-- la "clementia principis"
-- il problema dell'imperialismo e dei popoli conquistati da Roma

-- e raggruppate in base al loro contenuto.

Dati i contenuti del volume,
borderline tra cultura classica e musicale, e
dato il target dei potenziali lettori, ossia
-- supponiamo --persone che coltivano
come violon d'Ingres o il mondo classico
o la storia della musica, è naturale che

Ketterer richiami in maniera piuttosto
generale episodi assai noti
della storia romana o
faccia riferimento basandosi su testi
manualistici a clichés -- si spera -- ben
assodati presso i cultori della classicità
(p. es. Livio, 'storico pompeiano' di p. 4),
come anche a snodi essenziali nella storia del teatro musicale.

La lettura è comunque piacevole e il libro è solidamente impostato.

Numerosi sono i testi dei libretti citati e commentati (e corredati da traduzione inglese), alcuni dei quali inediti per il mondo anglosassone.

Come ulteriore dettaglio positivo, segnaliamo la pregevole
qualità della stampa, la presenza di illustrazioni e
il costo assai ragionevole.

Scopo dell'autore è quello di dimostrare
come i numerosi

 'drammi per musica'


con temi tratti dalla storia romana avessero
la funzione di veicolare aspetti
particolari del mondo antico, il
quale veniva a trovarsi, da un
lato, fissato nella sua algida
lontananza e con figure
animate da nobili ideali o da
passioni estreme, dall'altro
si trovava ad essere reso più attraente
per gli ascoltatori contemporanei,
non di rado a prezzo di licenze alla verità storica.

Tali licenze non devono
meravigliare e non devono
destare il sussiegoso
disprezzo che ancor
oggi aleggia nei confronti di
certe opere artistiche
destinate più all'intrattenimento o
alla popolarità -- si pensi, mutatis mutandis
alle opere cinematografiche o a una serie televisiva di largo successo come
"Roma".

Tanto le une quanto le altre dietro agli aspetti
di più largo consumo non di rado
celano attento lavoro editoriale e consapevolezza
degli aspetti che a bella posta
vengono alterati (per il cinema cfr. ora l'articolo di
D. Campanile, "Film storici e critici troppo critici", SCO 52, in corso di stampa).

Passando più dettagliatamente ai contenuti, dopo
una presentazione degli obiettivi del volume,
il secondo capitolo è incentrato su

"L'incoronazione di Poppea" (1637) di
Busenello e Monteverdi,
 che trae spunto dalla
praetexta pseudo-senecana
"Ottavia" e dai libri neroniani
di Tacito, ma che,
conformemente ad una 'regola non scritta' del
teatro musicale, particolarmente
fino a Mozart, termina con
un
"lieto fine"

alquanto sorprendente per la mentalità attuale, ma non per quella del pubblico coevo alle prime rappresentazioni.

Come si vede anche nella maggior parte delle opere esaminate, il "lieto fine" è una costante, anche a costo di forzature alla storia.

Eclatante il caso di Arminio, di cui alle pp. 132 sgg., o, in misura minore, del "Catone in Utica", pp. 124 sgg., il cui testo, originariamente previsto da Metastasio con un finale tragico, fu modificato in seguito per andare incontro al gusto del pubblico.

Ma si potrebbe qui ricordare anche la Medea di Francesco Cavalli, che termina con ben due matrimoni, quello di Giasone con Ipsipile e quello di Medea con Egeo!

Accanto al marcato stoicismo che anima l'opera monteverdiana
e che d'altro canto costituiva l'arrière pensée
di molto tacitismo cinquecentesco, nel
cui ambiente si era formato il librettista Giovanni
Francesco Busenello, Ketterer individua
nel motivo del 'trionfo dell'amore' che
permea l'opera la ripresa di temi
del neoplatonismo rinascimentale, particolarmente di Marsilio Ficino.

L'interpretazione è abbastanza interessante e nuova, anche se,
personalmente, tenderemmo a sfumarla un po' di più (su Poppea e il mondo classico si possono leggere ora considerazioni molto interessanti di Gesine Manuwald.

Cfr.

"Der Stoiker Seneca in Monteverdis L'incoronazione di Poppea", in:
T. Baier / G. Manuwald / B. Zimmermann (hrsg.),
"Seneca: philosophus et magister", Freiburg 2005, 149-185.

Nero and Octavia in baroque opera:
their fate in Monteverdi's Poppea and Keiser's Octavia.
Ramus 34.2, 2005, 152-166.

Trattandosi di opere destinate allo svago e al divertimento, è chiaro come il tema amoroso e l'intrigo che porta al ricongiungimento finale dei due amanti siano prevalenti nella maggior parte di esse, benché, accanto ad esso, agiscano anche motivi.

Ad esempio il personaggio di "Otone", già adombrato come tale in Monteverdi, diviene il prototipo del giovane amante sia nell'"Otone in villa"di Vivaldi che nell'"Agrippina" di Händel (cap. 3).

In tal modo, del noto
ritratto tacitiano è mantenuto
solo l'aspetto lascivo, sia
pure depauperato delle
componenti maggiormente
negative e, accanto ad esso,
agisce un influsso della
letteratura elegiaca (rivivificata a partire dalla fine del Cinquecento grazie agli innesti arcadico-pastorali), grazie, ancora una volta, alla presenza di più eroine femminili.

Più complessi, invece,
i temi che fanno da sfondo
alle riproposizioni di una storia favorita da artisti di ogni tempo, vale a dire quella degli amori di
Sofonisba,
Massinissa e
Siface (Livio, 30).

Ketterer ne discute al cap. 4, prendendo in esame "Lo Scipione Affricano" di Francesco Cavalli, e rintracciandovi influenze della
produzione ovidiana,
soprattutto nel modo in cui è tratteggiata la protagonista.

La presenza di altri motivi oltre a quelli
della vicenda amorosa si
può invece osservare in un
gruppo di opere legate inoltre
dal filo conduttore dell'eroismo
 e della virtù, e precisamente
quelle che hanno come sfondo la
vicenda della continenza di Scipione in Spagna (Livio, 26,50; Polibio, 10,19)
e quelle, ancor più famose, che celebrano la clemenza del buon sovrano, con l'exemplum di "Tito" (capitoli 4 [in parte], 5 e 8, rispettivamente).

A parte l'elogio delle donne virtuose e fedeli
sino all'eroismo, le varie
opere qui discusse presentano
molte somiglianze, in quanto
tendono a mettere in evidenza
come un condottiero o un re debbano
perseguire in tutto e per tutto la felicità
dei propri sudditi, anche a costo di rinunziare ai loro
 interessi o capricci personali.

Scipione, in particolare, è, ancora
una volta rappresentato come il modello
stoico dell'eroe.

È chiara quindi la componente panegiristico-laudativa
che emerge da una lettura in filigrana di
questi drammi, non a caso spesso
rappresentati per la prima volta in occasione
dell'ascesa al trono di un sovrano.

Si aggiunga tuttavia che è caratteristica
degli specula principis fin dal modello del
De Clementia di Seneca o dei
discorsi di elogio dei retori della Seconda Sofistica, di far
intravvedere, accanto al panegirico,
anche un velato monito al governante
di non allontanarsi dalle caratteristiche ideali
appunto tratteggiate in tali specula.

Parimenti, il motivo encomiastico
si manifesta in misura ancor
più evidente in altre opere,
come "Il Giulio Cesare in Egitto" di Sartorio e Haym/Händel, di cui si discute al capitolo 6.

Come si può agevolmente vedere, il personaggio di
"Giulio Cesare"è raffigurato da parte di
librettisti e compositori secondo
una duplice ottica,
potente trionfatore e condottiero eroico, ma
clemente.

Non manca, naturalmente, la storia d'amore con Cleopatra.

La duplicità di interpretazione cui
si presta un personaggio
complesso come Giulio Cesare (ossia, schematicamente,
sovrano o tiranno) emerge tuttavia in opere come
"Il Catone in Utica" di Vivaldi o "La prosperità infelice di Giulio Cesare dittatore", di Monteverdi, le quali sono, anche in questo caso, animate da tendenze stoicheggianti e, in parte anticiperanno, certe letture successive del personaggio di "Catone Uticense" (da parte di Addison o di Alfieri, per i quali giustamente Ketterer rintraccia un antecedente nella figura del "Catone" dantesco del primo canto del Purgatorio.

Il problema di Roma Antica e delle
conquiste tra tarda repubblica e
Impero è affrontato anche in un capitolo dedicato,
per così dire, all'ottica dei vinti, ove si esaminano
il motivo di Arminio e della
resistenza dei Germani (cap. 7).

Anche in questo caso ci troviamo
davanti ad opere a lieto fine, visto che Arminio,
reso fedele ai Romani, può sposare
la giovane di
cui è innamorato, pronuba
Agrippina in persona!

Come nella maggior parte
dei testi scritti con funzione
laudativa, è evidente che il finale
ha chiari intenti pedagogici, ossia
 intende dimostrare che la
dominazione romana costituiva
una sorta di benedizione per tutti
i popoli dell'orbe.

Tuttavia, trattandosi di opere nate
per il divertimento del pubblico e
(in qualche circostanza) per la celebrazione
dei regnanti, non solo pare obbligato
il lieto fine, ma sarebbe
fuori luogo anche qualunque
riflessione sugli arcana imperii o
sul problema delle conquiste che
Tacito aveva fatto nella sua opera,
utilizzata come base dai librettisti.

Ciò vale a maggior ragione
per quelle opere che, anche
musicalmente, enfatizzavano la
componente imperialista e trionfatrice,
le quali non devono essere per
questo considerate in maniera negativa o, peggio,
ritenute un modo velato di far satira.

Lo osserva, del resto, assai sensatamente, Ketterer a p. 114,
con considerazioni dettate
forse da scrupoli eccessivi e
caveats imposti da un eccesso di correttezza politica.

Al tempo stesso, condividiamo
pienamente le vivaci osservazioni
finali a proposito delle rappresentazioni
moderne e delle stravaganze di alcuni
registi circa il modo di mettere in scena
opere dal forte significato trionfalistico
come appunto "Il Giulio Cesare in Egitto", o anche il "Lucio Silla" di Mozart, un malcostume purtroppo sempre più diffuso, che nasce sia dalla mancanza di idee originali, sia da un desiderio, ormai datato e dunque sterile, di "épater le bourgeois" (chi scrive ha assistito a una Semiramide di Rossini in cui Assur sniffava cocaina, ma sono ben noti i vari casi di Norma ambientata tra i Nazisti, Faust in cui Margherita uccide il bambino nella lavatrice, fino al recente Idomeneo di Berlino in cui venivano decapitati i simboli delle religioni, Buddha, Cristo e Maometto -- differente invece l'operazione di Carmine Gallone, tanto per fare un solo esempio, nel film "Avanti a lui tremava tutta Roma" http://www.imdb.com/title/tt0038443/, che contamina in maniera intelligente Tosca e l'atmosfera in stile Roma città aperta.

Conformemente ad una tendenza ormai diffusa, e,
direi, naturale data la provenienza dell'autore,
la letteratura secondaria è costituita
soprattutto da lavori in lingua inglese -- e del resto gli Stati
Uniti possiedono eccellenti centri di ricerca sull'opera e, più in generale sugli studi italianistici.

A questi avremmo però aggiunto
volentieri studi di autori italiani
che nel corso del ventesimo secolo
hanno contribuito a far riemergere
dall'oblio un genere letterario considerato minore, come il libretto d'opera, e
a donare piena dignità letteraria a questi scrittori, primo tra tutti Metastasio.

Ci riferiamo, tra gli altri, a

Luigi Baldacci,
Giovanna Gronda,
Daniela Goldin.

Sorprende anche la mancanza di un libro come quello di
Danielle Porte, su

"L'inspiration antique dans l'opéra", Paris 1987, o

del lungo articolo di

Giovanni Morelli,

"Il 'classico' in musica, dal dramma al frammento",
in S. Settis--D. Lanza (edd.), I Greci, III, I Greci oltre la Grecia, Torino 2001, pp. 1175-2044.

Ma soprattutto, nella prospettiva di un classicista, gli studi scritti in una prosa vivace e pieni di spunti originali di Cesare Questa, che è maestro riconosciuto dei rapporti tra cultura classica e libretti d'opera e che ha scritto pagine illuminanti sia sulla Poppea di Monteverdi, anticipando la presenza del tema dell'omnia vincit amor, sia sulla Clemenza di Mozart (cfr. ad es.

"I Romani sulla scena operistica", in

L'aquila a due teste. Immagini di Roma e dei Romani, Urbino 1998).


In ogni caso questi rilievi
non inficiano la qualità
generale del volume, che si legge
piacevolmente e che è assai
utile per mostrare quanto
polimorfa possa essere la fortuna degli autori classici.

Ketterer ha messo in giusto rilievo la trasformazione
delle vicende della storia romana, dimostrando
come tale trasformazione abbia potuto
attingere linfa dalle tendenze culturali dell'epoca in cui le opere furono composte.


Per talento e gusto inclina di
più verso l'opera dal Settecento in avanti (e più precisamente da Mozart in poi),
 manifestamo solo il desideratum di non aver potuto leggere
pagine su un capolavoro assoluto come la Norma o su altre opere meno note, ma egualmente interessanti e degne di riscoperta, come il "Nerone"di Boito, la "Lucrezia"di Respighi, il "Satyricon"di Bruno Maderna (per tacere delle opere 'romane' dello stesso Mozart, Lucio Silla, Il Sogno di Scipione, o la stessa Clemenza).

E anche nel periodo preso in considerazione si sarebbero lette volentieri, ad esempio,
pagine sul "Farnace" vivaldiano.

Più che una critica, tuttavia, questa conclusione deve leggersi come un auspicio per futuri sviluppi della ricerca.

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