Wednesday, May 21, 2014

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Speranza

La Repubblica
Titolo originaleDe re publica
Altri titoliSulla cosa pubblica, Sullo Stato, Lo Stato
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Busto di Cicerone
AutoreMarco Tullio Cicerone
1ª ed. originaletra il 55 e il 51 a.C.
Generetrattato
Sottogenerefilosofico
Lingua originalelatino


Il De re publica (in italiano La Repubblica o Sulla cosa pubblica o Sullo Stato) di Cicerone è un trattato di filosofia politica diviso in sei libri.

L'opera fu scritta tra il 55 a.C. e il 51 a.C. e, come il suo modello, La Repubblica di Platone, l'opera si svolge sotto forma di dialogo (ipoteticamente avvenuto) nel 129 a.C., tra Scipione Emiliano, che di lì a pochi giorni sarebbe morto, e altri amici, fra cui Gaio Lelio Sapiente, Manio Manilio, Quinto Tuberone, Lucio Furio Filo, nella villa suburbana dello stesso Emiliano.

L'opera analizza le forme di governo e le loro degenerazioni (da monarchia a tirannide, da aristocrazia a oligarchia, da democrazia a oclocrazia e il ritorno alla monarchia).

Dei sei libri che la componevano ci sono giunti in maniera completa solo i primi, oltre a quanto trasmessoci da molti altri autori, come Macrobio, Lattanzio, Nonio e Sant'Agostino.

Possediamo inoltre frammenti dal terzo al quinto libro e la conclusione del sesto, che furono scoperti dal cardinale Angelo Mai nel 1819, in un palinsesto vaticano sotto il commento di Sant'Agostino ai salmi 119-140 di David.

Partendo dallo spunto del dialogo platonico, Cicerone, muovendosi nell'ambito dello stoicismo della sua formazione filosofica, espone la teoria costituzionale di Roma antica, stabilendo il nesso esistente tra la morale dei costumi politici e le virtù morale dei comportamenti individuali.

Cicerone introduce la discussione mostrando come, nella sua visione permeata da stoicismo, gli uomini non siano nati per uno studio meramente astratto.

La ricerca della verità filosofica, egli argomenta, non dovrebbe mai prescindere da una sua concreta applicabilità, in una prospettiva che risulti utile ai grandi interessi della filantropia e dell'amore per la patria.

 
Busto di Platone

Nel libro I è esposta la dottrina aristotelico-polibiana delle tre forme di governo (monarchia, aristocrazia, democrazia), delle loro rispettive degenerazioni (tirannide, oligarchia, oclocrazia) e del necessario passaggio dall'una all'altra di esse, evitabili solo grazie alla stabilità assicurata dalla costituzione mista, che contempera in sé gli elementi fondamentali delle tre forme di governo.

Una costituzione del genere si è storicamente inverata, come già Polibio aveva indicato, nella repubblica romana del II secolo a.C., che di fatto era un regime aristocratico-oligarchico, anche se i consoli, il senato e i comitia potevano riprodurre almeno nominalmente le tre forme canoniche.

L'esposizione di Cicerone è tesa a mostrare i benefici che derivano dal contemperare l'atteggiamento contemplativo e distaccato della filosofia, con la pratica di una vita pienamente attiva e politica, in accordo con l'utopica visione di Platone:

«Felice la nazione i cui filosofi sono re e i cui re sono filosofi».

Si tratta di una precisazione che, ai suoi occhi, risulta tanto più necessaria quanto più si considera l'atteggiamento di alcuni filosofi il cui fermo attaccamento alla metafisica e alle speculazioni astratte, li porta ad affermare che il vero filosofo non deve essere coinvolto nella conduzione di pubblici affari.

Nel libro II Cicerone offre una panoramica della storia e degli sviluppi della costituzione romana.

Egli tesse i migliori elogi dei re originari e mette in evidenza i grandi vantaggi connessi ad un simile sistema monarchico, di cui viene descritta la graduale dissoluzione.

Per sottolineare l'importanza e l'opportunità di una reviviscenza di quel sistema, Cicerone pone l'accento su tutti i mali e i disastri che si sono abbattuti sullo stato romano in conseguenza del sovraccarico di violenza e follia democratica, che ha continuato ad accrescere, in maniera allarmante, la sua preponderanza.

Cicerone, con una sagacia che gli deriva dalla sua personale esperienza politica, si spinge a descrivere i rivolgimenti che si abbatteranno sullo stato romano, permanendo un tale stato di cose.

Il libro III affronta il grande tema della giustizia all'interno dello Stato e nei rapporti internazionali.

Cicerone si serve della verità profonda racchiusa in un proverbio di inestimabile valore.

«L'onesta è la migliore regola di condotta» in tutte le questioni, si tratti di affari pubblici o privati.

Il dialogo si svolge tra Furio Filio e Caio Lelio.

FURIO FILIO esprime la sua visione pessimistico-realista secondo cui i governanti promulgano le leggi solo per proprio tornaconto.

CAIO LELIO afferma la visione ottimistica secondo cui la legge positiva è una traduzione in pratica della legge naturale.

 La disquisizione che Cicerone compie in questo libro ebbe un commentatore di pregio in Sant'Agostino che ne fornì la sua analisi in De Civitate Dei, III-21.

I libri IV e V son quasi interamente perduti, salvo i pochi e disparati frammenti pervenutici.

Nei due libri viene tratteggiata la figura dell'uomo di governo ideale, che Cicerone chiama di volta in volta princeps ("primo cittadino") o tutor et procurator rei publicae ("reggitore e governatore dello stato"), o ancora con altri appellativi (moderator).

Non si tratta del vagheggiamento di una riforma costituzionale in senso autoritario, ma di un modello ideale di uomo politico, che sappia sacrificare ogni interesse personale per il bene della comunità, assicurando (anzi, restaurando) la stabilità della repubblica senatoria, espressione della classe dirigente.


Nel sesto e ultimo libro, Cicerone si occupa di mostrare come gli uomini di stato che intendano perseguire l'amore per la patria, la giustezza e la filantropia, non debbano unicamente attendersi di ricevere, mentre sono in vita, l'approvazione e il sostegno morale di tutti i buoni cittadini.

Ad essi spetta, nella prospettiva dell'eternità, la gloria immortale di una nuova forma di esistenza.

Per illustrare questo punto, Cicerone introduce la famosa immagine del Somnium Scipionis, che egli utilizza per spiegare, con inimitabile eleganza e dignità, le dottrine platoniche sull'immortalità dell'anima.

 In questo episodio Scipione Emiliano rievoca l'apparizione, in un sogno fatto tempo addietro, del nonno adottivo Scipione Africano, che dall'alto dei cieli gli addita la piccolezza della terra e la conseguente futilità delle cose umane, ma nel contempo gli rivela la ricompensa di eterna beatitudine destinata nell'aldilà alle anime di chi sulla terra si è prodigato per il bene della patria.

Coloro i quali si sono lasciati trasportare dai piaceri del corpo vagheranno, una volta morti, intorno alla terra per purificarsi prima di salire al cielo.

 

Il passo del Sogno di Scipione, per il quali siamo debitori a Macrobio, merita una menzione particolare: è, nel suo genere, uno dei momenti più felici della letteratura dell'antichità, e tra i passi più ammirati e celebrati dagli studiosi di ogni epoca.

Esso, che costituiva la conclusione dell'opera, è stato per lungo tempo anche l'unica parte conosciuta che, fin dall'antichità, aveva cominciato a circolare con il titolo autonomo di Somnium Scipionis.

È solo dal 1819 che il testo è stato parzialmente ricomposto quando è venuto alla luce il testo dei primi cinque libri (buona parte dei primi due e frammenti degli altri).

 


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