Wednesday, May 28, 2014

LOEB IS ALL YOU NEED -- LIVIO -- STORIA DI ROMA -- 142 libri -- 150 libri --.

Speranza

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Storia di Roma (Ab Urbe condita libri CXLII)
Titolo originaleAb Urbe condita libri CXLII
Altri titoliStoria di Roma dalla sua fondazione - Libri dalla fondazione di Roma
Altar Mars Venus Massimo.jpg
Altare di Marte dove vi è rappresentata la nascita di Romolo e Remo e la lupa che li allevò
AutoreTito Livio
1ª ed. originaletra il 27 a.C. e il 14 d.C.
Genereraccolta
Sottogenerestoriografia
Lingua originalelatino

Ab urbe condita libri CXLII (centum quadraginta duo), noto anche in italiano come Storia di Roma, o anche letteralmente Storia di Roma dalla sua fondazione, è il titolo derivato dai codici (vedi Ab Urbe condita) con cui l'autore dell'opera Tito Livio indica quella che sarà la suddivisione della storia della fondazione di Roma in annales o libri.

L'opera è nota anche con il titolo Historiae (Storie).

L'opera comprendeva in origine 142 libri di cui si sono conservati i libri 1–10 e 21–45 (l'ultimo mutilo) e scarsi frammenti degli altri (celebri quelli relativi alla morte di Cicerone col giudizio di Livio sull'oratore, tramandati da Seneca il vecchio).


 
Tito Livio

Scrivendo la sua opera Livio ritornò alla struttura annalistica tipica della storiografia romana, rifiutando l'impianto monografico delle prime opere di Sallustio (Bellum Catilinae, Bellum Iugurthinum, le Historiae, rimaste incompiute avevano un impianto annalistico).

La narrazione di ogni impresa si estende per l'arco di un anno, poi è sospesa ed ha inizio la narrazione di altri avvenimenti contemporanei, per l'anno seguente è ripresa la narrazione dei fatti lasciati in sospeso alla fine dell'anno precedente.

La narrazione iniziava dalle origini mitiche di Roma, ossia con la fuga di Enea da Troia, e arrivava, col libro 142, alla morte di Druso figliastro di Augusto, avvenuta in Germania nel 9 a.C., o forse anche fino alla disfatta di Varo nella selva di Teutoburgo, nel 9 d.C.

L'opera, interrotta dalla morte di Livio, probabilmente doveva comprendere 150 libri ed arrivare fino alla morte di Augusto, avvenuta nel 14 d.C.

Si sono conservati i libri 1-10 (la "prima decade"), che arrivano fino alla terza guerra sannitica (293 a.C.) e i libri 21-45 (terza e quarta "decade" e metà della quinta), che coprono gli avvenimenti dalla seconda guerra punica (218 a.C.) fino al termine della guerra contro la Macedonia, nel 167 a.C.

Dei libri perduti si sono conservate (tranne che per i libri 136 e 137) le Perìochae, brevi riassunti composti fra il III e il IV secolo d.C., forse sulla base di precedenti epitomi (compendi) dell'opera liviana.

La perdita di vaste parti dell'opera è probabilmente dovuta alla sua suddivisione in gruppi separati di libri, che andarono incontro a diverse vicende.

Alla divisione in decadi si fa cenno per la prima volta verso la fine del V secolo, ma la presenza di un proemio in apertura della terza decade (seconda guerra punica) fa pensare che la suddivisione in decadi rispecchi le fasi della pubblicazione dell'opera da parte dello stesso Livio, che pubblicò l'opera per gruppi di libri comprendenti periodi distinti e premettendo dichiarazioni introduttive ad alcuni dei libri che aprivano un nuovo ciclo.

Come molti dei precedenti storici latini, Livio dilata l'ampiezza della propria narrazione man mano che si avvicina alla propria epoca, per soddisfare le attese dei lettori, interessati soprattutto alla narrazione della crisi politico-sociale dalla quale era emerso il principato augusteo.

A tale interesse del pubblico allude Livio nella praefatio generale all'opera.

Le fonti utilizzate da Livio per la prima decade, contenente la storia più antica di Roma, furono gli annalisti, specialmente quelli meno antichi come Claudio Quadrigario, Valerio Anziate, Elio Tuberone e Licinio Macro (per alcune descrizioni particolari tenne forse presente addirittura il poema epico di Ennio), mentre per le decadi successive, in cui veniva narrata l'espansione di Roma in Oriente, agli annalisti romani affiancò il grande storico greco Polibio, dal quale Livio attinse soprattutto la visione unitaria del mondo mediterraneo, sporadica pare l'utilizzazione delle Origines di Catone.

Una stampa del Cinquecento dell'opera di Livio

Livio non sempre attua un attento vaglio critico e scientifico delle proprie fonti e non tenta di colmare le lacune della tradizione storiografica con il ricorso a documentazione di altro genere, (manoscritti, iscrizioni ed i risultati delle ricerche degli antiquari della precedente generazione, come Attico o Varrone).

Mancando di un'impostazione storiografica in senso moderno, la sua analisi si arresta al livello del riconoscimento della contradditorietà delle fonti a lui disponibili e all'ammissione della propria incertezza.

Non approfondisce le ragioni della contraddizione e privilegia la Tradizione intellettuale e culturale all'indagine critica, che avrebbe potuto minare le basi della tradizione consolidata.

L'Autore rinuncia inoltre, nella maggioranza dei casi, a ricercare le cause, in particolar modo sociali ed economiche, che danno origine agli avvenimenti che descrive.

 

Il regime augusteo non operò, nei confronti della storiografia, un tentativo di egemonia simile a quello attuato nei confronti della poesia e Livio non era certamente all'opposizione, ma nemmeno svolgeva una propaganda acritica.
Incisione ritraente Sallustio


Tacito riferisce che Livio, anche in considerazione nei confronti delle sue origini nell'aristocrazia provinciale, tradizionalista e conservatrice ammirava Pompeo e ostentava rispetto verso altri avversari di Cesare (anche per Bruto e Cassio), tanto che Augusto avrebbe affibbiato allo storico l'epiteto scherzoso di "pompeiano", per la nostalgica simpatia verso gli ideali repubblicani, nel rispetto dell'egemonia della classe senatoria, naturalmente investito della missione di essere la classe dirigente.[2]

Un atteggiamento del genere non causava fastidi alla corte augustea, dal momento che Ottaviano Augusto preferiva presentarsi come il restauratore della repubblica piuttosto che come l'erede di Cesare, il quale era apparso più come il "grande eversore" alla ricerca del potere assoluto, che come uno statista della res publica.

Augusto proclamava di avere ristabilito la concordia eliminando i partiti e Livio condanna la demagogia, quando narra i conflitti interni dei primi secoli della repubblica, sui quali proietta problematiche legate alle lotte più recenti (mancano le parti relative alla storia recente).

 

Un altro fattore di convergenza col principe era costituito dalla politica augustea di restaurazione degli antichi valori morali e religiosi, una tematica cara allo storico patavino, che individua nell'allontanamento dalla tradizione e nella decadenza dei valori etici su cui poggiava lo stato romano i motivi principali della crisi morale ancor prima che delle istituzioni che aveva squassato l'Urbe.

Concordando con Gaio Sallustio, la risposta che l'Autore dà alla ricerca delle motivazioni della crisi di Roma è identificata nella crisi morale.

A differenza del filopopulares Sallustio, che attribuisce la maggiore responsabilità alla corruzione dei nobiles, Tito Livio imputa alla società romana nel suo complesso la decadenza morale, rimanendo su un piano meno concreto dell'autore di età cesariana.
Il consenso di Livio verso il regime non è acritico, infatti, dalla praefatio generale, traspare un'acuta consapevolezza della recente crisi sociale e politica, che lo storico non considera risolta del tutto. Livio rifiuta quella parte dell'ideologia augustea che presenta il principato come una nuova età dell'oro e non considera il governo di Augusto la panacea contro la corruzione che aveva provocato il declino dello stato romano. Nell'affermare che la narrazione del passato è un rimedio all'inquietudine causata dalla storia recente, Livio è polemico nei confronti della storiografia sallustiana, che pone la crisi al centro della propria indagine e, pur riconoscendo il carattere non episodico della crisi, rifiuta di concentrare l'interesse su di essa. Probabilmente, l'esaltazione delle gesta degli antichi è dovuta alla tendenza dello storico, deluso dal presente, ad idealizzare il passato.

Note e riferimenti[modifica | modifica sorgente]

  1. ^ Giusto Monaco, G. De Bernardis, pag. 499-500.
  2. ^ Giusto Monaco, G. De Bernardis, pag. 498.

Bibliografia[modifica | modifica sorgente]

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