Tuesday, May 6, 2014

Le odi di Orazio

Speranza

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Le Odi tradotte da Mario Rapisardi


Le Odi (Carmina) di Orazio sono costituite da 103 poesie (scritte a partire dal 30 a.C.) raccolte in quattro libri.

Il modello dell'opera è la grande poesia greca di età arcaica, soprattutto Alceo, Anacreonte, Saffo, Pindaro e i poeti dell'Isola di Lesbo, con la ripresa di diversi tipi di componimento e di metri vari.

 


Orazio affronta numerosi temi nel suo "canzoniere":

-- La fugacità della vita e l'invito a vivere intensamente ogni attimo (il celeberrimo carpe diem) non come ricerca del proprio egoistico piacere, ma per sconfiggere la precarietà della nostra esistenza e la paura della morte, abbandonandosi alle gioie semplici della vita.

-- L'aspirazione a una vita semplice e serena, vissuta secondo gli ideali del controllo e del dominio di sé, il senso della misura e dell'equilibrio propri del saggio, capace di cogliere ciò che la vita veramente offre, senza desiderare altro.

-- L'amore e l'amicizia, conforto per l'uomo, portatori di ore serene.

-- La celebrazione della poesia come scelta di vita, di isolamento dalla massa, che rende l'uomo partecipe di una dimensione divina.

-- La patria e la poesia civile: le Odi romane esaltano la grandezza di Roma e il programma augusteo, realizzazione degli ideali etico-religiosi tipici del mos maiorum.

-- Il simposio come occasione di piacere e di riflessione, intrecciato ad altre tematiche di derivazione epicurea.

-- L'erotismo.

-- L'immortalità della poesia.

Le odi sono in 4 libri.

Il primo libro contiene 38 poesie.

Il secondo libro contiene 20 poesie.

Il terzo libro contiene 30 poesie e il quarto ne contiene 15.

Furono pubblicati nel 731 ab Urbe condita (23 a.C.).

Il quarto libro contiene 15 poesie e fu pubblicato nel 741 ab Urbe condita (13 a.C.).

Nelle Odi Orazio oscilla tra una concezione epicurea e la filosofia stoica.

Orazio diventa eclettico, l'età gli fa apprezzare il tempo che è passato e rimpiange l'irreversibilità del tempo che fugge.

Nelle Odi egli concilia sia l'epicureismo che lo stoicismo, prendendo le verità sia dell'una che dell'altra filosofia e il suo pensiero si fa universale, raggiungendo picchi poetici altissimi ed immortali come nell'11ª poesia celebre per il Carpe diem o quella dedicata a Cleopatra o l'ultima, quando immagina di morire da cigno, sorvolando i continenti senza passare per il fiume Stige, tanto da rendere vana ogni sepoltura.

Molte poesie sono ispirate alla paura della morte, la quale coglie tutti, ricchi e poveri, felici ed infelici, dove tutti andremo a varcare il fiume Cocito.

Ma Orazio sviluppa tanti altri temi, ora tragici ora leggeri, in modo sublime con una lexis latina perfetta nella forma e nella prosodia.

Molte poesie incitano a fortificare l'anima, altre a divertire, altre incitano a cogliere e a godere i beni terreni, come l'amicizia, il vino, le danze, i banchetti tutti temi epicurei, ma Orazio era prima di tutto Romano fedele a Mecenate e ad Ottaviano, così che molte odi sono dedicate a loro due che gli avevano regalato la tranquillità economica, la sicurezza dell'esistenza e la gloria dell'impero.

Orazio li contraccambia donandogli l'immortalità poetica.

Molti temi sono comuni con le Epistole, con gli Epodi e con le Satire.

Essi vengono sviluppati e svolti in forma lirica e poetica, raggiungendo una forma perfetta, sviluppando considerazioni filosofiche molto profonde e creando Odi molto belle che procurano al lettore piacere estetico e catarsi drammatica.

 

Il primo libro delle Odi, chiamato anche

"Carmi simposiaci",

contiene poesie che esprimono temi epicurei e riguardano la brevità della vita in confronto all'eternità della morte, come afferma il poeta nell'ode IV:

"La pallida Morte picchia con piede indifferente ai tuguri dei poveri e alle torri dei re. O Sestio, o uomo felice, la breve durata della vita ci vieta di concepire una lunga speranza; ben presto, t'incomberà la notte, e i Mani, che non sono che favole, e la vacua dimora di Plutone, dove, come vi sarai entrato, non trarrai a sorte con i dadi il regno della mensa…".

Un altro tema fondamentale è l'invito a cogliere i beni della vita prima che sfuggano e di non preoccuparsi per il futuro.

Nella IX ode dice: "Guardati, o Taliarco, dall'indagare che cosa avverrà domani, e ogni giorno che passa che il caso concederà, segnalo pure a guadagno, e, giacché sei un ragazzo, non disprezzare i dolci amori e le danze, finché dalla tue età verde è lontana l'uggiosa canizie".

Sul tema è celeberrima l'ode XI dedicata a Leuconoe, dove Orazio scrive il suo meraviglioso invito, il Carpe diem, "cogli la vita":

Non stare a cercare, proprio tu, o Leuconoe (non è lecito saperlo) qual fine a me, qual fine a te abbiano dato gli dèi; e non consultare le cabale babilonesi! Quanto è meglio, checché debba accadere, rassegnarsi! Sia che Giove ci conceda molti inverni ancora, o sia l'ultimo questo, che ora infrange alle opposte scogliere il mare Tirreno, metti giudizio: purga i vini, e, in sì breve vita, taglia una troppo lunga speranza. Mentre parliamo, ecco, il tempo invidioso sarà fuggito; cogli l'ora che passa e fida il meno che puoi sul domani".

 Nella XXIV ode ritorna il tema della morte:

"E che? Se più soave del tracio Orfeo tu toccassi la cetra che perfino le piante ascoltavano, forse che il sangue tornerebbe all'ombra vana e conclude: È duro; ma con la rassegnazione si fa più tollerabile tutto ciò che è impossibile mutare".


 L'ode XXXVII è dedicata alla morte di Cleopatra, raffigurata come una grande regina:

"Ma essa, volendo più magnanimamente perire, non ebbe paura della morte, come una femminetta, del pugnale, né guadagnò con la flotta veloce lidi remoti; che anzi osò rivedere con volto sereno la reggia distrutta, e, animosa, maneggiare gli inferociti serpenti, per assorbirne nel corpo il negro veleno, anche più fiera, ora che aveva deliberato di morire, per certo non permettendo di essere trascinata, così spodestata, sulle crudeli liburne al superbo trionfo, essa, donna da non abbassarsi".

L'ultima poesia del I libro delle Odi è dedicata alla sua modestia di poeta:

"Le pompe persiane, ragazzo, io le odio; mi spiacciono le corone intrecciate con fili di tiglio; smetti di cercare in che luogo la rosa s'indugi tardiva. Alla mortella senz'altro non voglio che zelante ti affanni ad aggiungere nulla; né a te, coppiere, sconviene il mirto, né a me, che sotto una folta pergola bevo".

 

Nel II libro delle Odi si accentuano i temi e i toni stoici accanto a quelli pessimistici della ineluttabilità della morte.

A conclusione della II ode Orazio scrive:

"Fraate, restituito al trono di Ciro, la Virtù, in contrasto con la folla, lo esclude dal numero dei beati, e insegna alla gente a non più usare termini errati attribuendo il regno, e un diadema sicuro, e il lauro che gli è proprio, a quel solo, chiunque esso sia, che senza volgere gli occhi mira i cumuli enormi".

La terza ode termina con l'immagine della morte:

"che a nulla perdona. Tutti a un medesimo luogo siamo spinti, di tutti noi si agita nell'urna la sorte, che ne uscirà prima o poi, e che ci porrà sulla barca verso l'eterno esilio".

La X ode tratta il motivo dell'aurea mediocritas finendo con un consiglio decisamente stoico:

"Nelle angustie, mostrati animoso e forte; e tu, da vero sapiente, raccoglierai, se il vento è troppo propizio, le turgide vele".

La XIV ode, molto bella, è dedicata al tempo che fugge e che porta alla morte per cui conclude: "Vedere bisogna il Cocito tortuoso dalla pigra corrente e la scellerata prole di Danaoe, e, condannato alla lunga fatica, Sisifo, il figlio di Eolo. Lasciare bisogna la terra, e la casa, e la moglie amata: e di questi alberi che tu allevi, nessuno, tranne l'odioso cipresso, seguirà te, effimero signore. Si prenderà l'erede, di te più degno, il Cecubo serbato sotto cento chiavi, e bagnerà il pavimento con il vino generoso, più squisito di quello delle cene dei Pontefici". La XVI ode è decisamente stoica ed epicurea insieme, così Orazio scrive: "Vive bene con poco colui, al quale splende sulla parca mensa la saliera paterna, e a cui il timore o, sordida, la cupidigia non toglie i sonni tranquilli. Perché, poi che la vita è breve, miriamo da forti a tanti scopi? (stoicismo) […] Pago del presente, l'animo sdegni il pensare quel che sarà, e tempri le amarezze con un calmo sorriso: nulla v'è sia per ogni verso beato" (epicureismo).

III libro[modifica | modifica sorgente]

La fons Bandusiae citata nel terzo libro.


Il terzo libro è fortemente stoico. Nella I ode Orazio così scrive: "Se uno desidera quel che gli basta non lo turba né il mare in tempesta, né il fiero impeto…". Bellissimi alcuni versi della II ode: "La Virtù, schiudendo il cielo a coloro che hanno meritato di non morire, fa suo cammino per via ad altri negata, e spregia la compagnia del volgo e la bassa terra, via in fuga con le ali". Bella anche la XVI ode: "Al denaro che cresce, vengono dietro gli affanni e l'avidità di maggiori ricchezze… Quanto più uno negherà beni a se stesso, tanto più ne otterrà dagli dei… A coloro che molto chiedono, molto manca; felice è colui al quale un dio concesse con parca mano quello che basta". E ancora, nella XXIX ode: "Provvido un Dio serra in una notte caliginosa l'esito del tempo, e ride, se un mortale si angustia oltre il lecito. Ricordati di sistemare equamente il presente; il resto viene trascinato a guisa di fiume, che ora fluisce in pace, in mezzo al suo letto, verso il mare etrusco ora travolge insieme i sassi corrosi e i tronchi sbarbicati, e il bestiame, e le case…".

Famosissima la XXX ed ultima ode del terzo libro nella quale Orazio, conscio di aver scritto poesie perenni, si autocelebra:

"Ho compiuto un monumento più perenne del bronzo, e più alto della regale mole delle piramidi; tale che non possa diroccarlo né la pioggia edace, né l'aquilone violento, o l'innumerevole succedersi degli anni e la fuga delle stagioni... Assumiti l'orgoglio acquistato coi meriti, e, benigna, cingimi la chioma, o Melpomene, con il lauro di Delfo".

Carmen saeculare[modifica | modifica sorgente]

Nel 17 a.C., su invito di Ottaviano, Orazio compose il celebre Carme secolare. Il carme secolare è la celebrazione di Augusto e della potenza di Roma sul mondo ed esprime l'augurio che essa non possa mai morire. Il carme è un invito agli dei di dare lunga prosperità ai romani. Il carme risulta una preghiera perfetta e si può dire che rappresenta l'apoteosi della cultura pagana e la perfezione della poesia di Orazio.

 

Il IV libro delle Odi fu pubblicato nel 741 ab urbe condita (12 a.C.) e contiene 15 odi.

Orazio riprende i temi a lui più cari: le lodi a Cesare Ottaviano, il tema della fortezza dell'animo, il tema della poesia che rende immortali gli uomini, il tema del godere i piaceri della vita e qualche volta di impazzare ma non dimentica di confermare e ribadire il tema della fugacità del tempo e della vita e nella stessa ode, la VII, riprende il tema dell'ineluttabilità della morte e la concezione materialistica degli uomini che altro non sono che polvere ed ombra.

A Cesare Augusto sono dedicate le odi V, XIV e XV; l'ode XIV e XV, che riprendono il tono e i motivi del Carme Secolare, il quale termina con questi versi: "E noi, nei dì feriali e nei dì festivi, fra i doni di Libero giocondo, coi nostri figli e le nostre spose, prima invocati secondo il rito gli dèi, canteremo all'uso degli avi, con carmi accompagnati dai flauti lidi, gli eroi vissuti da valorosi, e Troia, e Anchise, e la progenie dell'alma Venere".
Il tema della serenità dell'anima è espresso nella nona ode, dedicata a Lollio ,cui si rivolge dicendo: "Tu hai un animo esperto del mondo, e saldo così nei momenti felici come negli incerti, nemico dell'ingorda frode e spregiatore del denaro che ogni cosa a sé trae, e console non per un solo anno, ma tutte le volte che giudice buono a fronte alta i doni dei malvagi, e per mezzo le schiere avversarie brandisce vittorioso le armi che sono sue. Non a ragione chiamerei felice chi molto possiede; più a ragione detiene il nome di felice colui che sa usare saggiamente dei doni degli dèi e sopportare la dura povertà, e teme la colpa peggio della morte, non pauroso, lui, di perire per i cari amici o per la patria".
Il tema della poesia che rende immortali è sviluppato nelle odi VIII e IX. Nell'ottava ode Orazio scrive: "Che sarebbe il figlio di Ilia e di Marte, se invido il silenzio si opponesse ai meriti di Romolo? La virtù propria, e il favore e la lingua dei poeti, che soli lo possono, consacra alle isole dei Beati Eaco, strappato alle onde stigie. A un uomo degno di fama, la Musa impedisce di morire; la Musa lo fa beato in cielo". Nella IX ode scrive: "Vissero prodi molti prima di Agamennone; ma tutti senza lacrima, e ignoti, sono oppressi da una luna notte, perché non hanno un sacro vate. Poca distanza v'è tra l'ignavia e la virtù nascosta".
Il tema di non lasciarsi sfuggire i piaceri della vita è espresso nell'ode XII dedicata a Virgilio, che così si conclude: "Ma lascia da parte gli indugi, e l'avarizia, e, finché si può, memore delle negre fiamme del rogo, mesci alla saggezza una breve follia; dolce è a suo tempo impazzare".
L'ode I è dedicata a Venere, la quale ancora gli muove guerra, mentre l'ode XI è dedicata a Filide e l'ode XIII è dedicata a Lice.

L'ode che compendia tutta la sua Weltanschauung è la VII, dal titolo A Torquato:

"Sciolte si sono le nevi, tornano ai campi l'erbe e agli alberi le chiome; muta la terra parvenza, e, decrescendo, i fiumi scorrono entro le rive; la Grazia, con le ninfe e le due gemelle, osa guidare le danze. "Non concepire immortali speranze!" ammonisce l'anno che torna e l'ora che trascina l'almo giorno. I geli si mitigano coi Zefiri; l'estate calpesta la primavera; ma morirà anch'essa, tosto che il pomifero autunno avrà versati i suoi frutti; e, subito dopo, la morta bruma ritorna. Nondimeno le rapide lunazioni riparano i celesti danni; noi, quando siamo caduti giù, colà dove stanno il padre Enea e i ricchi Tullo e Anco, siamo polvere ed ombra. Chi sa se gli dèi celesti vorranno aggiungere ai giorni vissuti finora i giorni del domani? Tutto ciò che tu concederai al tuo egoismo, sfuggirà alle avide mani dell'erede. Quando una volta sarai spento e Minosse avrà dato uno splendido giudizio di te, non la nobiltà, o Torquato, non la facondia, non la pietà ti potranno ridare alla vita, poiché neppure Diana libera dalle tenebre infernali Ippolito il pudico, né Teseo riesce a spezzare le catene letee al suo caro Piritoo".


Come sostiene Giuseppe Lipparini, traduttore e curatore de Le Odi[1]nell'introduzione all'opera:

"Si alternano in lui le belle strofe luminose dei lirici greci: saffiche, alcaiche, asclepiadee, alcmanie, archicolochee, ma le due prime prevalgono di gran lunga sulle altre. Nel piegare a quella leggerezza musicale il solenne idioma latino, tenendosi egualmente lontano dalla pesante gravità e dalla facilità volgare e trascurata, Orazio si dimostra un grande, un insuperabile maestro.

È freddo e sereno, non ci dà una scossa o un urto; ma fa sentire lo stupore e la felicità dell'opera perfetta.

Stilista ingegnosissimo, padrone di tutti i procedimenti più segreti e più accorti, egli sa celare il suo sforzo con un'arte perfetta. E il segreto della sua perfezione (a proposito delle Odi non si ripeterà mai abbastanza questa parola) consiste nell'essersi così compiutamente impadronito dei mezzi dell'espressione, da potere giungere alla precisa aderenza della forma alla materia".

Note[modifica | modifica sorgente]

  1. ^ Giuseppe Lipparini, Le Odi, Carlo Signorelli editore, Milano, 1951

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