Saturday, May 18, 2013

La storia della lingua italiana ----

Speranza

   

La storia della lingua italiana è la descrizione diacronica delle trasformazioni che la lingua italiana ha conosciuto nel tempo.

 

 


La distribuzione delle parlate nell'Italia pre-romana
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L'italiano è una lingua romanza, cioè una lingua derivata dal latino.

Come tale, appartiene alla famiglia delle lingue indoeuropee.
 
L'indoeuropeo è una lingua virtuale: essa cioè non è storicamente verificata, ma è stata ricostruita retrospettivamente a partire da diverse lingue, sia vive sia morte. Si immagina che un gruppo di tribù, dislocate tra Europa e Asia tra il IV e il III millennio a.C. e parlanti dialetti affini, si sia sparso attraverso diverse migrazioni, assorbendo le parlate dei popoli conquistati.[1]
 
Verso la fine del II millennio a.C., una delle popolazioni indoeuropee, che parlava il dialetto destinato a diventare la lingua latina, si installò nella penisola italiana.[2]
Secondo l'idea tradizionale, quindi, in età classica il latino si impose sulle lingue delle popolazioni con cui i Romani si imbatterono nella penisola italiana.[3] Se tra il III e il II secolo a.C. la penisola italiana è ancora costellata da diverse parlate, al tempo di Augusto esse sono ridotte e "vernacoli di scarsa importanza"[4].
Il ligure, già profondamente compromesso dall'impatto con le lingue celtiche, viene definitivamente dissolto dall'avanzare del latino[4].
 
La guerra sociale (88 a.C.), che vede i Romani sconfiggere le popolazioni italiche, segna il declino dell'etrusco e delle lingue osco-umbre.[2] Bruno Migliorini nota che, a quanto sembra, dell'etrusco "nessuna iscrizione sia posteriore all'era cristiana"[4]: pare, comunque, che l'imperatore Claudio (I secolo d.C.), nei suoi studi di etrusco, si avvalesse di parlanti e che la lingua fosse dunque ancora viva. È poi probabile che l'etrusco sia persistito come lingua cultuale fino al IV secolo d.C. e che gli Etrusci haruspices che accompagnavano gli eserciti di Giuliano consultassero libri ancora scritti in etrusco.[4]
Il celtico potrebbe essere sopravvissuto in Gallia (e in particolare nelle Alpi elvetiche) fino al V secolo d.C. e forse oltre.[5]
La persistenza del greco in Calabria e Puglia in età imperiale rimane questione controversa: probabilmente fu il prestigio culturale della lingua e il fatto che fosse lingua ufficiale della parte orientale dell'Impero ad aver tenuta accesa una qualche resistenza, fino al rinnovamento bizantino.[5]

 



Per definire il rapporto tra latino e italiano è molto importante delineare lo sviluppo del latino parlato, con le sue variazioni diatopiche (da luogo a luogo) e diastratiche (secondo la stratificazione delle classi sociali), in particolare a partire dall'età imperiale.
 
Il latino parlato correntemente dal popolo non corrispondeva al latino classico, modello letterario codificato da alcuni autori tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C. e poi oggetto di studio in epoca moderna.
 
Il cosiddetto "latino volgare" si presentava in diverse forme, con forti variazioni diatopiche.

Da esso sorsero le diverse lingue neolatine.
 
Il latino volgare era, in quanto lingua parlata, di gran lunga più sensibile al cambiamento di quanto non fosse il latino della tradizione letteraria.
 
Ciò nonostante esso conservava molti tratti che avevano accompagnato la lingua latina fin dalla sua fase arcaica.
 
Ad esempio, la caduta della "-m" finale (il fenomeno che ha condotto dall'accusativo fontem all'italiano fonte) si registra già in iscrizioni arcaiche e, per quanto censurato, finì per affermarsi nel Basso Impero.
 
In poesia, peraltro, la "-m" finale seguita da parola iniziante con a- non veniva pronunciata.
 
Per quel che riguarda le variazioni diastratiche, già le fonti classiche danno conto di quelle dell'epoca: si parla di sermo plebeius, militaris, rusticus, provincialis[9].
 
 
Quanto alle direttrici del cambiamento[10], si possono indicare per esempio la scomparsa dei casi e la nascita degli articoli.
 
Per quanto riguarda gli articoli, il numerale latino "unus", per esempio, che significava anche qualcuno, un tale divenne articolo indeterminativo (unus indeterminativo è usato anche da Ovidio nelle Metamorfosi).
 
 
 
 
 
Alcuni pronomi dimostrativi divennero articoli determinativi e nuovi dimostrativi vennero formati fondendo i vecchi ille e iste con eccu(m).
 
Caddero inoltre le consonanti finali delle parole (es.: amat diventò ama).
Importanti fondamenti del cambiamento del latino parlato sono due fatti storici[11]:
 
--- il regime personale di Ottaviano Augusto (I secolo a.C.-I secolo d.C.), con le sue conseguenze sulla struttura sociale della Roma antica
 
-- il diffondersi del Cristianesimo, rispetto al quale una data importante è certo il 313 (anno dell'Editto di Milano, con cui i due augusti Costantino e Licinio proclamano la libertà religiosa nell'Impero romano), anche se "i privilegi concessi ai Cristiani segnano solo il libero espandersi di peculiarità prima represse"[11].


Esiste una tradizione aneddotica sulla propensione di Augusto verso i volgarismi, forse difficile da valutare, ma certamente sintomatica.

Quanto al Cristianesimo, è incalcolabile la sua influenza linguistica.

Ciò sia per quanto riguarda il lessico, che viene influenzato da una nuova sensibilità e da un nuovo armamentario concettuale, sia per quanto riguarda il rivolgimento a livello di strutture sociali.

Il trionfo linguistico del Cristianesimo risale al IV secolo d.C.: per lungo tempo, la lingua dei cristiani è una sorta di lingua speciale, utile per rinserrare "legami sociali e religiosi" tra persone della stessa fede o comunque intente a ragionare sui medesimi (nuovi) concetti.[12]


In questo contesto, è facile constatare che la lingua scritta è più conservativa, anche se sarebbe erroneo concepire latino parlato e latino scritto come due mondi separati: l'influenza delle due forme di espressione fu reciproca e forte, e la stessa lingua parlata dagli analfabeti influì sulla lingua scritta e sorvegliata. Si può osservare che "la lingua letteraria si costituì attraverso una stilizzazione del parlato"[13]: ciò accadde ai tempi della Repubblica (convenzionalmente a partire da Livio Andronico, nel 240 a.C.). Le differenze tra parlato e scritto, lievi all'inizio, finiranno per essere assai forti, ma prima dell'Impero lo scarto riguardava più una questione di stile e di registro: non ci troviamo, insomma, affatto di fronte a due lingue diverse.[13] Quando Cicerone scrive a Papirio Peto

verumtamen quid tibi ego videor in epistolis? Nonne plebeio sermone agere tecum? 
(Lettere familiari, IX, 21)
quel plebeio sermone non va certo inteso come "latino volgare": Cicerone intende solo "alla buona"[13][14].

Le cose, comunque, cambiano in età imperiale: anche se le varietà diatopiche delle diverse province dell'Impero restano reciprocamente compatibili, si fa sempre più forte l'influenza del parlato meno colto, il che è particolarmente vero con la cosiddetta crisi del III secolo, "quando [...] l'ignoranza dilaga"[15]. Anche in questa fase i grammatici cercano di proteggere la lingua dalla "corruzione", non solo a Roma, ma anche nelle province. La forza innovativa della lingua parlata, almeno fino alla crisi del III secolo, obbedisce comunque agli orientamenti accolti nella capitale o in essa partoriti.[15] Dopo la crisi, invece, il prestigio di Roma è compromesso: le premesse di questa spinta centrifuga possono essere trovate in quella nova provincialium superbia di cui si lamenta il senatore Trasea Peto ai tempi di Nerone (Tacito, Annales, XV, 20) e significative le elezioni a imperatore di personaggi come Traiano e Adriano (nati entrambi a Italica, nei pressi dell'odierna Siviglia) o Antonino Pio e Marco Aurelio (di origine gallica).[5]

 

Il latino aveva dieci vocali.

Le stesse cinque vocali dell'alfabeto latino moderno potevano essere articolate brevi o lunghe (la quantità vocalica era distintiva) e "con ogni probabilità quello fra i caratteri dell'accento che aveva valore distintivo era l'altezza musicale"[17].

Così, ad esempio, vĕnit (con la e breve) voleva dire "viene", mentre vēnit (con la e lunga) voleva dire "venne".

Allo stesso modo sŏlum voleva dire "suolo", mentre sōlum voleva dire "solo".

Questo sistema a lungo andare venne meno e nel vocalismo latino finì per essere determinante non più la quantità, ma il timbro (o qualità), cioè se la vocale era chiusa o aperta, mentre al posto dell'altezza musicale l'accento si fa intensivo[17].

Il sistema più diffuso in Romània era costituito da sette vocali: i, é, è, a, ò, ó, u, dove è rappresenta la e aperta, é la e chiusa.[16]

 

In fiorentino è e ò toniche in sillaba aperta (cioè terminante con vocale) dittongarono secondo il seguente schema:

è

ò

Come accennato, il fenomeno si presenta solo in caso di sillaba aperta e non nel caso di sillaba implicata (cioè terminante come consonante). Così[18]:

fŏ-cusfuoco
  • cŏr-puscorpo

Vocali atone: semplificazione [modifica]

Delle dieci vocali atone (protoniche o postoniche, cioè, rispettivamente, poste prima o dopo la sillaba accentata) del latino, si passa a cinque[19].

Anafonesi [modifica]

Squisitamente toscano è il fenomeno dell'anafonesi, cioè la chiusura delle vocali chiuse é e ó, secondo lo schema:
  • éi
  • óu
L'anafonesi avviene in particolari condizioni[18]:
  • é deve essere seguita
    • da laterale palatale (la [ʎ] di figli), dal precedente nesso latino -lj-, per cui famĭliafamégliafamiglia
    • da nasale palatale (la [ɲ] di bagno), dal precedente nesso latino -nj-, per cui gramĭneagramégnagramigna[20]
    • dal nesso -ng-, per cui lĭngualéngualingua
    • dal nesso -nk-, per cui vĭncovéncovinco
  • ó deve essere seguita
    • dal gruppo consonantico ng, per cui fŭngusfóngofungo

Evoluzione dei dittonghi latini [modifica]

Quanto ai dittonghi del latino classico[21] (ae, oe, au), una tipica tendenza del latino parlato (che si riflette nelle lingue romanze) era quella di monottongarli:
  • aee aperta
A seconda se la sillaba è aperta o implicata, si riproduce quanto detto per l'anafonesi. Così, ad esempio[21]:
  • maestusmesto
  • laetuslieto
  • oe (peraltro raro) → e
  • poenapena
  • auo
Se già in qualche caso del latino classico si constata il monottongamento (caudacoda, con o chiusa), il fenomeno si generalizza nell'alto Medioevo (si passa a o aperta)[19][22]:
  • paucu(m)poco
  • causa(m)cosa
  • auru(m)oro

Epentesi [modifica]

Nell'evoluzione dal latino all'italiano si registra in qualche caso l'epentesi, cioè il formarsi di una vocale o di una consonante intrusa nella parola. Così, ad esempio[21]:
  • baptĭsmusbattesimo
  • vĭduavedova

Sincope [modifica]

Più significativo in questo contesto il fenomeno della sincope, cioè la caduta di una vocale all'interno di parola. Ciò accade particolarmente nel caso di vocali intertoniche[23] (poste, cioè, tra sillaba con accento secondario e sillaba tonica), mentre è più raro in caso di vocali postoniche[24].
I linguisti hanno registrato che "l'italiano centrale e meridionale è, insieme col romeno, meno soggetto alla sincope che lo spagnolo, e questo a sua volta meno che il francese"[25]. Interessanti sono anche casi con esiti diversi: dal latino tegŭla provengono tanto tegghia (→ teglia) e tegola; addirittura triplice è l'esito di fabŭla (→ fola, fiaba e favola). Migliorini ritiene probabile che le diverse forme possano aver convissuto per secoli: una più tradizionalista, priva di sincope, ed una più "plebea", con sincope.[25]
Si registrano anche casi di aferesi (illeilei, dove illei è una parola "ricostruita", cioè non riscontrata nelle fonti, ma ipotizzata retrospettivamente) e di apocope (bonĭtatembontadebontà)[19].

Evoluzioni fonologiche dal latino all'italiano: il consonantismo [modifica]

Per quanto riguarda il consonantismo, si registra, come accennato, la caduta delle consonanti finali (di cui -m è un caso precoce) e, in alcuni casi, la sonorizzazione delle sorde intervocaliche p, t e k, secondo questo schema:
La sonorizzazione occorre anche per s intervocalica (più precisamente fricativa alveolare sorda intervocalica), solo che il fatto non è registrato graficamente (infatti, la s di rosa è sonora, la s di casa è sorda).
Questi fenomeni di sonorizzazione non sono, come accennato, sistematici in italiano. Se, infatti, abbiamo
  • scutumscudo
  • lacuslago
registriamo peraltro
  • amicusamico (ma confronta lo spagnolo amigo)
  • petrapietra (ma confronta lo spagnolo piedra)
  • apĕrtusaperto (ma confronta lo spagnolo abierto)
La t in finale di parola non lascia quasi traccia in italiano: al più, in alcuni dialetti, mantiene l'antico valore flessionale (in area lucana e calabrese, come in mi piàciti: nella stessa area si mantiene s in finale di parola, che già in età repubblicana aveva patito un andamento oscillante).[26]
Una testimonianza di Servio indica che al principio del V secolo si tende a pronunciare assibilate le t e le d davanti a vocale.
(LA)
« Iotacismi sunt, quotiens post ti aut di syllabam sequitur vocalis, et plerumque supradictae syllabae in sibilum transeunt, tunc scilicet quando medium locum tenent, ut in meridies»
(IT)
« Gli iotacismi avvengono ogni volta che dopo ti o di alla sillaba segue una vocale, e per lo più le suddette sillabe si assibilano, quando - s'intende - si trovano in posizione media, come in meridies»
(Servio, Don. IV 445 K.[27])
Sempre a proposito di t è importante una testimonianza del grammatico Papirio:
(LA)
« iustitia cum scribitur, tertia syllaba sic sonat, quasi constet ex tribus litteris t, z et i»
(IT)
« quando si scrive iustitia, la terza sillaba si pronuncia così, come se fosse formata dalle tre lettere t, z e i»
(Papirio, ap. Leil, Gramm. Lat., VII, 216[28])
Quanto all'aspirata h, si assiste ad una sparizione. Che si tratti di una tendenza rustica è forse indicato dal fatto che il fenomeno si ravvisa innanzitutto in parole come olus e anser. Lo sforzo dei grammatici per tenere in vita la h è testimoniato da diverse iscrizioni, da due prescrizioni della Appendix Probi, nonché da un passo delle Confessioni di Agostino di Ippona (I.18). È invece antica la tendenza a indebolirla quando al centro di parola (prehendoprendo; nihilnil).[26]
Esistono poi dei fenomeni di rafforzamento consonantico, testimoniati dalla Appendix Probi: le prescrizioni camera non cammara e aqua non acqua indicano che è già in atto una tendenza che si consolida con la lingua italiana, cioè appunto il rafforzamento, sia nel caso di consonanti postoniche in parole proparossitone, sia nel caso di u semiconsonante.[29]
Per quanto riguarda la prostesi, l'italiano si colloca a metà strada tra alcune lingue romanze che l'hanno sempre (come il francese e lo spagnolo, che, ad esempio, hanno rispettivamente étude e estudio per "studio", o épée e espada per "spada") e il rumeno che non l'ha mai.[29] Forme come istrada o istudio o Isvizzera sono comunque ormai percepite come desuete dagli italofoni.

Evoluzione dei nessi consonantici [modifica]

L'evoluzione dei nessi consonantici dal latino all'italiano registra alterazioni di vario genere[30]:
  • assimilazione regressiva[31]:
    • lactemlatte
    • septemsette
    • advenireavvenire
  • dissimilazione (una delle occorrenze di uno stesso suono, ripetuto in parola a breve distanza, viene sostituita da altro suono, per evitare quella che viene percepito come cacofonia:
    • venenumveleno
  • i nessi consonante+l passano a consonante+iod:
    • pluspiù
    • clamatchiama
  • i nessi consonante+l, se posti tra due vocali, registrano il raddoppio della consonante:
    • nebulanebla[32]nebbia
    • vetulusvetlus[32]veclus[32]vecchio

Evoluzioni morfologiche dal latino all'italiano [modifica]

Ad un confronto tra il latino classico e quello volgare, si vede che le due lingue appartengono a tipi linguistici differenti. Il cambio, si può dunque dire, è stato radicale e si sostanzia dei seguenti tre punti[33]:
  1. perdita del sistema dei casi, con le sue declinazioni
  2. perdita del neutro
  3. ristrutturazione del sistema verbale

Semplificazione del sistema delle declinazioni [modifica]

La quarta e la quinta declinazione del latino classico sono le più "deboli" e scompaiono quasi del tutto[33]:
  • I vocaboli della quinta confluiscono nella prima (faciesfaccia, rabiesrabbia)
  • I vocaboli femminili della quarta confluiscono nella prima (nurusnora[32]nuora, socerussocerasuocera; manus ha invece mantenuto il genere femminile e l'uscita in -o)
A far sì che si perdesse il sistema di casi e desinenze contribuì la caduta delle consonanti finali (in particolare -m).[33]
Una conseguenza molto importante di questa evoluzione riguarda la sintassi: mentre nel latino classico i casi permettevano una grande (anche se non assoluta) libertà nell'ordine delle parole, nelle lingue romanze la sintassi si irrigidisce.[33] Così ad esempio:
  • Petrus Paulam amat (forma non marcata soggetto - oggetto - predicato)
  • Petrus amat Paulam
  • Amat Paulam Petrus
Tutte queste frasi latine corrispondono alla italiana Pietro ama Paola: in italiano non è possibile distinguere il soggetto dall'oggetto se non dalla collocazione nella frase. Paola ama Pietro avrebbe un significato diverso.
Quanto alle forme, mentre sopravvivono quelle accusative, le altre perdurano talvolta in forme relittuali[33]. Ad esempio, leo ("leone") ha leonem per accusativo singolare: con la caduta della -m si giunge alla forma italiana moderna.
Il genitivo e il dativo tendono a essere sostituiti dalle forme analitiche de e ad rispettivamente.[29]

Scomparsa del neutro [modifica]

I generi si riducono a due, il maschile e il femminile. Alcune forme relittuali del neutro si ritrovano in alcuni plurali femminili[34]:
  • ossa[35]ossa
  • brachiabraccia
Per questi plurali in -a esiste talvolta anche un plurale regolare -i con differente significato: mentre con ossa generalmente si intende in italiano un gruppo di oggetti considerati organicamente (le ossa del corpo umano), per ossi si intende una pluralità di oggetti analoghi considerati però individualmente (c'erano degli ossi di pollo sparsi sul piatto). Altrettanto per braccia: le braccia di una donna e i bracci di una croce.[34]
In alcuni casi, il plurale neutro in -a è stato percepito come un femminile[34], determinando forme come:
  • vela (plurale di velum) → la propulsione a vela
  • folia (plurale di folium) → la foglia

Ristrutturazione del sistema verbale [modifica]

Un altro importante filone di trasformazione nell'evoluzione dal latino classico al latino volgare riguarda il sistema dei verbi[34]:
  • La seconda e terza coniugazione si fanno via via improduttive.
  • Forme sintetiche di passivo (come amor, "sono amato") vengono sostituite da forme analitiche (amatus sum o sum amatus).
  • I verbi deponenti scompaiono.
  • La forma sintetica del futuro (amabo, "amerò") viene sostituita dalla perifrasi formata dall'infinito e da una forma breve di habeo ("ho"): da amare + ao[32] si forma amerò.
  • Prende forma il condizionale, modo che in latino non esisteva. Origina dalla combinazione di un infinito e di un perfetto di habeo: da amare + hebuit[32] si forma amerebbe (l'italiano antico possedeva una forma alternativa di condizionale, formato dall'infinito e dall'imperfetto di habeo: cantare + habebatcantaria, canteria.

Altri fenomeni grammaticali [modifica]

A queste tre modificazioni fondamentali si aggiungano i seguenti fenomeni[36]:
  • la scomparsa (tranne qualche eccezione) dei comparativi sintetici, sostituiti dalla forma con plus
  • la scomparsa della diatesi deponente
  • la riforma della diatesi passiva, che dalla forma sintetica passa ad una forma analitica con esse
  • l'espansione della funzione ausiliare di habere: forme come cognitum habeo, "tengo per conosciuto", che si vanno espandendo, sono progenitrici delle forme italiane moderne del tipo "ho conosciuto"
  • il prevalere della paratassi sulla ipotassi, "com'era da attendersi in un periodo di civiltà più elementare"[37]

Evoluzioni lessicali dal latino all'italiano [modifica]

Il lessico delle lingue romanze dipende per la maggior parte dal lessico del latino classico. Ecco alcuni casi particolarmente notevoli di evoluzione lessicale nel passaggio dalla lingua latina a quella italiana[38]:
  • Molte parole appartenenti al lessico elevato del latino classico scompaiono via via nel latino volgare, lasciando qualche traccia nei toponimi. Ad esempio, scompaiono amnis, "fiume", e nemus, "bosco", ma perdurano in toponimi come Teramo e Terni (da inter amnes, "tra due fiumi") o Nemi e Nembro. La stessa espressione latina per "città" (urbs) sopravvive nel latinismo urbe e nel toponimo Orvieto (urbs vetus, "città vecchia").
  • Nell'evoluzione del latino, si vanno via via preferendo radici legate ad un registro espressivo e dotate di maggiore trasparenza. Ad esempio, plangere, che significa "battersi il petto (per il dolore)" finisce per sostituire flere per indicare il moderno "piangere", mentre edere ("mangiare") viene sostituito da manducare (letteralmente, "dimenare le mascelle"). In altri casi si utilizzano metafore, come nel caso del "padiglione", che deriva da papilionem, accusativo di papilio (originariamente "farfalla"), perché le tende degli accampamenti ricordavano i colori variegati delle ali di una farfalla. In altri casi ancora si ricorre a metonimie, come per focus ("focolare" → "fuoco"), bucca ("guancia" → "bocca"), camera ("soffitto a volta" → "stanza").
  • Parole di scarso corpo fonico vengono sostituite da parole più corpose: ad esempio, a res si finisce per preferire causa, con il significato di "cosa"; a crus, "gamba", si finisce per preferire il greco gamba, con intento scherzoso, poiché letteralmente è "zampa". Molte altre evoluzioni lessicali hanno per protagonista l'espressività e la giocosità della lingua colloquiale, in particolare per le parti del corpo: basti pensare a testa ("vaso di coccio") che sostituisce via via caput, o a ficatum (originariamente "fegato di oca ingrassato con i fichi") che sostituisce iecur.
  • In linea con queste due tendenze, abbiamo evoluzioni lessicali che tendono ad aumentare il corpo fonico e l'espressività affettiva: vengono adottati i diminutivi, come nel caso di genugenuculum ("ginocchio") o di agnusagnellus ("agnello").
  • Qualcosa di analogo accade con l'adozione per il significato principale di modificazioni frequentative (per indicare azioni ripetute, come per l'italiano -eggiare, -ellare), che in latino venivano formate dal tema del supino: così, da canere ("cantare") si passa a cantare (letteralmente, "canticchiare"); da salire ("saltare") si passa a saltare (letteralmente, "saltellare").
  • La semantica cristiana ha una significativa influenza sul lessico dei volgari (ad esempio, orare da "chiedere" finisce per significare "pregare").
  • Nel caso due parole di significato diverso finiscano per assumere un'omofonia totale o parziale, i parlanti abbandonano una forma per favorire l'altra: ad esempio, bellum ("guerra") scompare per influenza della "collisione omofonica" con bellus ("bello").

Parole di trafila popolare [modifica]

Solo una parte del vocabolario latino è giunta direttamente all'italiano (si parla in questi casi, tanto per l'italiano quanto per le altre lingue romanze, di parole "di trafila popolare" o "ereditarie"), mentre il grosso è stato recepito per adozione "colta", scritta, libresca (il che spiega perché in molti casi certe evoluzioni morfologiche o semantiche costanti nelle parole ereditarie non si presentino nella "trafila dotta"): questo patrimonio è composto di termini latini recuperati e ravvivati nell'uso dall'interesse di un letterato e vengono indicati dai linguisti come "cultismi" o "latinismi".[39]
L'analisi dell'evoluzione del latino letterario classico tra il I e il V secolo d.C. deve dunque tenere in conto i molti elementi lessicali che rappresentano una continuità rispetto al passato. Sono diverse centinaia le parole che si sono trasmesse pressoché uguali (dai punti di vista fonetico, morfologico e semantico) dal latino all'italiano, e che quindi saranno state mantenute anche nel latino parlato.[40] Ecco alcuni esempi di parole sopravvissute in quasi tutta la Romania (e che quindi si sono trasmesse anche alle altre lingue romanze)[41]:
  • aqua ("acqua")
  • arbor ("albero")
  • asinus ("asino")
  • bos ("bue")
  • caelum ("cielo")
  • canis ("cane")
  • cervus ("cervo")
  • digitus ("dito")
  • filius ("figlio")
  • homo ("uomo")
  • manus ("mano")
  • mater ("madre")
  • pater ("padre")
  • pes ("piede")
  • porcus ("porco")
  • porta ("porta")
  • puteus ("pozzo")
  • rota ("ruota")
  • terra ("terra")
  • vacca ("vacca")
  • altus ("alto")
  • bonus ("buono")
  • calidus ("caldo")
  • frigidus ("freddo")
  • niger ("nero")
  • novus ("nuovo")
  • russus ("rosso")
  • siccus ("secco")
  • bibere ("bere")
  • currĕre ("correre")
  • dicere ("dire")
  • dormire ("dormire")
  • facere ("fare")
  • habere ("avere")
  • tenere ("tenere")
  • bene ("bene")
  • male ("male")
  • quando ("quando")
  • si ("se")
  • in ("in")
  • per ("per")
Vi è poi una serie di parole che sono andate sopravvivendo solo nell'area dell'allora Diocesi italiciana. Di seguito qualche esempio[42]:
  • catŭluscacchio (toscano)
  • cunŭlaeculla
  • lentīgolentiggine
  • libelluslivello
  • mentulaminchia (italiano meridionale) e minchione
  • notariusnotaio[43]
  • spacusspago

Relitti [modifica]

Ancora, vi sono parole che i linguisti non hanno rintracciato nei documenti scritti, ma che si suppone siano entrate nel latino parlato e che sono poi sopravvissute nelle diverse lingue romanze. Si tratta per lo più di parole legate all'ambito agricolo, alla flora, alla fauna.[44] Tali "relitti" devono la loro esistenza al fatto che le popolazioni italiche venute a contatto con i Protolatini non rintracciavano nella nuova parlata termini adatti ai significati da esprimere in ambito naturale, costringendo in qualche maniera queste nuove popolazioni ad inglobare tali espressioni. È così che il latino ha tratto alcune centinaia di parole dall'etrusco, che per questa via sono passate alle lingue romanze (populus, persona, catena, taberna ecc.), mentre altre sono state recuperate come latinismi (spurius, atrium, idus, histrĭo ecc.).[45]
Sono stati individuati come "relitti" parole che il latino ha ereditato da Liguri, Reti e da altre popolazioni minori dell'arco alpino, come genista, larix, ligustrum, peltrum. Il fatto, però, che l'antico ligure venisse assorbito dal celtico (che era una parlata indoeuropea) prima che dal latino rende difficile stabilire se questi relitti siano da ascrivere alle parlate preindoeuropee o al celtico stesso.[45]
La conquista della Gallia, iniziata nel II secolo a.C. e portata a termine da Gaio Giulio Cesare dal 58 al 51/50 a.C. e da lui narrata nel De bello Gallico, e i rapporti assai stretti che si instaurarono tra questa regione e Roma determinarono un'intensa penetrazione nel latino di diversi vocaboli di origine gallica: tra questi betulla, verna, beccus, lancea, carrus, benna, braca. In taluni casi, i linguisti hanno ricostruito delle forme, come nel caso di pettia (da cui "pezza" e "pezzo"), camminum, comboros ("trinceramento d'alberi", da cui "ingombro" e "sgombero"), pariolum (da cui "paiolo").[45]
Quanto ai vocaboli di origine osco-umbra, vi sono diversi termini entrati già in epoca classica, come bos, bufalus, lupus, scrofa, ursus, anas ("anitra"), turdus, casa, lingua, lacrima, consilium ecc., ma qui interessano di più quelli testimoniati solo dopo (e comunque poco), come ilex, pomex, terrae tufer (da cui "tartufo") e quelli ricostruiti, come bufulcus, tafanus, metius, octufer, glefa[46] (in latino rispettivamente bubulcus, tabanus, mitius[47], october, gleba).[48]

Importanza dei grecismi latini per l'italiano [modifica]

Sono diverse centinaia le parole greche così radicate nella lingua latina da sopravvivere e giungere fino ad alcune lingue romanze. Per quanto riguarda l'italiano, ecco un elenco parziale di parole che originano per questa via:
  • anice
  • bosso
  • cilegio
  • dattero
  • fagiolo
  • garofano
  • giuggiolo
  • liquirizia
  • mandorlo
  • mela
  • melo
  • olivo
  • pepe
  • prezzemolo
  • riso
  • sedano
  • senape
A queste va aggiunta cima, pur se in latino il termine cyma è attestato solo nel senso di "germoglio".[49]
Passando al regno animale, alcuni pochi che originano dal greco sono animali terrestri (come fagiano e scoiattolo), ma i più sono animali marini[49], come:
  • acciuga
  • balena
  • cefalo
  • chiocciola
  • delfino
  • gambero
  • ostrica
  • polpo
  • seppia
  • spugna
  • tonno
Appartengono all'ambito marittimo le parole scalmo e nolo, e - originariamente - anche governare e pelago (voce dotta nel senso di "mare", ma che è stato anche inteso popolarmente come "avvallamento").[49]
Al novero dei grecismi latini vanno riferiti alcuni nomi di oggetti domestici o usati dagli artigiani[49], come:
  • ampolla
  • borsa
  • bossolo
  • calce
  • canestro
  • cantaro
  • carta
  • cofano
  • colla
  • corda
  • doga
  • gesso
  • inchiostro
  • lampada
  • lucignolo
  • madia
  • malta
  • matassa
  • organo
  • pietra
  • porpora
  • scheggia
  • tappeto
  • tornio
  • trapano

Parole di trafila dotta [modifica]

La lingua parlata fino al Mille [modifica]

Al termine dell'età classica sicuramente il latino parlato aveva un ruolo importante in penisola. Tale idioma era parlato sicuramente dagli abitanti di Roma e del Lazio, più quelli delle aree popolate direttamente da romani. La forma esatta di questa lingua e la sua vicinanza al latino scritto non sono però facili da accertare. Tra gli studiosi recenti, József Herman ipotizza che ancora per tutto il VI secolo gli abitanti dell'area europea dominata da Roma, e a maggior ragione gli italici, parlassero (o "credessero di parlare") latino. Dai documenti scritti non si ricavano però testimonianze esplicite.
In questo contesto si inseriscono le invasioni barbariche, con l'insediamento di diverse popolazioni germaniche nella penisola. Al di là dell'ingresso nelle lingue italiche di qualche centinaio di parole germaniche, però, la presenza dei barbari non sembra aver lasciato tracce linguistiche dirette; le loro lingue scomparvero comunque entro il Mille, lasciando poche testimonianze scritte (della lingua dei longobardi, che pure dominarono per due secoli una buona parte dell'Italia settentrionale e meridionale, non è stata tramandata neanche una singola frase: come testimonianza esplicita rimangono solo alcune parole longobarde citate in opere scritte in latino).
Solo poco prima del Mille compaiono documenti in cui si registra una lingua parlata che, agli occhi di chi scriveva, sembrava ormai qualcosa di diverso dal latino. I primi documenti di questo tipo sicuramente databili risalgono infatti al X secolo, in ritardo rispetto ad altre aree come quella spagnola e francese.
In questo periodo, con ogni probabilità, la maggioranza delle popolazioni italiche parlava un proprio "volgare", diatopicamente distinto e molto diverso dal latino classico. Il latino restava però in uso presso una minoranza di persone istruite, in massima parte sacerdoti e monaci della chiesa cattolica, che probabilmente se ne servivano spesso anche come lingua della conversazione.

Prime attestazioni antiche del volgare italiano [modifica]

È solo intorno al XIII secolo che alcuni scrittori scelgono sistematicamente e con coscienza il volgare come lingua per scopi artistici. Per altri generi di scrittura, come quella di natura pratica o occasionale, si può retrodatare ad altri casi più antichi, pur se modesti e occasionali.[50] Le più antiche scritture in volgare rintracciate appartengono a testi come rogiti o verbali di processo, cioè documentazione d'archivio. Ricorrenze precedenti (come graffiti o brevi note) sono discusse, in quanto non è chiara la coscienza linguistica dello scrivente, se gli fosse cioè chiaro di aver operato una scelta precisa per il volgare o se pensasse piuttosto di scrivere ancora in latino.[51]

L'iscrizione della catacomba di Commodilla [modifica]

Exquisite-kfind.pngPer approfondire, vedi Iscrizione della catacomba di Commodilla.
Tra il VI-VII secolo e la metà del IX va datata l'iscrizione della catacomba di Commodilla: si tratta di un testo di natura effimera, forse vergato da un prete che officiava nella catacomba.[52] Recita:
« Non dicere ille secrita a bboce »
Una traduzione potrebbe essere "Non dire quei segreti (orazioni segrete) ad alta voce".

L'Indovinello veronese [modifica]

Exquisite-kfind.pngPer approfondire, vedi Indovinello veronese.
Dell'VIII-IX secolo è l'Indovinello veronese[53]:
« se pareba boves alba pratalia araba & albo versorio teneba & negro semen seminaba »

Il Placito capuano [modifica]

Exquisite-kfind.pngPer approfondire, vedi Placito capuano.
Maggiore accordo tra gli studiosi c'è nel dare la palma di "atto di nascita" della lingua italiana al Placito capuano del 960[54]. Tale propensione nasce soprattutto in ragione dell'ufficialità di tale documento, trattandosi di un verbale notarile su pergamena, e della chiara coscienza linguistica che ha il redattore (un tale Atenolfo, notaio) dell'uso che fa del volgare[55]. Il contenzioso vede di fronte una tale Rodelgrimo di Aquino e l'abate del monastero di Montecassino. Il placito origina dalla necessità di registrare le testimonianze di tre intervenuti in favore del monastero: la scelta "normale" sarebbe stata quella di "tradurre" in latino le deposizioni formulate in volgare (e uno dei tre testimoni, un tale Gariperto, è notaio egli stesso, per cui non avrebbe avuto problemi ad usare una formula di giuramento in latino), ma nell'occasione del Placito capuano viene fatta una scelta diversa e al latino del verbale si accompagna il volgare delle formule testimoniali.[56] Ecco, nella parte finale del Placito, come viene registrata la testimonianza di Gariperto:
« Ille autem [Garipertus], tenens in manum[57] memoratam abbreviaturam, et tetigit eam cum alia manu, et testificando dixit: «Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte s(an)c(t)i Benedicti» »
Questa formula in volgare non va intesa come una registrazione del parlato, poiché viene ripetuta sempre nella stessa forma ed è anzi stata fissata dal giudice Arechisi nella precedente udienza. Si tratta, dunque, già di una standardizzazione. È possibile che la scelta di usare il volgare origini da una precisa scelta di ordine giuridico da parte dell'abate: si intese forse rendere comprensibile il verbale ad una platea ampia, anche estranea alla causa, per dissuadere altri soggetti dal ritornare sul conteso.[58]

L'iscrizione della basilica di San Clemente [modifica]

Exquisite-kfind.pngPer approfondire, vedi Basilica di San Clemente al Laterano#Iscrizione di san Clemente e Sisinnio.
Della fine dell'XI secolo è l'iscrizione della basilica di San Clemente, un testo organico ad un affresco (quindi non posticcio come l'iscrizione di Commodilla) che raffigura i vani tentativi del patrizio Sisinnio di far catturare san Clemente. Il testo è composto di frasi in latino e in volgare, che identificano i personaggi raffigurati e danno loro parola[59]. Il volgare è adottato per far parlare Sisinnio:
« Fàlite dereto co lo palo Carvoncelle - Fili de le pute traite »
cioè "Fagliti dietro col palo, Carboncello - Figli di puttana, tirate", mentre il latino serve a spiegare l'affresco e funge da giudizio:
(LA)
« Duritiam cordis vestris saxa traere meruistis »
(IT)
« La durezza dei vostri cuori vi ha fatto meritare di trascinare pietre »

Dal Mille al Rinascimento [modifica]

A partire dall'anno Mille i documenti cominciano a fornire testimonianze di lingua parlata: in numero ridotto fino al Duecento, e poi con una documentazione abbondantissima.
San Francesco d'Assisi (1181-1226) fu uno dei primi autori a lasciare testi poetici basati in buona parte sulla sua lingua madre (il volgare umbro), componendo il breve Cantico delle creature:
« Altissimu, onnipotente, bon Signore
tue so le laude, la gloria e l'honore et onne benedictione
Ad te solo, Altissimo se konfano,
et nullu homo ène dignu te mentovare. »
(San Francesco d'Assisi, Cantico di Frate Sole)
Agli ultimi anni del Duecento risale il Novellino, raccolta anonima di novelle toscane limpida testimonianza di quanto, fuori dall'ambito poetico, il volgare fiorentino fosse ormai simile alla lingua italiana moderna. Ecco come viene descritto l'incontro di Narciso con l'immagine di se stesso:
« Narcis fu molto buono e bellissimo cavaliere. Un giorno avvenne ch'elli si riposava sopra una bellissima fontana, e dentro l'acqua vide l'ombra sua molto bellissima. E cominciò a riguardarla, e rallegravasi sopra alla fonte, e l'ombra sua faceva lo simigliante. »
(Novellino, XLVI)
La poesia di Dante Alighieri e di Francesco Petrarca dettò le regole che l'intera produzione letteraria poetica avrebbe dovuto seguire da quel momento: l'uso del volgare, pur con tutte le differenze che intercorrono dalla lingua parlata all'artificiosità della composizione poetica. Giovanni Boccaccio, grandioso prosatore fiorentino vissuto nel pieno XIV secolo, così spiega il pasto della padrona di uno dei suoi personaggi, nel Corbaccio:
« Primieramente, se grosso cappone si trovava, de' quali ella molti con gran diligenzia faceva nutricare, convenia che innanzi cotto le venisse; e le pappardelle col formaggio parmigiano similmente. Le quali non in iscodella, ma in un catino, a guisa del porco così bramosamente mangiava come se pure allora dopo lungo digiuno fosse della torre della fame fuggitasi. Le vitelle di latte, le starne, i fagiani, i tordi grassi, le tortole, le suppe lombarde, le lasagne maritate, le frittelle sambucate, i migliacci bianchi, i bramangieri, de' quali non faceva altre corpacciate che facciano di fichi, di ciriege o di poponi i villani quando ad essi s'avvengono, non curo di dirti. »
(Giovanni Boccaccio, Corbaccio, IV)
Lo stile della sua opera più famosa, il Decamerone, è però più affettato e difficile da comprendere per i locutori dell'italiano moderno:
« Ora avvenne un dì che, essendo così Federigo divenuto allo stremo, che il marito di monna Giovanna infermò, e veggendosi alla morte venire fece testamento; e essendo ricchissimo, in quello lasciò suo erede un suo figliuolo già grandicello e appresso questo, avendo molto amata monna Giovanna, lei, se avvenisse che il figliuolo senza erede legittimo morisse, suo erede substituì, e morissi. Rimasa adunque vedova monna Giovanna, come usanza è delle nostre donne, l'anno di state con questo uo figliuolo se n'andava in contado a una sua possessione assai vicina a quella di Federigo. »
(Giovanni Boccaccio, Decamerone, V, 9)
È senza dubbio possibile intravedere la ricercatezza della sintassi potentemente ipotattica, tipica di una tradizione che richiama la prosa latina, e dunque uno studio certamente più spontaneo della poesia, ma ancora relativamente lontano dal volgare parlato, che almeno a Firenze si poteva già considerare somigliante all'italiano di oggi.
In questo periodo solo piccole minoranze di persone istruite, e limitatamente a determinate circostanze, si esprimono in latino od in un volgare ripulito dai tratti locali più marcati.

Dal Cinquecento all'Ottocento [modifica]

Nel Cinquecento, grazie soprattutto all'influente azione di Pietro Bembo, il fiorentino trecentesco di Petrarca e di Boccaccio diventa il modello linguistico più importante per i letterati italiani. A fine Cinquecento esiste ormai un modello comune e unitario per la lingua scritta, coincidente in sostanza con l'italiano moderno. Lo schema dei rapporti tra le lingue che si forma in questo periodo rimarrà stabile per più di tre secoli: italiano unitario per l'uso scritto e per alcune situazioni eccezionali; parlate locali (definite "dialetti") per la comunicazione quotidiana anche delle persone colte.[senza fonte]
Il parlato ha ormai una forma poco distinguibile dalla lingua di oggi, come dimostra questo dialogo riportato da Barra, uno dei personaggi del Candelaio di Giordano Bruno:
« "A qual gioco", disse lui, "volemo giocare? qua ho de tarocchi". Risposi: "A questo maldetto gioco non posso vencere, perché ho una pessima memoria": Disse lui: "Ho di carte ordinarie". Risposi: "Saranno forse segnate, che voi le conoscerete. Avetele che non siino state ancor adoperate?" Lui rispose de non. "Dunque, pensiamo ad altro gioco". "Ho le tavole, sai?" "Di queste non so nulla". "Ho de scacchi, sai?" "Questo gioco mi farebbe rinegar Cristo". Allora, gli venne il senapo in testa: "A qual, dunque, diavolo di gioco vorrai giocar tu? proponi". Dico io: "A stracquare a pall'e maglio". Disse egli: "Come, a pall'e maglio? vedi tu cqua tali ordegni? vedi luoco da posservi giocare?" Dissi: "A la mirella?" "Questo è gioco da fachini, bifolchi e guardaporci". "A cinque dadi?" "Che diavolo di cinque dadi? Mai udivi di tal gioco." »
(Giordano Bruno, Candelaio, atto II, scena VIII)
Se per tutto il Settecento e l'Ottocento la lingua di prestigio è il francese, tanto da portare l'uso di vocaboli d'Oltralpe per la gran parte degli oggetti di arredamento e abbigliamento, l'influenza nei dialetti più geograficamente e glottologicamente vicini al francese è fortissima.

L'età contemporanea e l'italiano odierno [modifica]

La diffusione dell'italiano letterario come lingua parlata è un fenomeno relativamente recente. Nella sua Storia linguistica dell'Italia unita (1963) Tullio De Mauro ha stimato che al momento dell'unificazione solo il 2,5% degli abitanti d'Italia potesse essere definito "italofono". In mancanza di rilevazioni dirette, le stime di De Mauro si fondano solo su evidenze indirette (in particolare il livello di alfabetizzazione, su cui esistono dati abbastanza affidabili) e sono state quindi molto dibattute. Tuttavia, è evidente che la capacità di condurre una conversazione articolata in italiano rimase per molto tempo legata a fasce ristrette della popolazione.
Con l'unificazione politica l'italiano si diffonde anche come lingua parlata. Nel Novecento i mezzi di comunicazione di massa contribuirono con forza a questa diffusione. All'inizio del terzo millennio le indagini ISTAT mostrano che la maggior parte della popolazione italiana è in grado di esprimersi in italiano ad un buon livello.

Principali linee evolutive [modifica]

Per descrivere le caratteristiche dell'italiano parlato contemporaneo, leggermente diverso rispetto alla lingua tradizionale delle grammatiche, si fa oggi spesso riferimento alla categoria di italiano neostandard[60]. È infatti importante considerare che l'italiano è una lingua grammaticalmente instabile, ancora non del tutto assestata: importanti sollecitazioni dei parlanti prefigurano una rilevante alterazione in ambiti di primaria importanza e ciò a dispetto del fatto che, finora, l'italiano ha mostrato di appartenere ad un preciso tipo linguistico, caratterizzato, in rapporto alla lingua latina, da una forte "conservatività"[61]. Questi fenomeni di ristrutturazione d'impianto sono forse dovuti al fatto che l'italiano è stato a lungo una lingua esclusivamente scritta: non solo si registra l'affiorare di aspetti caratteristici dei suoi dialetti, ma si avverte anche un movimento di "semplificazione"[62]: le aree toccate da questa linee evolutive non sembrano essere quelle più conservative (sempre in rapporto al latino), ma quelle a maggior grado di complessità, come se, una volta realizzata la sua natura di "lingua parlata" a livello massivo, i parlanti abbiano opposto una resistenza alle forme più intricate e percepite come innecessarie[63].

Fenomeni di semplificazione [modifica]

Semplificazione del sistema verbale [modifica]

Importanti fenomeni di semplificazione sono ravvisabili nel sistema verbale: tra tutte le forme finite dei verbi regolari, l'uso nel parlato è concretamente garantito solo a poche di esse, e anzi solo nello scritto più sorvegliato e accurato se ne fa un uso integrale[63].
Delle varie forme verbali di cui l'italiano dispone, quelle usate correntemente (a prescindere dalle variazioni diastratiche) sono le seguenti (si considerano solo i tre modi principali)[64]:
Non è improbabile che l'italiano stia attraversando un processo di semplificazione quale quello esperito già da tempo dalle lingue francese e spagnola. Nel complesso, infatti, queste due lingue hanno un sistema verbale più semplice di quello italiano, almeno quanto alle forme effettivamente usate[65]. Ad esempio, la frase Disse che sarebbe venuto viene resa:
«il dit qu'il viendrait. (francese)»
«dijo que vendría. (spagnolo)»
cioè attraverso l'utilizzo del condizionale presente. L'italiano ha a lungo oscillato tra la soluzione ...che sarebbe venuto e ...che verrebbe (quest'ultima usata, ad esempio, da Alessandro Manzoni, ma anche successivamente)[66]. La prima soluzione, che appare ormai consolidata, rappresenta una anomalia nel contesto delle lingue romanze[67].
Indagini su campioni di parlanti confermano un utilizzo parsimonioso della ricca varietà di forme verbali dell'italiano. Ad esempio, il campione analizzato da Miriam Voghera e pubblicato nel 1992 riporta che in clausole principali, tra il totale delle forme verbali adottabili, nel 91,3% dei casi si è usato il modo indicativo, solo nel 4% il modo condizionale. Ancora, se si interrogano questi dati relativamente alla frequenza dei tempi dell'indicativo in clausole principali, nel 79,4% dei casi si è usato l'indicativo presente, nel 10,4% dei casi il passato prossimo, l'imperfetto nel 5,7% dei casi.[68] Passando alla frequenza d'uso delle forme verbali in clausole subordinate, l'indicativo registra il 62,9% delle ricorrenze, l'infinito il 22,9%, mentre congiuntivo e condizionale (forme in linea teorica elettive per le clausole subordinate) rispettivamente il 4,5% e lo 0,7%[69].
Nel parlato (specie nei registri più informali), il passato remoto viene usato raramente[70]. Dal punto di vista aspettuale, la gestione è affidata all'alternanza tra imperfetto e passato prossimo[71][72]. Appaiono così grammaticali frasi come:
«L'ultima volta che ho incontrato Carlo è stato dieci anni fa
Si va poi indebolendo in italiano lo statuto del futuro. Il futuro semplice viene sempre più percepito come sostenuto ed esso viene sostituito dal presente indicativo (e la stessa cosa accade in altre lingue, inglese e spagnolo, ad esempio)[73]:
  • Tornerà domani.Torna domani.
Quanto al futuro anteriore, viene usato di rado e percepito come ricercato (non, però, nel caso appaia in frase principale, con la funzione di attribuire ad essa un carattere di supposizione e dubbio)[73]:
«Sarà arrivato ormai. = Suppongo che sia arrivato ormai.»
Inversamente, si irrobustisce lo statuto dell'imperfetto, che sta diventando una delle forme verbali italiane più versatili. A ciò si aggiunga il ruolo che esso sta progressivamente assumendo nel periodo ipotetico, in particolare quello della "irrealtà"[73]:
  • Se mi avessi parlato, ti avrei ascoltato.Se mi parlavi, ti ascoltavo.
Questo rafforzamento dello statuto dell'imperfetto non è però né recente né esclusivo dell'italiano. Da Dante fino a Manzoni sono state adottate soluzioni come
«Se Lucia non faceva quel segno, la risposta sarebbe stata probabilmente diversa.» (Alessandro Manzoni, I promessi sposi, cap. III[74])
Diversi secoli fa un fatto analogo accadde alla clausola ipotetica francese[74]:
«Si je savais cela, je le dirais. = Se io sapevo questo, io lo direi. (lett.) = Se lo sapessi, lo direi.»
Questa tendenza alla semplificazione del periodo ipotetico è antica in italiano e anzi "le lingue romanze si possono dire funzionalmente (se non quantitativamente) dominate dall'imperfetto"[75]: sotto questo aspetto, quindi, l'italiano si conforma al tipo delle lingue romanze[75].

Semplificazione del sistema pronominale [modifica]

Semplificazione del sistema dei clitici [modifica]

Note [modifica]

  1. ^ Serianni e Antonelli, Manuale, 2011, cit., p. 1.
  2. ^ a b Serianni e Antonelli, Manuale, 2011, cit., p. 2.
  3. ^ Secondo proposte alternative (in particolare la teoria della continuità, sviluppata in campo linguistico da Mario Alinei), a parte piccole élite di altra origine (etrusca o celtica), la lingua parlata dalla maggior parte della popolazione in età preromana era comunque una lingua italica non molto diversa dal latino.
  4. ^ a b c d Bruno Migliorini, Storia della lingua italiana, 2007, cit., p. 16.
  5. ^ a b c Bruno Migliorini, Storia della lingua italiana, 2007, cit., p. 17.
  6. ^ Serianni e Antonelli, Manuale, 2011, cit., p. 4.
  7. ^ Serianni e Antonelli, Manuale, 2011, cit., pp. 5-6.
  8. ^ Sulla caduta della -m finale si veda anche quanto scrive nella sua edizione delle commedie di Terenzio Wilhelm Wagner, il quale menziona l'Appendix Probi e alcune delle aberrazioni patite dalle forme classice che la Appendix cita (alcune di queste vedono appunto la caduta della -m finale, come per ide(m), oli(m), passi(m)).
  9. ^ Marazzini, Breve storia della lingua italiana, 2004, cit., p. 39.
  10. ^ Il concetto di sermo vulgaris dà conto anche delle variazioni diacroniche (cfr. Marazzini, Breve storia della lingua italiana, 2004, cit., p. 39).
  11. ^ a b c Bruno Migliorini, Storia della lingua italiana, 2007, cit., p. 11.
  12. ^ Bruno Migliorini, Storia della lingua italiana, 2007, cit., pp. 18-19.
  13. ^ a b c Bruno Migliorini, Storia della lingua italiana, 2007, cit., p. 12.
  14. ^ La traduzione del passo è la seguente: "ma, dunque, che te ne pare di me nelle epistole? Non mi rivolgo forse a te con parole alla buona?" Cfr. Le epistole famigliari di Cicerone, parte prima, traduzione di Aldo Manutio.
  15. ^ a b Bruno Migliorini, Storia della lingua italiana, 2007, cit., p. 13.
  16. ^ a b Serianni e Antonelli, Manuale, 2011, cit., p. 10.
  17. ^ a b Bruno Migliorini, Storia della lingua italiana, 2007, cit., p. 23.
  18. ^ a b Gli esempi sono tratti da Serianni e Antonelli, Manuale, 2011, cit., p. 10.
  19. ^ a b c Serianni e Antonelli, Manuale, 2011, cit., p. 11.
  20. ^ Non si produce anafonesi se la nasale palatale [ɲ] non proviene dal nesso -nj- ma da un nesso originario -gn-: così, da lĭgnum non si è avuto ligno ma legno (senza anafonesi), mentre ligneo è una parola di trafila dotta (cfr. Patota, Lineamenti di grammatica storica dell'italiano, 2002, cit., p. 59).
  21. ^ a b c Gli esempi sono tratti da Serianni e Antonelli, Manuale, 2011, cit., p. 11.
  22. ^ Patota, Lineamenti di grammatica storica dell'italiano, 2002, p. 52, da cui anche gli esempi che seguono.
  23. ^ Ad esempio, vanĭtarevantare (Serianni e Antonelli, Manuale, 2011, cit., p. 11).
  24. ^ Ad esempio, calidŭscaldo. Con vocali postoniche è però sistematica la sincope del suffisso -ŭlus, come per spĕculumspeclumspecchio (Serianni e Antonelli, Manuale, 2011, cit., p. 11).
  25. ^ a b Bruno Migliorini, Storia della lingua italiana, 2007, cit., p. 24.
  26. ^ a b Bruno Migliorini, Storia della lingua italiana, 2007, cit., p. 25.
  27. ^ Citato in Bruno Migliorini, Storia della lingua italiana, 2007, cit., p. 14.
  28. ^ Citato in Bruno Migliorini, Storia della lingua italiana, 2007, cit., p. 25.
  29. ^ a b c Bruno Migliorini, Storia della lingua italiana, 2007, cit., p. 26.
  30. ^ Gli esempi sono tratti da Serianni e Antonelli, Manuale, 2011, cit., p. 12.
  31. ^ Le assimilazioni regressive -pt--tt-, -ps--ss-, -ct--tt- e -cs--ss- hanno origini antiche (cfr. Bruno Migliorini, Storia della lingua italiana, 2007, cit., pp. 25-26). Quanto al fenomeno della assimilazione progressiva (come nel romanesco annà, "andare") è invece estraneo al fiorentino (Serianni e Antonelli, Manuale, 2011, cit., p. 11).
  32. ^ a b c d e f Forma ricostruita.
  33. ^ a b c d e Serianni e Antonelli, Manuale, 2011, cit., p. 14.
  34. ^ a b c d Serianni e Antonelli, Manuale, 2011, cit., p. 15.
  35. ^ Da os, ossis.
  36. ^ Bruno Migliorini, Storia della lingua italiana, 2007, cit., pp. 26-27.
  37. ^ Bruno Migliorini, Storia della lingua italiana, 2007, cit., p. 27.
  38. ^ Gli esempi sono tratti da Serianni e Antonelli, Manuale, 2011, cit., pp. 17-8.
  39. ^ Serianni e Antonelli, Manuale, 2011, cit., p. 3.
  40. ^ Bruno Migliorini, Storia della lingua italiana, 2007, cit., p. 27.
  41. ^ Sono tratti da Bruno Migliorini, Storia della lingua italiana, 2007, cit., p. 27.
  42. ^ Bruno Migliorini, Storia della lingua italiana, 2007, cit., pp. 27-28.
  43. ^ Quella del notaio è un'istituzione originariamente italiana. Cfr. Bruno Migliorini, Storia della lingua italiana, 2007, cit., p. 28.
  44. ^ Bruno Migliorini, Storia della lingua italiana, 2007, cit., p. 30.
  45. ^ a b c Bruno Migliorini, Storia della lingua italiana, 2007, cit., p. 31.
  46. ^ Da cui le forme gliofa e gliefa.
  47. ^ Nominativo neutro dell'aggettivo mitior, da mitis, -e, col significato di "troppo maturo", poi in italiano "mezzo".
  48. ^ Bruno Migliorini, Storia della lingua italiana, 2007, cit., p. 32.
  49. ^ a b c d Bruno Migliorini, Storia della lingua italiana, 2007, cit., p. 33.
  50. ^ Marazzini, Breve storia della lingua italiana, 2004, cit., pp. 50-51.
  51. ^ Marazzini, Breve storia della lingua italiana, 2004, cit., pp. 51 e 53.
  52. ^ Marazzini, Breve storia della lingua italiana, 2004, cit., p. 54.
  53. ^ Marazzini, Breve storia della lingua italiana, 2004, cit., p. 52.
  54. ^ Marazzini, Breve storia della lingua italiana, 2004, cit., pp. 55-58.
  55. ^ Marazzini, Breve storia della lingua italiana, 2004, cit., p. 56.
  56. ^ Marazzini, Breve storia della lingua italiana, 2004, cit., pp. 56-7.
  57. ^ Il latino usato dai notai non era accuratissimo; in quest'occasione si può rilevare un errore: in manum, con accusativo, doveva essere in manu, con ablativo (cfr. Marazzini, Breve storia della lingua italiana, 2004, cit., p. 57).
  58. ^ Marazzini, Breve storia della lingua italiana, 2004, cit., p. 57.
  59. ^ Marazzini, Breve storia della lingua italiana, 2004, cit., pp. 54-55.
  60. ^ Berruto, 1987, cit. pp. 62-65.
  61. ^ Raffaele Simone, «Stabilità e instabilità nei caratteri originali dell'italiano», in Introduzione all'italiano contemporaneo, a cura di Alberto Sobrero, 2011, cit., pp. 43 e 61.
  62. ^ Simone, «Stabilità e instabilità...», cit., pp. 61-62.
  63. ^ a b Simone, «Stabilità e instabilità...», cit., p. 62.
  64. ^ Simone, «Stabilità e instabilità...», cit., p. 63.
  65. ^ Simone, «Stabilità e instabilità...», cit., pp. 63-64.
  66. ^ Simone, «Stabilità e instabilità...», cit., p. 64. Simone specifica anche che il condizionale presente italiano appare nelle completive oggettive, mentre il condizionale passato nelle ipotetiche, soprattutto se ottative.
  67. ^ Simone, «Stabilità e instabilità...», cit., p. 64.
  68. ^ Sintassi e intonazione nell'italiano parlato, Il Mulino, Bologna, 1992, p. 204 sgg., citato in Simone, «Stabilità e instabilità...», cit., pp. 64-65, che sottolinea che le indagini di Voghera non tengono conto delle diverse funzioni che una singola forma verbale può "sincreticamente" svolgere.
  69. ^ Sintassi e intonazione nell'italiano parlato, cit., p. 236, citato in Simone, «Stabilità e instabilità...», cit., p. 65.
  70. ^ Più precisamente, la sua frequenza è legata agli usi locali, che talvolta lo prediligono al passato prossimo: accade così che, per grandi linee, il passato prossimo appaia preferito nel Centro e nel Settentrione, il passato remoto nel Meridione (cfr. Simone, «Stabilità e instabilità...», cit., p. 62, nota 18).
  71. ^ Simone, «Stabilità e instabilità...», cit., pp. 62-63.
  72. ^ Anche in francese il passé composé è il passato perfettivo di maggiore utilizzo, in opposizione all'imperfetto e a detrimento del passé simple; così pure, in spagnolo, il pretérito indefinido corrisponde sì formalmente al passato remoto italiano, ma di fatto assolve anche ai compiti del passato prossimo italiano: amé = amai/ho amato (cfr. Simone, «Stabilità e instabilità...», cit., p. 63 e 67).
  73. ^ a b c Simone, «Stabilità e instabilità...», cit., p. 66.
  74. ^ a b L'esempio è tratto da Simone, «Stabilità e instabilità...», cit., p. 67.
  75. ^ a b Simone, «Stabilità e instabilità...», cit., p. 67.

Bibliografia [modifica]

Su periodi determinati [modifica]

  • Rosa Casapullo, Il Medioevo, 1999, il Mulino, Bologna
  • Paola Manni, Il Trecento toscano, 2003, il Mulino, Bologna
  • Mirko Tavoni, Il Quattrocento, 1992, il Mulino, Bologna
  • Paolo Trovato, Il primo Cinquecento, 1994, il Mulino, Bologna
  • Claudio Marazzini, Il secondo Cinquecento e il Seicento, 1993, il Mulino, Bologna
  • Tina Matarrese, Il Settecento, 1993, il Mulino, Bologna
  • Luca Serianni, Il primo Ottocento, 1989, il Mulino, Bologna
  • Luca Serianni, Il secondo Ottocento, 1990, il Mulino, Bologna
  • Giovanni Nencioni, La lingua di Manzoni, 1993, il Mulino, Bologna
  • Pier Vincenzo Mengaldo, Il Novecento, 1994, il Mulino, Bologna
  • Tullio De Mauro, Storia linguistica dell'Italia unita, Bari, Laterza, 1963
  • Gaetano Berruto, Sociolinguistica dell'italiano contemporaneo, Roma, Carocci, 1987
  • Alberto Sobrero (a cura di), Introduzione all'italiano contemporaneo. Le strutture, ed. Laterza, Roma-Bari, 1993 (11ª edizione: 2011), ISBN 978-88-420-4309-6
  • Giuseppe Patota, Lineamenti di grammatica storica dell'italiano, ed. il Mulino, Bologna, 2002, ISBN 88-15-08638-2

Voci correlate [modifica]

Collegamenti esterni [modifica]

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