Speranza
Il finto scandalo della Rusalka
Luca Pavanel.
IL PIZZICO
Tra quattro anni, c’è quasi da scommetterci una bella
somma.
Risentiremo parlare della "Rusalka", il melodramma di Antonin Dvořák che
recentemente ha tanto indignato il popolo inglese della Royal Opera House di
Londra, nella versione registica di Jossi Weiler e Sergio Morabito.
L’accusa
degli spettatori e dei critici con pipe, bombette e bastoni, il giorno dopo
amplificata dagli articoli apparsi sui giornali di mezzo mondo, è di quelle che
possono traumatizzare l’uomo del Ventunesimo secolo: “Rappresentazione troppo
sexy, troppo volgare!”.
Che “scandalo”, sembravano lamentarsi un po’ tutti,
“un’amara scoperta”, “mai più una Prima così”.
A dirla tutta l’esecuzione
musicale è stata giudicata di buon livello, ma per il resto… il mondo della
lirica si è sentito per tre secondi contrito oltraggiato, colpito a morte (dalla
pruderie?).
Ma non è tutto.
Sulla genesi della vicenda infatti, c’è qualcosa
da aggiungere.
Lo si capisce al volo dalle ultime righe di gran parte dei
resoconti sulla serata: la pièce finita nel mirino, spiegano i media, nel 2008
aveva già fatto bella mostra (e parlare) di sé al festival di Salisburgo, dunque
luogo del suo vero debutto.
Come era andata?
A quanto pare come l’altra sera
nella capitale anglossassone: fischi, buuuu, gente che al passo del leopardo
lasciava la poltrona ruggendo un sonoro: “Che vergogna!!!”. Dopo la figuraccia,
minimo il tutto avrebbe potuto o finire in soffitta oppure sì, restare in giro,
ma certo non aspirare all’Olimpo dei teatri planetari, come l’Opera House
appunto. E invece…
Ecco rispuntare la stessa ambientazione lirica.
Una storia
tratta dalla favola di Hans Christian Andersen (adottata anche da Disney per il
film La Sirenetta).
Uno spirito d’acqua si innamora di un principe… Fiabesco.
Ma sul palcoscenico britannico in questione invece, mise trasparenti, sangue e,
per citare il titolo di una canzone firmata dagli Squallor (l’italico gruppo di
rock demenziale degli anni Settanta, ndr): “Sesso e carnazza”.
Notoriamente
tutte cose che non interessano il pubblico.
Tanto che la notte all’opera ha
registrato il sold out, gli astanti non hanno fatto altro che parlare dello
show, l’evento chissà perché è finito sulla carta stampata globale e qui, se ne
discute ancora, perché sulla nudità ostentata e quel che ne consegue si sa,
l’inchiostro versato per lo scavo non è mai abbastanza.
E per non farsi mancare
niente, lo spettacolo va in scena ancora.
Morale: proprio in fondo in fondo la
“volgarità” – almeno qualche volta (mamma mia, che dio perdoni) non dispiace,
nel privato più che nel pubblico, o chissà, forse il contrario.
Posto,
ovviamente, che la parola ha un valore soggettivo, quando non c’è un evidente
parere generale, qualcuno dice che siamo circondati dalla volgarità, che dunque
fa parte della vita. O no?
Perciò quale scandalo è mettere in scena uno dei
tanti riflessi della realtà, che coi suoi sinonimi alla fine ha mille nomi:
oscenità, pacchianeria, rozzezza, trivialità, villania…
In qualunque modo la si
chiami, l’altra sera ha fatto breccia.
Per carità, giusto criticare, fa parte
del gioco, ma non censurare. Che sarebbe assai peggio di qualsiasi insulto.
E
poi diciamola tutta: il Moloch del mercato – che vuol dire pubblico, incassi e
pubblicità – non disdegna affatto questo genere di corto circuiti, anzi. E non
c’è bisogno di Cassandra per sapere come andrà a finire: ri-troviamoci qui tra
quattro anni, quando magari proprio a marzo saranno state riaccese per
l’ennesima volta quelle “luci rosse“.
Allora quel che diceva quel diavolo di
Oscar Wilde, che ben si sposa con la Rusalka, sembrerà, roba da tavole della
legge: “Bene o male, purché se ne parli…”.
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