Saturday, April 9, 2016

DIDONE ABBANDONATA: sulle trace di Didone -- origine e sviluppo del mito dalle fonti classiche al primo melodramma di Metastasio

Speranza

Il fascino della regina di Cartagine e la sua conseguente fortuna in qualità di soggetto in vari campi artistici sono forse riconducibili essenzialmente a due motivi sostanziali: 

a) l’ambivalenza della tradizione che ne accompagna lo sviluppo diacronico e 
b) l’innegabile tragicità che permea la vicenda della Didone virgiliana.

Riguardo ad (a), almeno due sono le storie, che corrono parallelamente per un tratto, divergendo quindi bruscamente e riunendosi poi nell’esito del suicidio, ma non nelle motivazioni della tragica scelta.

Nel Libro I dell’"Eneide" di Virgilio emerge infatti l’immagine della regina fenicia, superata solo da Latino per quel che concerne la quantità d’appellativi regali.

Didone si dimostra capace di costruire una città imponente ("ingentia moenia", I, 365-366), simbolo di ricchezza e floridezza, di cui viene a porsi come attenta custode contro insidie esterne ("res dura et regni novitas me talia cogunt moliri et late finis custode tueri" I, 561).

Didone è anche in grado di ricoprire ruoli legislativi e amministrare il lavoro ("iura dabat legesque viris operumque laborem partibus aequabat iustis aut sorte trahebat", I, 507).

Una conferma di ciò è riscontrabile anche in Gaio Giulio Solino, vissuto tra il terzo e il quarto secolo dopo Cristo.

Nel suo compendio geografico Solino parla della fondazione di Cartagine, prima chiamata “Karthada”, cioè città nuova, da parte di Didone.

Secondo quanto raccontato da Strabone, inoltre, il potere cartaginese, dal momento della fondazione della capitale, si estese gradualmente su tutta l’Africa, prima di scontrarsi con l’ ultima e fatale barriera dell’esercito romano comandato da Lucio Emilio Paolo.

Esattamente come Saturno, dunque, Didone ha una funzione civilizzatrice.

Se infatti Saturno dona la legge ai popoli del Lazio ("is genus indocile ac dispersum montibus altis composuit legesque dedit latiumque vocari maluit", VIII, 321-323), Didone viene così descritta da Ilioneo.

"O regina novam cui condere Iuppiter urbem iustitiaque dedit gentis frenare superbas" (II, 522-523) 

-- è in virtù di ciò, quindi, che Didone appare come “parfaitement digne d’éloges”

Ma con il quarto libro del poema virgiliano s’afferma, in antitesi ma anche in ‘moderna’ – poiché irrisolta e contraddittoria – complementarità, l’immagine della donna capace di gettare tutto nell’oblio in nome della passione che in lei ha travolto e bruciato qualsiasi senso del dovere: la Didone, paradigmatico esempio di coraggio e 1 Cfr. P. BONO-M. V. TESSITORE, "Il mito di Didone: avventure di una regina tra secoli e culture", Milano, Mondadori.

Il lemma latino ricorre spesso nell’"Eneide", con particolare frequenza prima dell’incontro con Enea (I, 303; 389; 454; 496; 522; 594; 660; 674; 697; 717; 728; II, 3; IV, 1; 133; 283; 296; 334; 504; 586; VI, 460).

"urbem carthaginem ut cato in oratione senatoria autumat cum rex iurbas rerum in lybia potiretur Elisa mulier extruxit domo phoenix et Karthadam dixit quod Phoenicum ore exprimit civitatem novam." -- "Collectanea Rerum Memorabilium", XXVII. 10. 4 Geografia, XVII. 3. 15. 5

J.-M. POMATHIOS, "Le pouvoir politique et sa représentation dans l’Énéide de Virgile", Collection Latomus, Bruxelles, 

integrità, si trasmuta in coesiste con l’icona «dell’incostanza e dell’abbandono irriflesso al sentimento».

Un dato incontrovertibile è che la regina africana si pone, sia sotto il profilo artistico che più genericamente mitico, come personaggio dotato di una propria autonomia rispetto alla figura di Enea.

L’immagine della vedova casta, martire e suicida, solo in nome di una forte fedeltà verso il marito, sembrerà poi divenire particolarmente cara ad una certa tradizione patristica, come dimostra la parafrasi latina dell’opera di Dionigi il Periegeta, fatta da Prisciano il quale, in velata polemica con Virgilio, parla di "felix Dido."

Ma è la seconda istanza, basata sul cruciale binomio amore-morte, a godere di maggiore fortuna attraverso i secoli.

Il mito della Didone romanticamente dilaniata dall’ irrisolvibile scissione/opposizione tra regina e donna nasce e sussiste in ragione della mirabile unicità di colei che si viene a porre come autrice drammaticamente consapevole della propria auto-distruzione, ponendo così termine ad una vita caratterizzata da viaggi forzati e sventure.

Proprio a questo proposito – preferenza per le vicende tragicamente amorose della regina cartaginese – D. Allen, parlando delle relazioni vigenti tra la Didone di Marlowe e la tradizione, ha scritto, "una Arianna è sempre più seducente («fetching») di una Giuditta."

Macrobio conferma infatti che la "fabula lascivientis Didonis" fu tale da porre in secondo piano l’altra leggenda relativa alla castità della regina, preferendo che venisse celebrato "quod pectoribus humanis dulcedo fingentis infudit."

Un’altra connessione con il mondo romantico è inoltre fornita dalla natura Wanderer propria della regina.

Il nome di "∆ειδὼ" sarebbe infatti stato assegnato alla regina cartaginese proprio in virtù del suo passato errabondo. 

Seguendo le ipotesi riguardo l’etimologia del nome sviluppate già da Bochart nel XVII secolo13 e da Gesenius nel XIX, e recentemente riprese e sviluppate da Honeyman, il nome di "Didone" deriverebbe dalla radice semitica "N D D".

Questo viene anche suffragato da quanto scritto 6 Eneide, IV, 569-570.

varium et mutabile semper femina.

Quos prope tenduntur fines Carthaginis altae perpetuas Tyriis celebrat quae condita laudes qua regnans felix Dido per saecula vivit atque pudicitiam non perdit carmine ficto -- in GEOGRAPHI GRAECI MINORES (e codicibus recognovit prolegominis annotatione instruxit tabulis aeri incisis illustravit Carolus Müllerus), Hildesheim, G. Olms Verlagsbuchhandlung, II, p. 191. 

Similmente, anche nei "Fasti" (III, 597) di Ovidio si legge: 

"tunc primum Dido felix est dicta sorori"

A. SCHMITZ, "Infelix Dido: Étude esthétique et psychologique du livre IV de l’Éneide", Gemboux, Duculot.

Il concetto, già espresso da Karl Büchner, il quale parla di comportamenti "die in der blinden Selbstdurchsetzung in den Tod führen" (Publius Vergilius Maro, der Dichter der Römer, Stuttgart, Druckenmüller), è stato ripreso anche da M. RUCH in "Le destin dans l'Énéide: essence et réalité" in "Virgiliana: Recherches sur Virgile publiées par H. Bardon et R. Verdière". Leiden) e da POMATHIOS, 

Cfr. D. C. ALLEN, Marlowe’s “Dido” and the tradition, in «Essays on Shakespeare and the Elizabethan drama, ed. R. HOSLEY, Routledge&Kegan Paul, London, 

Saturnalia, V, 17, 5-6. 

S. BOCHART, Geographiae sacrae pars altera Chanaan seu De coloniis et sermone phoenicum. Cum tabulis chorographicis et duplici indice, Cadomi, typis Petri Cardonelli.

H. GENESIUS, "Scripturae linguaeque Phoeniciae monumenta quotquot supersunt edita et inedita", Lipsiae, sumptibus typisque Fr. Chr. Guil. Vogelii.

A. HONEYMAN, Varia Punica, in «The American Journal of Philology», 68.

Da Timeo di Tauromenio e riportato anche dal trattato "De mulieribus" in cui l’anonimo autore, dopo aver spiegato la provenienza della regina dalle coste libiche, parla appunto di grande peregrinazione.

"ὐπὸ τῶν Λιβύων διὰ τὴν πολλὴν αὐτῆς πλάνην ∆ειδὼ προσεγορεύθη ἐπιχωρίως"

La citazione dallo stesso autore, conosciuto a Roma già ai tempi di Catone il Censore, inizia soffermandosi sul vero nome di Didone, che Timeo chiama Elissa, in lingua fenicia, "Θειοσσώ". 

Per quel che concerne il primo, Honeyman spiega come in punico sia possibile una duplice spiegazione etimologica:

(a) ēl’iššā -- "donna divinità" 
(b) ēl’eš/’ēl ’eššā -- "nel fuoco" 

A suffragio di entrambi i significati vi è il commento di Servio al verso 36 del IV libro dell’Eneide. 

Dopo aver narrato della fuga da Iarba e del tentativo di placare i "manes mariti prioris", Didone "dopo aver costruito una pira, si gettò nel fuoco".

"ob quam rem Dido, id est virago, quae virile aliquid fecit, appellata est nam Elissa proprie dicta est."

spiega il commentatore. Riguardo il duplice uso, da parte di Virgilio, di entrambi i nomi ("Didone" ed "Elissa") si può concordare con Honeyman, secondo il quale il poeta augusteo non solo era a conoscenza, ma anche interessato a metter in evidenza il doppio significato di «wandering queen» e «faithful widow». 

Se nella tradizione pre-virgiliana la duplicità di nomi della regina sembrava indicare una profonda differenza tra due fasi della sua vita − Dido in uso nella sua città nativa, Elissa dopo la sua partenza forzata, con particolare evidenza in punto di morte e dopo questa − l’utilizzo delle due forme nel poema (R. HEINZE, "La tecnica epica di Virgilio", Bologna, Il Mulino) mostra diverse perplessità circa una derivazione diretta Timeo > Virgilio della figura di Didone. 

Il testo di Timeo, trasmesso nell’ottavo libro degli "Stratagemata" di Polieno (cfr. "Die Fragmente der griechischen Historiker" di von F. JACOBY), Leiden, Brill, Dritter Teil, Fragment 82,), è riportato interamente nell’ Appendice I. 

Il testo di Timeo è riportato in "Die Fragmente der griechischen Historiker" di von F. JACOBY, Fragment 261, 

Vissuto orientativamente tra il 350 e il 260 a. C. e nato presso l’odierna Taormina, Timeo fu autore di molte opere, tra cui "I vincitori olimpici", e le "Storie siciliane" in 38 libri, dalle origini agli anni 289/8, con un supplemento riguardo agli eventi relativi alle campagne in Italia di Pirro. 

È in quest’ultima opera che Timeo parla di Didone. 

Esiliato intorno al 315, fu ad Atene, dove si crede sia morto (cfr. G. OLIVER History and Rhetoric, in the "Cambridge Companion to the Hellenistic world", ed. by G. BUGH), Cambridge University Press). 

Su di lui, oltre che diversi giudizi poco lusinghieri di Polibio, è possibile trovare cenno nel "Trattato del Sublime" (nel quarto paragrafo, dopo aver accusato lo storico siciliano di ‘freddezza’, l’anonimo autore continua definendolo “scrittore per il resto abile e talvolta capace di grandezza letteraria: colto, dotato d’ingegno, ma tanto severo con i difetti altri quanto cieco di fronte ai propri”) e nel "De oratore" di Cicerone (II. XIV. 58): Timeo "longe eruditissimus et rerum copia et sententiarum varietate abundantissimus et ipsa compositione verborum non impolitus magnam eloquentiam ad scribendum attulit."

Cfr. A. LA PENNA, "Didone" nell'Enciclopedia Virgiliana", Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani. 

T. S. BROWN, partendo dall’affermazione che all’epoca di Augusto il testo di Timeo fosse disponibile integralmente, sottolinea la premura del "princeps" nel fornire al poeta mantovano "any books he needed as background material for the Roman epic", Timaeus and the Aeneid, in «Vergilius», P. BONO/M.  TESSITORE, con riferimento a quanto ipotizzato già da P. CINTAS ("Manuel d’archéologie punique: histoire et archéologie comparée -- chronologie des temps archaïques de Carthage et des villes phéniciennes de l’Ouest", Paris,A.-J. Picard, ), riportano l’ipotesi secondo cui quello di Didone non sarebbe da intendere tanto come nome proprio, bensì come appellativo, forma femminile di "dâwîdum", "un capo guerriero", o meglio del femminile dell’ebraico "david", "DWD". 

Una sintesi globale ed esaustiva di tutte le possibili derivazioni e connessioni etimologiche relative al nome "Didone" è compiuta da K. GEUS, "Orientalia Lovaniensia Analecta: prosopographie der literarisch bezeugten Karthager", Peeters Publishers and Departement of Oriental Studies, 

HONEYMAN, op. cit., p. 78. 

virgiliano sembra allora determinato riferito al rapporto con Enea ed metriche e grammaticali.

Dido nominativo, del vocativo e dell’accusativo all’ablativo Didone – mentre il trisillabo sembra prestarsi più agevolmente per i casi indiretti, come il genitivo. 

Un'altra spiegazione potrebbe essere però di natura meno tecnica e più ‘di colore’, essendo il riflesso di particolari sentimenti.

La va rivolto dal solo Enea alla regina. 

Se infatti modo seguente.

Il nome "Elissa" viene usato una sola volta da Enea, una sola volta passaggi in cui sono riportate le parole: 

ego te quae plurima fando enumerare vales numquam regina negabo promeritam nec me meminisse pigebit elissae dum memor ipse mei, dum spiritus hos regit artus 

come sostenuto da H. RUPPRECHT, "Ovid", in "Gymnasium", LXVI,

Come già notato da Corso Buscaroli nella sua edizione del IV libro dell’ anonima Dante Alighieri.

Più debole sembra essere l’ipotesi di una scelta determinata dalla particolarità del suono della vocale "e".

Nella recensione in "The Classical Weekly" XXVI, del lavoro di B proprio commentando l’osservazione di quest’ultimo in merito all’utilizzo dei due nomi come determinato da questioni metriche, W. KNIGHT scrive infatti:

"The explanation is surely incomplete without the recognition that the weak high vowel-tones, especially as they are reinforced, for example, in of ther own."

Cfr. A. LA PENNA, "Elissa, traditionally the Phoenician name of Dido, is used by Virgil, by herself in 4.610, and in the narrative, 5.3."

"In any of these cases is any special reason for the variation apparent."

"But it is to be observed that the name "Dido" is only used in its UNinflected form, and always as a nominative, or, which is much the same thing, as a vocative."


"It would seem, therefore, that Virgilio is unwilling to inflect the uninflected word."

J. MACKAIL, "The Aeneid", O. U. P.

Didone passaggi narrativi: occorrenze discorsi: 13 occorrenze 5 determinato, più che da sfumature semantiche, con il primo appellativo riferito al rapporto con Enea ed il secondo a quello con il defunto Sicheo, principalmente da ragioni "Dido" risulta infatti sempre utilizzato come bisillabo (nelle forme del nominativo, del vocativo e dell’accusativo) – benchè nell’unica attestazione enniana compa mentre il trisillabo sembra prestarsi più agevolmente per i casi indiretti, come il 

Un’altra spiegazione potrebbe essere però di natura meno tecnica e più ‘di colore’, essendo sentimenti.

La variante "Elissa" potrebbe suonare come affettuoso appellativo rivolto dal solo Enea alla regina. 

Se infatti l’utilizzo del nome principale può l nome "Elissa" viene usato una sola volta da Enea, una sola volta da Didone stessa e ancora in alcuni in cui sono riportate le parole o i pensieri del condottiero troiano.

enumerare vales numquam, regina, negabo se pigebit elissae iritus hos regit artus 

Come sostenuto da H. RUPPRECHT, "Dido oder Elissa: eine Vermutung über den Gebrauch dieser Namen bei Vergil und 

4, 

Come già notato da C. Buscaroli nella sua edizione del IV libro dell’Eneide (Il libro di Didone anonima Dante Alighieri,). 

Più debole sembra essere l’ipotesi di una scelta determinata dalla particolarità del : 

nella recensione in "The Classical Weekly" XXVI,  al lavoro di B proprio commentando l’osservazione di quest’ultimo in merito all’utilizzo dei due nomi come determinato da questioni metriche, W. F. J. KNIGHT scrive infatti «The explanation is surely incomplete without the recognition that the weak high ones, especially as they are reinforced, for example, in "nec me meminisse pigebit Elissae" "Elissa, traditionally the Phoenician name of Dido, is 610, and in the narrative, 5.3. 

Didone : 34 occorrenze passaggi narrativi : 21 occorrenze discorsi : 13 occorrenze , con il primo appellativo principalmente da ragioni risulta infatti sempre utilizzato come bisillabo (nelle forme del benchè nell’unica attestazione enniana compaia mentre il trisillabo sembra prestarsi più agevolmente per i casi indiretti, come il 

Un’altra spiegazione potrebbe essere però di natura meno tecnica e più ‘di colore’, essendo potrebbe suonare come affettuoso appellativo zzo del nome principale può essere sintetizzato nel Didone stessa e ancora in alcuni ("Eneide", IV, 333-336). 

Eine Vermutung über den Gebrauch dieser Namen bei Vergil und "Il libro di Didone, Milano", Società anonima Dante Alighieri). 

Più debole sembra essere l’ipotesi di una scelta determinata dalla particolarità del : nella recensione, in The Classical Weekly", vol. XXVI, al lavoro di Buscaroli, proprio commentando l’osservazione di quest’ultimo in merito all’utilizzo dei due nomi come determinato da questioni metriche, W. KNIGHT scrive infatti 

The explanation is surely incomplete without the recognition that the weak high "nec me meminisse pigebit Elissae" carry a tearful pathos. 

"Elissa", traditionally the Phoenician name of "Dido", is only used twice elsewhere in 610, and in the narrative, 5.3. 

Anche secondo quanto osservato da McDermott, dalla accorate parole di Enea è come se emergesse una dissociazione tra i due aspetti di Didone, con una chiara demarcazione tra "the angry queen and the loving Elissa".

Inoltre, alla luce della risposta di quest’ultima: 

i sequere italiam ventis, pete regna per undas spero equidem mediis si quid pia numina possunt, supplicia hausurum scopulis et nomine Dido saepe vocaturum 
-- "Eneide", IV, 381

-- nella maledizione contro un Enea che si spera in difficoltà, sembra adombrarsi il monito a non utilizzare il più familiare nome di "Elissa".  

Ancora, nella descrizione della partenza dei troiani, dopo la morte di Didone, Virgilio sembra adombrare una certa malinconia nell’animo di Enea, a causa del suo allontanamento dalla regina fenicia.

In Enea's mind, the name "Elissa" may have had a special meaning.

Here "infelicis Elissae" recalls the earlier repeated phrase "infelix Dido".

Un’analoga distinzione tra i due termini è presente anche in Ovidio: 

"iam pius Aeneas miserae rescripsit Elissae."
-- Amores, II. 18. 31.

Nelle "Heroides" d'Ovidio, il nome "Elissa" sembra custodire un particolare legame tra Didone ed il primo marito Sicheo, come dimostrano i versi: 

sichaeus sono tenui dixit Elissa, veni.
-- Heroides, VII, 102.

Ed anche lei dice di se stessa: 

"nec consumpta rogis incribar Elissa Sichaei" 
-- Heroides, VII, 193.

In tutte le altre occasioni viene invece utilizzato il lemma "Dido", che ricorre inoltre per tre volte, su un totale di sette, nei "Fasti", all’interno della narrazione di Anna, sorella della regina, che è poi anche la messaggera inviata allo sconfortato Annibale nel secondo libro dei "Punica" di Silio Italico.

È ancora Mcdermott a richiamare l’attenzione su un particolare passaggio di questo poema storico per le forti assonanze del motivo di Didone con la narrazione virgiliana, ma anche perché, in modo estremamente 

W. MCDERMOTT, "Elissa", Transactions and Proceedings of the American Philological Association" 74.

nec procul Aeneadum vacuo iam litore classis aequora nequicquam revocante petebat Elissa isa, pyram suer ingentem stans, saucia Dido mandabat Tyriis ultricia bella futuris ardentem rogum media spectabat ad unda dardanus et magnis pandebat carbasa fatis.
-- II, 420-425. 

simile a quanto avviene nell’Eneide, Didone viene impiegato al nominativo e all’accusativo, mentre Elissa al genitivo e all’ablativo.

L’ipotesi secondo cui il nome "Elissa" sarebbe più legato al sentimento d’amore per Enea sembra ricever ulteriore conferma da tre passaggi delle Silvae di Stazio.

Nel primo:

"qualem Libyae Saturnia nimbum Attulit, Iliaco dum dives Elissa marito Donatur testesque ululant per devia nymphae"
-- (III. 1, 73-75) 

– si parla della tempesta scatenata da Giunone per favorire l’unione tra Enea e Didone.

Nel secondo, questa è nominata all’interno di un paragone con Virgilio stesso: 

"regia sidoniae convivia laudat elissae qui magnum aenean laurentibus intulit arvis."
 -- IV. 2, 1-2.

Ancora, nel terzo caso, il nome di "Elissa" compare all’interno di un paragone tra Crispino e Ascanio:

"gaetulo sic pulcher equo troianaque quassan tela novercale ibat venator in agros ascanius miseramque patri flagrabat elissam."
-- V. 2. 118-120. 

Come ben sintetizza Mcdermott quindi:

"In each case, the love story was so much in the mind of Stazio, that his usage may show a hint of special meaning for the name he used."

Anche la congettura secondo cui questo trisillabo potrebbe esser più legato alla prima fase della vita di Didone sembra essere avvalorata dall’uso che ne fa Giustino nell’"Epitome delle Storie di Pompeo Trogo".

La regina, infatti, durante la narrazione relativa alla fondazione di Cartagine, viene chiamata appunto "Elissa".  

Una duplice spiegazione, quindi, o una costante alternativa tra due storie e due visioni differenti sembra sottostare anche al solo nome di "Didone"/"Elissa".

Perfino nelle avventure lessicali la figura di Didone appare segnata da una doppiezza di senso, che almeno in parte riprende la doppia immagine delle contrastanti versioni della sua storia» . 

Sebbene profondamente diversa dalla Didone virgiliana, personaggio autonomo in nessuna relazione con Enea, la figura della regina fenicia tramandata da Timeo di Tauromenio viene a porsi proprio per "Dido".

Nominativo: I, 23; 74; II, 406; 422; 765; VIII, 50; 166; XV, 746 
Accusativo: II, 122; VIII, 231. Elissa: 
Genitivo: I, 81; 98; II, 391; VII, 488; VIII, 47; 78; XIV, 573 
Ablativo: II, 421. 

A ciò si aggiunge l’uso dell’aggettivo, conio di Silio Italico, "elissaeus", come sinonimo di "punicus", utilizzato in sei occasioni (II, 23; III, 82; VI, 346; XIV, 258; XV, 521; XVI, 614). 

Nominativo: IV.5; IV.9; IV.12; V.8 
genitivo: V.2; VI.1 

P. BONO, "Una storia, molte storie: la tragedia di Didone, regina di Cartagine in «Le forme del teatro: contributi del gruppo di ricerca sulla comunicazione teatrale in Inghilterra", a cura di V. PAPETTI, IV, Roma, edizioni di storia e letteratura. 

questo come antesignana di quel paradigma di castità celebrato, secoli dopo, da Tertulliano. 

Il comune denominatore delle due angolazioni, secondo cui è stata vista e sviluppata la vicenda di Didone, è la scelta di quest’ultima di porre fine alla propria vita, gettandosi nel fuoco. 

Nella cultura punica questo gesto riveste un valore rituale, come testimonia la narrazione d'Erodoto ("Storie", VII, 167) del suicidio di Amilcare in seguito alla sconfitta di Imera (20 settembre 480 a. C.) dove Gelone e Terone riportarono una vittoria contemporanea a quella dei Greci sui Persiani a Salamina. 

Per quel che riguarda la stirpe di Didone, Virglio sembra mostrarsi alquanto parco di informazioni, a differenza di quanto fatto ad esempio per Turno. 

Giustino, nella sua silloge delle "Historiae Philippicae" di Pompeo Trogo, e Servio definiscono Didone figlia di Mutto, ma nell’"Eneide" compare come figlia di Belo, colui che prestò soccorso a Teucro, figlio di Telamone re di Salamina e fratellastro di Aiace. 

Probabilmente, vi è una discrepanza cronologica tra il Belo padre di Didone e quest’altro Belo, più antico, il quale si dovrebbe identificare sia con l’originale possessore della coppa tramandata alla regina sia con colui che viene considerato, come scritto da Silio Italico nel primo libro dei "Punica", il fondatore della stirpe di Tiro. 

A questo proposito Mackie osserva quale particolare importanza abbia, nel libro d’apertura dell'"Eneide", la definizione di Cartagine quale "egenoris urbem".

Come spiegato dallo pseudo-Apollodoro nella "Biblioteca" (II.1.4 e III.1.1), possibile fonte di Virgilio, e confermato da Servio nel commento a questo verso, Agenore – fratello gemello di Belo – giunse in Fenicia, dove sposò Telefassa, dalla quale ebbe quattro figli, Europa e tre maschi. 

Tra questi vi era Fenice, fondatore di Sidone e eponimo della stirpe fenicia. 

Da ciò si deduce che Didone dovrebbe, proprio attraverso Fenice, essere una diretta discendente di Agenore.

Quest’ultimo, Belo, Fenice e Didone sono infatti i soggetti 
delle statue che circondano un tempio in Cartagine. 

Seguendo sempre Apollodoro, si apprende poi che Belo, rimasto in Egitto, sposò Anchinoe, e dall’unione nacquero Danao e Egitto, e dal piano malvagio basato sull’unione dei figli dell’uno con le figlie del’altro, prodromo alla progettata ecatombe coniugale, solo Ipermestra risparmiò il marito. 

La linea genealogica continua con Abas, figlio di Linceo e Acrisio, figlio di Abas.

Da Acrisio.


D. L. GERA, "Warrior Women: The Anonymous Tractatus "De Mulieribus"", Leiden, E.J. Brill Publishers.

"ἰδὼν δὲ τροπὴν τῶν ἑωυτοῦ γινοµένην ὡς ἔτυχε ἐπισπένδων τοῖσι ἱροῖσι ὦσε ἑωυτὸν ἐς τὸ πῦρ."

Secondo quanto notato, anche sulla scorta di V. BUCHHEIT, "Vergil über die Sendung Roms: untersuchungen zum Bellum Punicum und zur Aeneis" Heidelberg, Winter, da 

C. MACKIE, "Note on Dido’s Ancestry in the “Aeneid", "The Classical Journal", vol. 88. 

SERVIO, "Commentarius ad Aeneidem".

"genitor Belus"
-- I, 621. 40 Ivi, 619-621. 41 Ivi, 729-730. 

"Λιβύης δὲ καὶ Ποσειδῶνος γίνονται παῖδες δίδυµοι Ἀγήνωρ καὶ Βῆλος δύο Λιβύη ἐγέννησε παῖδας ἐκ Ποσειδῶνος Βῆλον καὶ Ἀγήνορα Βῆλος µὲν οὖν βασιλεύων Αἰγυπτίων τοὺς προειρηµένους ἐγέννησεν, Ἀγήνωρ δὲ παραγενόµενος εἰς τὴν Φοινίκην γαµεῖ Τηλέφασσαν καὶ τεκνοῖ θυγατέρα µὲν Εὐρώπην, παῖδας δὲ Κάδµον καὶ Φοίνικα καὶ Κίλικα. τινὲς δὲ Εὐρώπην οὐκ Ἀγήνορος ἀλλὰ Φοίνικος λέγουσι."

S. ITALICO, Punica, I, 87-90. 

-- nacque Danae la quale, espulsa dal padre, arrivò in Italia e sposò Pilumno, «quartus pater» di Turno, e quindi discendente di Belo. 

Simili discendenze genealogiche, pur con inevitabili lacune interne, sono volte a dimostrare come nel quadro dell’Eneide, seppur "from different strands", Didone e Turno appartengano allo stesso ceppo.

La prima mediante Agenore e il secondo attraverso Belo. 


Di conseguenza, se le connessioni tra le figure argive di Inaco e Io e Turno sono esplicitamente citate da Virgilio, anche Didone risulta legata con Argo. 

E come Enea ha una seppur remota connessione etrusca, attraverso Dardano, ed è anche legato con Evandro, così Turno, il suo principale nemico su suolo italico, è consanguineo della cartaginese Didone. 

Nella contrapposizione tra i due mondi, romano e cartaginese, si può quindi vedere allora, mutatis mutandis, una riproposizione attualizzata dell’archetipica guerra tra Argo e Troia, base dei poemi omerici. 

Riguardo la genesi e la definizione della mitica figura di Elissa, un’altra duplice considerazione è da farsi circa le connessioni che questa presenta con varie divinità femminili medio-orientali (principalmente Tanit ed Astarte) e, a questa collegata, l’idea di “Oriente” che nell’immaginario romano viene elaborata. 

Le connessioni con la località di Belo, la chiara derivazione del nome usato da Timeo dall’aggettivo "θεῖος", la scelta di morire alla maniera di Eracle, gettatosi nel fuoco distrutto dal dolore causato dal tradimento di Deianira, sono tutti elementi che possono ben dimostrare la natura divina di Didone, della quale Ctesia di Cnido, storico del V secolo a. C. e probabile fonte di Timeo, potrebbe esser stato il primo autore di quella "Euhemeristic trasference" su cui già si soffermarono Pease e Kowalski. 

La radicale innovazione virgiliana è proprio nell’umanizzazione, come sembra dimostrare l’incontro nel regno delle ombre, del personaggio della regina cartaginese, anche, o forse soprattutto, attraverso l’esperienza della sofferenza e del suicidio. 

Morte simile a quella di Didone è inoltre quella della dantesca imperadrice di molte favelle Semiramide, a sua volta già da Frazer 

Eneide, X, 619. 

A proposito di questa genealogia, si parla di «very distant connection, but nonetheless a connection worth noting». 

Eneide, VII, 371-372: 

"et Turno si prima domus repetatur origo inachus Acrisiusque patres mediaeque Mycaenae"
-- 48 Ivi, III, v. 167-168: 

"Dardanu genus a quo principe nostrum"
-- Ivi, VIII, 127-151. 50 Eneide, I, 621. 

Già A. S. PEASE, nella sua introduzione a "Publii Vergilii Maronis Aeneidos Liber Quartus", Harvard University Press, Cambridge, accogliendo le suggestioni di G. KOWALSKI ("De Didone greca et latina", Polka Akademja Umiejetnosci, Rozprawy Wydzialu Filologicznego, LXIII, Kraków), rilevò le connessioni possibili tra questa località e la divinità orientale "Baal"/"Bel", corrispondente a "Helios", il cui culto a sua volta s’innesta nel mitraismo. 

Considerata anche la chiusa ("αὑτὴν εἰς τὴν πυρὰν ἔρριψεν") del frammento di Timeo, un’altra possibile connessione etimologica del nome grecizzato di "Theiosso" potrebbe trovarsi con un altro significato del verbo "θειόω", o meglio "θεειόω" nella versione epica, attestato in Omero ("Odissea", XXII, 482; XXIII, 50) che è quello di “purificare”, molto probabilmente con zolfo.

Il verbo è infatti riferito ad Ulisse che pulisce il salone dopo la strage dei Proci, secondo quanto narrato dalla nutrice Euriclea. 

L’atto estremo del suicidio di Didone verrebbe quindi a porsi come catarsi della passione amorosa. 

Cfr. A. PEASE, Inferno, V, 54. 54 J. G. FRAZER, "The golden gough: a study in magic and religion", London, Macmillan Press, considerata come un’incarnazione di Astarte. 

In considerazione quindi delle connessioni vigenti proprio tra quest’ultima divinità e la figura della regina fenicia, ed anche alla luce dei rapporti di natura commerciale che legavano Sicilia e sponde africane, il contatto tra le figure di Enea e Didone era praticamente inevitabile.

Facile poi dedurre che, in occasione dei conflitti romano-cartaginesi, la leggenda sia stata adattata e cambiata per giustificare e motivare un odio antico, atavico ed irrisolvibile tra i due popoli. 

A questo proposito, sintomatico è il verso 13 del Libro I dell’"Eneide" ("Karthago Italiam contra Tiberinaque longe") in cui già affiora il senso di contrapposizione, non solo geografica, tra i due mondi. 

Tenute presenti le relazioni tra la figura di Didone e la sfera religiosa, riguardo l’affermarsi di un’idea negativa intorno ai culti orientali, è sintomatica la testimonianza agostiniana presente nel "De civitate Dei" dove, nel quarto paragrafo ("inhonesta deae Caelesti mysteria Carthagine celebrantur") del II libro, AGUSTINO accenna a «ludis turpissimis» dedicati «caelesti virgini et berecynthiae matri omnium». 

Inoltre Valerio Massimo, parlando di un santuario dedicato al culto di Venere, corrispondente ad Astarte, presso Sicca, centro fenicio più interno rispetto a Cartagine, dopo aver elogiato la fedeltà delle spose indiane, e volendo biasimare il comportamento delle donne puniche, racconta del meretricio delle matronae, le quali "dotis corporis iniuria contrahebant, honesta nimirum tam inhonesto vinculo coniugia iuncturae" (II, 6, 14-15). 

L’"Eneide", ma non solo, si presenta quindi come un passaggio cruciale per la determinazione di Oriente come “altro”, i cui prodromi sono peraltro già ravvisabili nei "Persiani" di Eschilo.

Nelle imprecazioni del coro informato della disfatta di Salamina, in cui Serse è indicato come responsabile, «l’Asia parla per bocca dell’immaginazione europea e l’Europa è raffigurata come vincitrice dell’Asia, mondo ostile e “altro” al li là del mare». 

In particolare però il poema virgiliano – e in questo Didone ha un peso fondamentale – è il primo testo poetico che, in linea di coerenza con l’immagine di opposizione dei due ‘blocchi’, occidentale e orientale, attua la contrapposizione tra “’i popoli dell’Aurora’” e “l’Egitto e tutti i poteri dell’Est”. 

Didone si trova allora ad esser inserita in un contesto lontano e quasi geneticamente ostile ai principi su cui si basa l’Occidente, di cui si viene a porre come «contropolo dialettico l’Oriente istintivo e carnale regno affascinante e crudele dell’Eros che si accompagna alla morte».Lo scontro tra diverse Weltanschauungen è anche sinonimo di sessista antinomia tra uomo e donna, ma soprattutto, in ottica augustea, è richiamo alla virilità romana in vittoriosa opposizione alle malie egiziane. Non a caso il 2 settembre del 31 a. C. Ottaviano aveva sconfitto, dando un’epocale svolta alla storia di Roma, la flotta di Antonio e Cleopatra. Tra Didone e quest’ultima sono riscontrabili alcune significative analogie60, e le connessioni potrebbero risultare ancor più cogenti se il lasso di tempo tra la morte di quest’ultima e l’inizio della Cfr. già E. STAMPINI in Studi di letteratura e filologia latina, Torino, Fratelli Bocca Editori. ESCHILO, I Persiani, 550-553, Ξέρξης µὲν ἄ γαγεν, ποποῖ, / Ξέρξης δ’ ἀπώλωσεν,τοτοῖ, / Ξέρξης δὲ πάντ’ ἐπέσπε δυσφρόνως / βαρίδεσσι ποντίαις. E. W. SAID, Orientalismo, Torino, Bollati Boringhieri, 1991, p. 60. 58 R. SCHWAB, La Renaissance orientale, Paris, Payot, P. BONO-M.V. TESSITORE, op. cit., p. 29. 60 Nonostante su quest’accostamento Mario Pani, alla ‘voce’ Cleopatra («Enciclopedia virgiliana») si dimostri alquanto scettico, sostenendo che «La descrizione dello scudo di Enea è l’unico luogo in cui Cleopatra, pur non citata, compaia esplicitamente. Si è cercato dunque di vedere se Virgilio intendesse ricordare allegoricamente 11 composizione del poema epico virgiliano dovesse essere particolarmente ridotto; inoltre, dal commento di Servio (IV, 323)61, è possibile stabilire che il IV libro dell’Eneide fu uno dei primi ad esser scritti. Cleopatra e Didone godono entrambe, in maniera ufficiale e riconosciuta, dello status di regina, e vengono descritte come donne dotate di straordinaria bellezza: alla pucherrima Dido sembra quasi corrispondere la regina d’Egitto, che περικαλλεστάτη γυναικῶν ἐγένετο63; sia l’una che l’altra, inoltre sono state, a causa della violenza di un fratello64, costrette a rifugiarsi in una località diversa da quella di nascita. Le similitudini tra le parabole delle due donne riguardano anche il comune ammaliamento di un personaggio della storia troiano-romana65, benché, nel caso di Cleopatra, il fascino femminile abbia colpito sia Cesare che Antonio, oltre lo stesso Ottaviano: con specifico riferimento a Cesare, che nel De bello civile sembra quasi fornire a questo proposito una giustificazione («necessario etesiis tenebatur»), già Nettleship aveva infatti scritto: «as Cesar was half-won by Cleopatra, Aeneas is halfwon by Dido». Ancora, entrambe trattengono per un intero inverno le loro prede68 dimentiche dei loro “più alti compiti” e colpevoli di comportamenti assolutamente scandalosi, secondo l’ottica romana e senatoria. Se infatti, nel caso di Enea, la Fama, malum qua non aliud velocius ullum, raggiunge i grandi centri della Libia, volando di notte tra il cielo e la terra, senza alcuna preoccupazione della veridicità delle notizie che porta (tam facti pravique tenax quam nuntia veri), rendendo così palese l’unione tra il duce troiano e la regina cartaginese, additati come regnorum immemores turpique cupidine captos, per quel che concerne Antonio, forte è l’indignazione causata dalla sua scelta d’essere cremato ad Alessandria, come perenne pegno d’amore (e sudditanza) nei confronti della corruttrice orientale. Nell’ottavo libro del poema virgiliano, inoltre, nella celebrazione della vittoria di Augustus Caesar – accompagnato “dal popolo, dai Penati e dai Grandi Dei” – su Antonio, circondato da ope barbarica variisque armis: sequiturque nefas Aegyptia coniunx72, viene posta in rilievo, mediante posizione Cleopatra dietro l’immagine di qualcuna delle sue protagoniste. L’identificazione con Didone […] pare però poco convincente: non potrebbe reggere l’inevitabile parallelo Enea/Antonio». 61 «nam recitavit primum libros tertium et quartum». 62 Eneide, IV, 60. 63 C. DIONE, Storia Romana, XLII, 34, 4. 64 Pigmalione nel caso di Didone, Tolomeo Aulete in quello di Cleopatra. 65 Cfr. A. S. PEASE, op. cit., p. 25. 66 III, 107, 1. 67 H. NETTLESHIP, Suggestions introductory to a study of the Aeneid, Harvard, The Clarendon Press, Cfr. A. S. PEASE, op. cit., p. 25. 69 Mercurio (Eneide, IV, 267-272) scuote Enea dicendogli “A cosa pensi? Quale speranza hai in terra libica, da trascorrere oziosamente il tuo tempo? Se una così grande gloria d’impresa non ti incendia il cuore, pensa almeno ad Ascanio che si fa sempre più grande, alle speranze riposte in Giulo, al quale si deve il regno d’Italia e la terra romana”; Cassio Dione (Storia romana, XLVIII, 24, 2) scrive: “Nel frattempo egli [Antonio] giaceva in amore con Cleopatra, e da quando l’aveva vista in Cilicia sembrava aver dimenticato l’onore, ma al contrario era divenuto schiavo della donna egiziana e consacrava tutto il tempo alla sua passione per lei”. 70 Eneide, IV, 173-197. 71 C. DIONE, op. cit., L, 4, 1.A questo specifico riguardo, anche il capitolo 58 della Vita di Antonio plutarchea è interamente dedicato alla descrizione del deplorevole comportamento di Antonio, con particolare enfasi (paragrafo 6) alle reazioni indignate, da parte del senato, allorquando Cesare dà lettura del testamento di Antonio. 72 VIII, 678-688. 12 centrale nell’esametro, la “vergogna” del compagno di Cleopatra, «à la fois terrible et pitoyable»73, il cui pericoloso potere è rappresentato dal “sistro dei padri” e dai “due serpenti”74 che le daranno in seguito morte subitana et atra75. Questa, nel furore del sangue (inter caedes) viene raffigurata come pallentem morte futura76, e tale icastica espressione appare come una precisa e voluta citazione interna del pallida morte futura adoperato proprio per Didone77. A simboleggiare l’improponibile sfarzo tentatore dell’Oriente, Cleopatra viene ancora descritta, nel conclusivo libro della Farsalia, “smodatamente truccata nella sua bellezza nociva”: catalogata quasi come sgualdrina, ella appare quasi oberata dal proprio abbigliamento, plena maris rubri spoliis colloque comisque / divitias Cleopatra gerit cultuque laborat78. Analoga, seppur più edulcorata «condanna implicita» traspare dalle parole virgiliane, allorquando il poeta mantovano descrive quello cui assiste Enea, appena introdotto nella reggia di Didone: il luxus della regina fenicia risplende nella sale preposte al convito, arte laboratae vestes ostroque superbo, / ingens argentum mensis caelataque in auro / fortia facta patrum […]79 . Dante, puntando l’attenzione sulla lussuria di Semiramide di cui si legge / che succedette a Nino e fu sua sposa, lussuria che l’indusse a fare di libito […] licito in sua legge80, si muove in modo analogo, specie alla luce della fonte principale del passo, Paolo Orosio, in cui, della regina assira, viene dato un quadro a tinte estremamente fosche: «libidine hardens, sanguinem sitiens, inter incessabilia stupra et homicidia, quum omnes quos regiae arcessitos, meretricis habitu, concubitu, oblectasset, occideret, tandem filio flagitiose concepto, impie exposito, inceste cognito, privatam ignominiam publico scelere obtexit»81 . A distanza di secoli, e in tutt’altro contesto, la Didone abbandonata anima anche il personaggio di Cleopatra di All for love: or the World well lost di John Dryden, la cui prima rappresentazione risale al 1677: un ventennio più tardi quest’ultimo ultimerà inoltre la traduzione del poema virgiliano: seguendo l’assunto secondo cui «l’eros è una forza distruttiva quando non viene assecondato», Valentina Prosperi, in diretto riferimento all’opera del poeta e drammaturgo inglese, conclude infatti che «è Cleopatra, che muore per amore, la vera erede di Didone»82 . 73 POMATHIOS, cit., p. 30. 74 VIII, 696-697. 75 Paradiso, VI, 78. 76 Eneide, VIII, 709. 77 Ivi, IV, 644. 78 X, 137 e 139-140. 79 I, 639-641. 80 Inferno, V, 57 e 59. 81 P. OROSIO, Historiae adversus paganos, I, 4, 8. 82 V. PROSPERI, Cleopatra in veste di Didone, in «Materiali e discussioni per l’analisi dei testi classici», n° 46, 2001, p. 139. Judith Slogan ravvisa invece un primo modello di Didone, in particolare il IV libro dell’Enedie, già nella tragicommedia d’esordio del poeta anglosassone, Secret Love, or the Maiden Queen, del 1667: «the queen […] is partly based on Dido rejected by her ‘false Aeneas’ (Dryden: the poetics of translation, Toronto University Press, 1985, p. 132. Ma come giustamente rimarca Prosperi (op. cit., p. 138), salvo il comune denominatore della storia d’amore, conclusa peraltro, in Secret Love, in modo assolutamente differente rispetto a All for love, con lieto fine e predisposizione alla successione del trono a favore della rivale, nessun elemento potrebbe ricondurre all’archetipo virgiliano. 13 §2 I legami con la poesia ellenistica e la tragedia greca « Grido e brucia il mio cuore senza pace Da quando più non sono Se non cosa in rovina e abbandonata »83 1. Con specifico riferimento al IV libro dell’Eneide, Servio scrive: «Apollonius Argonautica scripsit ubi inducit amantem Medeam; inde totus hic liber translatus est, de tertio Apollonii»84 e, seppur con una leggera differenza, Macrobio conferma: «adeo ut de Argonauticorum quarto, quorum scriptor est Apollonius, librum Aeneidos suae quartum totum paene formaverit, ad Didonem vel Aenean amatoriam incontinentiam Medeae circa Iasonem transferendo»85. Sempre riguardo al caso di Didone, inoltre, già Vincenzo Monti scriveva nella terza Lezione d’eloquenza dedicata a Virgilio: «L’amore vi è dipinto dal principio al fine in tutte le forme più terribile di cui sia capace questa fiera passione. Né qui Virgilio è stato aiutato punto da Omero. Egli ha seguito piuttosto Apollonio Rodio, e non mancherà chi dica che gli amori di Didone sono una pura copia di quelli di Medea. […] chiunque faccia ben mente che la passione di Medea, dopo di aver sacrificato il padre all’amante, va a terminare nel fratricidio, e quella di Didone con l’uccisione di se medesima, inorridirà della prima e versarà lacrime sulla seconda; e allora io m’appello al giudizio del cuore per decidere della preminenza fra Apollonio e Virgilio»86 . Partendo dall’evidenza che Apollonio Rodio è un riferimento fondamentale per le similitudini virgiliane87, diversi sono stati gli studi, più o meno recenti88, che hanno mirato ad approfondire le suggestioni poetiche appena citate. Come ben illustrato da Richard Hunter alla luce di un’analisi bibliografica inerente i legami tra i due autori, il raffronto deve esser condotto sulla base di «necessary stages of criticism, particolarly when we are concerned in general with a poetic and rhetorical culture which placed heavy emphasis on creative mimesis/imitatio of one’s predecessors, and, in particular, with two poems in which allusion is so obviously an important contructor of meaning; both epics have a clear ‘historical self-consciousness’ expressed through allusion’»89 . 83 G. UNGARETTI, Cori descrittivi di stati d'animo di Didone, III, 9-11. 84 Ad Eneidem, IV, 1. 85 MACROBIO, Saturnalia, V, 17, 4. 86 In V. MONTI, Prose e poesie di Vincenzo Monti nuovamente ordinate , accresciute di scritti inediti, Firenze, Le Monnier, 1847, volume IV, p. 89. 87 Molto probabilmente Virgilio poteva disporre sia dell’originale versione greca che di quella latina, ad opera di Varrone Atacino. 88 In particolare, R. M. HENRY, Medea and Dido in «Classical Review», XLIV, 3 (July), 1930, p. 97-108, D. H. ABEL, Medea in Dido, in «Classical Bulletin», XXXXIV, 5 (March), 1958, p. 51-53, 56, B. OTIS, Virgil. A Study in Civilized Poetry, Oxford, Clarendon Press, 1964, R. RIECKS, Die Gleichnisse Vergils, in «Aufstieg und Niedergang der Römischen Welt», 1981, II, 31, 2, p. 1044-1048 e W. W. BRIGGS, Virgil and the Hellenistic Epic, in «Aufstieg und Niedergang der Römischen Welt», op. cit., p. 948-984. 89 R. HUNTER, The Argonautica of Apollonius, Cambridge University Press, 1993, cfr. in particolare il capitolo Argonautica and Aeneid, pp. 170 e passim. 14 Come già fatto90, è necessario porre l’attenzione sulla diversa natura dei rapporti vigenti tra Virgilio rispetto al modello omerico e al testo di Apollonio, dove se nel primo caso si può parlare di aemulatio, nel secondo si è più vicini ad un ‘sentire’ poetico di genere ellenistico e neoterico91 . Una prima distinzione da fare, inoltre, risiede nei differenti presupposti su cui poggiano le opere di Apollonio e Virgilio: il primo, infatti, non intende fornire precetti di carattere morale, a differenza del secondo il cui fine, aldilà della celebrazione dei fasti augustei, è quello di ribadire la indiscutibile superiorità del fatum sia sul regno degli uomini che sul quello degli dei. Inoltre, la storia d’amore in Apollonio prevede un finale lieto, che consiste nell’unione matrimoniale tra Giasone e Medea: non preso in considerazione dall’autore, che pure ne era a conoscenza, il finale tragico già trattato da Euripide. È comunque indubbio che dalle Argonautiche Virgilio possa aver desunto l’idea di dare ad una storia d’amore un ruolo centrale nell’economia del poema, con significato ben diverso dalle storie sentimentali – Menelao ed Elena / Ulisse e Penelope – presenti nei poemi omerici. Per primo, Apollonio diede sì grande importanza ad un episodio d’amore – benchè non direttamente afferente al tema principale dell’opera – e questo Virgilio lo tenne sicuramente ben presente. Ma il rapporto tra i due autori, e in particolare le relazioni vigenti tra le due figure femminili di Medea e Didone, vanno analizzati sotto una triplice prospettiva: poetica, fraseologico/semantica e caratteriale. Solo mediante l’incrocio di queste tre prospettive le analogie e le differenze tra i due casi emergono in tutta la loro pregnanza. Per quel che concerne il primo livello, mentre l’autore greco opta per una narrazione frammentata92, dove l’immagine di Medea s’alterna con quelle delle azioni di Giasone, articolando così lo svolgimento, volutamente discontinuo, del plot secondo una duplice direttiva, il poeta latino frappone, tra il primo e il quarto, ben due libri che servono “ad aumentare la simpatia sia del lettore che di Didone nei confronti della situazione di Enea”93. Se inoltre Apollonio giustappone segmenti episodici, sino all’incontro finale dei due amanti, Virgilio costruisce una climax mediante il susseguirsi di quattro incontri tra il Troiano e la regina fenicia o la sorella Anna. Per quanto riguarda il secondo livello, con particolare riferimento a due importanti similitudini, i poemi omerici sembrano esser stati comune fonte d’ispirazione. La similitudine94 con le api, infatti è già presente nel secondo libro dell’Iliade e da qui, forse mediante Apollonio, passa nell’Eneide: ἠΰτε ἔθνεα εἶσι µελισσάων ἁδινάων πέτρης ἐκ γλαφυρῆς αἰεὶ νέον ἐρχοµενάων, βοτρυδὸν δὲ πέτονται ἐπ᾽ ἄνθεσιν εἰαρινοῖσιν: αἳ µέν τ᾽ ἔνθα ἅλις πεποτήαται, αἳ δέ τε ἔνθα: ὣς τῶν ἔθνεα πολλὰ νεῶν ἄπο καὶ κλισιάων ἠϊόνος προπάροιθε βαθείης ἐστιχόωντο 90 M. HÜGI, Vergils Aeneis und die hellenistische Dichtung, Bern und Stuttgart, Haupt, 1952. 91 Cfr. R. HUNTER, cit., p. 172. 92 Articolata in quattro blocchi, come evidenziato da Briggs (op. cit., p. 961). 93 Ibidem. 94 A proposito della costruzione delle similitudini da parte di Virgilio nell’Eneide è importante ricordare, con specifico riferimento a tutti quei casi in cui Didone è protagonista, quanto scritto da V. PÖSCHL (Die Dichtkunst Virgils. Bild und Symbol in der Äneis, Rohrer, Wiesbaden, 1977, p. 140), circa la natura di questi procedimenti, quasi sempre basati non su azioni “esteriori”, ma sostanziate da un movimento interiore («inner»). 15 ἰλαδὸν εἰς ἀγορήν: […] (Iliade, II, 87-93) ὡς δ᾽ ὅτε λείρια καλὰ περιβροµέουσι µέλισσαι πέτρης ἐκχύµεναι σιµβληίδος, ἀµφὶ δὲ λειµὼν ἑρσήεις γάνυται, ταὶ δὲ γλυκὺν ἄλλοτε ἄλλον καρπὸν ἀµέργουσιν πεποτηµέναι […] (Argonautiche, I, 879-882) Qualis apes aestate nova per florae rura exercet sub sole labor, cum gentis adultos educunt fetus, aut cum liquentia mella stipant et dulci distendunt nectare cellas aut onera accipiunt venientum, aut agmine facto ignavom focus pecus a praesaepibus arcent; (Eneide, I, 430-436). Nonostante il comune denominatore delle api, diverso è lo spirito che anima il poeta ellenistico e quello mantovano: il primo infatti, descrivendo la scena d’addio tra Giasone e Issipile, pone in risalto – con pregnante allusione – il lato erotico del rapporto, parlando di “frutto dolcissimo”, mentre il secondo, anche alla luce del passo delle Georgiche (IV, 156-169) in cui vi è un’altra similitudine basata sugli stessi insetti, vuole sottolinearne la industriosità e il loro stile di vita comunitario. E alla luce di ciò, il paragone con i Cartaginesi, intenti ad edificare una nuova città, risulta particolarmente calzante: se ne deduce, inoltre, il ruolo di superiorità – implicitamente ribadito dalla ripetizione dell’appellativo regina – di Didone. Ancora, come notato da John Grant95, l’ape, come la cerva, è associata con Artemide in molti luoghi, e particolarmente ad Efeso, dove i sacerdoti sono chiamati ἐσσῆνες, termine che secondo l’Etymologicum Magnum è da connettersi direttamente al nome dell’ape regina 96 . Analogamente, e con specifico riferimento a questa dea, proprio le similitudini con Diana (per quel che riguarda Didone) ed Artemide (per quanto concerne Medea), il precedente è da ravvisarsi nel passo del VI libro dell’Odissea, dove, narrando dell’arrivo di Ulisse presso i Feaci, Nausicaa97 viene paragonata ad Artemide ‘urlatrice’, cioè che solleva il grido di caccia: οἵη δ᾽ Ἄρτεµις εἶσι κατ᾽ οὔρεα ἰοχέαιρα, ἢ κατὰ Τηΰγετον περιµήκετον ἢ Ἐρύµανθον, τερποµένη κάπροισι καὶ ὠκείῃς ἐλάφοισι: τῇ δέ θ᾽ ἅµα νύµφαι, κοῦραι ∆ιὸς αἰγιόχοιο, 95 J. N. GRANT, Dido melissa, in «Phoenix», vol. 23, 1969, n°4, p. 389. 96 Ivi, p. 390. 97 Parlando di Didone, con riferimento sia alla figlia di Alcinoo che a Medea, P. A. PEROTTI (in Il libro di Didone: una tragedia nell’ “Eneide”, in «Prometheus», anno XVI, 1990, fasc. 3, p. 238) scrive: «mentre l’episodio omerico dell’amore di Nausicaa per Odisseo ha una straordinaria delicatezza, ossia il sentimento della fanciulla feace è appena accennato, e si limita al sogno d’amore, all’irrealizzato turbamento di un’adolescente, l’amore di Medea per Giasone è invece una passione tanto più violenta in quanto suscitata in lei da un dardo di Eros, analogamente al veleno instillato da Cupido in Didone (Eneide, I, 720 sgg)». 16 ἀγρονόµοι παίζουσι, γέγηθε δέ τε φρένα Λητώ: πασάων δ᾽ ὑπὲρ ἥ γε κάρη ἔχει ἠδὲ µέτωπα, ῥεῖά τ᾽ ἀριγνώτη πέλεται, καλαὶ δέ τε πᾶσαι: ὣς ἥ γ᾽ ἀµφιπόλοισι µετέπρεπε παρθένος ἀδµής. (Odissea, VI, 102-109) οἵη δὲ λιαροῖσιν ἐφ᾽ ὕδασι Παρθενίοιο, ἠὲ καὶ Ἀµνισοῖο λοεσσαµένη ποταµοῖο χρυσείοις Λητωὶς ἐφ᾽ ἅρµασιν ἑστηυῖα ὠκείαις κεµάδεσσι διεξελάσῃσι κολώνας, τηλόθεν ἀντιόωσα πολυκνίσου ἑκατόµβης: τῇ δ᾽ ἅµα νύµφαι ἕπονται ἀµορβάδες, αἱ µὲν ἐπ᾽ αὐτῆς ἀγρόµεναι πηγῆς Ἀµνισίδος, ἂν δὲ δὴ ἄλλαι ἄλσεα καὶ σκοπιὰς πολυπίδακας: ἀµφὶ δὲ θῆρες κνυζηθµῷ σαίνουσιν ὑποτροµέοντες ἰοῦσαν: ὧς αἵγ᾽ ἐσσεύοντο δι᾽ ἄστεος: ἀµφὶ δὲ λαοὶ εἶκον, ἀλευάµενοι βασιληίδος ὄµµατα κούρης. (Argonautiche, III, 876-886) Qualis in Eurotae ripis aut per iuga Cynthi exercet Diana choros, quam mille secutae hinc atque hinc glomerantur Oreades; illa pharetram fert umero gradiensque deas supereminet omnis (Latonae tacitum pertemptant gaudia pectus): talis erat Dido, talem se laeta ferebat per medios instans operi regnisque futuris. Tum foribus divae, media testudine templi, saepta armis solioque alte subnixa resedit. (Eneide, I, 498-507). La similitudine, aldilà dell’omaggio ad Omero, è volta non solo a servire da semplice commento circa la bellezza della regina cartaginese: essa mira anche a stabilire la differenza tra Didone e la figlia di Alcinoo, dal momento che quest’ultima è ancora ignara del mondo dell’amore, mentre la prima ha già amato Sicheo, e solo in un secondo momento ha scelto la castità98. Il proposito di fornire, partendo da una stessa base poetica – la similitudine con Artemide/Diana – un diverso ritratto psicologico di Didone rispetto all’archetipo omerico, risulta quindi evidente dallo scarto presente tra la semplice ed innocente bellezza di Nausicaa e la “animata e fiduciosa” autorità propria di Didone99. È comunque anche vero che l’immagine complessiva che di questa viene fuori è quella di una donna non solo capace d’esercitare la propria autorità nell’edificazione di uno stato o nel campo legislativo, ma anche – 98 M. K. THORNTON, in The Adaptation of Homer’s Artemis-Nausicaa Simile in the Aeneid («Latomus. Revue d’études latines», XLIV, 3, juillet-septembre, 1985, p. 616 e passim) stabilisce la sostanziale differenza tra i due passi mediante l’associazione di Didone alla sfera di Venere, mentre «Nausicaa, with a chaste, slight sexual interest belongs in the realm of Artemis». 99 Cfr. R. G. AUSTIN, P. Virgilii Maronis Aeneidos Liber Primus, Oxford, Clarendon Press, 1955, p. 167. 17 forse, soprattutto – nella gestione delle proprie emozioni. Se inoltre l’incontro tra la giovane Nausicaa e Ulisse ha un solo – breve e privo di reali conseguenze – momento d’accensione sensuale, ben diverso è il funesto esito della passione – appartenente di sicuro alla sfera di Venere – che sboccia tra la regina fenicia ed Enea100. D’altronde un sottile ma importante legame con l’Odissea sta proprio nel retaggio erotico di Circe che risulta stratificato in Didone101. Nella seconda sembrano inoltre sopravvivere tratti stregoneschi propri della prima, come dimostrano i versi che mettono al corrente la «adgressa soror» Anna delle cognizioni di magia della maga conosciuta in terra etiope: Inveni, germana, viam (gratare sorori), […] Oceani finem iuxta solemque cadentem Ultimus Aethiopium locus est, ubi maximus Atlans Axem umero torquet stellis ardentibus aptum; Hinc mihi Massylae gentis monstrata sacerdos, Hesperidum templi custos, epulasque draconi Quae dabat et sacros servabat in arbore ramos, spargens umida mella soporiferumque papaver. (Eneide, IV, 479-486), come anche, all’interno dell’estrema invocazione al Sole: nocturnisque Recate triviis ululata per urbes et Dirae ultrice set di morientis Elissae, (Eneide, IV, 609-610). Ma la Didone di Vigilio ha radici e connessioni, seppur indirette e perse nella leggenda, più stringenti con il contesto storico rispetto alla Circe omerica, avendo la relazione d’amore con il condottiero troiano una diretta attinenza al destino e al futuro di due popoli: così, «Virgil’s hero, moving toward a divinely preordained goal among reges et proelia […] is less free than Homer’s to explore Circean delights»102 . 100 L’Odissea gioca ancora un ruolo fondamentale in due casi: il canto di Demodoco, nell’ottavo libro, si pone infatti come riferimento di quelli di Orfeo, che calma la disputa tra Idmone e Ida nel primo libro delle Argonautiche (v. 494-515) e di Iopa, nel primo libro dell’Eneide (v. 740-746). L’erba magica (“molu”) procurata da Circe nel decimo libro, assomiglia agli ingredienti del filtro preparato da Medea (III, v. 851-859), ma anche al ‘nigrus venenus’ utilizzato da Didone nel quarto libro. Come giustamente notato da Hunter, il primo libro del poema virgiliano si caratterizza per un esordio di tipo omerico e un epilogo che rimanda ad Apollonio, «thus marking out the round over which Virgil’s epic will be written» (cit. p. 177). Un implicito legame tra i testi di Apollonio e Virgilio sembra esser costituito inoltre dall’indiretto richiamo ad Orfeo, che – a rinforzo dell’infelix posto ad inizio di verso – già preannuncia il senso di separazione: “rappresentando Enea e Didone due mondi, questa è veramente una separazione, che un giorno porterà alla creazione di un nuovo ordine romano”(ibidem). 101 «Gods and men cannot intermingle as easily in the Aeneid as they could in the Odissey, and Vergil’s divinities are on a loftier plane and are more remote than Homer’s», C. SEGAL, Circean temptations: Homer, Virgil, Ovid, in «Transactions and Proceedings of the American Philological Association», vol. 99, 1968, p. 429. 102 Ivi, p. 430. 18 Per quanto riguarda l’aspetto fraseologico e semantico, molti sono i tratti di tangenza. In primo luogo, la risposta da parte di Didone dopo il discorso di Ilioneo, pronunciata voltum demissa (I, 561), sembra avere un importante antecedente sia nell’imbarazzo di Issipile di fronte a Giasone ([…] ἡ δ᾽ ἐγκλιδὸν ὄσσε βαλοῦσα / παρθενικὰς ἐρύθηνε παρηίδας: […]103) sia, più avanti, nell’emozionato silenzio di Medea ([…] ἡ δ᾽ ἐγκλιδὸν ὄσσε βαλοῦσα104) di fronte allo stesso personaggio. Entrambe le donne, dopo aver ricevuto visita da Eros/Cupido inviato da Afrodite/Venere, sentono il fuoco della passione (Medea: […] βέλος δ᾽ ἐνεδαίετο κούρῃ / νέρθεν ὑπὸ κραδίῃ, φλογὶ εἴκελον: […], ma eloquente a tale proposito anche, poco oltre, la similitudine con la “filatrice”, nella cui casa, al buio, la “fiamma si leva altissima dal piccolo ramo”105; Didone: […] pesti devota futurae, expleri mentem nequit ardescit tuendo106). Questo, nonostante i propositi di fedeltà nei confronti di Eeta e Sicheo (αἰδώς τε στυγερόν τε δέος λάβε µουνωθεῖσαν / τοῖα παρὲξ οὗ πατρὸς ἐπ᾽ ἀνέρι µητιάασθαι. 107 ; sed mihi vel tellus optem prius ima dehiscat, / vel pater omnipotens abigat me fulmine ad umbras, / pallentis umbras Erebi noctemque profundam, / ante, Pudor, quam te violo aut iura resolvo. Ille meos, primum qui me sibi iunxit, amores / abstulit; ille habeat secum servetque sepulcro108). Sia il legame tra Giasone e Medea che quello tra Didone ed Enea acquistano il crisma dell’ufficialità mediante il giuramento compiuto con la mano destra (Ὧς ηὔδα, καὶ χεῖρα παρασχεδὸν ἤραρε χειρὶ / δεξιτερήν: […]109 per quel che riguarda il primo caso, mentre la regina cartaginese si rivolge disperata al condottiero troiano dicendogli: nec te noster amor nec te data dextera quondam110). Comune denominatore dei due passi è anche il rimprovero mosso dalla donna all’amato, che viene definito infatti νηλεές in Apollonio111 e crudelis in Virgilio112 . Sia Giasone che Enea vengono ancora identificati come rovinosa causa di dolore (σῶν ἕνεκεν καµάτων sostiene Medea113; Didone spiega ad Enea che “ […] Lybicae gentes Nomadumque tyranni / odere, infensi Tyrii […] iniziando enfaticamente la frase con Te propter114). Questo genera terribili maledizioni: la figlia di Eeta ammonisce infatti Giasone con queste parole: “Ma tu, anche quando sarai tornato nella terra di Iolco, di me / ricordati, come anche io di te, anche contro i miei genitori / avrò memoria, e giungerà a me una voce, o un uccello / recante messaggi, qualora tu mi dimenticassi; / o che possano rapirmi le veloci buriane e portarmi oltre il mare, sino a Iolco, che io ti possa fissare negli occhi, rimproverare e rammentarti che fu solo grazie a me che sei scampato a morte. Oh, cosa darei per 103 I, 790-791. 104 III, 1008. 105 III, 286-287 e 291-194. 106 I, 712-713. 107 III, 742-743. Come avvertono i curatori Guido Paduano e Massimo Fusillo (A. RODIO, Le Argonautiche, Milano, Rizzoli, 2004, p. 469), «la coppia pudore-paura (endiadi, non opposizione) definisce icasticamente la stratificazione nella psiche di Medea dei tabù tradizionali e della specifica repressività familiare», e questo, ovviamente, dona una connotazione affatto differente ai sentimenti di Medea rispetto a quelli di Didone. 108 IV, 24-29. 109 IV, 99. 110 IV, 307. 111 IV, 389. 112 IV, 311. 113 IV, 369. 114 IV, 320-321. 19 comparire / non attesa al tuo focolare, in casa tua !”115, ed ancora, «in termini magico-onirici»116: “[…] E di me un giorno dovrai ricordarti, / quando sarai consumato dai mali, e possa allora il tuo vello scomparire come i sogni nell’Erebo, e dalla tua patria / presto le mie Erinni ti manderanno via, come io ho sofferto / a causa della tua crudeltà. E ti assicuro che quanto dico / non cadrà inascoltato, dal momento che tu, crudelmente, non hai tenuto fede ad una promessa sacra […]”117. Dal canto suo, la regina di Cartagine scaglia parole altrettanto feroci verso il traditore: “[…] spero equidem mediis, si quid pia numina possunt, supplicia hausurum copuli et nomine Dido saepe vocaturum. Sequar atris ignibus absens et, cum frigida mors anima seduxerit artus, omnibus umbra locis adero. Dabis, improbe, poenas; audiam et haec manis veniet mihi fama sub imos” (Eneide, IV 382-387). Nonostante la proposta degli uomini di non dimenticare le donne sedotte e abbandonate, come dimostrato dalle parole di Giasone: Καὶ λίην οὐ νύκτας ὀίοµαι, οὐδέ ποτ᾽ ἦµαρ σεῦ ἐπιλήσεσθαι, προφυγὼν µόρον, εἰ ἐτεόν γε φεύξοµαι ἀσκηθὴς ἐς Ἀχαιίδα, […] (Argonautiche, III, 1079-1081) e di Enea: […] Ego te quae plurima fando enumerare vales nunquam, regina, negabo promeritam nec me meminisse pigebit Elisse, dum memor ipse mei, dum spiritus hos regit artus (Eneide, IV, 358-362) queste non possono evitare di sprofondare nell’ amara e quasi sarcastica disillusione, che sfocia in amari rimproveri contro se stesse: se infatti Medea, dopo aver chiesto a Giasone “dove sono finiti i giuramenti fatti in nome di Zeus protettore dei supplici, e le dolci promesse”, deve constatare la gravità del tradimento della patria: ᾗς ἐγὼ οὐ κατὰ κόσµον ἀναιδήτῳ ἰότητι / πάτρην τε κλέα τε µεγάρων αὐτούς τε τοκῆας /νοσφισάµην, τά µοι ἦεν ὑπέρτατα: […]118, Didone si esprime in questi analoghi termini, analizzando il suo comportamento nei confronti del Troiano: […] Eiectum litore, egentem / excepi et regni demens in parte locavi / amissam classem, socios a morte reduxi119. Particolarmente pregnante – 115 III, 1109-1117 116 Cfr. commento di Paduano-Fusillo ad A. RODIO, Le Argonautiche, cit., p. 583. 117 IV, 383-389. 118 IV, 358-362. 119 IV, 373-375. 20 specie per la loro affinità semantica – è la scelta, da parte dei due autori, dei termini volti a definire l’infausto sentimento d’amore, al cui proposito nelle Argonautiche si parla di Σχέτλι᾽ Ἔρως120, mentre nell’Eneide il vocativo è Improbe Amor121: le analogie si presentano anche sotto il profilo prosodico e poetologico, dal momento che in entrambi i casi le due espressioni sono posizionate in apertura di esametro e sono seguite da considerazioni, da parte dell’autore, circa i devastanti poteri della passione amorosa. In conseguenza dei dolori da questa causati, l’unica scelta sembra essere la morte: […] ἦ τ᾽ ἂν πολὺ κέρδιον εἴη τῇδ᾽ αὐτῇ ἐν νυκτὶ λιπεῖν βίον ἐν θαλάµοισιν, (Argonautiche, III, 798-799) Ergo ubi concepit furias evicta dolore Decrevitque mori […] (Eneide, IV, 474-475). Inutile si rivela il ricorso alle arti magiche, ma mentre Medea sparge sugli occhi di Giasone gli ἀκήρατα φάρµακα122con un ramo di ginepro appena reciso, poco prima che questi, dietro suo comando, possa materialmente impadronirsi del vello d’oro, Didone destina a se stessa, per ottenere oblio, la mistura a base di miele, papavero e loto, fornitale dalla sacerdos gentis Massylae123: chiaro, inoltre, appare il legame tra entrambi i passi citati e il secondo idillio teocriteo, L’incantatrice, modello dell’ottava ecloga virgiliana. Anche l’ambientazione notturna coincide (Νὺξ µὲν ἔπειτ᾽ ἐπὶ γαῖαν ἄγεν κνέφας / […] ἀλλὰ µάλ᾽ οὐ Μήδειαν ἐπὶ γλυκερὸς λάβεν ὕπνος / πολλὰ γὰρ Αἰσονίδαο πόθῳ µελεδήµατ᾽ ἔγειρεν124 scrive Apollonio; Nox erat et placidum carpebant fessa soporem / corpora per terras […] At non infelix animi Phoenissa neque umquam / solvitur in somnos oculisve aut pectore noctem / accipit […] 125), quando l’insonnia funge ancora da trait d’union non solo tra le due donne in questione, ma anche con la protagonista delle menzionate Φαρµακεύτριαι del poeta siracusano: ἶυγξ, ἕλκε τὺ τῆνον ἐµὸν ποτὶ δῶµα τὸν ἄνδρα. ἠνίδε σιγῇ µὲν πόντος, σιγῶντι δ᾽ ἀῆται: ἁ δ᾽ ἐµὰ οὐ σιγῇ στέρνων ἔντοσθεν ἀνία, ἀλλ᾽ ἐπὶ τήνῳ πᾶσα καταίθοµαι, ὅς µε τάλαιναν ἀντὶ γυναικὸς ἔθηκε κακὰν καὶ ἀπάρθενον ἦµεν. (Idilli, II, 37-41) Νὺξ µὲν ἔπειτ᾽ ἐπὶ γαῖαν ἄγεν κνέφας: οἱ δ᾽ ἐνὶ πόντῳ ναῦται εἰς Ἑλίκην τε καὶ ἀστέρας Ὠρίωνος ἔδρακον ἐκ νηῶν: ὕπνοιο δὲ καί τις ὁδίτης ἤδη καὶ πυλαωρὸς ἐέλδετο: καί τινα παίδων 120 IV, 412 121 IV, 445. 122 IV, 156 123 IV, 483-493. 124 III, 744 e 751-752 125 IV, 522-523 e 529-531. 21 µητέρα τεθνεώτων ἀδινὸν περὶ κῶµ᾽ ἐκάλυπτεν: οὐδὲ κυνῶν ὑλακὴ ἔτ᾽ ἀνὰ πτόλιν, οὐ θρόος ἦεν ἠχήεις: σιγὴ δὲ µελαινοµένην ἔχεν ὄρφνην. ἀλλὰ µάλ᾽ οὐ Μήδειαν ἐπὶ γλυκερὸς λάβεν ὕπνος. (Argonautiche, III, 744-751) ed ancora: στρευγοµένοις δ᾽ ἀν᾽ ὅµιλον ἐπήλυθεν εὐνήτειρα Νὺξ ἔργων ἄνδρεσσι, κατευκήλησε δὲ πᾶσαν γαῖαν ὁµῶς: τὴν δ᾽ οὔτι µίνυνθά περ εὔνασεν ὕπνος, ἀλλά οἱ ἐν στέρνοις ἀχέων εἱλίσσετο θυµός. (Argonautiche, IV, 1058-1061) Nox erat et placidum carpebant fessa soporem […] At non infelix animi Phoenissa neque umquam solvitur in somnos oculisve aut pectore noctem accipit: ingeminant curae rursusque resurgens saevit amor magnoque irarum fluctuat aestu. (Eneide, IV, 522-532). A livello fraseologico, anche la costruzione dell’avversativa con negazione risulta comune ai testi di Apollonio e di Virgilio, come dimostrano il verso 751 del III libro del primo e il verso 529 del IV libro del secondo, ma particolarmente calzante appare l’analogia vigente tra i due momenti in cui le protagoniste, in preda ad ansie ed indecisione, discutono con se stesse: φῆ δέ οἱ ἄλλοτε µὲν θελκτήρια φάρµακα ταύρων δωσέµεν, ἄλλοτε δ᾽ οὔτι: καταφθίσθαι δὲ καὶ αὐτή: αὐτίκα δ᾽ οὔτ᾽ αὐτὴ θανέειν, οὐ φάρµακα δώσειν, ἀλλ᾽ αὔτως εὔκηλος ἑὴν ὀτλησέµεν ἄτην. ἑζοµένη δἤπειτα δοάσσατο, φώνησέν τε: "∆ειλὴ ἐγώ, νῦν ἔνθα κακῶν ἢ ἔνθα γένωµαι; πάντῃ µοι φρένες εἰσὶν ἀµήχανοι: οὐδέ τις ἀλκὴ πήµατος: ἀλλ᾽ αὔτως φλέγει ἔµπεδον. ὡς ὄφελόν γε Ἀρτέµιδος κραιπνοῖσι πάρος βελέεσσι δαµῆναι, 775πρὶν τόνγ᾽ εἰσιδέειν, πρὶν Ἀχαιίδα γαῖαν ἱκέσθαι Χαλκιόπης υἷας. τοὺς µὲν θεὸς ἤ τις Ἐρινὺς ἄµµι πολυκλαὕτους δεῦρ᾽ ἤγαγε κεῖθεν ἀνίας. […] πρὶν τάδε λωβήεντα καὶ οὐκ ὀνοµαστὰ τελέσσαι." (Argonautiche, III, 766-801)126 126 Questo passo costituisce l’introduzione per il terzo e più vasto ed articolato monologo di Medea, per le cui diverse sfumature di caratteriali e sentimentali cfr. commento di Paduano-Fusillo ad A. RODIO, Le Argonautiche, op. cit., p. 473. 22 'en, quid ago? […] quis me autem, fac velle, sinet ratibusve superbis invisam accipiet? nescis heu, perdita, necdum Laomedonteae sentis periuria gentis? quid tum? sola fuga nautas comitabor ovantis? an Tyriis omnique manu stipata meorum inferar et, quos Sidonia vix urbe revelli, rursus agam pelago et ventis dare vela iubebo? quin morere ut merita es, ferroque averte dolorem. tu lacrimis evicta meis, tu prima furentem his, germana, malis oneras atque obicis hosti. non licuit thalami expertem sine crimine vitam degere more ferae, talis nec tangere curas; non servata fides cineri promissa Sychaeo.' (Eneide, IV, 534-551). Il monologo acquista valore paradigmatico e caratterizzante per la figura di Didone, dal momento che si rivela lo specchio più fedele della sua complessità, a tratti contraddittoria ma per questo intensamente umana, «che combina una sorta di civetteria ritrosa alla capacità di prendere iniziative»127, e forse non è un caso che la Medea senechiana si apra proprio con un monologo. Proprio nell’umanità di Didone è possibile ravvisare una differenza fondamentale con vari personaggi tragici, come ad esempio l’Aiace sofocleo, con il quale peraltro, come si avrà modo di vedere, vi sono alcuni cruciali tratti in comune128 . L’importanza dei monologhi della protagonista risalta ancor più dalla constatazione che, nella struttura del IV libro, «i discorsi diretti occupano oltre 250 versi, più della metà dell’intero libro, caratteristica che […] induce a pensare alla peculiarità della tragedia»129. È in particolar modo nei discorsi della regina che è forse possibile cogliere l’esatta cifra di peculiarità propria della poesia virgiliana: in questi specifici versi sembra brillare tutta la sua gravitas e la sua maiestas. Se infatti il lungo passaggio dei versi 365-386 del IV libro virgiliano costituisce un mirabile esempio di varietas, con un contrasto/alternanza di vari sentimenti che spaziano dal cieco dolore all’amara ironia, dall’ira 127 P. BONO-M.V. TESSITORE, op. cit., p. 161. 128 Sia Aiace che Didone, ad esempio, nascondono sino all’ultimo i propri propositi suicidi: la regina alla sorella Anna, l’eroe greco suscitando persino esplosioni di gioia nel coro di fanciulle; entrambi appaiono come non responsabili delle loro sventure, dal momento che i loro mali sono «dovuti a cause estranee all’individuo» (P. SCAZZOSO, (Il libro IV dell’Eneide, in «Paideia», anno, IV, n°2-3, marzo-giugno 1949, p. 86), ma coscientemente responsabili della loro decisione fatale di morte, di cui sia Tecmessa che Anna troppo tardi si accorgono. Per un confronto tra alcuni loci del testo sofocleo i il IV libro dell’Eneide, cfr. G. B. CONTE, Virgilio – l’epica del sentimento, seconda edizione accresciuta, Torino, Einaudi, 2007, pp. 132-134. 129 P. A. PEROTTI, op. cit., p. 239. Con particolare riferimento ai monologhi di Didone, P. SCAZZOSO, op. cit., p. 85) scrive: «Nei monologhi di Didone è in gioco tutta la tecnica retorica di Virgilio. C’è l’aspirazione dell’arte augustea di elevare il patetico nella sfera del sublime, nobilitando le varie sfumature del sentimento con una lingua austera, cadenzata da un ritmo sostenuto e solenne, in una eloquenza (il termine è usato nella sua accezione antica ad indicare alta dignità di linguaggio, in cui nobiltà di accenti umani e fermezza austera di forma coincidono), in cui si incontrano l’alessandrinismo e il classicismo». 23 all’autocommiserazione, l’ultimo soliloquio, specie nei versi 651-662, costituisce il massimo picco tensivo, con Didone che, gettando l’ultimo sguardo alla propria vita attraverso la lente di un estremo e disincantato rimpianto, rivivendo felicità trascorse e tristezze patite, si avvia verso la morte: proprio in questo passaggio rifulge al meglio la natura umana della regina, in conflitto solo ed unicamente con se stessa, mentre – a differenza di Aiace, capace di superare la paura della morte – cerca istintivamente, sino all’ultimo, anche nell’estrema agonia, il fuoco della vita. Altri importanti punti di differenza tra Didone e Medea meritano d’essere citati: in primo luogo, la regina di Cartagine viene a porsi come un ostacolo ai progetti di Enea, mentre la figlia di Eeta diveniva un mezzo per quelli di Giasone, ed il carattere più manifestamente tragico della prima, donna con già fondamentali esperienze alle spalle e forte di una coscienza civica che la avvicina ad Enea, è ben diverso da quello di una giovane infatuata, ‘amoralmente’ disposta, in nome di questa passione, anche al fratricidio. Inoltre, vi è il dato di fatto che mentre Didone non sopravvive all’amore per il Troiano, Medea, pur come manifesta criminale, non muore: tutte e due le donne vengono assalite da dubbi e ripensamenti, dopo aver preso la decisione fatale, ma mentre Didone non vede speranza alcuna al suo destino, Medea indietreggia130, dal momento che lo spettro della morte riaccende l’amore per la vita. Entrambi i casi, comunque, hanno una innegabile radice in comune, come evidenziato prima da Alfred Körte131e successivamente da Ward Briggs132, nelle situazioni di contrasto tipiche dei romanzi ellenistici: le opposizioni, in linea di massima, riguardano una donna straniera in un luogo straniero, sovente una affascinante e seducente figura proveniente da Est, che si incontra con un virtuoso, e generalmente non troppo romantico, uomo che viene dall’Ovest: un elemento icasticamente definito da Briggs come «willful Epicurean personality» che si scontra con un altro elemento identificato come «restrained and patriotic Stoic»133 . Particolarmente indicative sembrano le differenze caratteriali tra le due donne, con fondamentali conseguenze di ordine semantico e quindi più genericamente poetico. Il sentimento di Medea è contenuto nei poli della “vergogna” e della “passione”, espresso nei termini αἰδώς e ἵµερος (ἤτοι ὅτ᾽ ἰθύσειεν,ἔρυκέ µιν ἔνδοθεν αἰδώς: / αἰδοῖ δ᾽ ἐργοµένην θρασὺς ἵµερος ὀτρύνεσκεν) 134, laddove il secondo si riferisce ovviamente a Giasone, mentre il primo indica fondamentalmente il contrasto con il padre Eeta, ed il relativo timore di una sua punizione. Da ciò deriva un atteggiamento insincero e falso da parte di Medea, che riesce a mostrarsi come baluardo di difesa dei nipoti, i figli di Calcione. Il dramma di Didone, tutto introspettivamente contenuto nella sua personalità, è tra il pudor e l’amor, tra la fedeltà al marito Sicheo e la nuova fiamma per Enea, di cui la sorella Anna è completamente messa al corrente. 130 […] ἀλλά οἱ ἄφνω / δεῖµ᾽ ὀλοὸν στυγεροῖο κατὰ φρένας ἦλθ᾽ Ἀίδαο (III, 810). 131 W. W. BRIGGS, Die Hellenistische Dichtung, Leipzig, Alfred Kröner, 1925, p. 164. Altre osservazioni su questo punto – come ad esempio il contrasto tra una passione momentanea e un più alto fine di ampio respiro – furono già compiute, più di un secolo fa, da E. NORDEN (Vergils Aeneis im Lichte ihrer Zeit [1901] in Kleine Schriften zum Klassichen Altertum, hereausgegeben von B. KRITZLER, Berlin, W. De Gruyter, 1966, p. 358-396) e successivamente da A. S. PEASE, Some Aspects of the Character of Dido, in «Classical Journal», XXII, (1926-1927) n°4 (January), pp. 243-252. 132 Op. cit., p. 961. 133 Ibidem. 134 Argonautiche, III, 652-653. Paduano e Fusillo (op. cit., p. 461) parlano a proposito di «scontro tra le forze psichiche […] [che] trova una formula sintetica persuasiva, ed una efficacissima trascrizione nei movimenti fisici». 24 Un’importante base comune alle due situazioni sembra essere la forte caratterizzazione psicologica operata dai due autori, ma questa avviene in sensi e direzioni differenti: Apollonio Rodio, più che come modello vero e proprio, funge per Virgilio da fonte d’ispirazione. Se in entrambi i casi è palese l’intento di voler dimostrare quanto distruttiva possa rivelarsi, in alcuni casi, la passione amorosa, il poeta latino riprende e dispone secondo un nuovo ordine vari aspetti caratteriali propri di Medea, subendo un’evoluzione della personalità che la vede passare “da eroina ad amante a sposa a vendetta personificata”135, e legando a questi cambiamenti una climax tensiva. Nel caso di Didone, il senso del tragico è sottolineato e aumentato, all’interno del conflitto tra il Fato e il suo carattere di donna forte, anche su un altro livello, che non è legato, come nel caso di Apollonio, al successo o all’insuccesso della storia d’amore, ma piuttosto ad un esito che, nonostante i primi momenti di speranza e felicità, appare già da subito come infaustamente segnato. I molteplici rapporti e le differenze vigenti tra la Medea di Apollonio e la Didone virgiliana si basano anche sulla quantità di relazioni che vi sono, e mutano caso a caso, tra le sfere del pubblico e del privato. Partendo dalle implicazioni tra questi due elementi già presenti in nuce nell’episodio di Nausicaa, con il timore che la sua scelta del marito possa contrastare con gli interessi del popolo dei Feaci136, e rammentando i consigli politici di Anna alla sorella, volti a considerare i vantaggi di una duratura unione con Enea per una forte stabilizzazione del suo ‘nuovo’ regno, l’intimo dissidio tra i privati desideri di una donna e il bene del popolo governato dal padre, «a chasm hinted at in Odissey and fully explored in the Argonautica» 137, acquista massima e drammatica attualità nella storia di Didone: «it is this fact, no less than the iron rule of fatum, which turns the imminent ‘tragedy’ of Apollonius’s Medea into the present ‘tragedy’ of Dido»138 . 2. Altro elemento fondamentale, per la messa a fuoco del carattere di Didone, è inoltre la Medea euripidea. Se in questo autore ad un minor peso, rispetto a Sofocle ed Eschilo, del coro e del destino, corrisponde la maggiore attenzione alle problematiche dell’individuo «in balia di se stesso»139, è proprio in questo testo che il contrasto tra l’elemento greco e l’elemento barbaro viene presentato come «antitesi […] tra due mondi con leggi diverse e incomunicabili che la presunzione ellenica all’autosufficienza identifica semplicisticamente come opposizione di legge e non legge»140: questo punto, nella versione dell’omonima opera di Grillparzer, acquisterà poi un’inquietante sfumatura di natura quasi razziale, insistendo sul motivo di Medea come ‘esclusa’ da una determinata società. Alla luce delle osservazioni fatte riguardo alle analogie Didone/Cleopatra e alla necessità virgiliana di descrivere epicamente la vittoria del vigore romano sull’insidia proveniente da Est, alcuni passi euripidei possono risultare particolarmente importanti: quella che in Virgilio è la forza propulsiva e trionfante dell’impero romano sembra mostrare infatti significativi tratti in comune con la supposta superiorità greca. Nella 135 OTIS, op. cit., p. 88 n.1. 136 Odissea, VI, 277-288. Medea agisce palesemente contro il volere ed il consenso della sua famiglia, e lo dimostra l’atmosfera di segretezza che regola le nozze con Giasone. 137 R. HUNTER, cit., p. 182. 138 Ibidem. 139 P. SCAZZOSO, op. cit., p. 87. 140 G. PADUANO, La formazione del mondo ideologico e poetico di Euripide. Alcesti-Medea, Pisa, Nistri-Lischi, 1968, p. 353. 25 visione erodotea, inoltre, «aspetto e ragione fondamentale della diversità tra Greci e Barbari è la differente indole politica dei popoli»141: i primi appaiono come strenui difensori della libertà, soggetti unicamente al νόµος, mentre per i secondi la monarchia assoluta, e quindi un certo concetto di sudditanza, sarebbe quasi congenito; naturale sarebbe allora l’idea stessa di schiavitù, come sembra d’altronde trasparire chiaramente anche dai versi euripidei: ἔπειτα πατρίδος θεοί µ᾽ ἀφιδρύσαντο γῆς ἐς βάρβαρ᾽ ἤθη, καὶ φίλων τητωµένη δούλη καθέστηκ᾽ οὖσ᾽ ἐλευθέρων ἄπο: τὰ βαρβάρων γὰρ δοῦλα πάντα πλὴν ἑνός. (Elena, 273-276) e βαρβάρων δ᾽ Ἕλληνας ἄρχειν εἰκός, ἀλλ᾽ οὐ βαρβάρους, µῆτερ, Ἑλλήνων: τὸ µὲν γὰρ δοῦλον, οἳ δ᾽ ἐλεύθεροι. (Ifigenia in Aulide, 1400-1401). In Euripide, particolarmente forti sono le espressioni di Giasone nei confronti della figlia di Eeta, quando quest’ultima lo accusa d’essere ingrato e traditore, e lo stesso Giasone dice sprezzante: “Tu […] è più quello che hai ricevuto rispetto a quanto hai dato. […] In primo luogo quella che tu abiti è terra di Grecia, e non un paese barbaro; conosci la giustizia e sei capace di valerti delle leggi senza ricorrere alla violenza”142. Ed è Giasone a insistere sulla radicale e terribile diversità/inferiorità di Medea (λέαιναν, οὐ γυναῖκα, τῆς Τυρσηνίδος / Σκύλλης ἔχουσαν ἀγριωτέραν φύσιν) 143: egli infatti, “rimpiangendo l’errore di averla condotta in una casa greca da un paese straniero”, si pente d’aver portato in casa propria un essere ‘indegno’ ( […] ἐγὼ δὲ νῦν φρονῶ, τότ᾽ οὐ φρονῶν, / ὅτ᾽ἐκ δόµων σε βαρβάρου τ᾽ ἀπὸ χθονὸς / Ἕλλην᾽ ἐς οἶκον ἠγόµην, κακὸν µέγα) 144. Ed è proprio la cocente delusione – pronta a trasformarsi in atroce sentimento di vendetta – derivante dal tradimento da parte dei beneficiari del loro aiuto (Enea e Giasone) che sembra costituire il fondamentale trait d’union tra Medea e Didone: non a caso quest’ultima si sfoga e si tortura con le domande “A chi mi lasci sul punto di morte, ospite? […] Che sto aspettando? Forse che mio fratello Pigmalione svella le mie mura, o che cada prigioniera del getulo Iarba?”145 . Analizzando vari passaggi della vicenda umana di Didone nell’Eneide è possibile anche scorgere altre similarità, degne di attenzione, con un altro personaggio protagonista di una già citata tragedia euripidea: Elena. Come notato anche da Howard Jacobson più di vent’anni or sono146, i comuni 141 C. CATENACCI, L’Oriente degli antichi e dei moderni. Guerre persiane in Erodoto e Guerra del Golfo nei media occidentali, in «Quaderni Urbinati di cultura classica», n. s. 58/1, 1998, p. 177. 142 Euripide, Medea, 534-538. 143 Ivi, 1342-1343. Cfr. P. BONO-M. V. TESSITORE, op. cit., p. 35. 144 Euripide, Medea, 1329-1331. 145 Eneide, IV, 323 e 325-326. 146 Cfr. H. JACOBSON, Vergil’s Dido and Euripides’ “Helen”, in «The American Journal of Philology», vol. 108, n°1 (Spring 1987), p. 167-168. Un confronto tra i due testi era già stato compiuto, nella seconda metà del secolo XIX, da O. 26 denominatori riguardano sia la tradizione previrgiliana relativa alla donna fenicia, sia più direttamente il testo del poeta mantovano. Per intanto, sia Didone che Elena, entrambe regine che sono dovute fuggire dal proprio luogo d’origine per riparare nell’Africa settentrionale, sembrano brillare per fedeltà147 e devozione nei confronti del marito morto ([…] τὸν πάλαι δ᾽ἐγὼ πόσιν / τιµῶσα […]148; Esto, aegram nulli quondam fremere mariti, / non Libyae, non ante Tyro; despectus Iarbas / ductoresque alii, quos Africa terra triumphis / dives alit […]149); ma – come già Medea – anche Elena e Didone meditano sull’ipotesi del suicidio: φόνιον αἰώρηµα διὰ δέρης ὀρέξοµαι, ἢ ξιφοκτόνον δίωγµα λαιµορρύτου σφαγᾶς αὐτοσίδαρον ἔσω πελάσω διὰ σαρκὸς ἅµιλλαν, (Elena, 352-356) Quin morere, ut merita es, ferroque averte dolorem (Eneide, IV, 547). Sia Didone che Elena, inoltre, ricevono uomini stranieri che hanno alle spalle il conflitto troiano, e che stanno affrontando un viaggio denso di difficoltà con lo scopo di fondare una nuova patria: i due visitatori, entrambi naufraghi, che giungono presso le due donne, hanno Hera/Giunone come nemica, ma sia alla fine della tragedia greca che del poema virgiliano la divinità è passata dalla loro parte, come dimostrano le parole della profetessa Teonoe nel primo caso e la risposta della sorella di Giove al fratello: Ἥρα µέν, ἥ σοι δυσµενὴς πάροιθεν ἦν, νῦν ἐστιν εὔνους κἀς πάτραν σῷσαι θέλει ξὺν τῇδ᾽, […] (Elena, 880-882) ‘Ista quidam quia nota mihi tua, magne, voluptas, Iuppiter, et Turnum et terras invita reliqui; nec tu me aëria solam nunc sede videres digna indigna pati, sed flammis cincta sub ipsam starem aciem trahentemque inimica in proelia Teucros (Eneide, XII, 808-812). OCCIONI in un articolo pubblicato nella «Nuova Antologia» (vol. XXXIV, 2° serie, 1882, p. 201-222), citato da E. STAMPINI, op. cit., p. 57. 147 A questo proposito, G. STARRY WEST, in Andromache and Dido («The American Journal», vol. 104, n° 103, Autumn 1983, p. 257), sostiene che, proprio attraverso un implicito paragone con il sentimento di fedeltà proprio di Andromaca, nei confronti del defunto marito Ettore, Virgilio mette in risalto «the significance of Dido’s feelings of faithful love and, later, of guilt toward Sycaeus». 148 Elena, 63-64 149 Eneide, IV, 35-38. 27 Ancora, è importante notare150 come due versi, divenuti celeberrimi, dell’Eneide possano mostrare interessanti legami con altrettanti versi euripidei: la frase di Enea infandum regina iubes renovare dolorem (II, 3), indiscusso modello del «Tu vuo’ ch’io rinovelli / disperato dolor che ‘l cor mi preme» di Ugolino di Guelfo della Gherardesca151, sembra, almeno in parte, riecheggiare la frase di Teucro, incalzato dalle domande di Elena, ἅλις δὲ µύθων: οὐ διπλᾶ χρῄζω στένειν (Elena, 143); ancora, il forsitan et haec olim meminisse iuvabit (I, 203) pronunciato dal condottiero troiano agli affranti compagni mostra qualche analogia con la frase di Menelao, pronunciata nei confronti di Elena, “Parla, dunque! È dolce udire delle passate sventure” ((Elena, 665)152. Infine, stando ai versi in cui la stessa Didone parla della vista dell’esule Teucro, e della sua domanda d’aiuto nei confronti del padre Belo: Atque equidem Teucrum memini Sidona venire Finibus expulsum patriis, nova regna petentem ausilio Beli; genitor tum Belus opimam vastabat Cyprum et Victor dicione tenebat. (Eneide, I, 619-622) si può almeno ipotizzare che, per questo spunto dovuto alla fantasia del poeta mantovano, il primo episodio della tragedia euripidea possa aver rappresentato un modello di riferimento. 3. A livello narrativo, inoltre, con riferimento al tema della fedeltà coniugale e al rispetto di questa, a parte l’aggettivo infelix con cui viene introdotta la figura di Andromaca (II, 455), che richiama il verso 749 del primo libro (infelix Dido longumque bibebat amorem), le parole pronunciate dalla moglie di Ettore, a proposito del congedo e dei doni ad Ascanio ([…] longum Andromachae testentur amorem / coniugis Hectoreae) 153, inserite nel contesto narrativo di Enea, fungono da implicito richiamo interno ai versi Huic coniunx Sycaeus erat, ditissimus agri / Phoenicum et magno miserae dilectus amore (I, 343- 344). Da un duplice punto di vista, narratologico e di definizione dei personaggi, il dato più importante è che la figura di Andromaca viene presentata da Virgilio quale esempio di amorevole fedeltà verso il marito proprio nel momento in cui i sentimenti di Didone iniziano ad esser soggetto del cruciale cambiamento: all’oblio del passato s’aggiunge la speranza di un futuro differente da quello di una vedovanza sicuramente rispettosa e rispettabile, ma fatalmente priva di vivo amore154: l’artefice è Cupido, con le sembianze di Iulus, quando viene tenuto in grembo da Didone: 150 Cfr. H. JACOBSON, op. cit., p. 67. 151 In rapporto al modello virgiliano, N. SAPEGNO, nel suo commento a D. ALIGHIERI, Inferno (Firenze, La Nuova Italia, 1985, p. 367), definisce il tono dantesco di ben maggiore drammaticità, dal momento che «l’accento batte con forza sulle parole che esprimono il contrasto violento delle passioni (disperato, preme, infamia)». 152 Due passaggi dell’Odissea possono al loro volta esser indicati come possibile fonte sia della frase euripidea sia di quella virgiliana: καί που τῶνδε µνήσεσθαι ὀίω (XII, 212) dice il protagonista ricordando l’episodio di Polifemo, ma ancor più importanti sono le parole di Eumeo, nel libro dell’arrivo di Telemaco, […] µετὰ γάρ τε καὶ ἄλγεσι τέρπεται ἀνήρ, / ὅς τις δὴ µάλα πολλὰ πάθῃ καὶ πόλλ᾽ ἐπαληθῇ (XV, 400-401), mettendo già in rilievo la cruciale connessione tra possibilità di godimento nel presente e dolori patiti nel passato. 153 III, 487-488. 154 Cfr. G. STARRY WEST, op. cit. p. 260. 28 matris Acidaliae paulatim abolere Sychaeum incipit et vivo temptat praevertere amore iam pridem resides animos desuetaque corda. (Eneide, I, 720-722). Così, quando all’inizio del IV libro viene presentata Didone come totalmente fedele e devota alla memoria di Sicheo, la figura della sposa di Ettore ritorna alla mente. Diversamente si muoverà ad esempio Hector Berlioz, nel IV Atto de Les Troyens155, il quale non solo stabilisce una connessione diretta tra i sentimenti di fedeltà di Didone verso Sicheo e di Andromaca verso Ettore, ma fa sì che la prima ceda alle lusinghe di una nuova passione solo quando messa al corrente che anche Andromaca, “fedele alle sue più care memorie”, ha sposato Pirro, “l’assassino di suo padre, il figlio dell’uccisore del suo marito illustre”. In realtà, tra le due donne, accostate per similitudine o differenza più volte nel poema virgiliano, vi sono anche sensibili diversità. Mentre infatti la vedova di Ettore appare sempre staticamente uguale a se stessa, «a static image of perfect love and fidelity beyond the grave»156, Didone, capace di conservare praticamente il suo stato di univira157 , è una figura complessa e contraddittoria nella sua evoluzione: raccogliendo anche le suggestioni di Edward Phinney158, è possibile affermare che la modernità del personaggio della regina fenicia, come anche la diffusione della storia del suo infelice amore, è spiegabile con il fatto che ella vive, pur nella dimenticanza dell’infatuazione, la propria passione per Enea come culpa: questo è ben chiaro nelle parole voces et verba vocantis (IV, 460), vivide manifestazioni della propria colpa e dei rimproveri contro se stessa. La concezione dell’amore propria di Didone è assoluta e onnicomprensiva: in partenza fedele – come Andromaca – al marito, circostanze differenti da quelle della vedova di Ettore la portano a scegliere di morire, poiché la sua attrazione per la vita non le permette di mantenere saldi i principi di fedeltà e innocenza che pur da se stessa pretende. Fallito l’idillio con Enea, la morte diventa per lei extrema ratio per affermare quel principio d’integrità morale su cui poggiavano le sue certezze prima dell’avvento del duce troiano. La casta fedeltà a Sicheo era sinonimo di gloria, mentre il rovinoso addio da parte di Enea corrisponde ad una caduta verticale della sua autostima. Ma mentre quello di Andromaca è visibile come un tradimento ‘per cause di forza maggiore’ (Grace Starry West ha parlato a proposito di «Andromache’s unwilling “betrayals” of Hector»159), nel caso di Didone vi è una profonda e tragica conflittualità nello sbocciare e nel crescere della passione. E se Andromaca appare rassegnata a sopravvivere a se stessa «despite her preference for death»160, Didone opta per la scelta opposta: la partenza di Enea risulta infatti letale per i suoi ideali di pudor e fama161 . 155 Cfr. in particolare IV, n°35, «Recitatif et Quintet». 156 Ivi, p. 261. 157 Cfr. V. PÖSCHL, Dido und Aeneas, in «Festschrift Karl Vretska zum 70. Geburtstag am 18. Oktober 1970, überreicht von seinen Freunden und Schülern», Heidelberg, C. Winter, 1970, p. 150. 158 E. PHINNEY, Dido and Sychaeus, in «Classical Journal», vol. 60, 1965, p. 355-359. 159 Op. cit., p. 264. 160 Ibidem. 161 Cfr. IV, 321-323. 29 4. A questo punto può forse esser lecito domandarsi se, e in quali termini, si possa parlare tout court di tragedia per la storia di Didone, anche in specifico riferimento al valore e alla consistenza della culpa. Secondo i canoni aristotelici, il/la protagonista della vicenda drammatica deve appartenere alla schiera di coloro che “vivono circondati da grande reputazione («τῶν ἐν µεγάλῃ δόξῃ ὄντων καὶ εὐτυχίᾳ» 162), di modo che il cambio (µετάβασις), solitamente, ma non necessariamente, avvenga da una situazione di fortuna ad un’altra di sfortuna, così da poter essere più estremo, quindi più drammaturgicamente pregnante. Il concetto di colpa (ἁµαρτία), inoltre, è per Aristotele, centrale e direttamente collegato al tema tragico, dal momento che il personaggio piomba nella sventura appunto «µήτε διὰ κακίαν καὶ µοχθηρίαν […] ἀλλὰ δι᾽ ἁµαρτίαν τινά» 163. Se il concetto di colpa risulta quindi «a direct causal connection between the actions of the tragic agent and his downfall»164, fondamentale è – a questo connessa – il concetto di giudizio morale (προαίρεσις) cui la platea è chiamata, riguardo alla rettitudine o allo sbaglio che è alla base delle scelte del personaggio principale, e della giustizia/ingiustizia del fato nei suoi confronti. Nello specifico della vicenda di Didone, proprio in ragione di quanto appena puntualizzato, si potrebbe parlare di tragedia in termini aristotelici: l’incontro amoroso tra la regina cartaginese ed Enea nella grotta165 (IV, 165-172) viene a porsi infatti come oggetto di discussione e scelta morale, laddove la frase ille dies primus leti primusque malorum / causa fuit (IV, 169-170) sembra prefigurarsi come una ἀρχὴ κακῶν, elemento basilare del pensiero e della struttura narratologica sia dell’epica omerica sia della tragedia greca166 . 5. Partendo dalla definizione di «einer strengen, einer milden» usata da Rudolph Heinrich Klausen in riferimento a Didone ed Anna167, Thelma De Graff si soffermò, in un articolo dei primi anni trenta del secolo scorso168, su varie analogie che sembrano legare la figura della regina cartaginese ad Antigone. Il destino di entrambe è segnato da lutti – il marito nel primo caso, padre, madre e fratelli nel secondo – e da sofferenze, a causa dell’assassinio di Sicheo per Didone, per la maledizione gravante sulla casa di Edipo per Antigone. Un destino sempre al centro del conflitto tra umana e divina volontà. Inoltre, in entrambi i casi la schiacciante supremazia di un più ampio e profondo disegno contrasta con una passione terrena. Ambedue mostrano ancora un simile rapporto affettivo nei confronti delle sorelle Anna e Ismene. Se del personaggio e del comportamento di Didone si è avuto modo di vedere alcuni tratti mascolini, similmente, Ismene ricorda alla sorella le limitazioni proprie della loro natura di donna 162 ARISTOTELE, Dell’arte poetica, XIII.2.22. 163 Ivi, XIII.2.20-21. 164 J. B. MOLES, Aristotle and Dido’s “hamartia”, in «Greece&Rome», XXXI, n°1, April 1984, p. 49. 165 Riguardo a cui l’autore, secondo Moles (ivi, p. 51) “fa un passo fuori dal campo della narrazione e pronuncia il proprio giudizio”. 166 Ibidem. Secondo G. WILLIAMS (Tradition and Originality in Roman Poetry, Oxford, Clarendon Press, 1968, p. 379) in questa frase di Didone si potrebbe suonare quasi riconoscere un’eco di quanto detto, in Tucidide (II.12.3), dall’ambasciatore spartano alla fine dell’ultimo consulto di pace prima della guerra del Peloponneso: «ἡ ἡµέρα τοῖς Ἕλλησι µεγάλων κακῶν ἄρξει». 167 R. H. KLAUSEN, Aeneas und die Penaten, Hamburg und Gotha, im Verlag von Friederich und Andreas Perthes, 1839- 1840, I, 512. 168 T. DE GRAFF, Antigone and Dido, in «The Classical Weekly», vol. 25, n° 19, whole n°682, 1932, p. 148-150. 30 (“Bisogna tener presente questo: siamo nate donne, non fatte per combattere contro gli uomini”169), ed ambedue hanno avuto modo di dimostrare la loro assoluta lealtà, l’eroina tebana condividendo l’esilio del padre per tutta la durata della vita di Edipo, la regina d’origine fenicia con la sua estrema fedeltà al marito assassinato. Le due situazioni drammatiche pongono le due donne al centro di un momento di crisi: Antigone, come accennato dalla versione eschilea dei Sette contro Tebe, è posta di fronte all’alternativa tra l’obbedienza all’editto creonteo che vieta la sepoltura di Polinice e la sua volontà, o imperativo morale, di adempiere il proprio compito nei confronti del fratello morto; Didone si trova di fronte alla sempre più drammatica percezione che la passione crescente per Enea possa far vacillare la volontà di tener fede alla sacralità del voto nei confronti del coniuge defunto: «in each case, the problem has to do with obligations to the dead»170. Benché entrambe avvertano il bisogno di metter al corrente di questi drammi interiori le persone a loro più care171, anche per riceverne consiglio, sia in un caso che nell’altro – senza troppa esitazione nel caso di Antigone, con maggior travaglio psicologico per quel che concerne Didone – la decisione finale sembra sin dall’inizio già determinata; alla luce di ciò non stupisce una certa somiglianza nei termini con cui le protagoniste rivolgono alle proprie sorelle: ὦ κοινὸν αὐτάδελφον Ἰσµήνης κάρα, (Antigone, 1) “Anna soror, quae me suspensam insomnia terrent […] Anna, fabeor enim, miseri post fata Sychaei Coniugis et sparsosfraterna caede penatis, […] (Eneide, IV, 9-29). La grandezza delle due donne emerge ancor più alla luce dei consigli, alquanto limitati e poco comprensivi del dissidio lacerante l’animo delle più profonde personalità delle congiunte: Ismene infatti, alla rivelazione da parte di Antigone di voler onorare il fratello con l’estremo rito, dopo aver posto inquieta il quesito in merito (ἢ γὰρ νοεῖς θάπτειν σφ᾽, ἀπόρρητον πόλει; 172), avverte la sorella dei possibili rischi, rispetto alla più passivamente tranquilla obbedienza alla legge: νῦν δ᾽ αὖ µόνα δὴ νὼ λελειµµένα σκόπει ὅσῳ κάκιστ᾽ ὀλούµεθ᾽, εἰ νόµου βίᾳ ψῆφον τυράννων ἢ κράτη παρέξιµεν. (Antigone, 58-60) 169 Antigone, 61-62. 170 T. DE GRAFF, op. cit., p. 149. 171 Se Ismene rischia la vita recapitando all’esiliato Edipo importanti messaggi, al quale rimane fedele, esattamente come nei confronti della sorella, Anna preferisce schierarsi al fianco di Didone, sebbene – per quel che è dato sapere dall’Eneide – tra lei e il fratello Pigmalione non ci furono mai particolari contrasti. Proprio il rapporto Didone-Anna, con particolare riferimento al ruolo del(la) confidente, è visto come modello per tutta una serie di scrittori epici rinascimentali d’area britannica, da L. WANN, The Rôle of confidant(e) in the Renaissance Epic («Zeitschrift für Englische Philologie», Volume 1927, Issue 51, p. 63 e passim). 172 SOFOCLE, Antigone, 44. 31 mentre Anna, mossa da meri interessi d’ordine pratico e incurante o inconsapevole dei veteris vestigia flammae173 che ritornano a scuotere la sorella, le domanda: solane perpetua maerens carpere inventa, nec dulcis natos, Veneris nec praemia noris? id cinerem aut manis credis curare sepultos? […] Nec venit in mentem, quorum consederis arvis? […] Quid bella Tyro surgentia dicam Germanique minas? (Eneide, IV, 34-44) Una differenza fondamentale sta però nel fatto che se l’eroina del ciclo tebano, nonostante quel che ne pensi Ismene, rimane irremovibilmente ferma nei suoi propositi, dal momento che εἴκειν δ᾽ οὐκ ἐπίσταται κακοῖς174, Didone invece cede, non tanto in nome della concretezza alla base dei ragionamenti di Anna, bensì perché si accorge che, rispetto alla pur nobile fedeltà a Sicheo, la forza della nuova passione risulta sempre più soverchiante, nonostante a causa di questa finirà omnino capta ac deserta175. Condivisibile è l’opinione di De Graff176 secondo cui entrambe le sorelle consigliere, se peccano di incomprensione nei confronti dei drammi che affligono Antigone e Didone, non vengono mai loro meno per quel che riguarda la lealtà. Al rifiuto posto da Antigone a Ismene circa il diritto di scegliere tra la gloria o una sorte avversa, quest’ultima sostiene: µήτοι, κασιγνήτη, µ᾽ ἀτιµάσῃς τὸ µὴ οὐ θανεῖν τε σὺν σοὶ τὸν θανόντα θ᾽ ἁγνίσαι (Antigone, 544-545) e come estrema dimostrazione d’affetto ammette la sua impossibilità di vivere, privata della sorella177 . Un simile tono di rimprovero si può cogliere, seppur non in modo altrettanto diretto, nelle parole di Didone: Tu lacrimis evicta meis, tu prima furentem His, germana, malis oneras, atque obicis hosti (Eneide, IV, 548-549). Una certa similitudine, inoltre, è possibile riscontrarla tra i tentativi di Ismene di moderare la collera di Creonte e l’intercessione presso Enea che tenta Anna 178. Infine, sulla scorta di quanto già osservato da 173 VIRGILIO, Eneide, IV, 23. 174 SOFOCLE, Antigone, 472. 175 VIRGILIO, Eneide, IV, 330. 176 T. DE GRAF, op. it., p. 149. 177 καὶ τίς βίος µοι σοῦ λελειµµένῃ φίλος; (Antigone, 458). Alla domanda, all’interno dell’incalzante sticomitia, segue subito la piccata risposta della protagonista Κρέοντ᾽ ἐρώτα: τοῦδε γὰρ σὺ κηδεµών. 32 Otto Ribeck179, è anche possibile ipotizzare un ulteriore legame tra il quarto libro del poema virgiliano e la tragedia sofoclea, con un trait d’union costituito da alcuni frammenti superstiti dell’Antigona di Accio: ποίαν παρεξελθοῦσα δαιµόνων δίκην; τί χρή µε τὴν δύστηνον ἐς θεοὺς ἔτι βλέπειν; τίν᾽ αὐδᾶν ξυµµάχων; ἐπεί γε δὴ τὴν δυσσέβειαν εὐσεβοῦσ᾽, ἐκτησάµην. (Antigone, 921-924) iam iam neque di regunt neque profecto deum supremus rex curat hominibus (Antigona, fr. 5)180 […] iam iam nec maxima Iuno Nec Saturnius haec oculis pater aspicit aequis (Eneide, IV, 371-372) 6. Se si tiene presente la versione epitomizzata che Marco Giuniano Giustino fornisce delle Historiae Philippicae di Pompeo Trogo, Didone non sarebbe morta gettandosi nella pira ardente, bensì lasciandosi cadere sulla spada181, la cui provenienza, come detto chiaramente nel versi 646-647 del IV libro182, è certamente troiana. Questo, definito appunto come «Schwert-Motiv» da Eckard Lefèvre183, è un cruciale denominatore comune tra la vicenda della regina fenicia e la fine di Aiace Telamonio, con particolare riferimento alla tragedia sofoclea. Ad avvalorare la presenza di alcune analogie tra il suicidio di Didone e quello di Aiace, si possono citare due passi di Macrobio e Servio184, cui si può aggiungere tuttavia il commento di Juan Lodovico de la Cerda, che scrisse a proposito: 178 Per Anna la tragedia consiste nel constatare amaramente che Didone decide di morire sola, rendendo vano tutto l’affetto verso di lei in ogni momento dimostrato: quid primum deserta querar? Comitemne sororem / sprevisti moriens? Eadem me ad fata vocasses, / idem ambas ferro dolor atque eadem hora tulisset. (Eneide, IV, 677-679). 179 O. RIBBECK, (edidit) TRAGICORUM ROMANORUM FRAGMENTA, Leipzig, Teubner, 1897, p. 178. 180 Cit. in Sophocles (ed. by D. Greene and Richard Lattimore), Chicago&London, University of Chicago Press, 1969, XXXIX. In queste pagine viene ribadita la fondamentale osservazione fatta da Ribbeck che non c’è certezza che le parole siano effettivamente pronunciate dalla protagonista. A proposito dei consigli elargiti da Ismene alla sorella, il secondo frammento della medesima tragedia di Accio quanto magis te isti modi esse intellego / Tanto, Antigona, magis me par est tibi consumere et parcere viene connesso da Macrobio (Sat. VI.2.17) con le parole pronunciate da re Latino a Turno […] (Eneide, XII, 19-21) quantum ipse feroci / virtute exsuperas, tanto me impensius aecum est / consumere atque omnis metuentem expendere casus. 181 «sumpto gladio, pyram conscendit atque ita ad populum respiciens ituram se ad virum, sicut praeceperint, dicit vitamque et gladio finivit» (Trogi Pompei historiarum Philippicarum Epitoma, XVIII.6.6). (XVIII. 6. 6) 182 […] ensemque recludit / Dardanium, non hos quaesitum munus in usus. 183 E. LEFÈVRE, Dido und Aias – Ein Beitrag zur römischen Tragödie, in «Abhandlungen der Geistes-und Sozialwissenschaftichen Klasse», Akademie der Wissenschaftenund der Literatur, Jg. 1978, n°2, pp. 5-28. 184 Cfr. R. LAMACCHIA, Didone e Aiace (in margine a una pagina di esegesi virgiliana antica), in «Studi di poesia latina in onore di Antonio Traglia», Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, I, p. 432. Il primo (Sat., V.2.14), elencando una serie di loci communes tra l’Eneide e l’Odissea e parlando della discesa agli inferi di Enea, scrive: «ibi Palinurus Elpenori, sed et infesto Aiaci infesta Dido et Tiresiae consiliis Anchisae monita respondent», mentre il secondo, come commento al verso 33 «Credibile est, contendisse Virgilium ad exemplum Soph. in Aiace: ubi Aiax ipse iā moriturus, Atridisque imprecatus, ad Solem dirigit sermonem, hunc in modum, σὺ δ᾽, ὦ τὸν αἰπὺν οὐρανὸν διφρηλατῶν Ἥλιε, πατρῴαν τὴν ἐµὴν ὅταν χθόνα ἴδῃς, ἐπισχὼν χρυσόνωτον ἡνίαν ἄγγειλον ἄτας τὰς ἐµὰς µόρον τ᾽ ἐµὸν γέροντι πατρὶ τῇ τε δυστήνῳ τροφῷ. [Aiace, 845-849]. […] Ex hac imitatione apparet eo consilio aduocatum Solem ab Elissa ante diras, ut hae quocunque terrarum perueniant, Sole ipso, qui videt, nuntium perferente»185». Proprio in virtù di ciò è quindi ipotizzabile una contaminatio virgiliana delle due versioni differenti circa la morte di Didone: al più arcaico motivo della pira, intriso di valenze mitico-magiche, si unisce sovrapponendosi quello di carattere più strettamente eroico legato alla spada, trait d’union con il motivo sofocleo di Aiace. In effetti vi sono, tra i due testi, alcune stringenti somiglianze. In primo luogo, come le accalorate parole di Tecmessa, in preda alla disperazione di fronte ad una prospettiva di solitudine: ἐµοὶ γὰρ οὐκέτ᾽ ἔστιν εἰς ὅ τι βλέπω πλὴν σοῦ. σὺ γάρ µοι πατρίδ᾽ ᾔστωσας δόρει, καὶ µητέρ᾽ ἄλλη µοῖρα τὸν φύσαντά τε καθεῖλεν Ἅιδου θανασίµους οἰκήτορας. (Aiace, 514-517) possono già, almeno in parte, riflettere in nuce, la situazione della regina cartaginese, così dell’ imprecazione dolorosa, intrisa di memorie, pronunciata dalla figlia del re di Frigia fatta schiava: καί σ᾽ ἀντιάζω πρός τ᾽ ἐφεστίου ∆ιὸς εὐνῆς τε τῆς σῆς […] (Aiace, 491-492) è possibile trovare un’eco nello sfogo di Didone (Eneide, IV, 313-319) memore della supposta stabilità di un legame invece già finito, nonostante il suggello del giuramento, di cui già sono state osservate le molteplici connessioni. Ma le analogie più stringenti sembrano tuttavia riguardare Didone e il protagonista del testo sofocleo. La constatazione dell’impossibilità d’azione o di valida alternativa, che si apre in entrambi i casi con una domanda, già sottintende l’unica e radicale soluzione nella morte, essendo per il primo impossibile, perso l’onore, ritornare presso il padre, mentre per la seconda non è ormai più ipotizzabile un futuro di dignità e libertà: virgiliano [Aeneas] lenibat dictis / animum lacrimasque ciebat (VI, 468), spiega: «tractum autem est hoc de Homero qui inducit Aiacis umbram Ulixis conloquia fugientem, quod ei fuerat causa mortis». 185 P. Virgilii Maronis Æneidos Libri Sex priores Argumentis Explicationibus et Notis illustrata a Ioanne Ludovico de la Cerda toletano societatis Iesu. Lugduni, 1612, p. 472. 34 καὶ νῦν τί χρὴ δρᾶν; ὅστις ἐµφανῶς θεοῖς ἐχθαίροµαι, µισεῖ δέ µ᾽ Ἑλλήνων στρατός, ἔχθει δὲ Τροία πᾶσα καὶ πεδία τάδε. πότερα πρὸς οἴκους, ναυλόχους λιπὼν ἕδρας µόνους τ᾽ Ἀτρείδας, πέλαγος Αἰγαῖον περῶ; καὶ ποῖον ὄµµα πατρὶ δηλώσω φανεὶς Τελαµῶνι; […] (Aiace, 457-463) “En quin ago? Rursune procos inrisa priores, experiar Nomadumque petam conubia supplex, quos ego sim totiens iam designata maritos? Iliacas igitur classes atque ultima Teucrum iussa sequar? Quiane ausilio iuvat ante levatos et bene apud memores veteris stat gratia facti? (Eneide, IV, 534-539). Una similitudine è possibile tracciare anche tra le due invocazioni che, in punto di morte, pronunciano entrambi i protagonisti: ambedue, nel desiderio di subitanea morte, si raccomandano – il primo ad una divinità, la seconda alla nutrice Barce, persona terrena, ma assolutamente fidata – affinché il loro corpo sia consegnato alle persone più care186: σὺ πρῶτος, ὦ Ζεῦ, καὶ γὰρ εἰκός, ἄρκεσον. αἰτήσοµαι δέ σ᾽ οὐ µακρὸν γέρας λαχεῖν. πέµψον τιν᾽ ἡµῖν ἄγγελον, κακὴν φάτιν Τεύκρῳ φέροντα, πρῶτος ὥς µε βαστάσῃ πεπτῶτα τῷδε περὶ νεορράντῳ ξίφει, καὶ µὴ πρὸς ἐχθρῶν του κατοπτευθεὶς πάρος ῥιφθῶ κυσὶν πρόβλητος οἰωνοῖς θ᾽ ἕλωρ. (Aiace, 823-830) “Annam, cara mihi nutrix, huc siste sororem; dic corpus properet fluviali spargere lympha et pecudes secum et mostrata piacula ducat. […] (Eneide, IV, 634-640). Allo stesso modo, l’espressione di Anna: Exstinxisti te meque, soror, populumque patresque Sidonios urbemque tuam. […] (Eneide, IV, 681-682) 186 «She sends for Anna so that her next of kin may be to reach her dead body, compose it, and prepare it for a decent burial. Thus, Ajax prays Zeus to send a messenger for Teucer, who will be the first to lift his body off the sword and protect it from dishonor », G. HIGHET, The speeches in Virgil’s Aeneid, New York, Princeton University Press, 1972, p. 230. 35 sembra riecheggiare quanto esclamato dal Coro, subito dopo che l’inorridita Tecmessa ha annunciato la terribile visione di Aiace “riverso. Caldo nel sangue. Carne che fascia la lama […]”: ὤµοι, κατέπεφνες, ἄναξ, τόνδε συνναύταν, τάλας (Aiace, 901-902). Con particolare riferimento agli incontri avvenuti nel regno dell’oltretomba, è stata notata187 una particolare affinità che lega gli accorati monologhi di Enea e di Ulisse, dove, in entrambi, la consapevolezza dell’atto suicida da parte di Didone e Aiace è ulteriormente aggravata dal peso d’esserne stati la causa. Ma quello che più di tutto sembra legare queste due figure è il piglio eroico/tragico con cui si ergono nella loro drammatica solitudine, oltre la scelta estrema in cui questa inevitabilmente sfocia. E, ritornando anche a quanto affermato all’inizio, proprio nella statura eroica del personaggio Didone – non a caso a questo proposito è stato scritto «Although she was a woman, Dido has the will power of a man»188 – risiede il punto di comunanza più importante con l’eroe greco. Questo risulta ben evidente dalla comparazione tra i versi che, in entrambi i casi, scandagliano a fondo la presa di coscienza del gesto volontario di morte: la solitudine di Aiace (ribadita anche mediante una soluzione di tipo scenico189): τί γὰρ παρ᾽ ἦµαρ ἡµέρα τέρπειν ἔχει προσθεῖσα κἀναθεῖσα τοῦ γε κατθανεῖν; οὐκ ἂν πριαίµην οὐδενὸς λόγου βροτὸν ὅστις κεναῖσιν ἐλπίσιν θερµαίνεται: ἀλλ᾽ ἢ καλῶς ζῆν ἢ καλῶς τεθνηκέναι τὸν εὐγενῆ χρή. […] (Aiace, 475-480) corrisponde a quella di Didone che, sfinita dalla sofferenza e ormai stanca della luce celeste, si sforza di pianificare l’atto di morte. Quest’unica radicale soluzione, come per Aiace, si presenta infatti come «senza alternative, liberatrice dall’angoscia e dal disonore di cui si era macchiata agli occhi dei sudditi e dei popoli circostanti»190 : Ergo ubi concepit furias evicta dolore decrevitque mori, tempus secum ipsa modumque exigit […] (Eneide, IV, 474-476). 187 Cfr. R. LAMACCHIA, op. cit., p. 436. 188 G. HIGHET, op. cit., p. 182. 189 Estremamente calzante è l’osservazione di Eduard Fränkel (Due seminari romani, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1994, p. 34) riguardo la sola uscita di scena di tutta la tragedia da parte del coro, proprio in questo punto: «Aiace è separato da tutto il mondo, e non ha nessuna ragione di parlare con altri […]. La tragedia conduce a questo colmo: il poeta era forzato a usare un mezzo molto raro, forse unico». Secondo Brooks Otis (op. cit., p. 57), è possibile vedere «nella trasposizione Didone/Aiace una reminiscenza tragica ed omerica allo stesso tempo». 190 R. LAMACCHIA, op. it., p. 452. 36 È poi particolarmente in due verbi, entrambi coniugati alla prima persona ed esprimenti morte ἄτιµος Ἀργείοισιν ὧδ᾽ ἀπόλλυµαι (Aiace, 440) […] exuviasque omnis lectumque iugalem, quo perii, […] (Eneide, IV, 494-495) che si esprime la più forte comunanza di tragici destini. Il legame, quindi, tra il concetto di fiero pudor proprio della regina fenicia e quello di αἰδώς che sta alla base del gesto estremo di Aiace finiscono per rafforzare, nella prima, l’immagine di una «virago d’impronta omerico arcaica, [nella quale] amore e onore sono i due risvolti di un medesimo sentimento: l’uno non è concepibile senza l’altro, e se le due componenti per un accidente vengono scisse, l’unica via d’uscita […] resta la morte»191. Ed è in esatta relazione all’accostamento e alla corrispondenza tra i due lemmi αἰδώς / pudor che è collegato il senso di intima lotta con la propria culpa dilaniante Didone. §3 Catullo e il Seneca tragico: analogie con la Didone virgiliana 1. La tematica dell’abbandono e, a questa connessa, quello del giuramento rinnegato, permette di tracciare anche un importante collegamento Euripide – Catullo – Virgilio: delle accorate parole della Medea del primo, infatti, […] εἰ γὰρ ἦσθ᾽ ἄπαις ἔτι, συγγνώστ᾽ ἂν ἦν σοι τοῦδ᾽ ἐρασθῆναι λέχους ὅρκων δὲ φρούδη πίστις, οὐδ᾽ ἔχω µαθεῖν εἰ θεοὺς νοµίζεις τοὺς τότ᾽ οὐκ ἄρχειν ἔτι ἢ καινὰ κεῖσθαι θέσµι᾽ ἀνθρώποις τὰ νῦν, ἐπεὶ σύνοισθά γ᾽ εἰς ἔµ᾽ οὐκ εὔορκος ὤν. φεῦ δεξιὰ χείρ, ἧς σὺ πόλλ᾽ ἐλαµβάνου καὶ τῶνδε γονάτων, ὡς µάτην κεχρῴσµεθα κακοῦ πρὸς ἀνδρός, ἐλπίδων δ᾽ ἡµάρτοµεν (Medea, 490 – 498) è possibile infatti cogliere un’eco192 nell’imprecazione catulliana di Arianna a Teseo: 191 Ivi, p. 457. 192 Come già notato da E. STAMPINI, op. cit., p. 62. Frank Debatin, in Catullus: A Pivotal Personality (in «The Classical Journal», vol. 26 n°3, Dec. 1930, p. 216) fornì una serie di «striking verbal parallels» tra vari loci catulliani e passi dell’Eneide, come ad esempio non datur ac veras audire et reddere voces (Eneide I, 409) e non missas audire queunt nec reddere voces (carme LXIV, 166); Quid Syrtes, aut Sylla mihi, quid vasta Charybdis (Eneide VII, 302) e Quae Syrtis, quae Scylla rapax, quae vasta Charybdis (carme LXIV, 156), come anche Pictus acu chlamydem et ferrugine clarus Hibera (Eneide IX, 582) e Carbasus obscurata dicet ferrugine Hibera (Carme LXIV, 227). 37 “sicine me patriis avectam, perfide, ab aris, perfide, deserto liquisti in litore, Theseu? sicine discedens neglecto numine divum immernor ah devota domum periuria portas? nullane res potuit crudelis flectere mentis consilium? tibi nulla fuit clementia praesto immite ut nostri vellet miserescere pectus? (Carme LXIV, 132-138). […]”. In riferimento a questo carme, Jeffrey Wills193, ancora una volta sulla scorta di precedenti osservazioni194, pone l’attenzione sulla particolare importanza accordata sia da Virgilio che da Catullo ad un aggettivo, che infatti viene ripetuto: dissimulare etiam sperasti, perfide, tantum posse nefas tacitusque mea decedere terra? (Eneide, IV, 305-306) […] Nec tibi diva generis nec Dardanus auctor, perfide, […] (Eneide, IV, 365-366) nel caso di Virgilio, mentre nel carme 64 le parole dell’abbandonata Arianna sono: sicine me patriis avectam, perfide, ab aris, perfide, deserto liquisti in litore, Theseu? (Carme LXIV, 132-133). La geminatio dell’aggettivo caratterizzante l’autore del gesto ha come unica differenza l’entità della interiectio195: questa è infatti costituita da un minimo inciso nel caso di Catullo, mentre si presenta molto più estesa per quel che riguarda il testo virgiliano. La tecnica della «divided allusion»196 viene più volte applicata, dal momento che in entrambi i casi, a discreta distanza, l’aggettivo viene ulteriormente ripreso: […] solam nam perfidus ille te colere, arcanos etiam tibi credere sensus (Eneide, IV, 421-422) perfidus in Cretam religasset navita furem (Carme LXIV, 174). 193 J. WILLIS, Divided allusion: Virgil and the ‘Coma Berenices’, in «Harvard Studies in Classical Philology», vol. 98 (1998), p. 277. 194 A. CARTAULT, L’Art de Vergile dans l’Enéide, Paris, Presses Universitaires de France, 1926, I, p. 350. 195 Cfr. H. LAUSBERG, Elementi di retorica, Bologna, Il Mulino, 1969, p. 134. 196 Cfr. J. WILLS, op. cit., p. 279. 38 Una sorta di corrispondenza simmetrica risulta inoltre dal fatto che se per quel che riguarda Arianna, si ha un unico discorso, con al suo interno un triplice uso di perfidus, Virgilio utilizza tale aggettivo una volta per ognuna delle tre sequenze discorsive di Didone197: altro punto in comune di non indifferente importanza, tra i due testi, è poi l’eguaglianza del numero di versi (70) del primo, con la somma dei tre gruppi di versi del secondo, e se in entrambi i casi l’aggettivo perfidus è volto a sottolineare l’istanza d’infamia e d’accusa nei confronti di Teseo e Enea, sia nell’Eneide sia nel carme catulliano, la chiusa è all’insegna dell’ira, come dimostrano le minacce di Didone: Litora litoribus contraria, fluctibus undas Imprecor, arma armis: pugnent ipsique nepotesque (Eneide, IV, 628-629) e di Arianna: sed quali solam Theseus me mente reliquit, tali mente, deae, funestet seque suosque (Carme LXIV, 200-201). È ancora possibile trovare altre parentele alquanto evidenti tra due coppie o gruppi di versi virgiliani e catulliani: nel primo caso questo è dimostrato dall’accostamento tra le amareggiate parole di Didone: felix, heu nimium felix, si litora tantum numquam Dardaniae tetigissent nostra carinae (Eneide, IV, 657-658) e l’invocazione a Giove da parte di Arianna: Iuppiter omnipotens, utinam ne tempore primo Cnosia Cecropiae tetigissent litora puppes (Carme LXIV, 171-172), dove l’unica differenza consiste della diversa posizione del verbo (posposto in iperbato da Virgilio e preposto direttamente all’oggetto da Catullo), ma la corrispondenza, a testimonianza dell’estrema somiglianza delle situazioni di Didone ed Arianna, si estende bene anche agli altri lemmi delle frasi198 . Nel secondo caso, invece, diversi termini utilizzati nell’oltretomba da Enea: […] per sidera iuro, per superos et si qua fides tellure sub ima est, invitus, regina, tuo de litore cessi199 (Eneide, VI, 458-460) 197 Osserva a proposito Wills (op. cit., p. 280): «Dido’s three speeches make stronger internal reference to each other and external reference to Ariadne precisely because they so explicitly utilize interlocking pieces of a divided original». 198 Al si tantum (separato in tmesi) virgiliano corrisponde l’utinam di Catullo, come al ne tempore primo sta il numquam; puppes e carinae sono sinonimi accomunati dalla sineddoche, mentre l’unica differenza risiede negli aggettivi riferiti alle navi, cfr. J. WILLS, op. cit., p. 291. 199 Il verso risente ovviamente del precedente Italiam non sponte sequor ( Eneide, IV, 361). 39 sono riscontrabili nel passo pronunciato dalla chioma recisa: invita, o regina, tuo de vertice cessi, invita: adiuro teque tuumque caput,200 digna ferat quod si quis inaniter adiuravit: (Carme LXVI, 39-41), dove in Catullo la frase acquista maggiore ridondanza grazie all’anafora e a varie assonanze ed allitterazioni. Con particolare attenzione alla sfera semantica201, l’istanza di analogia si polarizza sull’utilizzo di due particolari termini: il primo, con piccola differenza suffissale (iuro: Eneide VI, 458 / adiuro: Carme LXVI, 40) in riferimento all’atto del giuramento presente sia in Virgilio che in Catullo, il secondo, in sineddoche, in relazione al fatale taglio: della vita – quindi in senso traslato – nel caso di Didone, della ciocca, nel caso di Berenice. In entrambi i contesti gli autori utilizzano l’ablativo ferro, e sempre in posizione centrale di verso. Ma lo snodo cruciale dell’accostamento tra i due episodi, incentrati sulla recisione di una ciocca di capelli, sta nel fatto che l’uno va a costituire l’esatto contrario dell’altro. La valenza del gesto in un caso assume significati e prelude ad esiti opposti nell’altro: mentre infatti nell’episodio di Berenice l’offerta è foriera della ricongiunzione al marito, sotto forma di stella, in grazia della mancanza di adulterio, come testimoniato dalle parole di Conone: Sed quae se impuro dedit adulterio, illius a mala dona levis bibat irrita pulvis: namque ego ad indignis praemia nulla peto. (Carme LXVI, 83-85) nel caso della regina fenicia il gesto202 – supremo explicit della ‘tragedia’ del IV libro – sancisce l’addio alla vita, l’atto estremo di riconoscimento della colpa d’adulterio: […] “Hunc ego Diti Sacrum iussa fero teque isto corpore salvo”. Sic ait et dextra crinem secat: omnis et una Dilapsus calor atque in ventos vita recessit (Eneide, IV, 702-704). Non è d’altronde da scartare del tutto l’ipotesi di Griffith secondo cui nel poema virgiliano vi sarebbe una «implicit importation» della figura di Berenice mediante la «allegorical equation»203 tra la sua discendente Cleopatra e appunto Didone. 200 Il secondo emistichio del pentametro catulliano ha una fortissima somiglianza con il primo del’esametro virgiliano (testor utrumque caput) (VI, 357). 201 R. DREW GRIFFITH, Catullus’ Coma Berenices and Aeneas’ Farewell to Dido, in «Transactions of the American Philological Association», vol. 125 (1995), pp. 47-48. 202 Anche questo, unitamente ad altri importanti fattori comuni (cfr. R. DREW GRIFFITH, op. cit., p. 50 n.7) costituisce un fondamentale trait d’union con la tragedia greca, in particolare con l’Alcesti euripidea, come testimoniano i versi (74-76) pronunciati da Tanato: “Vado, per dare con la spada inizio al rito: la persona, dal cui capo io recida un capello con la spada, è consacrata agli Dei del sottosuolo”. 40 2. A sostegno poi dei rapporti tra la figura di Didone e vari personaggi femminili del Seneca tragico, è possibile partire dalla fama poetica di Virgilio: se questa infatti era già affermata al tempo del filosofo di Cordoba, innegabile era la predilezione di quest’ultimo per l’Eneide204. Ovviamente, un presupposto ad un accostamento di questo tipo risiede ancora nella natura fondamentalmente tragica dell’episodio della Didone virgiliana, di cui un’ulteriore conferma è fornita anche da Austin205: in base a questo assunto, si può, anche sulla scorta di quanto evidenziato da Fantham, ipotizzare che il personaggio greco di Fedra sia stato oggetto di una reinterpretazione senechiana proprio in esatto rapporto alla Didone dell’Eneide. Ancora una volta è infatti possibile mettere in luce diversi punti in comune tra i due casi, come lo sbocciare di un amore contrario ad una certa idea di moralità (passione verso il figliastro / tradimento della memoria del defunto Sicheo), la comprensione / accettazione di questo nuovo sentimento dopo il confronto con una persona fidata (la nutrice nel caso di Fedra, Anna nel caso di Didone) che, seguendo una climax agogica, comporta un’intensificazione dello struggimento206. Lo snodo focale e comune risiede nel confronto tra le donne innamorate e l’oggetto della loro passione che oppone – in un secondo momento, nel caso di Enea – un rifiuto. Una sostanziale differenza sta però nel fatto che mentre Didone incontra prima personalmente il condottiero troiano, per poi affidarsi vanamente alle intermediazioni della sorella, nel caso di Seneca l’intervento della nutrice precede la dichiarazione di Fedra ad Ippolito. Un aspetto presente in entrambi i casi − «absent from other surviving sources for the Phaedra myth»207 − non è tanto il fallimento dell’incontro tra le regine e l’uomo amato, bensì quello dell’esito dell’incontro con Anna e la nutrice. Se infatti, dopo aver riferito dell’inutilità delle preghiere della prima, Virgilio descrive la resistenza di Enea mediante una forte similitudine: Ac velut annoso validam cum robore quercum alpini boreae nunc hinc nunc flatibus illinc eruere inter se certant; it stridor et altae costernunt terram concusso stipite frondes; ipsa haeret scopulis et quantum vertice ad auras aetherias, tantum radice in Tartara tendit: (Eneide, IV, 441-446) la nutrice similmente commenta a proposito di Ippolito: 203 R. GREW GRIFFITH, op. cit., p. 51 n. 10. 204 Cfr. tra gli altri W. S. MAGUINNESS, Seneca and the Poets, in «Hermathena», LXXXVIII, 1956, p. 93 e E. FANTHAM, Virgil’s Dido and Senaca’s tragic Heroines, in «Greece&Rome», second series, vol. 22, n°1, April 1975, p. 2 e passim. 205 «if Vergil had written nothing else […] it would have established his right to stand beside the greatest of the Greek tragedians», op. cit., pp. IX e X. 206 Sebbene con differenti sfumature: «for Phaedra this is in conflict with her former surrender to passion, and led to suggestions of a change of dramatic model by Seneca; for Dido the torment is delayed until after the brief period of happy mutual love, and comes with the news of Aeneas’ departure», E. FANTHAM, op. cit., p. 2. 207 Ibidem. 41 Ut dura cautes undique intractabilis resistit undis et lacessentes aquas longe remittit, verba sic spermit mea - (Fedra, 480-482). In entrambi i casi, tenuti ben presenti le differenze tra i testi di carattere epico – seppur con fortissime valenze drammatiche – e dichiaratamente tragico, la descrizione serve ad approfondire la psicologia dei personaggi, facendone risaltare luci, ombre, abissi ed incertezze. Inoltre, alla luce di una preferenza del termine intractabilis accordata da Seneca in contesto prosastico, insieme all’utilizzo di termini simili come immitis e ferus208, e considerando anche i versi usati da Virgilio per introdurre il paragone con la quercia209, è forse possibile desumere, sulla base appunto del discrimine lessicale tractabilis / intractabilis, che è proprio partendo dal ripudio di Didone che deriva la precisa scelta semantica senechiana, volta a rappresentare una particolare affinità di Ippolito con creature ostiche e selvagge, specie in relazione alla sua pervicace resistenza ad ogni tentazione femminile. Fondamentale, nel primo delinearsi della storia della Didone virgiliana, è la metafora relativa alla passione che consuma come una fiamma e, a questo collegata, l’idea della ferita d’amore. L’incipit del IV libro recita infatti: At regina gravi iamdudum saucia cura vultus alit venis et caeco carpitur igni. (Eneide, IV, 1-2). Il concetto viene ripreso, nonché semanticamente variato /approfondito, in seguito: […] est mollis flamma medullas Interea et tacitum vivt sub pectore volnus. Uritur infelix Dido, totaque vagatur Urbe furens, qualis coniecta cerva sagitta (Eneide, IV, 66-69) Interessante è, a questo proposito, il confronto con alcuni versi senechiani del monologo d’ingresso di Fedra: […] alitur et crescit malum Et ardet intus qualis Aetneo vapor Exundat antro. […] (Fedra, 101-103) che presentano infatti un’indubbia analogia con quelli virgiliani. 208 immitis annos caelibi vitae dicat, / conubia vitat: genus Amazonium scias (230-231) e Amore didicimus vinci feros (240): a parlare sono la nutrice nel primo caso e la protagonista nel secondo. È sempre la nutrice, riferendosi a Ippolito, a dire: quis huius animum flectet intractabilem? (220). 209 […] sed nullis ille movetur / fletibus, aut voces ullas tractabilis audit; / fata obstant placidasque viri deus obstruit aures (IV, 438-440). 42 Catullo viene inoltre a porsi come riferimento comune sia per Virgilio che per lo stesso Seneca: se infatti si può concordare con Fantham210 circa un’influenza catulliana (quam penitus maestas exedit cura medullas, LXVI, 23) per quel che riguarda il verso 66 del Mantovano, anche la similitudine con il vapore dell’Etna presente nella tragedia ha un’eco in un passo del poeta veronese (cum tantum arderem quantum Trinacria rupes, LVIIIb, 53). Ma il dato più importante resta comunque quello incentrato – anche alla luce dei versi senechiani relativi alla passione amorosa qui blandiendo dulce nutrivit malum / sero recusat ferre, quod subiit iugum (Phaedra, 134-135) – sull’idea secondo cui «passion grows and is nourished by the sufferer»211 viene esplicitata da Virgilio e ritorna nelle parole del coro della Phaedra senechiana non habet latam data plaga frontem / sed vorat tectas penitus medullas: passo che suona quale paradigmatica espressione del potere distruttivo dell’amore. Questo, nella sua incubazione, comporta una serie di sintomi che, tanto in Didone, quanto in Fedra, appaiono simili: indecisione, inquietudine, insonnia e dimenticanze attagliano gli animi di entrambe le donne. Su tutto, è possibile notare una particolare vicinanza tra i versi: […] Agnosco veteris vestigia flammae (Eneide, IV, 23) e fatale miserae matris agnosco malum (Fedra, 113). L’immagine della rabbia, che prende Didone allorquando viene messa al corrente della partenza di Enea, viene espressa da Virgilio con il termine aestus: […] ingeminant curae, rursusque resurgens saevit amor, magnoque ira rum fluctuat aestu212 . (Eneide, IV, 531-532) direttamente riferito alla regina cartaginese, e illa dolos dirumque nefas in pectore versat, certa mori, variosque iraum concitat aestus. (Eneide, IV, 563-564) in variatio stilistica, cioè indirettamente riferito a Didone all’interno del discorso di Mercurio al condottiero troiano. Il termine aestus viene raccolto, e differentemente sviluppato, da Ovidio e da Seneca. In particolare, il secondo ne amplifica i significati di tempesta marina, con uno spostamento verso la sfera semantica fluctus / fluctuare. Questo appare chiaramente anche in altre due tragedie, non solo nell’esordio di Clitennestra dell’Agamennone, dove inoltre la valenza del quesito verso se stessa è rafforzata dall’anafora: 210E. FANTHAM, op. cit. p. 5. 211 Ibidem. 212 A sua volta molto vicino a […] magnis curarum fluctuat undis (carme LXIV, 62). 43 Quid, segnis anime, tuta consilia Quid fluctuaris? (Agamennone, 108-109) ma anche in un passo cruciale della Medea213, dove ritorna il lemma aestus: quid, anime, titubas? Ora quid lacrimae rigant variamque nunc huc ira, nunc illuc amor diducit? Anceps aestus incertam rapit: ut saeva rapidi bella cum venti gerunt utrimque fluctus maria discordes agunt dubiumque fervet pelagus, haud aliter meum cor fluctuatur […] (Medea, 937-943). §4 Le altre testimonianze pre-virgiliane e l’ipotesi del frammento n° 7 B (23 Mo) del Bellum Poenicum di Nevio214 Grazie agli indizi presenti in Marco Terenzio Varrone e Ateio Filologo è possibile riscontrare che la leggenda dell’amore infelice tra Didone ed Enea fosse già nota prima di Virgilio. Il primo215 avrebbe infatti visto in Anna, e non nella regina d’origine fenicia, la donna innamorata di Enea tanto da porre fine alla sua passione con il suicidio: questo è chiaramente testimoniato sia da Servio216 che da Servio Danielino217 ai versi 4 e 682 rispettivamente del V e del IV libro dell’Eneide. Un’opera del secondo (An amaverit Didun Aeneas) 218, citata da un grammatico del I secolo a. C., era presumibilmente volta a chiarire i termini e l’entità della storia d’amore. Ma una trattazione della vicenda di Didone precedente la consacrazione ricevuta dal poema virgiliano non può prescindere dalle ipotesi che si sono succedute riguardo il possibile soggetto del frammento neviano tramandato nel IV libro (‘De varia significatione sermonum’) del trattato De compendiosa doctrina di Nonio Marcello: blande et docte percontat Aenea quo pacto Troiam urbem liquori la cui traduzione è: “in modo invitante ed attento domanda come Enea abbia abbandonato la città di Troia”. Marino Barchiesi219, ricostruendo tutta la discussione filologica relativa al passo di Nevio, 213 «in the corresponding self-analysis […] at her time of decision», E. FANTHAM, op. cit., p. 9. 214 Ci si riferisce all’edizione dei frammenti di Barchiesi e Morel. 215 Con molta probabilità nel perduto De Familiis Troianis, cfr. P. BONO-M.V. TESSITORE, cit., pp. 23-24. 216 «sane sciendum Varronem dicere, Aeneam ad Anna amatum». 217 «Varro ait non Didonem sed Annam amore Aenea impulsam se supra rogum imtermisse». 218 Cfr. C. BARWICK, Flavii Sosipari Charisii Artis grammaticae libri V, Lipsiae, in aedibus B. G. Teubneri, 1964, p. 162. 219 M. BARCHIESI, Nevio Epico. Storia, interpretazione, edizione critica dei frammenti del primo epos latino, Padova, Cedam, 1962, p. 477. 44 identifica in Giusto Lipsio e in Ernst Spangenberg gli antesignani dei due gruppi di studiosi fautori e detrattori dell’ipotesi secondo cui Didone sarebbe potuta essere il soggetto mancante della frase. In alternativa a Didone, questo potrebbe essere infatti un hospes italico di Enea (Evandro o Latino). Antonio Mazzarino220, anche sulla scorta di un passo del grammatico Lucio Anneo Cornuto riportato da Carisio, sembra basarsi su una «somiglianza di situazione»221 tra il frammento neviano e la vicenda della Didone virgiliana per identificare in questa il soggetto della frase: si verrebbe così a creare, già in un contesto epico fortemente legato all’Odissea, una situazione d’avventura anticipatrice di quella creata poi da Virgilio. L’altro filone, invece, il cui più autorevole sostenitore è stato Scevola Mariotti222, ha escluso la possibilità che sia Didone a proporre il quesito, motivando tale posizione sulla base dei frammenti 17 e 21 Morel, in cui si dà già per avvenuto l’arrivo di Enea in terra italica. D’altronde, «l’esistenza nel poema del personaggio di Didone non è legata necessariamente all’identità dell’interrogante»223: in altre parole, è possibile congetturare un incontro tra Enea e la regina cartaginese pur tenendo salda l’identità ‘italica’ dello sconosciuto che formula la domanda224 . Questo assunto sembra ricevere ulteriori conferme anche alla luce degli accostamenti operati da Serrao225 con passi delle Divinae Institutiones di Lattanzio e dell’Origo gentis Romanae. La coincidenza o meno del soggetto della domanda con Didone è d’altronde legata alla più ampia questione relativa alla spiegazione fornita da Nevio della origo belli Punici e all’entità di un’ipotetica origo Carthaginis – non provata neanche in Ennio – da contrapporre alla origo Romae. L’unico dato che però, allo stato attuale, sembra indiscutibile è che, tanto per il frammento neviano, quanto anche per l’unica attestazione enniana del nome di Didone: Poenos Didone oriundos (Annali, VIII, 179)226 si è oggettivamente in possesso di troppi pochi dati per poter elaborare congetture d’ampio respiro circa la tradizione pre-virgiliana della regina punica. 220 Il racconto di Enea: per un’interpretazione dell’Iliuperside virgiliana, Torino, Loescher, 1955, pp. 53-59. Di avviso simile anche si era già mostrato Władysław Strzelecki (De Neviano Belli Punici carmine quaestiones selectae, Nakladem Polskiej Akademij Umejetnosci, Kraków, 1935, e Cnaei Naevii Belli Punici carminis quae supersunt, Leipzig, 1964, p. 69). 221 G. SERRAO, Nevio, ‘Bellum Punicum’, fr. 23 Mo., in «Helikon», V, 1965, p. 515. L’intera quaestio relativa a questo problema è riassunta in R. LAMACCHIA, op. cit., p. 441 n.21. 222 S. MARIOTTI, Il ‘Bellum Punicum’ e l’arte di Nevio, Roma, Signorelli, 1955, p. 27 e passim. Del medesimo parere anche J. PERRET, Les origines de la légende troyenne de Rome, Paris, Les belles letttres, 1942, pp. 95-99. 223 M. BARCHIESI, op. cit., p. 478. 224 Secondo l’esempio odissiaco di Alcinoo che chiede notizie riguardo le peregrinazioni dell’eroe, E. SPANGERBERG (Quinti Ennii Annalium Libri 18 fragmenta. Post Pauli Merulae curas iterumrecensita, auctiora, reconcinnata, et illustrata. Accedunt Cnaei Naevii librorum De Bello Punico fragmenta collecta, composita et illustrata, Lipsiae, sumptibus Librariae hahnianae, 1825, p. 193) propone il nome di Latino, mentre Rudolph Heinich Klausen (op. cit., p. 193), seguito da N. TERZAGHI (Studi sull’antica poesia latina: il principio del ‘Bellum Punicum’, in «L’Arcadia», 12, 1928, p. 37) propendono per Evandro. 225 G. SERRAO, op. cit., pp. 516-518. 226 Si adotta la catalogazione di Antonio Traglia (cfr. «POETI LATINI ARCAICI», a cura di Antonio Traglia, Torino, UTET, 1996, p. 451). 45 40 Capitolo II LA DIDONE VIRGILIANA 41 §1 Il concetto di fides, i valori politico-sociali virgiliani e la valenza dolorosa del racconto di Enea 1. Affrontando la figura di Didone all’interno dell’intera vicenda dell’Eneide è forse bene porre in primo luogo l’attenzione su due aspetti: la dimensione d’autonomia propria della regina rispetto ad Enea («sia per quanto riguarda […] la sua vicenda storica, sia per quanto riguarda la sua trasformazione mitica e artistica»1 ) e lo sbilanciamento che la critica ha talvolta dimostrato verso un’interpretazione esageratamente/esclusivamente ‘sentimentale’ nella lettura – specie del IV libro – della storia della regina fenicia2 . È comunque una coincidenza significativa il fatto che Enea senta pronunciare per la prima volta il nome di Didone dalla bocca di Venere3 (Eneide, I, 335-342): Tum Venus: […] Imperium Dido tyria regit urbe profecta, Germanum fugiens. Longa est iniuria, longae Ambages, sed summa sequar fastigia rerum. AC […] Or n’è capo e regina Dido che, da l’insidie del fratello Fuggendo, è qui venuta. A dirne il tutto Lunga fôra novella e lungo intrico. VA RCO […] Dido, sfuggita Alle insidie fraterne, i Tirj suoi Qui trasportati regge. Or lunga e oscura Del suo soffrir fora la storia. Ond’io Breve ti narro e le cagioni e il frutto. † Didone regge il comando, partita da Tiro per fuggire il fratello. Lunga storia d’offese, lungo intrico, ma seguirò i sommi capi. Al primo aspetto, inoltre, è legata la questione della fondazione della città di Cartagine. A questo proposito, molto interessanti sono le testimonianze fornite da Dionigi il Periegeta (II secolo d. C.) nella Periegesi, dal già citato Prisciano di Cesarea (V secolo d. C.) nella parafrasi di quest’ultima opera ed anche da Eustazio di Tessalonica (XII secolo d. C.) nei Commentarii: tutte e tre le fonti parlano della leggenda della pelle di bue scaltramente utilizzata da Didone4 . Nel rapporto tra quest’ultima ed Enea cruciale è il concetto di fides (sancito dal giuramento di cui si è visto il parallelo con quello tra Medea e Giasone) e il tradimento che tale valore subisce. Questo è in stretta relazione con i problemi interpretativi posti dal termine dextera5 nei versi 307- 308 del IV libro: 1 P. BONO-M.V. TESSITORE, op. cit., p. 59. 2 «Emphasis has been placed on Dido as a sentimental heroine at the expense of a fact obvious to every reader of the poem, namely that Vergil also presents her as a political woman, the ruler of a city destined to be the rival of Rome», RICHARD C. MONTI, The Dido episode and the Aeneid, Leiden, Brill, 1981, p. 1. 3 Cfr. E. PARATORE, Commento al libro I dell’Eneide, in VIRGILIO, Eneide (libri I – II), traduzione di Luca Canali, Milano, Mondadori (Fondazione Lorenzo Valla), 1978, p. 180. 4 Cfr. Appendice I. 5 Il concetto di dextera nel preciso significato di mano destra ricorre molte volte nel poema virgiliano: «in the majority of the cases the word [dextera] merely designates the right hand in its functional aspect (e.g. engaged in battle, greetings, celebrating rites). In contrast to these altogether expected uses, the term appears a number of times as the palpable expression of an individual’s trustworthiness within the context of various types of personal and political relationships», RICHARD C. MONTI, op. cit., p. 5. Gli unici riferimenti riportati dal Thesaurus Linguae Latinae (Leipzig, Teubner Verlagsgesellschaft, vol. V, 1, 1975, p. 934) al contesto del matrimonio citati per la ‘voce’ dextera sono tratti dall’Amphitruo plautino (per dexteram tuam te, Alcumena, oro ,opsecro / da mihi hanc veniam, ignosce, irata ne sies, vv. 923-924 sono le ironiche parole di Giove supplichevole travestito da Anfitrione) e dalle Metamorfosi ovidiane (XIV, 294-298), in relazione all’incontro di Ulisse con Circe (ille domum Circes et ad insidiosa vocatus / pocula conantem virga mulcere capillos / reppulit et stricto pavidam deterruit ense. / Inde fides dextraeque datae thalamoque receptus / coniugii dotem sociorum corpora poscit). Visto l’ironico uso dei termini Coniugium e dos, il passo può essere una dimostrazione a contrario della stretta della mano destra come reciproco patto di fedeltà. 42 Nec te noster amor nec te data dextera quondam Nec moritura tenet crudeli funere Dido? AC […] E del mio amore, de la tua data fé, di quella morte che ne farà la sfortunata Dido, punto non ti sovviene e non ti cale? VA RCO […] Nulla Te non rattiene omai? Né data destra; né amor giurato; né Dido infelice, Che ne morrà di cruda morte? Ahi fero! Né il nostro amore, la destra, che tu pur m’hai data, né può tenerti Didone, che morrà crudelmente? e poco oltre (versi 314-315) Mene fugis? Per ego has lacrimas dextramque tuam te (Quando aliud mihi iam miserae nihil ipsa reliqui) AC […] E me lasci, e me fuggi? Deh! Per queste mie lagrime, per quello che tu della tua fé pegno mi desti (poiché a Dido infelice altro non resta che a sé tolto non aggia) […] VA RCO Forse me sfuggi?Ah! Per queste mie lagrime Per questa destra tua, (da ch’io null’altro Per me stessa, ahi me misera! serbava) Me fuggi? Oh per queste mie lagrime, per la tua destra (quando null’altro io stessa ho lasciato a me misera) similmente al secondo emistichio del verso 597 En dextra fidesque! pronunciato dalla ormai sconvolta regina cartaginese. Sebbene sia stata sicuramente accolta nel mondo romano, nello specifico dell’episodio di Didone l’associazione tra dextera/dextra e l’idea di fides6 ha anche dato adito a interpretazioni troppo assolute 7 . Nonostante sin dall’età repubblicana l’utilizzo della mano destra, specie in alcune occasioni particolari, abbia simbolicamente rappresentato la fides e a ciò connesso, amicitia, clientela e anche hospitium, lo stringersi le mani destre è stato piuttosto raramente inteso come suggello di fedeltà matrimoniale: «if dextera in Aeneid IV.307 and 314 means conjugal fidelity, it would be an anomalous usage»8 . Da questa constatazione derivano problemi di natura interpretativa circa il vero senso del lamento di Didone e l’effettiva natura della fides tradita. Il termine dextera/dextra viene piuttosto inteso da Virgilio9 ‒ in linea con quanto genericamente fatto in età repubblicana – all’interno di più ampi contesti di relazioni interpersonali, non esclusivamente politici. Da un punto di vista di testimonianze relative alla storia di Roma questo può essere 6 Cfr. P. BOYANCÉ, La Main de Fides, in «Latomus - Hommage à Jean Bayet», 1964, pp. 101-105. 7 Cfr. G. AMEYE: «Énée est impie pour Didon parce que les serments d’amour, dextra, fides, sont sacrés pour elle», in “Eadem impia Fama…detulit”, «Revue des Études Latins», vol. 44, 1966, p. 325 n°1. 8 RICHARD C. MONTI, op. cit., p. 4. 9 Ricorrente è l’associazione tra il concetto di fides e quello di foedus «as the symbol of the assumption of obbligations in political relationships», ivi, p. 6. A dimostrazione di ciò bastino i versi di Amata che tenta di dissuadere Latino dal proposito di matrimonio dinastico di Enea con Lavinia, ricordandogli le sue responsabilità verso Turno (quid tua sancta fides? Quid cura antiqua tuorum / et consanguineo totiens data dextera Turno? VII, 365-366) e quelli di Diomede che esorta i Latini a costituire un’unica alleanza con Enea ([…] coeant in foedera dextrae / qua datur […] XI, 292-293). A sua volta, particolarmente stringente è la relazione polisemica tra foedare e foedus: «Foedare è un termine che Virgilio usa con parsimonia: esso è limitato alla sola Eneide, in cui occorre undici volte. Raramente testimoniati anche l’aggettivo e l’avverbio corrispondenti, foedus (in cinque passi eneadici e in uno delle Georgiche) e foede (due volte entrambe nell’Eneide) […]. Prima di fare il suo ingresso nella poesia epico-didascalica con Lucrezio, [questa famiglia lessicale] è ristretta ai testi drammatici, comici in particolare […]. I testi virgiliani confermano sostanzialmente tale semantica di foedare, oltre che di foedus e foede. Vi emerge però una significativa connessione di questa voce con il tema della morte dell’eroe. In tre passi (II, 286; VII, 575; XII, 99) essa è infatti usata per descrivere il volto, o il capo, di un guerriero defunto, sfigurato dal dileggio del nemico ed imbrattato di sangue e/o di polvere», M. RIVOLTELLA, Le forme del morire. La gestualità nelle scene di morte dell’ “Eneide”, Milano, Vita e Pensiero, 2005, pp. 8-9. 43 documentato ad esempio in Livio, quando lo storico parla del primo leggendario incontro tra Latino ed Enea10, mentre l’uso del termine quale garanzia di fiducia ed affidabilità è ben frequente in Cicerone 11 . In virtù di ciò è allora possibile ipotizzare che alla base del dolore di Didone, particolarmente esemplificato nel suo lamento (IV, 371-378) vi possa essere anche una venatura di natura politica, vista anche l’assistenza fornita alla flotta troiana. Questo non deve però neanche portare a dimenticare che quello della regina fenicia resta comunque il suicidio di un’amante abbandonata12 . 2. È allora dalla natura dei rapporti e dall’utilizzo di alcuni termini particolari, afferenti alla sfera politica della romanità13 (con particolare attenzione all’età augustea), che è giusto partire per meglio affrontare il testo virgiliano. L’organizzazione sociale era fondata non sui rapporti dialettici tra fazioni divise da differenti idee politiche, bensì piuttosto sulle relazioni tra vari gruppi di persone tra cui vi era un legame di tipo clientelare ad un determinato personaggio. In questo senso, grande importanza ha la parola amicitia, intesa in modo sensibilmente diverso dal senso odierno 14 . Solitamente usato tra persone di pari rango sociale, essa può includere anche rapporti di ospitalità con stranieri: all’amicitia è quindi connesso l’hospitium. Mediante uno scambio di servizi (officia) e favori (beneficia), si estrinseca la natura profondamente personalistica dell’idea romana di politica. Condizione indispensabile per l’amicitia è inoltre la fides, solo elemento in grado di garantire al legame stabilità e chiarezza, e l’importanza sacrale connessa alla fides15 è comprovata dall’utilizzo del termine pietas per indicare l’osservanza a tali obblighi, esattamente come i foedera vengono sanciti sotto la protezione divina. Tali rapporti (e quindi la sfera semantica a questi connessi) sono i medesimi che regolano la relazione che Didone intraprende con Enea ed il suo popolo. È esattamente nel versi 520-558 del primo libro dell’Eneide che l’autore narra i primi sviluppi e l’instaurarsi dei primi rapporti tra Troiani e Cartaginesi. Tutto inizia dalle richieste di Ilioneo, il quale mira sia in primo luogo ad ottenere da quella che considera subito il reggente del popolo cartaginese salvezza per sé e i suoi compagni sia a dimostrare la piena dignità dei profughi troiani. Grande importanza rivestono nelle parole di Ilioneo alcuni moduli comportamentali. In primo luogo viene affrontata la cruciale differenza tra costumi barbari e mondo ‘civilizzato’: in realtà la durezza delle parole di Ilioneo è tale che «Didone avrebbe potuto avrebbe potuto irritarsi di questo giudizio sul suo popolo, ed è proprio un segno della sua humanitas il fatto ch’essa risponda con tanta cordialità e con tanto zelo ospitale alle dure parole del portavoce dei troiani»16. La natura ‘barbara’ dovrebbe emergere dall’ignorare gli appelli d’aiuto mediante la proibizione imposta ai naufraghi di 10 «Dextra data fidem futurae amicitiae sanxisse [Latinum], inde foedus ictum inter duces, inter exercitus salutationem factam, aeneam apud Latinum fuisse in hospitio; ibi Latinum apud penates deos domesticum publico adiunxisse foedus filia Aenae in matrimonium data» (I.1.8-9). 11 Esempio su tutti siano le parole rivolte da Cicerone al proprio cliente Flacco: «O mea dextera illa, mea fides, mea promissa, cum te, si rempublicam conservaremus, omnium honorum praesidio quoad viveres, non modo munitum, sed etiam ornatum fore pollicebatur», Pro Flacco, XLI, 103. 12 Se infatti – come detto in apertura – in alcune sedi si è troppo calcato l’accento sul lato amoroso della storia di Didone, non si deve neanche cadere nell’eccesso opposto, considerando l’infausta fine della storia tra la regina e il condottiero troiano come fallimento di una progettualità politica, come sembra fare appunto Monti (op. cit., p. 8): «She is not criticizing Aeneas for breaking a promise of foreswearing an oath; rather she is blaming him for shirking his responsabilities towards her. She took him in and even gave him a place in her kingdom; he thereby contracted certain obligations towards her which he now refuses to accept and which he moreover has the temerity to say the gods – who protect the observation of such obligations – order him to neglect». 13 Cfr. J. HELLEGOUARC’H, Le Vocabulaire latin des relations et partis politiques sous la République, Paris, Les Belles Lettres, 1963 e J. BLEICKEN, Die Nobilität der römischen Republik, in «Gymnasium» n° 88, 1981, 236–253. Cfr. (anche se ormai datato) M. GELZER, Die Nobilität der römischen Republik, Leipzig, Teubner, 1912. 14 «a term which has little to do with the sentimental notion of friendship», RICHARD C. MONTI, op. cit., p. 9. 15 «Mit “fides” deckt sich vielfach die bedeutung von “officium”, die man mit "gegenseitigen Naheverhältniss" wiedergeben kann», M. GELZER, op. cit., pp. 52-53. 16 E. PARATORE, Commento al libro I dell’Eneide, cit., p. 208. 44 mettersi in salvo. Eloquenti sono i versi 539-543 del I libro (ed in particolare la repetitio usata da Caro, volta a mettere in risalto proprio questo aspetto): Quod genus hoc hominum?Quaeve hunc tam barbara morem Permittit patria? Hospitio prohibemur harenae; Bella cient primaque vetant consistere terra. Si genus humanum et mortalia temnitis arma, At sperate deos memores fandi atque infandi. AC Ma qual sì cruda gente, qual sì fera e barbara città quest’uso approva, che ne sia proibita ancora l’arena? Che guerra ne si muova, e ne si vieti di star ne l’orlo de la terra a pena? VA RCO Ma, qual mai gente inospita, qual terra Barbara è questa? Incontro a noi s’inalza Grido di guerra, e siam respinti, e il porto Negato vienci […] Ma che popolo è questo? Che barbara patria permette una simile usanza? L’asilo della sabbia ci negano, ci fan guerra, ci vietano di porre piede sul lido! Subito dopo segue la presentazione del condottiero Enea17, in cui, con un’indiretta reminiscenza dell’incipit del poema (Arma virumque cano) particolare attenzione viene data alle sue qualità principali consistenti nella iustitia, nella pietas e nell’officium18. Queste precise virtù sono quelle che per Cicerone sembrano costituire l’essenza del termine humanitas. L’ultima andrebbe ad indicare quindi un comportamento civile, e prova ne sia l’utilizzo antifrastico dell’aggettivo barbarus rispetto a humanitas e sinonimico rispetto a inhumanus19 . La missione di Roma è quella di apportare civiltà, giustizia e stabilità, e l’humanitas si diffonde anche mediante la guerra: tu regere imperio populos, Romane, memento (hae tibi erunt artes), pacique imponere morem, parcere subiectis et debellare superbos (Eneide, VI, 851-853) e in questo senso il recondito e più sottile messaggio inviato a Didone consiste nell’ipotetico scambio tra un trattamento barbaro che la flotta troiana potrebbe ricevere e un prezioso bagaglio di conoscenze e civili comportamenti che questa può trasmettere: «the declaration places the onus on Dido to act in acccordance with the norms it proclaims»20 . 17 Rex erat Aeneas nobis, quo iustior alter / nec pietate fuit, nec bello maior et armis. / Quem si fata virum servant, si vestitura aura / aetheria neque adhuc credelibus occubat umbris, / non metus, officio nec te certasse priorem / paeniteat. Sunt et Siculis regioni bus urbes / armaque Troianoque a sanguine clarus Acestes. (I, 544-550). Nel VII libro ancora Ilioneosi presena – in questo caso a Latino – come ambasciatore del popolo troiano, presentando Enea con parole che mostrano forti analogie con quanto detto a Didone: non erimus regno indecores, nec vestra feretur / fama levis tantique abolescit gratia facti, / nec Troiam Ausonios gremio excepisse pigebit; / fata per Aeneae iuro dextramque potentem / sive fide seu quis bello est expertus et armis 18 Cicerone (De Natura Deorum, I, 116), connettendo appunto iustitia e pietas, chiosa: «est enim pietas iustitia adversum deos», mentre nel De Officiis (I.7.23) scrive: «fundamentum est autem iustitae fides». 19 «Pius, dont le sens premier est vraisemblablement (au coeur) pur […] caractérise l’état de celui qui s’est purifié pas l’accomplissement des devoirs qui lui incombaient. Ainsi la pietas appartient au domaine de l’officium; le pius est ò’homme qui s’est acquitté de la dette qu’il a contractée en raison de bienfaits reçus» J. HELLEGOUARC’H, op. cit., p. 276. Cfr. anche RICHARD C. MONTI, op. cit., p. 11 e F. KLIGNER, Römische Geisteswelt, München, Ellermann, 1965, pp. 724 e 743. 20 RICHARD C. MONTI, op. cit., p. 16. Questa facoltà, da parte dei Troiani, di liberare il popolo cartaginese della propria indole barbara in parte potrebbe risultare in contraddizione con l’ accusa (neanche troppo latente), che attraversa l’intero poema, che vede i Troiani, e quindi in particolar modo Enea, come ladri e predoni, come testimoniano le parole di Iarba e Amata: et nunc ille Paris cum semivio comitatu, / Maeonia mentem mitra crinemque madentem / Subnexus, rapto potitur (IV, 215-217) e o genitor, nec miseret nataeque tuique? Nec matris miseret, quam primo Aquilone relinquet / perfidus alta petens abducta virgine praedo? (VII, 360-362). 45 Le parole di Enea nei confronti di Acate (Solve metus; feret haec aliquam tibi fama salutem, I, 463) fungono sostanzialmente da prolessi della risposta di Didone, demissa vultu21, a Ilioneo (I, 562- 566): «Solvite corde metum, Teucri, secludite curas. Res dura et regni novitas me talia cogunt Moliri et late finis custode tueri. Quis genus Aeneadum, quis Troiae nesciat urbem Virtutesque virosque aut tanti incendia belli? […]» AC […] «o miei Troiani, toglietevi dal cuore ogni timore, ogni sospetto. Gli accenti atroci, la novità di questo regno a forza mi fan sì rigorosa, e sì guardinga de’ miei confini. E chi di Troia il nome, chi de’ Troiani i valorosi gesti, e l’incendio non sa di tanta guerra? […]» VA RCO […] «Ogni sospetto, Dardani in bando; ed ogni affanno or esca Dai petti vostri. Io son da scabri casi Astretta, e in un, da signoria favella, A vegliar sempre, e custodir severa Tutti i confini miei. Ma gente al mondo Havvi lontana dal cammin del Sole Tanto, o noi Tirj siamo barbari tanto, Da non saper dell’alta Troia i fatti? Sue forti pugne, i chiari gesti, i prodi Eroi, d’Enea la stirpe? […]» «Sciogliete l’ansia dal cuore, Teucri, lasciate l’angoscia. Dura vita e nuovo regno a questo mi forzano, guardar tutt’intorno con l’armi i confini Ma degli Eneadi chi il sangue, chi ignora Troia e gli uomini e i fatti e tanto incendio di guerra? […]» Il primo verso presenta una struttura geometrica, con il vocativo plurale a separazione di un’analoga esortazione ripetuta (al cui proposito Servio commenta «iteratio est ad augmentum benevolentiae»)22, mentre la Res dura è sempre stata intesa come allusione alla tragedie passate («domus calamitatem», chiosa il Danielino) di Didone. All’interno della narrazione, ad opera di Venere, della storia di Didone grande peso sembra avere l’aspetto politico dell’impresa di quest’ultima: la regina fenicia viene infatti a porsi come dux23 di un fuggitivo gruppo di dissidenti. Se per l’importanza accordata da Virgilio al termine - basti pensare a quanto scritto in riferimento a Pollione nella IV Ecloga24, ma rimarchevole è anche l’uso fatto nella quarta Georgica per indicare gli elementi di comando delle api sotto la cui leadership è adombrata l’ideale tipo di società 21 Valeria Ricottilli («Tum breviter Dido vultum demissa profatur» (Aen. I, 561): individuazione di un «cogitantis gestus» e delle sue funzioni e modalità di rappresentazione nell’Eneide, in «Materiali e discussioni per l'analisi dei testi classici», n° 28, 1992, pp. 179-227, opera un’accurata analisi delle varie problematiche interpretative connesse a quest’espressione di Didone: se la prima e forse più scontata lettura del” tener basso lo sguardo” è stata quella legata all’espressione di un pudore tutto femminile, consono alla situazione (Danielino: «dicendo autem “vultu demissa” aliud genus officii adiecit», p. 181, e condivisa da de la Cerda, op. cit., p. 104 «vultum demissa, quia oratorem, praesertim vero foeminam, pudor decet), viste anche le associazioni operate da Apollonio Rodio al pudore e alla modestia femminile per quel che concerne Medea e Issipile (p. 182 e passim), un’altra possibile interpretazione potrebbe essere quella connessa alla vergogna provata dalla regina cartaginese, come sembra ipotizzare Claudio Donato: «vultum demissa potest sic accipi, ut non solum propter feminam verecundiam vultum deiecerit verum etiam propter obiecta» (p. 185). L’espressione di Didone può essere messa in relazione, inoltre, sia con un più specifico senso di ritrosa timidezza (messo in rilievo dalla versione del 1890 di Walpole “casting down her eyes”, p. 179) sia con un atteggiamento pensoso, come testimoniato da un passo del V canto (vv. 109-111) dell’Inferno dantesco (quand’io intesi quell’anime offense, / china’ il viso, e tanto il tenni basso, / fin che ‘l poeta mi disse: “Che pense?”, p. 192). 22 «molto più elegante che non excludite, eicite, deponite», P. VIRGILIO MARONE, Libro I, commento di A. SALVATORE, Napoli, Loffredo, 1971, p. 62. 23 «dux et auctor […] peuvent tous les deux, soit à tour de role, soit associés, designer un home politique de premier plan», J. HELLEGOUARC’H, op. cit., pp. 325-326. 24 Teque adeo decus hoc aevi, te consule, inibit, / Pollio, et incipient magni procedere menses; / te duce, si qua manent, sceleris vestigia nostri / inrita perpetua solvent formidine terras (Bucoliche, IV, 11-14). 46 rettamente letto da leggi25 ˗ più complicato è capire quanto il poeta mantovano possa aver desunto dalle sue fonti in relazione all’uso politico del termine dux in questo caso riferito a Didone: a questo proposito Timeo e Giustino non sembrano dare indicazioni significative26. È comunque chiaro che le battute tra Didone e Ilioneo sono funzionali a dimostrare l’humanitas (romanamente intesa) della regina cartaginese che, con le sue parole (vv. 565-566) ribatte in maniera arguta e educata alle accuse di barbarismo, dimostrando – conoscendo già l’eco delle gesta di Enea e dei fatti di Troia – di non vivere fuori dal mondo civile. Il supporto (hospitium) 27 offerto da Didone è garantito sia che i profughi decidano di raggiungere le coste siciliane sia che scelgano di restare in territorio cartaginese: «it is significant that only when Dido has proved her humanitas in this way that the magical cloud enshrouding Aeneas evaporates to allow him to speak with her»28. L’osservanza di queste regole che informano i rapporti tra i due popoli condiziona la replica di ringraziamento da parte di Enea (I, 597-610), che viene anche a porsi quale «risposta complessiva ai due discorsi di Ilioneo e Didone»29 «O sola infandos Troiae miserata labores, Quae nos relinquas Danaum, terraeque marisque Omnibus esausto iam casibus, omnium egeo, Urbe domo socias, grates per solvere dignas Non opis est nostrae, Dido, nec quid quid ubique est Gentis Dardaniae, magum quae sparsa per orbem. Di tibi, si qua pios respectant numina, si quid Usquam iustitia est et mens sibi conscia recti, Praemia digna ferant. Quae te tam laeta tulerunt In freta dum fluvii current, dum montibus umbrae Lustrabunt convexa, polus dum sidera pascet, Semper honos nomenque tuum laudesque manebunt, Quae me cumque vocant terrae. […]» AC «[…] A te ricorro, vera regina, a te sola pietosa de le nostre ineffabili fatiche. Tu noi, rimasi al ferro, al fuoco, a l’onde d’ogni strazio bersaglio, d’ogni cosa bisognosi e mendici, nel tuo regno e nel tuo albergo umanamente accogli. A renderti di ciò merito uguale bastante non son io, né fôran quanti de la gente di Dardano discesi Vanno per l’universo oggi dispersi. Ma gli dèi (s’alcun dio de’ buoni ha cura, se nel mondo è giustizia, se si truova chi d’altamente adoperar s’appaghe) te ne dian guiderdone. Età felice! Avventurosi genitori e grandi Che ti diedero al mondo! Infin che i fiumi Si rivolgono al mare, infin ch’a’ monti Si giran l’ombre, infin c’ha stelle il cielo, i tuoi pregi, il tuo nome e le tue lodi mi saran sempre, ovunque io sia, davanti» VA RCO «[…] regina, o tu che dei Trojani affanni Sola prendi pietade; o tu, che degni Del tuo impero novel compagni accorro Noi, degli Achivi avanzo, in terra in mare Noi stancatori d’avversa sorte, D’ogni ajuto mendichi; or, quando mai, Come, potremo rimeritar noi tanti Favori mai? Ciò non fia dato unquanco, Non che a noi, né a quanti altri erran pel mondo Della Dardania stirpe. A te sol ponno «[…] O Sola che provi pietà dell’indicibile angoscia di Troia, e noi, l’avanzo dei Dànai, per terra e per mare sfiniti da tutti i pericoli, di tutto in bisogno, t’associ di patria, di tetto, offrirti degno ricambio non è, Didone, in nostro potere, e non di quanti, dovunque sono di seme troiano, che per l’immensa terra è disperso. Gli dèi, se le Potenze guardano i buoni, se vale qualcosa mai la giustizia, la buona coscienza dell’animo, degni premi ti diano. Quale età fortunata ti ha dato a noi? Chi furono i genitori gloriosi 25 Admiranda tibi levium spectacula rerum / magnanimosque duces totiusque ordine gentis / mores et studia et populos et proela dicam, Georgiche, IV, 3-5. 26 Se il primo si limita a scrivere di Didone che «ἐνθεµένη τὰ χρήµατα µετά τινων πολιτῶν, ἔφευγε», il secondo, con maggior dettalio, spiega che «fugam […] molitur adsumptis quibusquam principibus in societatem, quibus par odium in regem esse eandemque fugiendi cupiditatem arbitraretur» (XVIII.4.9). 27 Ed è esattamente con questo termine che Venere chiama la relazione che si sta instaurando tra i due popoli: Nunc phoenissa tenet Dido blandisque moratur / Vocibus et vereor quo se iunonia vertant / Hospitia […] (I, 670-672). 28 RICHARD C. MONTI, op. cit., p. 24. 29 E. PARATORE, Commento al libro I dell’Eneide, cit., p. 215. 47 Dar pari al merto il guiderdone, i Numi: Se Numi v’ha, che ai píetosi ai giusti Rendan lor dritto: e guiderdon tu stessa Conscia di tua virtude. Età beata, che te produsse! Almi parenti, ond’era Procreata tal donna! Ah, pria tributo Negheran di lor onde al mare i fiumi L’ombre alle valli pria manco verranno, Le stelle al ciel, pria ch’onoranza e laude Alla tua fama io non tributi, ovunque Me chiamerà la sorte mia […]» che tale t’han fatta? Al mare fin che i fiumi corrano e l’ombre nel cavo dei monti s’addensino, e pasca il cielo le stelle, sempre per me il tuo onore e il nome e la gloria vivranno, qualunque terra mi chiami» […]» Se al verso 597 l’autore impiega un aggettivo (infandos) tra i più eloquenti per descrivere la portata della tragedia vissuta dal popolo troiano, con il senso della frase che anticipa proletticamente quanto detto in seguito (Et breviter Troiae supremum audire laborem, II, 11), da un punto di vista poetico è molto interessante il calco lucreziano del verso 608, in cui il polus dum sidera pascet mostra evidenti analogie con l’espressione unde aether sidera pascit (De rerum natura, I, 231)30. Il senso della gloria e del rispetto nei confronti di Didone da parte di Enea risulta inoltre dall’ampiezza del verso 609, identico a Bucolica V, 78. Alle parole di quest’ultimo segue lo stupore («quod iam futuri amoris est signum» secondo Servio) di Didone (I, 613-614)31, nel cui animo l’ammirazione per la fisicità d’Enea inizia a compenetrarsi alla pietà per le sventure patite: Obstipuit primo aspectu Sidonia Dido Casu deinde viri tanto et sic ore locuta est: AC […] Stupì Didone nel primo aspetto d’un sì nuovo caso, e d’un uom tale; indi riprese a dire: VA RCO Da pria l’aspetto, e le vicende quindi D’eroe cotanto, addoppian lo stupore Della Regina, che al fin pur gli dice: Stupefatta rimase Didone Sidonia, anzitutto a vederlo, poi della sorte mirabile dell’eroe,e così disse: La sola ricompensa che Enea si sente in grado di garantire sembra limitarsi alla manifestazione verbale di gratitudine (v. 609). Honos si riferisce alla sfera religiosa, con principale significato di omaggio agli dei, spesso usato in connessione in formule di sacrificio: «transferred to the political sphere, honos is used to designate the payment of the debt that results from receiving an officium or a beneficium, and again belongs to the domain of fides and pietas» 32. Anche il termine laus, desunto dall’originale sfera religiosa, più genericamente può indicare parole di ringraziamento e celebrazione nei confronti di chi, in guerra o in contesto civile, si sia distinto per azioni particolarmente meritevoli: tra i due termini vi è quindi una sicura connessione. Sebbene utilizzati 30 A questo proposito, Salvatore (P. VIRGILIO MARONE, Libro I, op. cit., p. 66) cita il passaggio del De natura deorum (II.46.118): «Sunt autem stellae natura flammae: quo circa terrae, maris, aquarum vaporibus aluntur iis, qui a sole ex agris excitantur». 31 «Questo della sorpresa che desta un personaggio col suo apparire è un motivo importante di tutto il poema (ivi, p. 67)», di cui altri esempi nel corso del poema sono costituiti dalla sorpresa di Andromaca (Arma amens vidit, magnis exterrita mostri, / Deriguit visu in medio, calor ossa relinquit, III, 307-308), di Aceste (At procul excelso miratus vertice montis / Adventum sociasque rates occurrit Acestes, V, 35-36) e di Evandro (Terrentur visu subito cunctisque relictis / Consurgunt mensis […], VIII, 109-110). Il verbo obstipuit in apertura d’esametro «in funzione formulare […] ritorna (sempre nella medesima posizione del verso) in II 378, V 90, VIII 121, IX 197, XII 665», E. PARATORE, Commento al libro I dell’Eneide, cit., p. 217. 32 RICHARD C. MONTI, op. cit., p. 26. 48 non esclusivamente in accezione politica, nelle parole di Enea a Didone i due termini hanno questo preciso significato33 . 3. Immersi nel silenzio notturno della reggia di Didone, su esplicito invito della stessa regina, Enea inizia il racconto della tragedia troiana: tema che dall’Iliupersis di Arctino di Mileto alla Piccola Iliade di Lesche di Lesbo e a La presa di Troia di Trifiodoro godrà ancora di indubbia fortuna. Conticuere omnes intentique ora tenebant Inde toro pater Aeneas sic orsus ab alto: «Infandum, regina, iubes renovare dolorem, Troianas ut opes et lamentabile regnum Eruerint Danai, qua eque ispe miserrima vidi Et quorum pars magna fui. […]» AC Stavan taciti, attenti e disïosi D’udir già tutti, quando il padre Enea In sé raccolto, a così dir da l’alta Sua sponda cominciò: «Dogliosa istoria E d’amara e d’orribil rimembranza, regina eccelsa, a raccontar m’inviti: come la già possente e glorïosa mia patria, or di pietà degna e di pianto, fosse per man de’ Greci arsa e distrutta. VA RCO Taciti tutti, e con volti bramosi D’udire, immoti stavansi. Dall’alto Suo seggio allor, tale incomincia Enea. Amaro duol di fera storia imponi Ch’io rinnovi: o regina arsa e distrutta La ricca Troja, e svelto appien dai Greci Un infelice regno: orridi casi, Ch’io medesmo vedea, di cui gran parte† Io stesso m’era. […]» Tacquero tutti e intenti il viso tendevano. Dall’alta sponda il padre Enea cominciò: Dolore indicibile tu vuoi ch’io rinnovi, o regina, come la forza troiana e il misero regno i Dànai distrussero, le cose tristi che io vidi, e ne fui parte grande. […]» Questi versi iniziali, di cui il primo s’apre con un raro verbo frequentativo34 e si chiude con una clausola enniana35, introducono il primo dei tre motivi principali che costituiscono l’ossatura del II libro dell’Eneide: la narrazione dell’episodio del cavallo (vv. 13-248), la nyctomachia (vv. 250-558) e il tema della famiglia e dell’esilio (vv. 559-804) 36. Se lo stupore dell’attesa del racconto stimolato dalla regina è un topos letterario presente, oltre che nel frammento (87 Vahl²) enniano, anche in Apollonio Rodio (Ἦ, καὶ ὁ µὲν φόρµιγγα σὺν ἀµβροσίῃ σχέθεν αὐδῇ. / τοὶ δ᾽ ἄµοτον λήξαντος ἔτι προύχοντο κάρηνα / πάντες ὁµῶς ὀρθοῖσιν ἐπ᾽ οὔασιν ἠρεµέοντες / κηληθµῷ: τοῖόν σφιν ἐνέλλιπε θέλκτρον ἀοιδῆς.)37, e Dante (a proposito di Casella: Noi eravam tutti fissi e attenti / alle sue note […])38, particolare pregnanza poetica ha il terzo verso, il cui modello potrebbe essere Omero39 , precisamente nell’allocuzione rivolta da Ulisse ad Arete 40 (“ἀργαλέον, βασίλεια, διηνεκέως 33 «Fides and gratia require, if not some more concrete action, at least the everlasting verbal expression of gratitude for the hospitium offered and accepted», ibidem. 34 Cumtacesco, formato dalla preposizione cum + il raro frequentativo di taceo. Osserva Ettore Paratore (Commento al II libro dell’Eneide, op. cit., p. 237) come il verbo, già attestato in due loci plautini, riceva in questa sede proemiale il primo utilizzo in contesto epico. 35 Cfr. Annales, frammento 87 Vahl²: «sic expectabat / populus atque ora tenebat / […]». Il terzo libro dell’Eneide si chiude inoltre con il verso «Conticuit tandem ractoque hic fine quievit», dove per Enea, che ha terminato il racconto, viene usato lo stesso verbo utilizzato all’inizio per gli ascoltatori. 36 A questa tripartizione corrispondono i tre aspetti caratterizzanti poeticamente il libro: «l’aspetto più propriamente epico, con delle punte drammatiche; l’aspetto epico-drammatico; l’aspetto epico-lirico-elegiaco», A. SALVATORE, Introduzione a P. VIRGILIO MARONE, Libro II, commento di A. SALVATORE, Napoli, Loffredo, 1987, p. 7. 37 Argonautiche, I, 512-514. 38 Purgatorio, II, 119-120. 39 Cfr. MACROBIO, Saturnalia, V, 5, 2. 40 «Didone […] è regina, e in parte ricorda Arete, madre di Nausicaa; a Didone Enea racconta la sua storia, come Ulisse la racconta ad Arete e al re Alcinoo», J. KNIGHT, Virgilio romano, Milano, Longanesi, 1949, p. 144. 49 ἀγορεῦσαι / κήδε᾽, ἐπεί µοι πολλὰ δόσαν θεοὶ Οὐρανίωνες: […])41. Il verso riecheggia l’altro O sola infandos Troiae miserata labores (I, 597), proprio in virtù della ripetizione del lemma caratterizzante (derivato da in + for: “indicibile”): se anche questo esametro avrà un indiscutibile influsso su Dante ([…] Tu vuo’ ch’io rinnovelli / disperato dolor che ‘l cor mi preme), Leopardi riesce a rendere magistralmente il senso d’angoscia e dolore espresso da Virgilio mediante una particolare collocazione – in apertura e chiusura di verso – di alcune parole, all’interno di una traduzione letterale42: Ammutirono tutti, e fissi in lui Teneano i volti; allor che il padre Enea Si cominciò dall’alto letto: Infando, O regina, è il dolor cui tu m’imponi Che rinnovelli. I’ dovrò dir da’Greci I Teucri averi e il miserando regno Come fosser diserti: io dire i casi Tristissimi dovrò, cui vidi io stesso E di che fui gran parte. […]43 Aldilà dell’ipotesi secondo cui il vocativo regina (v. 3) potrebbe suonare come una captatio benevolentiae, «la giustapposizione di regina e iubes sembra dar forza all’idea [della] volontà che impone l’eccezionale indugio narrativo»44 reso da Leopardi. Differenza fondamentale tra i due testi greci e l’Eneide è però che mentre nel primo caso lo stupore viene descritto dopo che il racconto è stato fatto, in Virgilio – al fine di dar maggior peso ai contenuti della narrazione – l’attenzione dell’uditorio è descritta prima che Enea inizi a parlare. §2 La tragedia di Didone 1. Anche in relazione con quanto osservato nel capitolo precedente circa l’utilizzo del termine ‘tragedia’45, è effettivamente possibile ‒ considerando complessivamente il IV libro ‒ rinvenire una 41 Odissea, VII, 241-242. 42 Interessante notare quanto scritto dallo stesso Leopardi nell’introduzione alla sua versione del Libro secondo dell’Eneide del 1817, circa il carattere di autonomia che il poeta di Recanati riconosce al secondo libro del poema virgiliano, unitamente al giudizio espresso sulla traduzione di Annibal Caro: «Mal però avviseresti se credessi che ove a questa traduzione non incontrasse mala ventura, io avessi in animo di voltar del pari in Italiano tutta l’Eneide. L’opera mia comincia con il verso: Contiquere omnes, intentique ora tenebant ed ha fine nell’altro: Cessi, et sublato montem genitore petivi E questo perché sarebbe da gareggiare, non già con Annibal Caro (che per avventura pensi che m’impaurisca, e male; poscia ché sì come non ha forse italiano che non più di me ammiri quel grande scrittore, così on ne ha per sorte alcuno che più fermamente creda potersi ancor desiderare in Italia una traduzione della Eneide), ma con Virgilio, in Il secondo libro dell’Eneide – considerazioni di Napoleone Bonaparte, traduzione di Giacomo Leopardi, «Atene e Roma», Pavia, 1924, p. 9. 43 Op. cit., p. 11. 44 E. PARATORE, op. cit., p. 238. 45 Per una completa panoramica bibliografica su questo aspetto cfr. M. FERNANDELLI, Virgilio e l’esperienza tragica. Pensieri fuori moda sul libro IV dell’ “Eneide”, in «Incontri triestini di filologia classica», 2 (2002-2003), pp. 1-4 con relative note. «Si può leggere la vicenda di Enea e Didone come una tragedia, quale infatti è, anche se non è composta secondo moduli teatrali. E il modo migliore di intenderla è in una particolare accezione contemplativa, nonostante la 50 divisione in tre ‘atti’ (1-295; 296-503; 504-705) 46 , a loro volta suddivisibili in ‘scene’: tale suddivisione è sicuramente coerente con il contenuto fortemente tragico, benché non si debbano dimenticare gli influssi derivanti dal genere dell’epillio. Particolare valenza patetica ha inoltre la presentazione virgiliana della storia di Didone, sensibilmente differente da quella fornita da Giustino47. L’esordio (vv. 1-6) entra subito in medias res At regina gravi iamdudum saucia cura Vulnus alit venis et caeco carpitur igni. Multa viri virtus animo multusque recursat Gentis honos; haerent infixi pectore voltus Verbaque, nec placidam membris dat cura quietem AC Ma la regina d’amoroso strale Già punta il core, e ne le vene accesa D’occulto foco, intanto arde e si sface; e de l’amato Enea fra sé volgendo il legnaggio, il valore, il senno, l’opre, e quel che più le sta ne l’alma impresso soave ragionar, dolce sembiante, tutta la notte ne pensa e mai non dorme. VA RCO Ma gravemente già d’amor piagata, Vie già maggior esca al fuoco occulto, ond’arde Va ministrando la Regina. Or volge L’alto valor d’Enea nell’egra mente, E dei Teucri l’altezza; or vie più addentro Fitte ha nel cor l’alme di lui sembianze, E le dolci parole: indi non trova Quíete mai pel travagliato fianco. Ma sanguina ormai la regina in un tormento pesante, nelle sue vene nutre una piaga, da chiuso fuoco è consunta. Grande il valore dell’uomo, grande le assedia la mente La gloria del nome: è fitto in cuore quel volto, la voce: placido sonno non dà alle membra il tormento La prima parola (richiamante l’ αὐτὰρ omerico, otto volte utilizzzato in apertura di verso) già è volta a marcare un’opposizione drastica e irrisolvibile tra le sofferenze di Enea, che comunque sembrano esser giunte a termine (contiquit tandem, III, 718) e quelle, fatalmente foriere di un tragico epilogo, di Didone, la cui figura appare sin dai primi versi lacerata tra le ansiose debolezze della donna innamorata e l’orgoglio della nobile regina. Didone è già in preda di un’incontrolabile48 passione: «c’est un amour inquiet (cura), qui l’a blessée à mort (saucia), terriblement (gravi cura)»49. La congiunzione avversativa posta all’inizio del verso caratterizza il sentimento d’amore, «irresoluto»50 e quindi tragico. Quest’impatto della forza dell’amore su Didone sarà ben presente al Racine autore della Phèdre, come dimostrano i seguenti versi: violenza dei sentimenti e dell’azione: nel senso di un cupo, orgiastico e insieme severo oratorio funebre», L. ROMANO, Prefazione a VIRGILIO, Eneide, libro IV (a cura di M. CASALI), Torino, Paravia, II. 46 N. HOLZBERG, Vergil der Dichter und sein Werk, München, Verlag C. H. Beek, 2006, p. 151. 47 «Il confronto con l’ampia narrazione in Giustino XVIII 4 mostra con chiarezza quanto consapevolmente Virgilio, anche in questa circostanza, cerchi di far leva sul patetico, sollecitando sentimenti di simpatia nei riguardi di Didone e sdegno verso Pigmalione. Così si spiegano da un lato l’accento posto ripetutamente sull’amore di Didone per Sicheo e la crudele dissimulazione del crimine perpetrato, che le si svela solo alla vista dolorosa dell’ombra del marito; e d’altro canto l’amplificazione del crimine: ante auras, incautum superat, inhumati coniugis, e gli epiteti di Pigmalione scelere ante alios immanior omnis, inpius, securus amorum germanaem multa malus simulans, un tiranno temuto e odiato dal suo stesso popolo», R. HEINZE, op. cit., p. 169 n.7. 48 «caeco: c’è chi lo intende come “accecante, che fa uscir di senno”, chi come “furtivo, nascosto”». In favore della seconda interpretazione militano gli esempi di Lucrezio, IV, 1120, tabescunt volnere caeco e Ovidio, Met. III 490 et tecto paulatim carpitur igni. Ma forse anche qui è da ravvisare la voluta ambivalenza delle espressioni virgiliane, come vuol e il Pascal, il quale osserva che l’amore, ora furtivo, accecherà Didone sino al punto di farle rompere fede al cenere di Sicheo. Anche in Georg. III 210 et caeci stimulos avertere amoris si avverte in un’analoga espressione uguale pregranza», E. PARATORE, Commento al libro IV dell’Eneide, in VIRGILIO, Eneide (libri III – IV), traduzione di Luca Canali, Milano, Mondadori (Fondazione Lorenzo Valla), 1978, p. 184. 49 A. SCHMITZ, Infelix Dido, Gembloux, Éditiond Duculot, 1960, p. 21. 50 G. PASCOLI, Epos, Livorno, Giusti, 1938, p. 157. 51 Je le vis, je rougis, je pâlis à sa vue; un trouble s’éleva dans mon âme éperdue; Mes yeux ne voyaient plus, je ne pouvais parler; je sentis tout mon corps et transir et brûler (Phèdre, I, 3, 273-276). Alla regina cartaginese non appartiene l’intima felicità propria della donna amante e riamata: al contrario, la sua nuova e già affermata (iamdudum) passione si manifesta precocemente in tutta la sua forza distruttiva. Ed è proprio in questo che consiste il magistrale tratto di novità virgiliana rispetto al modello omerico: «la raffigurazione dell’amore come passione esclusiva e devastante»51 . Se già tutta la figura di Enea sembra essersi già trasfusa in lei (i tratti fisiognomici di lui, voltus, sono infixi nella mente e nel cuore di lei e non si staccano, haerent), ella rimane sola con il suo segreto: Didone appare sin dall’esordio del IV libro già attaccata dal fuoco della passione (caeco igni), la cui ferita ella nutre della propria vita (venis): come scritto da Lalla Romano, «Il ritmo martellante, le allitterazioni (2° verso) accentuano la nettezza del tema. Tutto vi è già detto: la passione è malattia, fatalità e tragedia» 52 . Presto Didone sente il bisogno di parlare (vv. 9-30) con la sorella Anna, forse perché, come dice Stratonice a Pauline nel Polyeucte di Corneille, Á raconter ses maux, souvent on les soulage (I, 3, 37): Anna soror, quae me suspensam insomnia terrent! Quis novos hic nostris successit sedibus hospes, Quem sese ore ferens, quam forti pectore et armis! Credo equidem, nec vana fides, genus esse deorum. Degeneres animos timor arguit. Heu, quibus ille Iactatus fatis! Quae bella exhausta canebat! AC […] «Anna sorella, che vigilie, che sogni, che spaventi son questi miei? Che peregrino è questo che qui novellamente è capitato? Vedestu mia sì grazïoso aspetto? Conoscesti unqua il più saggio, il più forte, e ‘l più guerriero? Io credo (e non è vana la mia credenza) che dal ciel discenda veracemente. L’alterezza è segno d’animi generosi. E che fortune, e che guerre ne conta! […] VA RCO […] O fida Anna mia, che fian mai quest’aspre veglie, Che me dubbia travagliano? Oh, qual degno Ospite nuovo accolto abbiamo! Oh quanto Leggiadro, ardito, e in armi prode! Ei stirpe Ben è dei Numi: e qual v’ha dubbio? Ai forti Non tralignanti di lui spirti, io ‘l veggo. Oh quai vicende ei pur soffria! Quai guerre, Da lui compiute, ei ci narrava! […] «Anna, sorella, che sogni m’hanno sconvolta! Che straordinario ospite m’è venuto a palazzo, che portamento, che forza in cuore e nell’armi! Credo, certo, non è fede vana: è stirpe di dèi. Un’indole ignobile, vil timore la smaschera. E quale Destino lo incalza, che guerre durate narrava! Indefinite pulsioni hanno tormentato il sonno della regina, lasciandola perplessa e indecisa (suspensam). La contraddizione delle pulsioni interne all’animo di Didone emerge subito: da un lato il novos (strategicamente posto in posizione d’evidenza), che con tutta la sua gamma di fascino e valori inizia a sconvolgerla, dall’altro c’è Sicheo, al quale la sposa si sente ancora indissolubilmente legata. Particolare importanza è la caratterizzazione epica data da Didone all’hospes (termine nobile, come lo ξένος greco) ad Enea, cantore (canebat) di guerre. 51 R. HEINZE, op. cit., p. 152. 52 L. ROMANO, op. cit., III. A proposito del verso 6 Postera phoebea lustrabat lampade terras Pascoli annota: «con pace del mio Poeta sia detto che qui c’è un poco d’inverosimile; che il racconto di Enea era cominciato tardi (se non a mezza notte: cf. 81) e a lungo aveva durato, e Didone non poteva aver avuto tempo di essere molto atterrita da brutti sogni», G. PASCOLI, op. cit., pp. 157-158. 52 Anna53 si rivolge alla sorella (non chiamandola mai Dido o Elissa, bensì soror o germana) in termini estremamente affettuosi: sintomatico il lemma usato dalla prima nei confronti della seconda, O luce magis dilecta sorori. Ancora Pascoli, anche a proposito di quanto detto nel capitolo precedente circa i rapporti testuali Virgilio/Catullo, nota la forte analogia con il Carme LXVIII (v. 160 Lux mea, qua viva vivere dulce mihi est) 54 Solane perpetua maerens carpere iuventa, Nec dulcis natos, Veneris nec praemia noris? Id cinerem aut mani credis curare sepultos? AC «[…] dunque sola Vuoi tu vedova sempre e sconsolata Passar questi tuoi verdi e florid’anni? […]» VA RCO « […] Strugger vuoi dunque sola il fior degli anni? Né pegno mai d’amore, i dolci figli, Tu d’ottener consenti? Al cenere freddo D’ombra sepolta, or credi abbia a venirne Noia o dolore? […]» «[…] sola vorrai consumarti, piangendo l’intera età bella? E non saprai i dolci figli, i premi di Venere? Caro al cenere questo tu credi, all’ombre sepolte? […]» I versi 31-33 fanno appello ai sentimenti e alle ispirazioni proprie di ogni donna: dalla paura della solitudine (solane) senza fine (perpetua) «qui déchire tout l’être»55, dal fisiologico bisogno di essere madre (dulcis natos) 56 al puro piacere dell’amore (Veneris praemia); in particolare, alla mancanza di figli e al desiderio di averne, la regina ritorna oltre, nei versi 327-33057. Proprio dal riferimento di Anna ai Veneris praemia, invece, è nata l’ipotesi ˗ probabilmente legata all’equivoco varroniano che considerava Anna e non Didone la vera fondatrice di Cartagine, e su cui è incentrato lo scritto di Carisio Amaverit Didun Aeneas ˗ dell’amore di Anna, e non solo della regina cartaginese, nei confronti di Enea: a ciò connessa è la storia della sorella di Didone presente nei Fasti ovidiani58 . In modo realistico, quasi lucrezianamente, Anna definisce Id ciò che dovrebbe inquietare le ceneri di Sicheo. Anna usa forse volutamente termini alquanto vaghi: Sicheo non è più Sicheo, bensì solo cenere, e il piacere è nel presente. Interessante è anche il commento di Servio al verso 33: «bene extenuat dicendo non animam, sed cineres et manes sepulto. Dicit autem secundum Epicureos, qui animam cum corpore dicunt perire», connesso da Paratore al dantesco con Epicuro tutti i suoi seguaci / che l’anima col corpo morta fanno59 . L’imperativo in apertura di verso 35 Esto è volto a scuotere la sorella indecise nel suo nobile idealismo, i cui sintomi della passione sembrano sempre più simili a quanto descritto nel De rerum natura proprio a proposito dell’amore60: 53 «the tritagonist in Book IV is Dido’s sister, Anna, whose connection with the story seems to appear first in Naevius», S. PEASE, op. cit., p. 49. 54 G. PASCOLI, op. cit., p. 159. 55 A. SCHIMTZ, op. cit., p. 33. 56 Benché «Anna, accennando alla possibilità di figli, adopera proprio l’argomento che poteva meglio vincere Didone, che dal primo matrimonio non aveva avuto figli», E. PARATORE, op. cit., p. 187. 57 Saltem si qua mihi de te suscepta fuisset / Ante fugam suboles; si quis mihi parvulus aula / Luderet aeneas, qui te tamen ore referret, / Non equidem omnino capta ac deserta viderer. 58 Nel terzo libro (vv. 523-654) si narra infatti di come, defunta Didone, Iarba fosse riuscito a conquistare Cartagine. Questo determinò la fuga di Anna a Malta, il cui re accettò la richiesta di Pigmalione che reclamava la sorella di Didone. Quest’ultima fu allora costretta ad un’ulteriore fuga, approdando sulla spiaggia di Laurento. Qui incontrò Enea, sposato con Lavinia che inziò a nutrire una tale gelosia nei confronti della profuga da meditare di ucciderla. Anna, avvertita in sogno dall’ombra di Didone, fuggì ancora. Una voce del fiume Numicio, esprimendosi in persona di Anna, rispondeva a chiunque ne chiedesse notizie, che Anna – con il nome di Anna Perenna – era diventata la ninfa del fiume. 59 Inferno, X, 14-15. 60 «having devoted her passion to the cares of founding a new city, she [Dido] appears to be as invulnerable to the furor of love as a veritable physicist. But this appearance is false. She has in fact no resources at all for resisting the fullblown delusionary furor of love; so far from protecting her against the irruption of furor within herself, her Epicurean 53 unaque res haec est, cuius quam plurima habemus tam magis ardescit dira cuppedine pectus. Nam cibus atque umor membris assumitur intus; quae quoniam certas possunt obsidere partis, hoc facile expletur laticum frugumque cupido. Ex hominis vero facie pulchroque colore nil datur in corpus praeter simulacra fruendum tenvia; quae vento spes raptast saepe misella. (IV, 1089-1096). Didone e Anna si accingono a celebrare sacrifici in onore dei numi tutelari della fecondità e del matrimonio (Cerere, Febo, Bacco Lyaeus, “scioglitore di affanni” e Giunone Pronuba). A differenza di tutte le altre rappresentazioni di riti religiosi presenti nell’Eneide, Didone appare caratterizzata in questo caso da promiscuità, eccesso e furore: tratti propri dell’uomo superstizioso secondo Lucrezio61. Nei versi 54-59 viene messo ben in evidenza il collegamento tra il moto dell’animo in preda all’amore e la pratica sacrificale, più etrusca e greca, che ‒ seppur frequente ‒ mai resa ufficiale a Roma: His dictis incensum animum inflammavit amore Spemque dedit dubiae menti solvitque pudorem. Principio delubra adeunt pacemque per aras Exquirunt; mactant lectas de more more bidentis Legiferae cereri Phoeboque patrique Lyaeo, Iunoni ante omnis, cui vincla iugalia curae. AC Con questo dir, che fu qual aura al foco ond’era il cor de la regina acceso, l’infiammò, l’incitò, speme le diede e vergogna le tolse. Andaro in prima a visitare i templi, a chieder pace e favor de’ celesti, a porger doni, a far d’elette pecorelle offerta a Cerere, ad Apollo, al padre Bacco. e, pria che a tutti gli altri, a la gran Giuno, cui son le nozze e i maritaggi a cura VA RCO […] Alla già ardente Dido Fiamma porgon viepiù tai detti, e a speme Il dubbio cor le schiudono; e Vergogna Già già arrétra. Ambe le suore intanto Di varj templi all’are immolan scelte Vittime, e pace invocan dagli Dei. A Febo, a Bacco, a Cerere datrice Di leggi; e, più che a tutte, all’alta Giuno Prònuba, danno e incensi voti. […] Con queste parole incendiò l’animo ardente d’amore, speranza diede al cuore incerto, dissolse il pudore. E prima salgono ai templi, la pace agli altari Cercano, offrono pecore ritualmente bidenti Alla legífera Cerere, a Febo al padre Lièo, avanti a tutti a Giunone, che il nodo di nozze tutela. Subito (principio) le due sorelle entrano nei luoghi sacri (e la solennità dell’ingresso è sottolineata dal verbo adeunt, la cui mancanza del soggetto «contribuisce a creare l’aura di mistero e di colpevole complicità di cui è circondato il rito»62), per compiere sacrifici (mactant) secondo un rituale (de more) e chiedere (exquirunt) l’assenso di divinità di cui, seppur la presenza nel pantheon romano è ben attestata, ben risalta l’origine greca. Significativo è il silenzio, da parte dell’autore, circa l’esito finale di questo rituale. La passione cresce nel cuore di Didone, rendendola vulnerabile e instabile sia sul piano fisico che psichico, come sembra adombrare la similitudine dei versi 68-73: AC education itself in the only way open to her, through fear of the thunderbolt as divine punishment», E. ADLER, Vergil’s Empire – Political thought in the Aeneid, Oxford, Rowman&Littlefield Publishers, 2003, p. 107. 61 Cfr. De rerum natura, V, 1198-1203. 62 E. PARATORE, op. cit., p. 191. 54 Uritur infelix Dido totaque vagatur Urbe furens, qualis coniecta cerva sagitta, Quam procul incautam nemora inter cresia fixit Pastora gens telis liquitque volatile ferrum Nescius; illa fuga silvas saltusque peragrat Dictaeos, haeret lateri letalis harundo. Arde Dido infelice, e furïosa per tutta la città s’aggira e smania: qual ne’ boschi di Creta incauta cerva d’insidïoso arcier fugge lo strale che l’ha già colta: e seco, ovunque vada, lo porta al fianco infisso. […] VA RCO […] Avvampa Dido Infelice, e gli erranti insani passi Per la città spinge quà e là. Tal fugge Per le Dittée foreste agile incauta Cerva, in cui saettò da lunge i dardi Pastor, che ignaro è appien d’aver colta: Didone brucia, infelice, e si aggira per tutta la città, come folle, come cerva da freccia piagata, che incauta, da lungi, nei boschi di Creta pastore colpì seguendola in caccia, nel corpo lasciò il ferro alato, senza saperlo: e lei, fuggendo, corre le selve, le forre dittée, ma è fonda nel fianco la freccia mortale. Dal momento in cui gli aruspici sembrano aver approvato l’amore di Didone la morte inizia a insinuarsi dentro di lei, attraverso infiniti patimenti. Amore capace di trasfigurare completamente la regina, vagante senza meta nella città da lei fondata, che sarà partecipe della sua infelice passione63 . Lo stato di crescente difficoltà psico-fisica è espresso nella coppia di versi 68-69, poi esemplificato dalla similitudine con la cerva ferita a morte. Didone, poco prima pulcherrima (v. 60), è ora inesorabilmente infelix, mentre l’innocenza di Enea viene retoricamente sottolineata dall’enjambement di nescius. Lo stato confusionale di Didone è esemplificato nel verso 76: Incipit effari mediaque in voce resistit AC […] or disïosa Di scoprirgli il suo duol, prende consiglio: poi non osa, o s’arresta. […] VA RCO […] A lui talora Di favellare imprende, e a mezzo resta Poi: […] e muove la voce a parlare, e resta a metà parola in cui l’indecisione comportamentale della regina è espressa metricamente nell’opposizione dei due verbi, in apertura e chiusura di verso: īncǐpǐt >< rĕsīstīt. Analogamente, anche nell’episodio dell’unione nella caverna (vv. 165-172), nella cui versione di Caro il poliptoto aggettivale d’inizio verso sottolinea fortemente il senso dell’unione che scaturisce: Speluncam Dido dux et Troianus eandem Deveniunt. Prima et Tellus pronuba Iuno Dant signum: fulsere ignes et conscius aether Conubiis summoque ulularunt vertice nynphae. Ille dies primus leti primusque malorum Causa fuit; neque enim specie famave movetur, Nec iam furtivum Dido meditatur amorem: Coniugium vocat; hoc praetexit nomine culpam. AC Solo con sola Dido Enea ridotto in un antro medesimo s’accolse. Diè di quel che seguì la terra segno e la pronuba Giuno. I lampi, i tuoni fûr de le nozze lor le faci e i canti; testimoni assistenti e consapevoli sol ne fûr l’aria e l’antro; e sopra ‘l monte n’ulularon le ninfe. Il primo giorno 63 Cfr. vv. 86-90: Non coeptae adsurgunt turrae, non arma iuventus /Excercet portusve aut propugnacula bello / Tuta parant: pendent opera interrupta minaeque / Murorum ingentes aequataque machina caelo. 55 fu questo, e questa fu la prima origine di tutti i mali, e de la morte alfine de la regina; a cui poscia non calse né de l’indegnità, né de l’onore, né de la segretezza. Ella si fece moglie chiamar d’Enea; con questo nome ricoverse il suo fallo […] VA RCO Entro una grotta stessa aver ricovro Trovasi: là, prónuba Giuno, all’aure Varj auspicj d’udíro; il suol tremò; L’etra avvampò; dell’imenéo novello Quasi conscia: e ulular dall’erte cime Di quei monti le Ninfe. Il dì fu quello Sì mortifero poscia a Dido; il giorno, D’ogni suo mal cagione. Ella, in non cale Del volgo il dir tenendo, arcano velo Già non appone a questi amori; e ad alta Voce gli appella conjugali, al suo Fallir così plaudevo dando il nome. Nella stessa spelonca Didone e il re dei Troiani vengono. E prima la Terra e Giunone pronuba dànno il segno: sfolgorarono i fulmini e il cielo che vide l’unione, e sulle vette le Ninfe ulularono. Quel giorno fu il primo passo alla morte, la causa prima dei mali. Non gli occhi, non la fama, non pensa Didone, oramai, a un amore furtivo: nozze le chiama, nasconde con questo nome la colpa. in particolare negli esametri 165 e seguenti si nota una grande variatio di cesure, prima pentemimere, poi tritemimere ed infine eftemimere. Se il passo può esser stato fonte d’ispirazione per Milton circa la descrizione della gioia in seguito alle nozze tra Adamo ed Eva nel Paradise Lost64, di non semplice e immediata interpretazione è l’ululato delle ninfe65 : sicuramente ben presente al Carducci autore de Alle fonti del Clitumno66, l’unione in «religioso polisindeto [tra] una divinità ctonia (Tellus) e una divinità dell’etere (Giunone) […] allusione a una specie di ἱερὸς γάµος» 67 può anche trovare una spiegazione nel commento serviano «secundam Etruscam disciplinam nihil tam incongrum nubentibus, quam terrae motus vel caeli», che spiegherebbe anche – aldilà del verbo plurale dant ‒ la condizione di dolorosa solitudine, ribadita dall’aggettivo prima68 . Ma quello che marca a fuoco l’episodio è la conclusione negativa, con la messa in risalto della colpa. Consistente, aldilà del tradimento nei confronti di Sicheo, nel non aver compreso che la pietas di Enea (quindi la sua ferrea obbedienza alle leggi divine) avrebbe comunque rappresentato un ostacolo per una loro duratura unione69: il pudor è completamente dimenticato, e a questo specifico proposito già Richard Heinze 70 aveva richiamato l’ ἐρρέτω αἰδώς di Medea 71 . Se 64 […] To the nuptial bow’r / I led her blushing like the morn / all heav’n / and happy constallations on that hour /Shed their selectest influence; the earth / Gave sign of gratulation, and each hill […], VIII, 510-520. 65 Servio, definendo il passaggio medius sermo (per denotarne l’ambiguità), commenta: «in luctu autem ululari non dubium est», e Danielino conferma scrivendo: «quia post nunptias mors consecuta est». 66 Fuggîr le ninfe a piangere ne’ fiumi / occulte e dentro i cortici materni, / od ululando dileguaron come / nuvole a monti, vv. 117-120. 67 E. PARATORE, op. cit., p. 198. 68 Positiva l’interpretazione di Pascoli, scevra (o solo indirettamente velata) da riflessi funerei: «i baleni furono le faci, ululi di ninfe il canto nuziale. Da quel giorno d’amore si preparava la morte dell’innamorata, che già si dichiara moglie di Enea», op. cit., p. 164. 69 «solo un istante di oblio poteva far dimenticare momentaneamente a Enea il suo impegno; perciò la stessa dea delle nozze, Giunone, era ricorsa all’espediente del momento d’oblio, illudendosi di potervi fondare sopra la possibilità di una lunga deviazione di Enea dal compito impostogli da Giove. Ma le era venuto meno il sostanziale appoggio di Venere, che aveva simulato l’accordo solo per procurare al figlio la sospensione dell’odio di Giunone e la possibilità per lui di rifocillarsi prima di riprendere il cammino», ivi, pp. 200-201. 70 R. HEINZE, op. cit., p. 158. 71 A. RODIO, Argonautiche, III, 784. 56 l’esempio della Fama è poi stato assunto a modello sin da Ovidio e Stazio72, sino a Chauser e Manzoni73, è necessario prestare attenzione ad alcuni lemmi utilizzati da Virgilio nei versi 189-194 per le dicerie, in cui già si riflette progressivamente «il sentire di Iarba, che apparirà suscitato da esse»74: haec tum multiplici populos sermone replebat Gaudens et pariter facta atque infecta canebat: Venisse Aenean, Troiano sanguine cretum, Cui se pulchra viro dignetur iungere Dido: Nunc hiemem inter se luxu, quam longa, fovere Regnorum inmemores turpique cupidine captos. AC Questa, gioiosa, bisbigliando in prima, poscia crescendo, del seguito caso molte cose dicea vere e non vere. Dicea, ch’un di troiana stirpe uscito, venuto era in Cartago, a cui degnata s’era la bella Dido esser congiunta. VA RCO Costei di vario grido allor pasceva Gli Affricani, giojosa, e le già fatte Cose e narrando e le da farsi: Enea Approdato in Cartagine da Troja: Sposa a sì degno eroe darsi la bella Didone: essi frattanto all’ozio in grembo, Da quanto dura il verno, star sepolti, E in turpe amore immemori del regno. Essa riempiva allora di molti discorsi le genti, esultando, e cantava ugualmente il certo e l’incerto: ch’era venuto Enea, rampollo del sangue troiano, e a lui Didone bella non sdegnava di unirsi: ora in lussurie l’inverno quant’è lungo godevano, dei loro regni immemori, presi da turpe passione. Enea, di nobile sangue troiano, è giunto presso Didone (pulchra, non più pulcherrima) e trova normale (dignari) intrattenersi con lei: turpis è la loro condotta, definita in modo assoluto, e il senso di negatività implicito nella condanna sembra quasi risuonare nell’allitterazione della sillaba |pi| nell’ablativo turpique cupidine, battuta alternativamente da accento metrico e ritmico, oltre che nella repetitio di «dicea» nella versione di Caro. 2. L’apertura del ‘secondo atto’ sembra confermata in primo luogo dall’utilizzo, in apertura di verso, dalla medesima particella avversativa At posta in apertura di libro75 . At regina dolos (quis fallere possit amantem?) Praesensit motusque exepit prima futuros, Omnia tuta timens. Eadem impia Fama furenti Detulit, armari classem cursumque parari. Saevit inops animi totamque incensa per urbem Bacchatur, qualis commotis excita sacris Thias, ubi audito stimulant trieterica Baccho Orgia nocturnusque vocat clamore Cithaeron. AC […] Ma Didon del tratto tosto s’avvide: e che non vede amore? Ella pria se n’accorse; ch’ogni cosa temea, benché secura. E già la stessa Fama importunamente le rapporta armarsi i legni, essere i Teucri accinti a navigare. Onde d’amore e d’ira accesa, infurïata, e fuori uscita 72 Metamorfosi, IX, 137 e passim e Tebaide, III, 425 e passim. 73 The House of Fame, III, 250 e passim e Fermo e Lucia, III, 3 cfr. E. PARATORE, Manzoni e il mondo classico, in «Italianistica», II, n°1, gennaio-aprile 1973, pp. 76-132: 108-110. 74 E. PARATORE, Commento al libro IV dell’Eneide, in VIRGILIO, Eneide (libri III – IV), cit., p. 203. «For Iarbas’ role is, at first glance, obscure. His dramatic function i sto call Jupiter attention to Aeneas’ lapse from cleaving to his divine mission; but his speech, his prayer to Jupiter, is quite disproportionate to that dramatic function. Iarbas’s selfunderstanding in his speech is entirely unrelated to Aeneas’s mission, or to Jupiter’s true interest in Aeneas», E. ADLER, op. cit., p. 120. 75 «La particule At, qui semble avoir une puissante valeur déictique et exclamative, attire l’attention sur la personne de la reine; c’est donc la personne majesteuse et redoutable de la reine de Carthage qui se dresse en face du dol de l’amant infidèle», A. SCHMITZ, op. cit., p. 121. 57 di se medesma, imperversando scorre per tutta la città. Quale a i notturni gridi di Citeron Tïade, allora che ‘l trïennal di Bacco si rinnova, nel suo moto maggior si scaglia e freme, e scapigliata e fiera attraversando e mugolando al monte si conduce VA RCO Ma la regina antivedea (chi puote Ingannar donna amante?) e in se nudriva Presagio infausto del futur suo danno; Nella calma temendo. E, tosto aggiunse Ai suoi dubbj terrori terror certo, Quell’empia Fama stessa; armarsi i legni, Allestirsi a partire i Teucri. Udito Ella tal grido, infuriata avvampa, S’agita insana, e quindi scorre e quindi La città tutta; di baccante in guisa, Che in triennali orgíe bollenti, all’aure Sen va brandendo il sacro Tirso; e sprone A imperversar viepiù le son di Bacco Gli uditi gridi, onde notturno eccheggia Il ripercosso Citerone. […] Ma la regina (chi ingannerà donna amante?) Presentì il tradimento, capì prima le mosse future, lei che del sicuro tremava. E a lei, già fremente, la Fama empia narrò che armavan le navi, la partenza allestivano. Smania, fuori di sé, per tutta la città delirando impazza, come Baccante invasata, al muover dei sacri segni, quando al grido di Bacco l’orgia triennale la stimola, e il Citerone con il richiamo notturno la invita. Ancora la Fama76, irrispettosa di ogni valore (impia) 77, informa la regina. Didone inizia a capire (excepit: «’indovinò, colse’ spiando»78) che la flotta si accinge a partire: la tragicità di quest’ultimo particolare sembra risaltare ancor più dalla rima interna dei due emistichi del verso 299 (Detulit, armari classem cursumque parari). Estremamente forte è poi la descrizione di Didone che, pazza come una baccante79, abbandona la propria regale dignità aggirandosi sconvolta nella città da lei fondata e governata. Ella non trova altro sfogo che insultare Enea, come dimostrano i versi 305 e seguenti: Dissimulare etiam sperasti, perfide, tantum Posse nefas? Tacitusque mea decedere terra? Nec te noster amor nec te data dextera quondam Nec moritura tenet crudeli funere Dido? Quin etiam hiberno moliris sidere classem Et mediis properas aquiloni bus ire per altum, Crudelis? Quid si non arva aliena domosque Ignotas peters, sed Troia antiqua maneret, Troia per undosum peteretur classi bus aequor? Mene fugis’ […] AC «Ah perfido! Celar dunque sperasti una tal tradigione, e di nascosto partir de la mia terra? E del mio amore, de la tua data fé, di quella morte che ne farà la sfortunata Dido, punto non ti sovviene e non ti cale? Forse che non t’arrischi in mezzo al verno Tra’ più fieri Aquiloni a l’onde esporti? Crudele! Or che faresti, se straniere non ti fosser le terre, ignoti i lochi che tu procuri? E che faresti, quando fosse ancor Troia in piede? A Troia andresti di questi tempi? E me lasci, e me fuggi? 76 «Un mostro alato sparge la notizia di ciò: un mostro che più va e più andrebbe, la Fama, prima piccola per paura, poi smisurata, dalla terra al cielo: figlia della Terra, ha un occhio per ogni penna, e tante bocche e tante penne, e non dorme mai», G. PASCOLI, op. cit., p. 165. 77 Benché un’altra interpretazione, condivisa ad esempio da Vaclav Klouček (Miscellen zu Horatius und Vergil, «JahreBericht des K. K. Ober Gymnasius zu Leitmeritz in Böhmen» für das Schulahr 1869, p. 14 e passim) intenda tanto eadem quanto impia come accusativi plurali riportanti il giudizio della regina cartaginese su quelle voci. 78 G. PASCOLI, op. cit., p. 170. 79 i baccanali, benché vietati dal senato romano, erano ben diffusi nell’Italia meridionale, come si può dedurre anche dagli affreschi della Villa dei Misteri pompieana. 58 VA RCO […] Enea, Perfido tu, potermi asconder dunque Speravi, un tanto rio disegno? a’ miei Liti dar tu tacito il tergo? Nulla Te non rattiene omai? Né data destra; né amor giurato; né Dido infelice, Che ne morrà di cruda morte? Ahi fero! E i legni or là nel cuor del verno appresti? Infra nemici burrascosi venti, Scior t’affretti le vele? Ove pur anco Troja tua stesse; ove d’estraneo seggio Tu non andassi errante in traccia; a Troja, Di’, volgeresti in tal stagion tue prore? Forse me sfuggi? […] «Speravi, spergiuro, di potermi nascondere tanta empietà? Senza parola dalla mia terra partirtene? Né il nostro amore, la destra, che tu pur m’hai data, né può tenerti Didone, che morrà crudelmente? E sotto le stelle invernali muovi le navi? T’affretti a prendere il largo tra gli aquiloni, crudele?E che faresti se non campi estranei, non case ignote cercassi, ma Troia antica restasse, Troia pel mare ondoso ti fosse meta alle navi? Me fuggi? […] Aldilà dei punti in comune con la Medea di Apollonio, già discussi nel primo capitolo, è interessante notare come la forza dell’insulto di Didone venga reso da Caro e dalla Calzecchi Onesti: se il primo, con una certa libertà poetica rispetto al testo virgiliano, rende con l’aggettivo possessivo singolare mio il noster amor virgiliano e attribuisce al solo Enea (tua data fé) il giuramento d’amore, la seconda opta per una doppia allitterazione d’impatto (Speravi, spergiuro) posta in apertura di verso: l’appellativo di perfidus è inoltre il medesimo che Enea riceverà (VII, 362) da Amata, come rimprovero per il progetto nuziale con Lavinia. Questo passaggio dello sfogo diretto della regina80 avrà importanza cruciale non solo per Metastasio, bensì anche per Racine. Se la giustificazione di tanto odio è solo nell’amore tradito (Ah! Je l’ai trop aimé pour ne le point haïr, dice Hérmione nell’Andromaque raciniana; II, 1, 416), nei successivi versi 373-375 […] Eiectum litore, egentem Excepi et regni demens in parte locavi: Amissam classem, socios a morte reduxi. AC […] Io l’ho raccolto, io gli ho ridotti I suoi compagni, e i suoi navili insieme, ch’eran morti e dispersi; ed io l’ho messo (folle!) a parte con me del regno mio, e di me stessa. […] VA RCO Costui, ch’io accolsi, ai lidi miei scagliato, Abbandonato, bisognoso: e a parte Del mio seggio il chiamava; e legni e armata E compagni salvargli… […] Miserabile, naufrago io l’ho raccolto, io, pazza, l’ho messo a parte del regno la flotta distrutta, i compagni ho salvato da morte. e 380-381: 80 A proposito del nec te del verso del verso 307: «si noti la climax delle ragioni: l’amore, il matrimonio (Didone s’illude sempre d’esser divenuta la sposa d’Enea), la persona stessa della donna amata», E. PARATORE, op. cit., p. 212. 59 […] Neque te teneo neque dicta refello. I, sequere Italiam ventis, pete regna per undas. AC […] Or va’, che per innanzi Più non ti tegno, e più on ti contrasto. Va’ pur, segui l’Italia, acquista i regni Che ti dan l’onde e i vènti. […] VA RCO Vanne omai, va, che ch’io te già non rattengo Né i tuoi detti ribatto: Italia afferra: Naviga; cerca estranei regni. […] Vattene, non ti trattengo, le tue parole non confuto: vattene, cerca nel vento l’Italia, cercati il regno sul mare. è possibile individuare il principale modello dei versi raciniani: Non, je ne veux plus rien. Ne m’importune plus de tes raisons forcées: Je vois combien tes voeux sont loin de mes pensées. Je ne te presse plus, ingrate, d’y consentir. Rentre dans le néant dont je t’ai fait sortir (Bajazet, II, 1, 520-524)81 Similmente, i versi successivi 365-368, in cui la regina dà ancora sfogo al suo furore Nec tibi diva parens, generis nec Dardanus auctor Perfide, sed duris geniut te cautibus horrens Caucasus Hyrcanaeque admorunt ubera tigres AC […] «Tu, perfido, tu Sei di Venere nato? Non già; ché l’aspre rupi Ti produsser di Caucaso, e l’ircane Tigri ti fûr nutrici. […] VA RCO […] No; né a te madre Venere mai, né di tua schiatta capo Dardano fu; sleale, a te diè vita Bensì fra’suoi macigni il Caucaso aspro; A te dier latte Ircane tigri. […] «Non t’è madre la dea, non Dardano t’è capostipite, spergiuro, no: irto di dure rupi, te il Caucaso ha fatto, ircane tigri t’han dato a succhiare le poppe mostrano lo stesso addolorato lirismo risentito dell’Arianna di Catullo (Quaenam te genuit sola sub rupe leaena / Quod mare conceptum spumantibus expuit undis, / Quae Syrtis, quae Scylla rapax quae vasta Charybdis, / Talia qui reddis pro dulci praemia vita?, LXIV, 154-157) e della Medea ovidiana (Hoc ego si patiar, tum me de tigride natam / Tum ferrum et copulo gestare in corde fatebor, Metamorfosi, VII, 32-33), costituendo anche il palese modello per le parole che Armida rivolge a Rinaldo: ˗ Né te Sofia produsse e non sei nato De l’azio sangue tu; te l’onda insana Del mar produsse e ‘l Caucaso gelato, e le mamme allattàr di tigre ircana (Gerusalemme liberata, XVI, 57, 1-4)82 . 81 Le parole di Roxane al protagonista riecheggiano a loro volta, e nuovamente con forti analogie con il testo virgiliano, quelle di Pauline all’amante nel Polyeucte: Cruel (car il est temps que ma douleur éclate…) / Et qu’un juste reproche accable une âme ingrate / Est-ce là ce beau feu? Sont-ce là tes serments? / Témoigne-tu pour moi les moindres séntiments? (Polyeucte, IV, 3, 76-79), così come la stessa Roxane aveva già detto prima J’abandonne l’ingrat et le laisse rentrer / Dans l’état malheureux d’où je l’ai su tirer, (Polyeucte, I, 3, 324). 82 Tasso costruisce l’intera ottava sul modello virgiliano, dal momento che i successivi versi Che dissimulo io più? L’uomo spietato / pur un segno non diè di mente umana / Forse cambiò color? Forse al mio duolo / bagnò almen gli occhi o sparse un sospir solo? sono quasi la traduzione di Nam quid dissimulo aut quae me ad maiora reservo? / Num 60 Di fronte a queste accuse terribili e a tali strazianti parole, Enea si trova costretto a mostrare tutta la propria pietas, che – come già detto – va intesa come cieca e inscalfibile volontà d’ubbidienza nei confronti del dettato divino: At pius Aeneas, quamquam lenire dolentem Solando cupit et dictis avertere curas, multa gemens magnoque animum labefactus amore iussa tamen divm exsequitur classemque revisit AC Enea, quantunque pio, quantunque afflitto e d’amore infiammato e di desire di consolar la dolorosa amante, nel suo core ostinossi. E fermo e saldo d’obbedire agli dèi fatto pensiero, calossi al mare, e i suoi legni rivide. VA RCO […] In cuor Enea sospira Profondamente: al maschio petto assalti Feroci muove il forte amor; vorrebbe Allevíarle con dolci parole L’immenso duolo, e ai di lei gravi affanni Dar tregua almen; ma nol concede un Dio, Che severo lo incalza, e spinge, e sforza Suoi passi là, dove le navi eccelse Varando stanno gli operosi Teucri. Ma Enea pio, che pur tanto vorrebbe lenir la dolente, confortarla, sopirle parlando la pena, e molto geme, da molto amore sconvolto nel cuore, obbedisce al comando dei numi, la sua flotta rivisita. se Alfieri pone l’accento sul dolore della regina, aggiungendo un aggettivo (immenso) non presente nel testo latino, Caro opta per la messa in evidenza del dissidio di Enea, prima con la reiterazione della congiunzione concessiva quantunque poi con la scelta del verbo (ostinossi), che rende perfettamente l’intimo conflitto tra il sentimento d’amore per Didone e l’obbligo imperativo di portare avanti la missione affidatagli. Al ritorno del loro capo, i Troiani si affannano nei preparativi, tirando le navi in mare e allestendo le vele83, e i loro sforzi sembrano quasi aver una resa metrico-prosodica nei pesanti spondei dei versi 397-398: Tum vero Teucri incubunt et litore celsas Deducunt toto navis. Natat uncta carina. Didone, notando dall’alto della rocca gli indaffarati movimenti – che le sembrano un formicolio84 – non regge al dolore e supplica la sorella Anna di pregare Enea affinché possa almeno rimandare la partenza: fletu ingemuit nostro? Num lumina flexit? / Num lacrimas victus dedit, aut miseratus amantem est? (Eneide, IV, 367- 370). Pascoli (op. cit., p. 173), dopo aver citato il Carme LXIV di Catullo, trova invece in un passo omerico lo spunto dei versi virgiliani: «Versi imitati dal fiero ma amorevole rimprovero di tuttl’altro tono, che fa Patroclo ad Achille Il 33: “Spietato, oh! Non padre a te era Peleo cavaliere né Thetis madre: te il ceruleo mare partorì E li scogli scoscesi, perché hai mente crudele!”». 83 Il verso 418 Puppibus et laeti nautae imposuere coronas ricorre identicamente nelle Georgiche (I, 304), «perciò molti lo hanno giudicato una stanca ripetizione o un’interpolazione, a cominciare da Probo che – come testimonia il Danielino – avrebbe scritto: «si hunc versum omitteret, melius fecisset», E. PARATORE, op. cit., p. 222. 84 I versi 402-407 (Ac veluti ingentem formicae farris acervom / Cum populant, hiemis memores, tectoque reponunt: / It nigrum campis agmen praedamque per herbas / Convectant calle angusto, pars grandia trudunt / Obnixae frumenta umeris, pars agmina cogunt / Castigantque moras, opera omnis semita fervet) «occorrono in un brano che sulla superficie ha un carattere transitorio, di connessione tra due momenti forti (ossia tra l’ultimo sfogo di Didone con Enea, vv. 362-392, e l’ultimo tentativo della regina di trattenere a Cartagine, attraverso Anna, l’eroe, vv. 416-449: esso in realtà ha anche un’altra funzione, di natura strutturale, poiché si fissa qui la separazione ‘ritmica’ del racconto, fra una rapida progressione dei fatti, che ridisegna il corso epico (la partenza dei Troiani da Cartagine), e l’assorbimento e la 61 Anna, vides toto preparari litore circum, Undique convenere: vocat iam carbasus auras: Puppibus et laeti nautae imposuere coronas. Hunc ego si potui tantum sperare dolorem, Et perferre, soror, potero. Miserae hoc tamen unum Exsequere, Anna, mihi: solam nam perfidus ille Te colere, arcanos etiam tibi credere sensus: Sola viri mollis aditus et tempora noras. I, soror, atque hostem supplex adfare superbum: Non ego cum Danais Troianam exscindere gentem Aulide iuravi classemve ad Pergama misi; Nec patris Anchisae cinerem manesve revelli. Cur mea dicta negat duras demittere in auris? Quo ruit? Extremum hoc miserae det munus amanti: Expectet facilemque fugam ventosque ferentis. AC […] Anna, – le disse – Tu vedi che s’affrettano, e sen vanno. Vedi, già loro in su la spiaggia accolti, le vele in alto, e le corone in poppa. Sorella mia, s’avessi un tal dolore antiveder potuto, io potrei forse Anco soffrirlo. Or questo solo affanno prendi per la tua misera sirocchia, poiché te sola quel crudele ascolta, e solo di te si fida, e i lochi e i tempi sai d’esser seco e di trattar con lui; truova questo superbo mio nimico, e supplichevolmente gli favella. Dilli che Dido io sono, e che non fui in Aulide co’ Greci a far congiura contra a’ Troiani; e che di Troia a’ danni né i miei legni mandai, né le mie genti. Dilli che né le ceneri, né l’ombre Né del suo padre mai, né d’altri suoi non vïolai. Qual dunque o mio demerto o sua durezza fa ch’ei non ascolti il mio dire, e me fugga, e sé precipiti? Chiedili per mercé dell’amor mio, per salvezza di lui, per la mia vita, ch’indugi il suo parti tanto che ‘l mare sia più sicuro e più propizi i vènti. VA RCO Anna, tu vedi il lido tutto in moto, E la folla dei Teucri, e ai venti invito Le sciolte vele, e dai nocchier festosi Le coronate poppe. Ah fida suora! Poich’io pure un tal danno presagire Senza morir potea, soffrirlo forse Anco potrò: ma intanto or un mio prego, Anna, eseguisci; o tu, cui sola ei cole, Cui sola ei schiude del suo cor gli arcani, Quel disleal: tu, che hai benigno accesso Sola appo lui, quando opportuna il cogli; Tu il ritrova, o sorella e a quell’ostile Superbia sua così supplice parla: Dido in Aulide in somma, ai Greci unita, Di Troja, no, l’eccidio non giurava; Io non mandava Tirie navi a danno D’Ilíon mai; non io del padre Anchise L’ombra insultai, né il cener freddo offesi. Perché chiud’egli al mio parlar gli orecchi Ferrei suoi? Dove corre? Ultimo dono A una misera amante, almen l’ascolti! Aspetti almen, che meno avversi i venti Al suo fuggire arridano! […] «Anna, vedi, per tutta la spiaggia s’affrettano, da ogni parte raccolti: le vele già chiamano il vento, han già coronato le poppe i naviganti festosi. Se ho potuto aspettarmelo, questo grande dolore, anche soffrirlo potrò, sorella. Per me misera solo una cosa, Anna fa’: s’, lo spergiuro sola onorava, a te confidava anche arcani pensieri, tu sola dell’uomo i momenti, gli approcci migliori sapevi. Va’, sorella, supplice parla al superbo nemico: non io giurai con i Dànai sterminio alla gente Troiana in Aulide, non mandai flotta a Pergamo, del padre Anchise non dissacrai l’ossa e il cenere: perché negli occhi crudeli parole mie non accoglie? Dove precipita? Conceda un ultimo dono alla misera Amante, facile aspetti la fuga, favorevoli i venti. dilatazione di essi nelle profondità di una – ormai isolata – psicologia: premessa di un avvento pieno della tragedia», M. FERNANDELLI, op. cit., p. 24. 62 Come il primo discorso rivolto alla sua unica confidente, anche questo s’apre con il vocativo nominale di Anna85: lo stesso nome viene poi ripetuto, a dimostrazione della «maggiore frequenza con cui le invocazioni alla sorella si dipanano in questo secondo discorso rispetto al primo»86. I versi 422-423, in cui Didone accenna a supposti rapporti di confidenza tra Anna e Enea (versi che hanno spinto alcuni critici a vedere anche un piglio di gelosia della regina nei confronti di Anna) sono alla base della leggenda – cui si è fatto cenno e una cui eco sarà presente in Metastasio – che vorrebbe Anna innamorata di Enea. Quest’ultimo è ormai un hostem, e la durezza del termine spicca maggiormente in virtù della stretta vicinanza con il lemma supplex caratterizzante Didone. Ma la seconda invocazione diretta di Didone ad Anna 87 è preceduta da una «improvvisa invocazione emozionale»88, talmente accorata da suscitare il commento pascoliano: «Il P. [Poeta] si appassiona alla sua finzione che par cosa vera»89: Quis tibi tum, Dido, cernenti talia sensus Quosve dabas gemitus, cum litora fervere late Prospiceres arce ex summa totumque videres Misceri ante oculos tantis clamoribus aequor! Improbe amor, quid non mortalia pectora cogis! Ire iterum in lacrimas, iterum temptare precando Cogitur et supplex animos summittere amori, Ne quid inexpertum frustra moritura relinquat. AC Che cor, misera Dido, che lamenti erano allora i tuoi, quando da l’alto un tal moto scorgevi, e tanti gridi ne sentivi sul mare? Iniquo amore, che non puoi tu ne’ petti de’ mortali? Ella di nuovo al pianto, a le preghiere, a sottoporsi a l’amoroso giogo da la tua forza è suo malgrado astretta. Ma per fare ogni schermo, anzi che muoia, la sorella chiamando: […] VA RCO Or tu, Dido infelice, che dall’alta Tua reggia miri il lido tutto e il mare Bollir di navi e gente ricoperti, Quale e quanto è il tuo duolo! Ahi, quali all’aure Gemiti mandi! Iniquo Amor, gli umani Petti ad ogni tua voglia, empio, trascini. Ecco, ei di nuovo la Regina a forza Trae, supplice in atto, in suon dimessa, A lagrimare, e a ritentar pregando Di svolger pure Enea: l’armi sue tutte Pria ch’indarno morire, oprar vuol ella. E tu, vedendo questo, che cuore avevi, Didone? Che gemiti davi, mentre brulicar vastamente Contemplavi dall’alto la riva, e tutta vedevi sconvolta, davanti ai tuoi occhi, con tanti clamori la piana del mare! Crudele Amore, a che cosa non sforzi i cuori degli uomini. A scendere ancora alle lacrime, ancora a tentar le preghiere è costretta, a piegare l’orgoglio, supplicando, all’amore, per non lasciar nulla intentato, per non vanamente morire. Da un punto di vista di tecnica narrativa, l’autore compie una contaminazione di registri tanto sperimentale quanto drammaticamente efficace: «non è tanto importante che qui Virgilio lasci cadere (per senso del sublime e per gusto del decor) l’esempio di Apollonio che coglieva l’occasione per sfogare il proprio risentimento personale contro i suoi nemici. Molto più significativo è che Virgilio, mentre esclama la sua pietà per Didone, faccia emergere direttamente nel discorso il tormento dei sentimenti di lei […]. La struttura ripetitiva, fatta di ‘tema descrittivo’ e successiva ‘variazione patetica’, prima rappresenta il personaggio cogliendolo nei suoi atti esterni 85 Le cui diversità rispetto a Calciope, sorella di Medea, sono evidenti: «nell’azione è una figura accessoria, e Medea non si confida con lei, anzi cela i propri sentimenti, e nel momento decisivo, in occasione della fuga, agisce di testa sua, senza curarsi della sorella», R. HEINZE, op. cit., p. 158. 86 E. PARATORE, op. cit., pp. 222-223. 87 Così resa da Pascoli: «Stanno per salpare, Anna! Sarò forte, ma fa’ che io abbia un ultimo conforto. Ti prediligeva, lui, si confidava con te. Tu lo conosci bene. Va’ da lui e digli che io non sono poi stata nemica sua, che non gli ho distrutta la patria, non ho sparso le ceneri di suo padre! Eppur non vuol sentire una mia parola. Pregalo tu d’un ultimo dono: aspetti che il vento sia più favorevole, aspetti un poco», op. cit., p. 175. 88 E. PARATORE, op. cit., p. 221. 89 G. PASCOLI, op. cit., p. 175. 63 (lacrime e preghiere), poi si lascia permeare da un’empatheia prepotente: e così viene in primo piano l’interiorità della regina (i suoi sentimenti d’orgoglio e umiliazione). Ora che l’ottica è stata consegnata al punto di vista dell’infelice Didone, come se lei fosse un attore che si muove sulla scena tragica, non possono venir fuori che le stesse sue parole, rivolte alla sorella Anna»90 . La regina nota chiaramente (cernenti) quello che succede sulla riva: soffre atrocemente, e con un lungo sguardo (prospiceres) è costretta a vedere (videres) la gioiosa agitazione che precede la partenza dei Troiani, ed è proprio la corale visione dei festosi preparativi a donare tragico risalto all’intima e disperata solitudine della regina cartaginese, la quale d’altronde è consapevole che la proroga della partenza di Enea (Tempus inane peto, requiem spatiumque furori, v. 433), lungi dal rasserenarla, diverrebbe per lei ulteriore fonte di angoscia e dolore91 . Di fronte agli accorati appelli di Anna – taciuti da Virgilio – Enea si mostra irremovibile, pur soffrendo in cuor suo: il condottiero troiano resiste immobile ed inflessibile come quercia nella tempesta92 Talibus orabat, talisque miserrima fletus Fertque refertque soror. Sed nullis ille movetur Fletibus aut voces ullas tractabilis audit: Fata obstant placidasque viri deus obstruit auris. AC Queste e tali parole ella piangendo Dicea con Anna, ed Anna al frigio duce Disse, e ridisse, e riportò più volte Or da l’una or a l’altro, e tutte invano; ché né pianti, né preci, né querele punto lo muovon più. Gli ostano i fati, e solo in ciò gli ha dio chiuse le orecchie. VA RCO Così pregava, piangendo; e i suoi pianti Ad Enea la mestissima sorella Porta, e riporta; indarno, a nessun pianto Enea si piega: aspro destino, e i Numi Vegliano al varco de’ pietosi orecchi Né al cor piagato dell’Eroe tai voci Scender lasciano. […] Pregava così, questi pianti la desolata sorella Porta e riporta: ma nessun pianto lo muove, nessuna parola può ascoltar con favore: lo vietano i Fati, e gli orecchi gli chiude, placidi, un dio. egli sa che deve unicamente obbedire all’ordine di Mercurio, la cui ineluttabilità si cristallizza al centro del verso 438, nel Sed avversativo posto in variatio rispetto all’esordio At pius Aeneas del verso 393. Al definitivo rifiuto di Enea, Didone invoca apertamente la morte: Tum vero infelix fatis exterrita Dido Mortem orat: taedet caeli convexa tueri. Quo magis inceptum peragat lucemque relinquat, Vidit, turicremis cum dona inponeret aris, (Horrendum dictu) latices nigrescere sacros AC La sfortunata Dido, poiché tronca si vide ogni speranza, spaventata dal suo fato, e di sé schiva e del sole, disïò di morire; e gran portenti di ciò presagio e fretta anco le fêro. 90 G. B. CONTE, Virgilio. L’epica del sentimento (nuova edizione accresciuta), Torino, Einaudi, 2007, pp. 120-121. 91 È in quest’accezione che va intesa, secondo Pascoli, l’espressione veniam cumulatam morte dei versi 435-436 (benché Pascoli accetti la lezione ablativale cumulata): «Ma Didone dentro di sé intende “con morire, non una volta sola, ma più, con una morte moltiplicata”, perché quel tempo che Didone chiede, non farà se non irritare la sua passione e accrescere il suo dolore per la necessaria partenza, che ogni giorno, pensandola nel futuro, vedrà in atto di avvenire nel presente», op. cit., p. 176. 92Come spiegato da Macrobio (Saturnalia, V, 6, 13-4) ˗ la similitudine, aldilà dei punti in comune con le Apollonio Rodio di cui si è già discusso ˗ è di chiara derivazione omerica, in particolare da tre passi dell’Iliade: XII, 131-134(τὼ µὲν ἄρα προπάροιθε πυλάων ὑψηλάων / ἕστασαν ὡς ὅτε τε δρύες οὔρεσιν ὑψικάρηνοι, / αἵ τ᾽ ἄνεµον µίµνουσι καὶ ὑετὸν ἤµατα πάντα / ῥίζῃσιν µεγάλῃσι διηνεκέεσσ᾽ ἀραρυῖαι) per descrivere un particolare momento della resistenza sotto le mura, durante una battaglia, in occasione della morte di Cembrione; XVI, 765-771 (ὡς δ᾽ Εὖρός τε Νότος τ᾽ ἐριδαίνετον ἀλλήλοιιν / οὔρεος ἐν βήσσῃς βαθέην πελεµιζέµεν ὕλην /φηγόν τε µελίην τε τανύφλοιόν τε κράνειαν, / αἵ τε πρὸς ἀλλήλας ἔβαλον τανυήκεας ὄζους / ἠχῇ θεσπεσίῃ, πάταγος δέ τε ἀγνυµενάων, / ὣς Τρῶες καὶ Ἀχαιοὶ ἐπ᾽ ἀλλήλοισι θορόντες / δῄουν, οὐδ᾽ ἕτεροι µνώοντ᾽ ὀλοοῖο φόβοιο) durante la narrazione dei fatti di Patroclo. 64 Fusaque in obscenum se vertere vina cruorem Ella, mentre a gli altari incensi e doni Offria devota (orribil cosa a dire!), vide avanti di sé cogli occhi suoi farsi lurido e negro ogni liquore, e ‘l puro vino cangiarsi in tetro sangue: VA RCO Dai Fati allora l’infelice Dido Atterrita, già già la luce abborre, E invoca omai la sola morte. In tale Fero proposto or la conferma un alto Prodigio orrendo. Co’ proprj occhi suoi, Nell’offrir voti agl’incensati altari, Ella vedea di latte i sacri rivi Annerarsi, versandoli; vedeva Gli sparsi vini trasmutarsi in atro Sangue. […] Allora infelice, atterrita dal fato, Didone Invoca la morte: veder la volta del cielo l’angoscia. E perché compia il proposito e lasci la luce, doni sull’are che fumano incenso ponendo, ella vide (orribile a dirlo!) il latte sacro annerire, murarsi in sangue corrotto il vino libato. Al momento di portare agli altari i doni, la prima allucinazione attacca la psiche sconvolta della regina: l’acqua lustrale prende a scurirsi (nigrescere), e il senso di brusca sorpresa è reso metricamente con lo spondeo dell’iniziale vidit del verso 453. Questo primo fenomeno è preludio di un altro, che avviene immediatamente dopo: il vino si trasforma in sangue, generando spettacolo obscenum93; Virgilio impiega tale aggettivo in quattro occasioni, a proposito del volo delle Arpie (Obscenas pelagi ferro foedare volucres, III, 241), descrivendo la Furia Alletto dalle sembianze stregonesche (Et frontem obscenam rugis arat, […]. VII, 417) e parlando degli uccelli del malaugurio (Obscenae volucres: alarum verbera nosco, XII, 876): in tutte le occasioni, al lemma è quindi associato un forte senso di orrore, negatività e distruzione94. Il destino tragico di Didone appare esemplificato nella ricapitolazione sinistra e angosciosa della propria vicenda terrena (dal matrimonio con Sicheo alla morte di questo, dal giuramento di fedeltà all’amore per Enea)95: […] Agit ipse furentem In somnis ferus aeneas, semperque relinqui Sola sibi, semper longam incomitata videtur Ire viam et Tyrios deserta quaerere terra. Eumenidum veluti demens videt agmina Pentheus Et solem geminum et duplicis se ostendere Thebas, Aut agamemnonius scaenis agitatus Orestes, Armatam facibus matrem et serpentibus atris Cum fugit ultricesque sedent in limine Dirae. AC Vedeasi Enea tutte le notti avanti con fera imago, che turbata e mesta la tenea sempre. Le parea da tutti restare abbandonata, e per un lungo e deserto cammino andar solinga de’ suoi Tirii cercando. In cotal guisa le schiere de l’Eumènidi vedea Pèntëo forsennato, e doppio il sole e doppia Tebe. In cotal guisa Oreste per le scene imperversa, e furïoso vede, fuggendo, la sua madre armata di serpenti e faci, e ‘n su le porte Le Furie ultrici. […] VA RCO […] Al fin, d’Enea crudele L’imago ognor nei torbidi atri sogni La persegue e martíra: ognor sel vede Strappar dal fianco, e sola e abbandonata, Per lunga via deserta, ai Tirj indarno Avviarsi le sembra. Tal vaneggia Penteo insano, qualor schierate […] Lui stesso la folle perseguita, Enea, crudelmente, nei sogni; e sempre lasciata si sente, sola, senza compagni le sembra d’andare lunghissima via, in terra deserta cercando i suoi Tirii: così vede schiere d’Eumenidi Pénteo folle, e due soli e doppia mostrarglisi Tebe, o per le scene inseguito, il figlio d’Agamennone, Oreste, 93 «à la fois hideuse et de sinistre présage», A. SCHMITZ, op. cit., p. 169. 94 «sembra che il significato originario della parola sia proprio “male augurante, infausto”, sì che se ne è additata la derivazione dall’Etruria, insieme con l’arte aruspicina», E. PARATORE, op. cit., p. 225. 95 Cfr. B. GRASSMANN-FINSCHER, Die Prodigien in Vergils Aeneis, München, Wilhelm Fink Verlag, 1966, p. 103. 65 Innanzi a se l’Euménidi, e rimira Gemino il Sol, gemina Tebe: e tale Infurían fra l’alte scene Oreste Scorgiam, qualor d’orride faci armata E d’atre serpi, Clitennestra i passi Del figlio incalza; al suo fuggir fan fronte L’ultrici Eríne in su la soglia assise. quando fugge la madre armata di faci e di neri serpenti, ma siedono sopra le soglie, vendicatrici, le Dire. Le immagini psichiche che sconvolgono la mente di Didone, sempre più sola e isolata dal mondo96 , s’impongono drasticamente interagendo con il piano della narrazione puramente epica 97 : se sicuramente vi sono varie analogie con le Argonautiche di Apollonio Rodio98, il passo di Virgilio risente anche del modello enniano e del passaggio catulliano Necdum etiam sese quae visit visere credit, utpote fallaci quae tum primum excita somno desertam in sola miseram se cernat harena (Carmen LXIV, 55-57)99 Ben decisa a morire, Didone si rivolge ancora alla sorella, spiegandole come, in cerca di un tentativo estremo di liberarsi dall’amore per Enea, abbia deciso di rivolgersi alle arti della magia100 . Ma si tratta in realtà di una dissimulazione, dal momento che la decisione di porre fine alla propria vita è stata irrimediabilmente presa: «dopo aver parlato, l’infelice impallidisce. Anna però non sospetta che quelli siano preparativi di morte»101 . Inoltre, a differenza di Medea e della maga tessala Eritone della Farsalia102, realmente iniziate alle arti magiche, Didone non sembra prestar fiducia alle pratiche misteriche: il rituale da lei preparato funge solo da lugubre tela di sfondo per il suicidio finale. 3. Quello che si può definire ‘terzo atto’ inizia ancora una volta con la preposizione incontrata in apertura di libro AC 96 «L’assenza di comites nell’incubo di Didone traduce il timore di aver smarrito il ruolo dominante e l’aura carismatica di monarca, che si riverberano, a livello gestuale, nella prerogative di farsi seguire da una corte ampia e sfarzosa», M. RIVOLTELLA, op. cit., p. 78. 97 Cfr. D. WEST, Multi-correspondence Similes in the Aeneid, in «Journal of Roman Studies» vol. 59 n°1/2, 1969, pp. 40-49. 98 Cfr. A. PERUTELLI, Il sogno di Medea da Apollonio Rodio a Valerio Flacco, in in «Materiali e discussioni per l'analisi dei testi classici», n°33, 1994, pp. 40-41. Con diretto riferimento agli incubi di Didone è interessante vedere lo stretto collegamento tra questo passo e quanto osservato da Goethe in Über epische und dramatische Dichtung, a proposito della dimensione ‘interna’ dell’uomo nella tragedia e della forte interazione tra vari livelli, toni e piani narrativi (interno/esterno, tragico/drammatico) realizzata da Virgilio (cfr. M. FERNANDELLI, op. cit., p. 31). 99 In relazione alla rievocazione, da parte di Didone, dei momenti felici irrimediabilmente passati, Pascoli richiama altri versi dalla medesima composizione di Catullo (Regia, quam suavis expirans castus odores / Lectulus in molli complexu matris alebat, / Quales Eurotae progignunt flumina myrtus / Aurave distinctos educit verna colores (vv. 86-90), poi commentando: «Ma che dico io? Questi sono pensamenti, sentimenti, fantasticamenti de’ soli moderni! Gli antichi (tu, Virgilio!) non avevano gli occhi del corpo per la natura, né quelli dell’anima per la psiche!», op. cit., p. 177. 100 Una linea interpretativa (il cui riferimento moderno è R. PICHON, La magie dans le IVᵉ livre de l’Enéide, in «Revue de Philologie de Littérature et et d’Histoire ancienne», XXIII, 1909, p. 247 e passim) vede in quest’episodio una derivazione dalla Didone neviana (discussa nel primo capitolo) «in cui andrebbe scrota un’ipostasi della Circe omerica, mirante a tener l’eroe lontano dalla meta, come Circe aveva tentato di fare con Odisseo», E. PARATORE, op. cit., p. 228. 101 Ivi, p. 178. 102 IV, 507-532. 66 At regina, pyra penetrali in sede sub auras Erecta ingenti, taedis atque ilice secta, Intenditque locum serti se fronde coronat Funerea: super exuvias ensemque relictum Effigiemque toro locat, haud ignara futuri. […] Fatta la pira, e d’ilici e di tede aride e scisse altamente composta, la regina d’atre ghirlande e di funeste frondi ornar la fece intorno: indi le spoglie e la spada e l’effigie de l’amante sopra a giacer vi pose, ben secura di ciò che n’avverebbe. […] VA RCO Nei penetrali della reggia, all’aure Sorta è di tede e d’infiammabili elci L’accatastata pira: intorno intorno La inghirlanda Didone; e al sovrapposto Talamo, in cui già stanno e il brando e tutte D’Enea le spoglie, e la sua effigie, appende (Dotta dell’avvenir) funeree frondi. Ma la regina, enorme il rogo nel cuor della casa alzato all’aria, legno di pino, tronchi di leccio, orna con serti il cortile e lo corona di fronda funerea là sopra le spoglie sul letto pone, sapendo il futuro. Se in tutto il passo è forte il presentimento di morte, come dimostra la versione di Caro («atre ghirlande e funeste frondi») l’effigie, collegata al rito magico («solent magi effigies eorum facere propter quos carmen instituunt», commenta a questo proposito Danielino) potrebbe indicare una residua speranza d’amore che ancora anima la disperata Didone103. In efficace climax, sopravviene la notte, portatrice a tutti di sonno ristoratore (Nox erat et placidum carpebant fessa soporem / Corpora per terras silvaeque et saeva quierant / Aequora. […], vv. 522-524), ma non alla regina fenicia104. L’inquietudine (curae) non le dà tregua, colpendola con rinnovata (ingeminant) violenza, mentre la passione per Enea non arriva a spegnersi (resurgens), quasi tornando sui suoi passi (rursus) e aggiungendo dolore al dolore (saevit): chiaro è l’esempio di Apollonio Rodio. Di fronte alla sempre più prossima soluzione della morte, Didone dimostra una volta ancora, in primo luogo a sé stessa, tutta la sua regale dignità, bandendo timori e paure, come efficacemente dimostra la litote posta a conclusione del verso 508 (haud dubia futuri), variamente sciolta e resa nelle versioni di Caro, Alfieri e di Calzecchi Onesti. Benché in Omero vi siano vari passi che descrivono la calma notturna, l’archetipo del testo virgiliano potrebbe esser individuato nel fr. 159 di Alcmane105: εὕδουσι δʼ ὀρέων κορυφαί τε καὶ φάραγγες πρώονές τε καὶ χαράδραι φῦλά τʼ ἑρπέτ' ὅσα τρέφει µέλαινα γαῖα θῆρές τʼ ὀρεσκώιοι καὶ γένος µελισσᾶν καὶ κνώδαλʼ ἐν βένθεσσι πορφυρέας ἁλός· εὕδουσι δʼ οἰωνῶν φῦλα τανυπτερύγων. Allo stesso tempo, la descrizione della quiete notturna funge da modello per Tasso, quando descrive il cammino di Argante: 103 Come già notato nel primo capitolo, questo è il punto di più forte analogia – oltre che con l’ottava ecloga – con il secondo idillio teocriteo, come già dimostrato anche da E. CESAREO in Studi virgiliani 1. Spunti teocritei in Virgilio epico, in «Athenaeum», VII, 1929, p. 173 e passim. 104 «La notte scende a portare pace e silenzio a tutti; non a Didone. È la sua ultima, quella notte. Ella esamina, nel suo amore sempre ardente e disperato, i varii partiti a cui potrebbe forse anco appigliarsi. Cercare ora i maritaggi già rifiutati nei Nomadi dell’Africa? Seguire Enea e i Troiani, come una schiava? Essa, loro benefattrice? E poi la accoglierebbero? Sono così spergiuri! E se invece di seguirli essa da sola…si gettasse su loro coi suoi Tyrii? Non la seguirebbero, attaccati come sono alla loro terra. Oh! Non c’è che morire. E ripensa le prime circostanze dell’amore che si conclude con la morte: fu un suo fallo, certo; ma senza la sorella….che pure l’amava ed era ragionevole nel suo consiglio e cedeva alle sue lacrime….oh! ma era destino, e la fede giurata al cener di Sycheo non fu tenuta! », G. PASCOLI, op. cit., p. 180. 105 Fr. 89 in D.L. PAGE, Poetae melici Graeci, Oxford 1962 e tramandato da Apollonio Sofista, grammatico della seconda metà del I secolo dopo Cristo e autore di un lessico omerico. 67 Era la notte, allor ch’alto riposo Han l’onde e i venti, e parea muto il mondo. Gli animai lassi, e quei che ‘l mare ondoso, E de’ liquidi laghi alberga il fondo, E chi si giace in tana o in mandra ascoso, E i pinti augelli, nell’obblio profondo, Sotto ‘l silenzio de’ secreti orrori, Sopian gli affanni, e raddolciano i cuori. (Gerusalemme liberata, II, 96, 1-8). Ad Enea, mentre dorme sulla nave, appare Mercurio che lo esorta a partire in fretta, onde evitare la vendetta della regina: Aeneas celsa in puppi, iam certus eundi, Carpebat somnos, rebus iam rite paratis. Huic se forma dei vultu redeuntis eodem Obtulit in somnis rursusque ita visa monere est, Omnia Mercurio similis, vocemque coloremque Et crinis flavos et membra decora iuventa: «Nate dea, potes hoc sub casu ducere somnos, Nec quae circum stent deinde pericula cernis, Demens, nec zephyros audis spirare secundos? Illa dolos dirumque nefas in pectore versat, Certa mori, variosque irarum concitat aestus. Non fugis hinc praeceps dum precipitare potestas? AC Quando già di partir fermo e parato Enea, per riposar pria che sciogliesse, s’era a dormir sopra la poppa agiato. Ed ecco un’altra volta, in sogno, avanti Del medesmo celeste messaggiero Gli appar l’imago, con quel volto stesso, con quel color, con quella chioma d’oro con che lo vide più giovane e bello; e da la stessa voce udir gli parve: «Tu corri, Enea, sì gran fortuna, e dormi? Non senti qual ti spira aura seconda? Dido cose nefande ordisce ed osa Certa già di morire, e d’ira accesa A dire imprese è vòlta; e tu non fuggi, mentre fuggir ti lece? […] VA RCO Enea frattanto in su l’eccelsa poppa Certo omai del partirsi, e in punto il tutto Mezzo un riposo ei pur prendea: quand’ecco Se gli rappresenta in visíone un Dio; Qual mostrato a lui dianzi appunto s’era Di Maja il figlio; uno splendore istesso, Un giovenil purpureo fiore, i crini Aurei stessi, e la voce, e gli alti avvisi, Tutto qual s’era: Oh ! Dormi tu, dell’alma Venere figlio, (ei gridagli) tu dormi? In tal frangente? A tai perigli in grembo, senza scorgerli, insano? E spira intanto Favonio fausto; e tu nol senti? In fera Tempesta ondeggia l’adirata Dido, Che certa omai del morir suo, feroci Inganni e rio delitto in cor rivolge: E tu, mentre il fuggirtene t’è dato, A vol non fuggi? […] Enea, sull’alta poppa, ben deciso a partire, godeva il sonno, ché ormai tutto era in ordine. E a lui il fantasma del dio, con l’aspetto medesimo Tornante nel sogno s’offerse, e parve spronarlo, simile in tutto a Mercurio, e voce e colore capelli biondi e giovane corpo bellissimo: «Figlio di Venere, dormi? Dormi in questo momento? Non vedi quali pericoli ti stanno ancora d’intorno, non senti, pazzo, lo zefiro, che spira secondo? Lei medita inganni, ha in cuore orrendo delitto, decisa a morire, tempeste d’ira la scuotono. Non fuggi di qui a precipizio, finché fuggire è possibile? In sensibile variatio semantica, al verso 560 il vocativo Nate dea non ha nei confronti di Enea alcun tono celebrativo, bensì «obiurgatio cessantis est», come nota il Danielino106, e la sentenza di morte, prolettica rispetto all’esito tragico del IV libro, è tutta nelle parole di Mercurio certa mori. Il dio esorta il condottiero troiano ad affrettarsi, dal momento che Didone, in quanto donna, è 106 «quasi a rimproverargli l’accidia nel profittare della protezione largitagli dagli dei come figlio di Venere», E. PARATORE, op. cit., p. 233. 68 sinonimo di imprevedibilità e inaffidabilità, come sembra adombrare la frase (vv. 569-570) Varium et mutabile semper / Femina107 . Enea, allora, spaventato «dalla apparizione in un subito venuta e dileguata» 108 si desta precipitosamente e sprona i compagni alla partenza (v. 571-579): Tum vero Aeneas, subitis exterritus umbris, Corripit e somno corpus sociosque fatigat: Praecipites vigilate, viri, et considite trans tris: Solvite vela citi. Deus, aethere missus ad alto, Festinare fugam tortosque incidere funis, Ecce iterum stimulat. Sequimur te, sancte deorum, Quisquis es, imperioque iterum paremus ovantes;Adsis o placidusque iuves et sidera cielo Dextra feras. […] AC Enea, preso da súbito spavento, destossi, e fe’ destar la gente tutta: «Via, compagni, - dicendo – a i banchi, a i remi; ch’or d’altro uopo ne fa che di riposo. Fate vela, sciogliete: ché di nuovo Precetto ne si fa dal ciel e fretta. Ecco, qual tu ti sia, messo celeste, che ‘l tuo detto seguiamo; e tu benigno n’aíta e ‘l cielo e’l mar ne rendi amico» VA RCO Dalla tremenda visíon percosso, Già in piè balzato Enea, suoi Teucri stringe Su via, compagni; ai remi, su; le vele Sciogliamo ratti: un Dio dal ciel mi viene Affrettator del fuggir nostro: un Dio Or, per mia man le funi tronca. O Nume, Qual che sii del sacro Olimpo, agli alti Imperj or lieti obbediam noi; seguiamti; Deh, fausto arridi; e di propizie stelle Scorta concedi al corso nostro. […] Enea allora, atterrito dal fantasma fuggevole, strappa il corpo dal sonno e non dà tregua ai compagni: «Destatevi subito, uomini, sedete agli scalmi, sciogliete le vele, presto: un dio, dal cielo alto disceso, a prendere in fretta la fuga, a tagliar la ritorte ancora ci stimola. Noi ti seguiamo, o dio santo, chiunque tu sia, ancora al comando obbediamo festanti. Oh, sii benigno, soccorrici, buone nel cielo Dacci le stelle!» […] La forte analogia tra i primi emistichi dei versi 450 e 571 (Tum vero infelix [Dido] / Tum vero Aeneas), con medesima struttura spondaica ed elisione nella stessa sede, sembra suggellare l’intima benché infelice unione di Didone ed Enea. La regina, vedendo dall’alto la flotta prendere il largo, s’abbandona a rabbiose invettive109: Et iam prima novo spargebat lumine terras Tithoni croceum linquens Aurora cubile. Regina e speculis ut primum albescere lucem Vidit et aequatis classem procedere velis, Litoraque et vacuos sensit sine remige portus, Terque quaterque manu pectus percussa decorum Flaventisque abscissa comas, Pro Iuppiter! Ibit Hic, sit, et nostris inluserit advena regnis? AC […] Era vermiglio e rancio Fatto già de la notte il bruno ammanto, lasciando di Titon l’Aurora il letto, quando d’un’alta loggia la regina tutto scoprendo, poi ch’a piene vele vide le frige navi irne a dilungo, e vòti i liti, e senza ciurma il porto; contra sé fatta ingiurïosa e fera, il delicato petto e l’auree chiome si percoté, si lacerò più volte; e ‘ncontra al ciel rivolta: «Ah, Giove, – disse – Dunque pur se n’andrà? Dunque son io Fatta d’un forestier ludibrio e scherno 107 Frase riecheggiata poi anche da Calpurnio Siculo (Mobilior ventis o! Femina, Ecloghe, III, 10). In realtà, quanto detto da Mercurio intende anche distogliere Enea dalle parole di morte ascritte a Didone. Parole che, vista la reciprocità del sentimento d’amore, potrebbero costituire un ulteriore freno per il dux troiano. 108 G. PASCOLI, op. cit., p. 182. 109 «Al primo chiarore dell’alba, Didone era sull’alto dell’arce, e vide la flotta che veleggiava lontano, in linea, e il lido vuoto e silenzioso. Ella fa sentire grida selvaggie d’ira impotente: “Portate fuoco, lanciate aarmi, forza sui remi! Oh! Non è più tempo, ora. Quel pio! Che porta i suoi Penati, che si addossò il vecchio genitore…averlo potuto buttare in mare, uccidergli i compagni, il figlio e darglielo a pezzi in cibo! Potevo non vincere; morire: che importa? Avrei bruciato tutto, avrei ucciso padre e figlio e tutti e me stessa per giunta!», ivi, p. 183. 69 Nel regno mio? […] VA RCO Ma nuova luce omai recava in terra, L’Aurora, il suo Titone entro all’aurato Letto lasciando; ed ecco, dalle eccelse Torri sue la Regina, a gonfie vele In sul primo albeggiar la Teucra armata Vedea volante, e vuoto il porto e i lidi. Tre volte, quindi, e quattro, oltraggio al bianco Petto fea con le mani, e all’aureo crine, esclamando: O gran Giove! E fia pur vero, Che costui fugga illeso? Che a schernirmi Abbia nel regno mio, straniero errante? E già irrorava la terra di luce nuova la prima Aurora, dal croceo letto di Titone levandosi: appena dalle finestre vide albeggiare la luce, e vide, Didone, procedere a vele spiegate la flotta, tre e quattro volte colpendo con la mano il bel petto, strappandosi i biondi capelli: «Ah Giove, gridò, se n’andrà lo straniero, e avrà deriso il mio regno? Aldilà dell’ipallage messa in luce da Servio in riferimento all’infinito albescere110, è stata notata un’incoerenza temporale tra la partenza notturna di Enea e il fatto che Didone, all’aurora, non avrebbe potuto vedere le navi allontanarsi111. L’infelice regina si lascia andare ad un’ultima serie d’imprecazioni verso il traditore, il cui nome – come dimostra l’infandum del verso 613 – non viene più pronunciato. Sol, qui terrarum flambi opera omnia lustras, Tuque harum interpres curarum et conscia Iuno Nocturnisque Hecate triviis ululata per urbes, Et Dirae ultricesset di morientis Elissae, Accipite haec meritumque malis advertite numen Et nostras audite preces. Si tangere portus Infandum caput ac terris adnare necesse est Et sic fata Iovis poscunt, hic terminus haeret: At bello audacis populi vexatus et armis, Finibus extorris, complexu avolsus Iuli, Auxilium imploret videatque indigna suorum Funera; nec, cum se sub leges pacis iniquae Tradiderit, regno aut optata luce fruatur; Sed cadat ante diem mediaque inhumatus harena. AC Sole, a cui de’ mortali ogn’opra è conta; Ècate, che ne’ trivi orribilmente Sei di notte invocata; ultrici Furie, spiriti inferni, e dii de l’infelice Dido ch’a morte è giunta, il mio non degno caso riconoscete, e insieme udite queste dolenti mie parole estreme. Se forza, se destino, se decreto è di Giove e del cielo, e fisso e saldo è pur che questo iniquo in porto arrivi e terra acquisti; almen da fiera gente sia combattuto, e, de’suoi fini in bando, da suo figlio divelto implri aiuto, e perir veggia i suoi di morte indegna. Né leggi che riceva, o pace iniqua Che accetti, anco gli giovi; né del regno, né de la vita lungamente goda: ma caggia anzi al suo giorno, e ne l’arena giaccia insepolto. […] VA RCO Sole, o tu ch’ogni cosa in terra allumi; E tu, delle mie infauste nozze, o Giuno, Conscia e prónuba; e tu, triforme Diva, Fra le negr’ombre della notte ad alta Voce invocata; e voi, d’Averno ultrici Dire; e voi, Dei della morente Elísa, (Se alcun glien resta) or le mie preci udite: E, il rio destin, qual essi il mertan, cada Per vostra man su i rei. S’egli è pur forza D’alto Fato, ch’Enea malvagio afferri Gli Ausonii porti, in ciò si appaghi il Fato: Ma di armigera gente ai feri assalti Sole, che con le tue fiamme tutte l’opere illumini della terra, e tu artefice e complice di queste pene, Giunone, Ecate, che per trivii e città notturno l’ululo evoca, Dire vendicatrici, dèi d’Elissa che muore, accogliete voi questo, voi col pio nume perseguitate i colpevoli e udite le nostre preghiere: se pur deve giungere al porto quel maledetto, se deve toccare terra, così vuole il fato di Giove, fisso è questo termine, oppresso però dalla guerra dun popolo audace, ramingo dalla città, strappato all’abbraccio di Iulo, mendichi aiuto, veda strazio orrendo dei suoi. E quando anche di pace umiliante ai patti si pieghi, 110 «luce enim albescunt omnia, non lux albescit». 111 Cfr. E. PARATORE, op. cit., p. 285. 70 Colà soggiaccia; or da’ confini suoi Per guerre espulso; or, dagli amplessi amati Del suo Ascanio disgiunto, ajuto implori Quà [sic] e là vagante; e de’ suoi Teucri ei vegga Perire il fior, di sanguinosa morte: E quando a lui gravose leggi imposto Avrà la pace, allor né il regno ei goda, Né la luce del sol; reciso ei cada Anzi il suo dì, né onore abbia di tomba non goda del regno, non dell’amabile luce, ma cada avanti il suo giorno, su nuda terra, insepolto. Nella sua invocazione112, ricca di parole in cui suoni chiari si contrappongono a vocali scure (terrarum, lustras, harum, curarum, ululata) si possono cogliere alcuni elementi anticipatori della descrizione della inops et inhumata turba (VI, 325) vagante intorno allo Stige, come anche della preghiera di Niso: Sit qui me raptum pugna pretiove redemptum Mandet humo solita, aut si qua id Fortuna vetabit, Absenti ferat inferias decoretque sepulcro (IX, 231-216) ma il modello di riferimento principale – aldilà di vari passi dell’Iliade e dell’Aiace sofocleo – è con ogni probabilità latino. Questo è infatti da individuare nei tetrametri trocaici catalettici 321-323 (fr. CX Joc.): Iuppiter, tuque adeo summe Sol, qui omnis res inspicis, Qui mare terram caelum contines cum limine, Inspice hoc facinus prius quam fit. Prohibessis scelus della Medea enniana. Dopo aver allontanato Barce, l’affezionata nutrice di Sicheo113 il cui nome ricorda quello della famiglia di Annibale e Amilcare, mandandola a chiamare Anna, Didone si dirige nel cortile interno, monta sulla pira e, dopo aver snudato la spada di Enea114, guarda per l’ultima volta le amate spoglie e il caro letto nuziale. Poi si trafigge. At trepida et coeptis immanibus effera Dido, Sanguineam volvens aciem maculisque trementis Interfusa genas et pallida morte futura, Interiora domus inrumpit limina et altos Conscendit furibunda rogos ensemque recludit Dardanium, non hos quaesitum munus in usus. Hic, postquam iliacas vestes notumque cubile Conspexit paulum lacrimis et mente morata, Incubuitque toro dixitque novissima verba: AC Dido nel suo pensiero immane e fiero Fieramente ostinata, in atto prima Di paventosa, poi di sangue infetta Le torve luci, di pallore il volto, e tutta di color di morte aspersa, se n’entrò furïosa ove secreto era il suo rogo a l’aura apparecchiato. Sopra vi salse; e la dardania spada, ch’ebbe da lui non a tal uso in dono, 112 «il sole che si leva, fa levare, si direbbe, gli occhi a lei che torvamente guarda le vele in riga, lontane…la sua voce si fa solenne: essa vede il futuro si stragi e d’incendio: “Sole, che tutto vedi, tu Giunone, Hecate, Furie, Dei tutti di questa infelice che muore, uditemi: se quell’uomo è fato che tocchi la terra italica, che sia costretto a demandar aiuto, profugo, lontano dal figlio, e veda morire i suoi migliori; se è destino che vinca, subisca iniqua la pace e non goda del regno: muoia anzi tempo, resti insepolto», G. PASCOLI, op. cit., p. 184. 113 «la vecchierella si allontana, e Didone, con su il volto della morte future, ascende la pira, e snuda la spada di Enea…al momento di ferirsi, contempla le spoglie del tanto amato, le saluta con voce di disperato affetto, e ripercorre col pensiero la sua vita così forte, così gloriosa, felice, sì, anche felice, se quelle navi non avessero toccato il suo lido. Bacia il letto; e (anima supremamente gentile) si accontenta per vendetta, che Enea veda di lontano le fiamme del suo rogo. Si ferisce. La città è subito piena di clamore, alla notizia del fatto», G. PASCOLI, op. cit., p. 186. 114 Cfr. A. KHAN, Dido and the Sword of Aeneas, in «Classical Philology», vol. 63, n° 4 (Oct. 1968), pp. 283-285. 71 Dulces exuviae, dum fata deusque sinebat, Accipite hanc animam meque his exsolvite curis. Vixi et quem dederat cursum Fortuna peregi: Et nunc magna mei sub terras ibit imago. Urbem praeclaram statui, mea moenia vidi, Ulta virum poenas inimico a fratre coepi: Felix, heu nimium felix, si litora tantum Numquam dardaniae tetigissent nostra carinae. Dixit et os impressa toro: Moriemur inultae! Sed moriamur, ait. Sic sic iuvat ire sub umbras. Hauriat hunc oculis ignem crudelis ab alto Dardanus et nostrae secum ferat omnina mortis distinse: e rimirando i frigi arnesi e ‘l noto letto, poich’in sé raccolta lacrimando e pensando alquanto stette, sopra vi s’inchinò col ferro al petto, e mandò fuor quest’ultime parole: «Spoglie, mentre al ciel piacque, amate e care, a voi rendo io quest’anima dolente. Voi l’accogliete: e voi di questa angoscia mi liberate. Ecco, io son giunta al fine de la mia vita, e di mia sorte il corso ho già compito. Or la mia grande imago n’andrà sotterra: e qui di me che lascio? Fondata ho pur questa mia nobil terra; viste ho pur le mie mura; ho vendicato il mio consorte; ho castigato il fiero mio nemico fratello. Ah, che felice, felice assai morrei, se a questa spiaggia giunte non fosser mai vele troiane!» VA RCO Ma inferocita Dido, palpitante Per suo crudo proposto, atro di sangue L’occhio rotando, e di futura morte Tinta le guance tremule cosperse Di lividori, scagliasi per entro Ai limitari della reggia: all’alto Rogo è balzata, e furibonda il brando Dardanio snuda. Ahi brando! A sì crud’opra Il tuo signor ti destinava ei mai? Là, poich’alquanto riguardate avea L’ilíache e il troppo noto letto, Lagrimando, in se stessa sovrastava: Poscia sul letto a volto in giù lasciandosi Cadere abbandonata, a questi estremi Detti il labro schiudeva: O spoglie, amate Finché agli Dei piacque e ai Fati, or questa Alma spirante accor vi piaccia, e trarmi D’affanni tanti. Io vissi; il corso ho pieno, Qual fortuna mel dava; ond’io sotterra Ombra onorata andronne. Alta cittade Ebb’io fondata, e di mie torri cinta Vidila pure: io dell’estinto sposo Fatta ho vendetta sul crudel fratello. Felice me, (felice, ahi troppo, invero) Ove a mie spiagge mai Dardanie prore Giunte non fosser, mai!Dice; ed intanto, Abbracciando ella il talamo, prosiegue: Dunque inulta morrò?...Su, via, si muora; Ripigliava: così, così mi giova Irne fra l’ombre. Il crudo Teucro infido Miri or dal mar queste voraci fiamme, Gli occhi suoi ne satolli: ma al suo fianco Abbai sempr’egli di mia morte fera Gl’infausti augurj. […] Ma Didone, tremante, stravolta dall’atroce proposito, gli occhi iniettati di sangue, chiazzate le guance frementi, livida già della morte futura, corre nell’intimo cuor del palazzo, sale sull’alto rogo, come una pazza, e snuda la spada dardania, dono che chiese, oh non per quest’uso! Qui sulle iliache vesti, sul noto letto, per poco posò lo sguardo, con lacrime, e rimase a pensare: poi si gettò sui cuscini e disse le estreme parole: «O spoglie, dolci fin che il fato, un dio permetteva, la vita mia ricevete, da queste pene scioglietemi. Ho vissuto, ho compiuto la strada che m’ha dato Fortuna, e ora sotto la terra grande andrà la mia immagine. Città bellissima ho fatto, ho visto mie mura, vendicato lo sposo, punito il fratello nemico: felice, oh troppo felice, solo che le mie spiagge mai navi dardane fossero giunte a toccare». Disse, e premendo sul letto le labbra: «Morirò invendicata, ma voglio morire, gridò, così voglio scendere all’ombre. Beva cogli occhi dal mare questo fuoco il crudele Dardano, maledizione l morte mia con sé porti!» Se in vario modo Caro e Alfieri mettono in luce la grande dignità regale di Didone pronta al passo fatale, è forse bene puntare l’attenzione sullo ὕστερον πρότερον del verso 649 (lacrimis et mente) 72 «che favorisce l’allitterazione»115, magistralmente reso da Pascoli con “piangendo nel ricordare”116 , mentre il Moriemur inultae! (v. 659) è il chiaro modello per il leopardiano Morremo. Il velo indegno a terra sparto, / Rifuggirà l’ignudo animo a Dite, E il crudo fallo emenderà del cieco / Dispensator de’ casi (Ultimo canto di Saffo, vv. 55-58). Ma il sempre più ossessivo senso di morte contrasta fatalmente con la dolcezza (Dulces exuviae, dum fata deusque sinebat, v. 651) con cui Didone è ancora capace di vedere i ricordi. Allo stesso tempo, con un’abile sovrapposizione di piani narrativi, Didone appare, nel momento topico del trapasso, in tutta la sua ambivalenza storicomitica: se infatti appartiene ad un leggendario passato (è contemporanea degli eroi omerici), è anche parte determinante della storia romana (le guerre puniche sono proiezioni delle sue maledizioni): ella è divina e umana, «orientale et romaine; elle est séduisante et redoutable comme Cléopâtre; elle est mystérieuse et intelligente comme Cleopâtre; et, par tous ses aspects, elle est éternelle, dans sa tendresse et dans son délire»117. Ed è in questo passo che è possibile trovare ancora importanti elementi desunti dalla tragedia greca. Benché nell’Alcesti euripidea 118 la situazione sia differente, l’addio pronunciato sul talamo sembra costituire un importante precedente per le parole di Didone119 . In ultima analisi, l’intima colpa di Didone, accensa furore, potrebbe risiedere anche nella sua azione distruttiva comportante una morte innaturale, quindi una non merita mors: Tum Iuno omnipotens, longum miserata dolorem Difficilisque obitus, Irim demisit Olympo, Quae luctantem animam nexosqueque resolveret artus. Nam, quia fato, merita nec morte peribat, Sed misera ante diem subitoque accensa furore, non dum illi flavom Proserpina vertice crinem Astulerat Stygioque caput damnaverat Orco. Ergo Iris croceis per caelum roscida pinnis Mille trahens varios adverso sole colores Devolat et supra caput adstitit; Hunc ego Diti Sacrum iussa fero teque isto corpore solvo. Sic ait et dextra crinem secat: omnis et una Dilapsus calor atque in ventos vita recessit. AC […] De l’affannosa morte fatta Giuno pietosa, Iri dal cielo mandò, che ‘l groppo disciogliesse tosto, che la tenea, malgrado anco di morte col suo mortal sì strettamente avvinta; ch’anzi tempo morendo, e non dal fato ma dal furore ancisa, non le avea Prosèrpina divelto ancor il fatale Suo dorato capello, né dannata era ancor la sua testa a l’Orco inferno. Ratto spiegò la rugiadosa dea le sue penne dorate, e ‘ncontra al sole di quei tanti suoi lucidi colori lunga striscia traendo; indi sospesa sopra al capo le stette, e d’oro un filo Ne svelse e disse: «Io qui dal ciel mandata questo a Pluto consacro, e te disciolgo De le tue membra». Ciò dicendo, sparve. Ed ella, in aura il suo spirto converso, restò senza calore e senza vita. VA RCO 115 E. PARATORE, op. cit., p. 240. 116 G. PASCOLI, op. cit., p. 186. 117 A. SCHMITZ, op. cit., p. 227. 118 κἄπειτα θάλαµον ἐσπεσοῦσα καὶ λέχος / ἐνταῦθα δὴ 'δάκρυσε καὶ λέγει τάδε: /Ὦ λέκτρον, ἔνθα παρθένει᾽ ἔλυσ᾽ ἐγὼ / κορεύµατ᾽ ἐκ τοῦδ᾽ ἀνδρός, οὗ θνῄσκω πάρος, / χαῖρ᾽: οὐ γὰρ ἐχθαίρω σ᾽: ἀπώλεσας δέ µε / µόνον: προδοῦναι γάρ σ᾽ ὀκνοῦσα καὶ πόσιν / θνῄσκω. […], Alcesti, vv. 175-181. G. B. CONTE (op. cit., p. 121) pone l’attenzione sul «lamento felix, heu felix, si litora tantum / numquam Dardaniae tetigissent nostra carinae […] – un lamento che ripete significativamente i versi d’apertura della Medea di Euripide: Εἴθ᾽ ὤφελ᾽ Ἀργοῦς µὴ διαπτάσθαι σκάφος / Κόλχων ἐς αἶαν […]». 119 Cfr. J. RAUK, The cutting of Dido’s Lock, Aeneid Books Four, 696-699, in « American Philological Association. Abstracts», Atlanta, 1991, p. 52. 73 […] Impietosita allora L’onnipossente Giuno di sì lunga Agonía dolorosa, Iri le manda Fin dall’Olimpo a sprigionar quell’alma Tenace tanto. La immatura morte, Che repentina di sua man si dava La furíosa donna, al giusto e ai Fati Troppo era oltraggio: indi il fatale aurato Capello ancora non le avea disvelto Proserpina; che ancor dannata a Stige La sua testa non era. Iride adunque Le rugiadose piume d’oro all’aura Spiegando, a vol pel vario-pinto immenso Di color mille arco splendente, è scesa Sul moribondo capo; e al crin la destra Stendendo, esclama: Del tuo corpo a sciorti Mandata io sono; e questo a Pluto io reco. E in così dir, tronco il fatal capello, Ciò che di vita rimanea, svaniva. Infine la grande Giunone, pietosa del lungo patire, del morire difficile, Iride mandò dall’Olimpo, che liberasse la vita lottante, le giovani membra sciogliesse. Giacché non per fato, non di dovuta morte moriva, ma misera, avanti il suo giorno, travolta da pazzo furore, né dal suo capo Proserpina ancora il biondo capello aveva strappato, donando all’Orco Stigio la vita. Iride rugiadosa, con l’ali d’oro pel cielo mille cangianti colori traendo dal sole, volò giù, sulla testa le stette: «Questo io a Dite dono e consacro – è il comando – da questo corpo ti sciolgo». Così dice, e strappa con la destra il capello, in quel punto tutto il calore fuggì, tra i venti volò via la vita. Con l’estremo strappo del vertice crinem120 (clausola catulliana LXIV, 350, ma di derivazione euripidea, come notato da Macrobio121) si chiude la vicenda terrena di Didone: l’ultimo verso viene reso alla lettera da Alfieri – che posticipa in ultima posizione il verbo, rendendo il perfetto con l’imperfetto per dare l’idea di un’azione dolorosamente prolungata – mentre Caro traduce liberamente, vedendo la metamorfosi in vento dell’ultimo respiro di Didone. Sia Caro che la Calzecchi Onesti optano però per un passato remoto, al fine di cristallizzare in un’azione finita il trapasso, di cui viene sottolineato il lancinante dolore122. Interessante vedere come quest’ultima sia l’unica a mantenere e rafforzare l’allitterazione123 in ventos vita > “tra i venti volò via la vita”, rispetto alla più morbida versione alfieriana, e anche pascoliana “Ciò che di vita rimaneva, svaniva” traduce il primo, “e allora il calore sfuma e la vita svanisce” è la versione del secondo124. Infine, la 120 «la leggenda di Scilla – ricordata da Virgilio in Georgiche I, 405 e sviluppata nel poemetto Ciris – che aveva provocato la morte del padre Nico strappandogli il capello che ne assicurava la vita, ha determinato il motivo che trova l’ultima espressione nell’episodio di Orrilo nel canto XV dell’Orlando furioso ariostesco. 121 Saturnalia, V, 19.2. Il riferimento è ai versi (72-75) dell’Alcesti in cui Thanatos si vanta con Apollo dei suoi poteri: πόλλ᾽ ἂν σὺ λέξας οὐδὲν ἂν πλέον λάβοις: / ἡ δ᾽ οὖν γυνὴ κάτεισιν εἰς Ἅιδου δόµους./ στείχω δ᾽ ἐπ᾽ αὐτὴν ὡς κατάρξωµαι ξίφει: / ἱερὸς γὰρ οὗτος τῶν κατὰ χθονὸς θεῶν / ὅτου τόδ᾽ ἔγχος κρατὸς ἁγνίσῃ τρίχα. Con diretto riferimento al legame Didone-Alcesti, J. RAUK (The cutting of Dido’s lock, ‘Aeneid’ Book Four, 696-699, in «American Philological Association. Abstracts, Atlanta, 1991, p. 52) ha scritto: «the contras are deed and resonant. Alcestis, the perfect wife, dies in order to save her husband; Dido dies in order to destroy hers. Alcestis, in the end, is redeemed, and the value of her marriage and self-sacrifice is reaffirmed. Dido does not return from the underworld, and her reunion with Aeneas there is a bitter reaffirmation of the alienation that her fate». 122 «Although Dido commits suicide, in the end she does not yield to death without a struggles», R. A. SMITH, A lock and a Promise: Myth and Allusion in Aeneas’ Farewell to Dido in the” Aeneid” 6, in «Phoeinix», vol. 47, n°4 (Winter 1993), p. 308. 123 ««eos sequitur, qui animam aerem dicunt […] aut certe eos qui animam perire cum corpore», è il commento di Servio, da cui emerge l’ostinazione di rintracciare motivi epicurei nel testo virgiliano. A proposito della questione della mors immatura, L. NICASTRI (Per un’iniziazione a Virgilio, Salerno, Edisud, 2006, pp. 428-429), dopo aver osservato che si può colpevolizzare la natura «solo dal punto di vista insipiente e fallace di una teleologia antropocentrica», scrive: «sappiamo bene che all’interno dell’universo di senso virgiliano posto in essere nel linguaggio poetico – inteso ed esperito come via di conoscenza – egli lascia sussistere molteplici e gravi aporie: tutte quelle che il limite della dicibilità lascia irrisolte. Ecco dunque che Virgilio, diversamente da Lucrezio, ricerca il senso della morte in relazione non ad un concetto scientifico ma all’esistenza umana considerata in tutta la ricchezza delle sue tensioni vitali, dei suoi desideri, delle sue determinazioni finalistiche: di qui la sua percezione essenziale della morte come limite doloroso, decettivo (Aen. 4. 17: postquam primus amor deceptam morte fefellit) dell’esistenza umana e animale, come condizionamento radicale intrinseco e insuperabile». 124 G. PASCOLI, op. it., p. 185. 74 cifra del pathos tragico che caratterizza la chiusa risalta ancor più con la citazione dell’arcobaleno125 (v. 701), «che reca un tocco di pace al termine del lungo dramma»126 . §3 L’ultimo incontro nell’oltremondo 1. Nei lugentes campi, Didone viene significativamente nominata dal poeta mediante la medesima dittologia (phoenissa […] Dido) con cui era stata per la prima volta (I, 670) presentata. Nella Chioma di Berenice (tanto in Callimaco quanto nella versione catulliana), il taglio della ciocca aveva assicurato un sicuro ritorno di Tolomeo III: «when Aeneas echoes the lock’s cry, Dido’s husband is standing nearby, in the shaded grove. The echo thus prepares for the news that Sycaeus, like Ptolemy, has been restored to his devoted wife» 127, come ben dimostrano i versi conclusivi del IV libro. La riconciliazione con il defunto Sicheo, d’altronde, giunge come prevedibile scioglimento della colpa che attanaglia costantemente Didone. Significative sono però alcune differenze tra Didone e Berenice (ed Arsinoe). Come le regina cartaginese, anche le due donne egiziane furono associate con le loro città, ma, a differenza di Didone, il loro ruolo di coniuge non era in contraddizione con quello regale; Didone, invece, proprio a causa della vedovanza, fu fondatrice regnante di una nuova città. Piuttosto, similmente a Cleopatra (discendente di Berenice), ella ebbe il destino sfortunato d’innamorarsi di un uomo che sarebbe poi stato causa della sua rovina128 . Molto interessante è l’ipotesi interpretativa secondo cui ogni figura femminile incontrata nel Tartaro insieme a Didone potrebbe rappresentare una parte del suo passato129: Nec procul hinc partem fusi monstrantur in omnem Lugentes campi: sic illos nomine dicunt. Hic quos durus amor crudeli tabe peredit Secreti celant calles et myrtea circum Silva tegit: curae non ipsa in morte relinquont. His Phaedram Procrimque locis maestamque Eriphylen Crudelis nati monstrantem volnera cernit, Euadnemque et Pasiphaen: his Laodamia It comes et iuvenis, quondam, nunc femina, Caeneus, Rursus et in veterem fato revoluta figuram. AC Quinci non lunge si distende un’ampia Campagna, che del Pianto è nominata; per cui fra chiusi colli e fra solinghe selve di mirti, occulte se ne vanno l’alme, c’ha feramente arse e consunte fiamma d’amor, ch’ancor ne’ morti è viva. Qui vider Fedra e Procri ed Erifíle, infida moglie e sfortunata madre, di cui fu parricida il proprio figlio; vider Laodamía, Pasífe, Evadne, e Cènëo con esse, che di donna in uomo, e d’uomo alfin cangiossi in donna. 125 «Nel cielo si disegna l’arco dei mille colori. È Iris che scende per l’aerea via, a volo. La manda Giunone, perché sciolga la vita che si dibatte, essendo violenta e immeritata la morte. Per questo Proserpina, la dea Inferna, non si affrettava a togliere alla non destinata vittima il capello, che a lei la consacrava. È Iris, venuta dal cielo, che toglie quel capello, e allora il calore sfuma e la vita svanisce», G. PASCOLI, op. cit., p. 188. 126 E. PARATORE, op. cit., p. 244. 127 P. A. JOHNSTON, Dido, Berenice, and Arsinoe: “Aeneid” 6. 460, in «American Journal of Philology», vol. 108, n°4 (Winter 1987), p. 649. Un ulteriore tratto in comune, specie tra il testo catulliano e quello virgiliano, consiste nel dolore che affligge tanto Anna quanto la chioma stessa al momento della recisione/separazione: se Catullo parla infatti di abiunctae sorores (LXVI, 51), la sorella di Didone esclama sconvolta dal dolore: sic te ut posita crudelis abessem? (IV, 681). 128 Cfr. S. SKULSKY, “Invitus, regina…”: Aeneas and the Love of Rome, in «American Journal of Philology», n° 106, 1985, p. 452. 129 Cfr. J. PERRET, Les compagnes de Didon au Enfers (“Aeneid”, VI, 445-449), in «Revue des etudes latins», XLII, 1967, p. 247-261 e E. KRAGGERUD, Caeneus und der Heroinenkatalog, Aeneis VI 445-449, in «Symbolae Osloenses», XL, 1965, pp. 66-71. Scrive E. PARATORE (Commento al libro I dell’Eneide, in VIRGILIO, Eneide (libri V – VI), traduzione di Luca Canali, Milano, Mondadori (Fondazione Lorenzo Valla), 1979, p. 278): «Per molte di queste eroine, che tornano quasi tutte nella poesia ovidiana, si poteva trovare ispirazione in Euripide (Fedra, Erifile, Evadne, Pasifae, Laodamia); e data la grande fortuna di Euripide nella poesia e nella cultura ellenistica, ciò conferma che Virgilio si sia ispirato ad un catalogo ellenistico». Fedra, Procri ed Erifile sono infine le donne con cui dialoga Odisseo (Odissea, XI, 225.327). 75 VA RCO Quinci non lunge apertamente appieno Scorgonsi i campi, nomati del pianto. Per celati sentier, fra mirto e mirto Si aggiran ivi l’alme al crudo Amore State serve lassù: né il rio veleno Lasciate l’ha dopo la morte istessa. Fedra e Procri vi stanno, e la dolente Erífile, che ancor la piaga ostenta Dal crudo figlio fattale: ed Evadne, E Pasífae; cui van compagne al fianco Laodamía, e Cenéo, donna or tornato Qual egli nacque, e da Nettuno indarno Nel miglior sesso trasmutata poi. Non lontano di qui s’aprono in larghe distese i Campi del Pianto: con questo nome li chiamano. Qui quanti duro consunse con ansie struggenti l’amore, sentieri appartati proteggono, e intono una selva di mirti li copre: però non li lascia neppur nella morte l’affanno. Qui è Fedra e Procri e piena d’angoscie Erifíle, mostrante le piaghe che il figlio crudele le inferse, Euadne vede, e Pasifae: con esse Laodámia va compagna, e, uomo un giorno e poi femmina, Céneo, di nuovo tornata, per fato, all’antica figura. Con particolare riferimento a Pasifae, un comune denominatore tra questa e la regina cartaginese è il furor che anima la passione d’amore, come dimostrano bene i versi virgiliani: et fortunatam, si numquam armenta fuissent, Pasiphaen […] (Bucolica VI, 45-46) Felix, heu nimium felix, si litora tantum Numquam Dardaniae tetigissent nostra carinae (Eneide, IV, 657-658) e lo stesso furore caratterizza anche la figura di Fedra. Inoltre, se Erifile, uccisa per aver tradito il marito Anfiarao, ricevette la ferita fatale dal figlio Alcmeone, Didone fu ‘ferita’ da un altro figlio, Cupido con le sembianze di Ascanio, né si deve dimenticare che anche Berenice, come Erifile, fu uccisa da suo figlio. Lo strazio di Laodamia per la morte di Protesilao, ancora, è assimilabile al mortale dispiacere provato da Didone per la partenza di Enea130 . 2. È stato anche osservato che Enea si rivolge, nell’ultimo incontro dei lugentes campi, a Didone in toni molto vicini alla poesia alessandrina131: effettivamente, l’allusione a Catullo culminante nel verso 460 (Invitus, regina, tuo de litore cessi), su cui già si è discusso nel capitolo precedente e che – come si è detto – va direttamente collegata alla recisione della ciocca di capelli di cui si parla nei versi finali del IV libro132, va adeguatamente contestualizzata. Il segmento comprendente l’ultimo incontro tra Enea e Didone, inoltre, appare chiaramente diviso in tre momenti: la scoperta di Didone da parte di Enea (vv. 450-454), il tentativo di dialogo da parte di quest’ultimo (vv. 455-468) seguito dall’eloquente silenzio della regina 133 , che infine s’allontana (469-476): suggestiva, oltre che fondamentalmente condivisibile, l’interpretazione fornita da Thomas Eliot a riguardo, secondo cui «Dido’s behaviour appears almost as a projection of Aeneas’ own conscience; this, we feel, is the 130 Infine, se «Procri’s jealous suspicious of her husband’s innocent pursuit of the hunt might be compared with Dido’s inability to understand Aeneas’ pursuit of his fated mission» (P. A. JOHNSTON, op. cit., p. 651), per l’ambigua figura di Ceneo si può condividere quanto osservato da G. S. WEST (Caeneus and Dido, in «Transactions of the American Philological Association», vol. 110, 1980, pp. pp. 318-319), secondo cui il cambio di sesso di Cenide in Ceneo potrebbe avere un parallelo nel passaggio da moglie devota a governatore di città, con ulteriore e fatale ritorno della natura femminea con l’innamoramento per Enea, nel caso di Didone. 131 «Aeneas speaks not merely as the hero of the poem, or even as the hero of a Herculan catabasi, but as a learned, Alexandrian poet», R. A. SMITH, A Lock and a Promise: Myth and Allusion in Aeneas’ Farewell to Dido in “Aeneid” 6, in «Phoenix», vol. 47, n° 4 (Winter 1993), p. 305. Cfr. anche M. SKINNER, The Last Encounter of Dido and Aeneas: Aeneid 6 450-476, in «Vergilius», vol. XXIX, 1983, p. 18. 132 Cfr. J. TATUM, Allusion and Interpretation in Aeneid 6 440-476, in «American Journal of Philology», vol. 105, n°4 (Winter, 1984), pp. 434-452. 133 Al cui proposito Servio scrive: «tractum autem est hoc de Homero, qui inducit Aiacis umbram conloquia fugiente, quod ei fuerat causa mortis». 76 way in which Aeneas conscience would expert Dido to behave to him»134. Didone appare nel mondo ultraterreno in compagnia di altre donne, ognuna delle quali – come poc’anzi si è già accennato – rappresenta una parte del suo destino: fedele al marito come Evadne, ma non sino in fondo come Erifile; suicida per un amore vietato, al pari di Fedra, ma anche vittima innocente, come Procri. Mediante l’accostamento a Ceneo, infine, si può osservare che proprio mediante il venir meno ai pubblici/politici impegni di dux femina facti, Didone riscopre, ancorché con esito tragico, la propria dimensione intima di donna capace d’innamorarsi135 . Inter quas phoenissa recens a volnere Dido Errabat silva in magna. Quam troius heros Ut primum iuxta stetit adgnovitque per umbras Obscuram, qualem primo qui surgere mense Aut videt aut vidisse putat per nubila lunam, Demisit lacrimas dulcique adfatus amore est: Infelix Dido, verus mihi nuntius ergo Venerat extinctam ferroque extrema secutam? Funeris heu tibi causa fui? Per sidera iuro, Per superos, et si qua fides tellure sub ima est, Invitus, regina, tuo de litore cessi. Sed me iussa deum, quae nunc has ire per umbras, Per loca senta situ cogunt noctemque profundam, Imperiis egere suis: nec credere quivi Hunc tantum tibi me discessu ferre dolorem. Siste gradum teque aspectu ne subtrahe nostro. Quem fugis? Extremum fato quod te adloquor hoc est. Talibus Aeneas ardentem et torva tuentem Lenibat dictis animum lacrimasque ciebat. Illa solo fixos oculos aversa tenebat: Nec magis incepto voltum sermone movetur, Quam si dura silex aut stet marpesia cautes. Tandem corripuit sese atque inimica refugit In nemus umbriferum: coniunx ubi pristinus illi Respondet curis aequatque Sycaeus amorem. Nec minus Aeneas casu concussus iniquo Prosequitur lacrimans longe et miseratur euntem. AC Era con queste la fenissa Dido, che, di piaga recente il petto aperta, per la gran selva spazïando andava. Tosto che le fu presso, Enea la scòrse per entro a l’ombre, qual che vede o crede Veder tal volta infra le nubi e ‘l chiaro la nova luna, allor che i primi giorni del giovinetto mese appena spunta; e di dolcezza intenerito il core, dolcemente mirolla e pianse e disse: «Dunque, Dido infelice, e’ fu pur vera quell’empia che di te novella udii, che col ferro finisti i giorni tuoi? Ah, ch’io cagion ne fui! Ma per le stelle, per gli supremi dèi, per quanta fede ha qua giù, se pur v’ha, donna, ti giuro che mal mio grado dal tuo lito sciolsi. Fato, fato celeste, imperio espresso fu del gran Giove, e quella stessa forza, che da l’eteria luce a questi orrori de la profonda notte or mi conduce, che da te mi divelse; e mai creduto ciò di me non avrei, che ‘l patir mio cagion ti fosse ond’a morir ne gissi ma ferma il passo, e le mie luci appaga de la tua vista. Ah, perché fuggi? E cui? Quest’è l’ultima volta, ohimè! Che ‘l fato Mi dà ch’io ti favelli, e teco sia». Così dicendo e lagrimando intanto placar tentava o raddolcir quell’alma, ch’una sol volta disdegnosa e torva lo rimirò; poscia o con gli occhi in terra, o con gli omeri vòlta, a i detti suoi stette qual alpe a l’aura, o scoglio a l’onde. Alfin, mentre dicea, come nimica gli si tolse davanti, e ne la selva al suo caro Sichèo, cui fiamma uguale e par cura accendea, si ricondusse né però men dolente, e men pietoso restonne il teucro duce: anzi quant’oltre poté con gli occhi, e lungo spazio poi col pianto e coi sospiri accompagnolla. VA RCO Fra queste tutte, errar per l’ampia selva Vede Enea la pur dianzi uccisa Dido; O di vederla pargli; che a quel fioco Barlume, qual fra nubi incerta luna, Tra l’altre, fresca ancor di ferita, Didone fenicia vagava per la foresta immensa. Ed ecco l’eroe teucro le fu vicino, e la conobbe, fra l’ombre incerta, come chi sorgere, al principiare del mese, 134 T. S. ELIOT, What Is a Classic, London, Faber&Faber, 1946, p. 20. 135 Cfr. V. PÖSCHL, Dido und Aeneas, op. cit., p. 158. 77 La scorgea. Ma non pria le giunge appresso, E la ravvisa, che il pianto lo assale, E tal con amor tenero le parla: Dido infelice, (oimé) verace dunque Fu la novella, che di ferro estinta Tu di tua propria man cadessi? Ahi lasso! Cagion io fui del morir tuo! Ma, il giuro Per gli astri tutti, e per gl’Iddii, (se fede Dite ammette pur anco) io da’ liti tuoi Mal mio grado, o Regina, mi partiva. Comando alto de’ Numi, ch’or mi spinge Quaggiù tra l’ombre e lo squallor tremendo Di questa notte eterna, allor mi trasse Fuor de’ tuoi regni a forza. Ahi! Non credetti Che dolor tanto il mio partir ti fora. Deh, ferma il piè; dagli occhi miei non vogli Così sottrarti. Oh ! Tu mi sfuggi? E questi, gli ultimi accenti miei son pur che ascolti…. Con tali voci Enea l’irata Dido, Che torva riguardavalo, addolciva, Invitandola al pianto. Ma, rivolta Gli occhi immobili al suolo, ella si stava Sorda a sue voci, e tacita, più ch’aspro Marpesio masso in Alpe. Al fin si toglie Dalla di lui presenza, in atto ostile, Rinselvandosi là, dove di pari Amor l’appaga il pristino consorte Sichèo, che ancor le cure sue divide. Cogli occhi lagrimosi l’accompagna Quanto più puote il Teucro Eroe, compunto Dal fero caso, e impietosito, assai. vede, o crede vedere, fra nubi la luna; e lasciò correr le lagrime e la chiamò con amore: «Didone misera! e dunque era vero l’annunzio che t’eri uccisa col ferro, che avevi voluto morire. Di morte io ti fui causa! Per le stelle ti giuro, pei superi, per quale valga mai pegno sotto la terra profonda, io non volevo, regina, lasciar la tua spiaggia. Ma la legge dei numi, che or mi fa andare fra l’ombre, per luoghi squallidi, mucidi, entro la notte profonda, con la sua forza mi urgeva: e non potevo, no, credere che t’avrei dato, partendo, così disperato dolore. Ferma il passo, oh non sottrarti al mio sguardo. Chi fuggi? Per fato, è l’ultima volta che posso parlarti!» Così quell’anima ardente, che torvo guardava, Enea tentava lenir con parole, e piangeva. Ma lei gli occhi a terra, nemica, fissi teneva. Né al suo parlare cambia espressione del volto, più che se rigida roccia o scoglio marpesio là stesse. Si scosse alla fine e corse, nemica, a nascondersi nel bosco ombroso: là dove il primo marito, al suo affanno risponde, uguaglia il suo amore, Sicheo. Tanto più Enea, sconvolto dall’ingiusta sciagura, la segue con lacrime a lungo, mentre fugge, e ne piange. Se Annibal Caro decide d’insistere – mediante la reduplicatio (“Fato, Fato celeste”) – sull’ineluttabilità dell’obbligo cui Enea è dovuto sottostare, Alfieri sottolinea giustamente – a differenza della Calzecchi Onesti – la particolare sfumatura (dulci amore, tradotto con “amor tenero”) del sentimento che spinge Enea a rivolgersi a Didone. Tutta la scena è magistralmente giocata su un cambio di ruoli rispetto a due momenti topici del primo e del quarto libro, e la permutazione avviene mediante due similitudini: lo scorgere, da parte di Enea, Didone, come luna fra nubi136, e la ostinata resistenza della regina a non rivolgere parola all’addolorato Enea137 . Ancora, se il quesito con cui s’apre l’ultimo incontro di Enea e Didone sembra confermare l’ignoranza del primo circa la morte della seconda, rivelandone «his human weakness»138 , in riferimento al paragone Catullo/Virgilio circa la recisione della ciocca, nell’Eneide la spada acquista un significato ben più profondo e tragico, dal momento che è lo strumento mediante cui Didone si infligge la morte139. Solo nel mondo dell’oltretomba Enea capisce il senso della tragedia 136 immagine mediata probabilmente dall’incontro di Linceo con Eracle in Apollonio Rodio (IV, 1479-1480). 137 «This starting point of the last encounter between Aeneas and Dido sends us back to their first meeting when Aeneas, like a statue of a god, suddenly appeared from a cloud of mist which had hidden him from Dido (1. 586-593). In comparison with book 1 the roles are now reversed. The first encounter of the lovers happened in the daylight, but they had no knowledge of their fate. Now, in the darkness of the underworld, knowledge will come. The second simile relates our scene to Book 4. Despite Aeneas’ entreaties, Dido remains unmoved as marble (6. 470-471). In book 4 conversely, Dido had implored Aeneas and he had been hard as stone (4. 366) and unshattered like an oak in the storm (4. 441-449). The similes reflect the reversal of the situation and the change of roles», M. VON ALBRECHT, Roman epic: an interpretive introduction, Leiden, Brill, 1999, p. 124. 138 D. C. FEENEY, The Taciturnity of Aeneas, in «Classical Quarterly», New Series, Vol. 33, n°1, 1983, p. 217. 139 «The curse and the sword, however, rather being associated with Aeneas, the character that swears here and who is, within the heroic milieu, equal to the sword, fall instead upon Dido», R. A. SMITH, op. cit., p. 307. 78 causata140 e anche mediante l’allusione catulliana al catasterismo della ciocca, viene anticipato il futuro destino grandioso della stirpe: Giulio Cesare, discendente di Enea, la cui morte fu testimoniata dal fenomeno astronomico della cometa, diverrà post mortem figura divina, con una propria costellazione141. Per quel che concerne invece il nesso Alcesti/Didone, per la seconda (ed Enea) è condivisibile quanto, in riferimento alla tragedia euripidea, ha scritto Segal circa l’importanza della figura maschile, reale nodo problematico della tragedia142 . §4 I commenti di Fulgenzio e Bernardo Silvestre 1. Didone, come in genere tutte le figuri femminili, sembra avere un peso relativamente modesto nell’esegesi Expositio Virgilianae continentiae secundum philosophos moralis 143 di Fulgenzio: l’attenzione del commentatore africano (vissuto con molta probabilità durante il periodo dell’occupazione vandala, tra il V e il VI secolo dopo Cristo) è fondamentalmente concentrata sulla discussione/dimostrazione della valenza allegorica del percorso compiuto da Enea. Attraverso la conoscenza dei primi dolori della vita e la Bildung morale e affettiva costruita mediante silenziosi ascolti, il condottiero troiano cresce e – specie nel II e III libro del poema – si mostra completamente disinibito e diviso tra attrazioni erotiche e sogni di gloria. Il quarto libro costituisce il fulcro dell’abbandono alle tentazioni dell’amore, da cui è distolto dal ricordo di Anchise morto: «di fatto il raggiungimento della prudentior aetas coincide con l’arrivo nella penisola Ausonia e con la rinuncia allo spazio marino»144. Questo passaggio cruciale è sancito dal fuoco catartico che avvolge sia le navi (immagine allegorica dei sensi) sia il corpo di Miseno. Il valore purificatore del fuoco ricorre in vari loci del commento di Fulgenzio, anche a proposito del IV libro (Expositio virgilianae, righi 283-293): come lapidaria condanna dell’episodio di Didone, la definizione di «adulterium». Se per l’espressione, relativa al fuoco e alle ceneri quali classici simboli della purificazione, un fondamentale precedente è nel passo «Poma in terra Sodomorum gigni quidem et ad maturitatis faciem pervenire; sed morsu pressuve temptata in fumum ac favillam corio fatiscente vanescere» tratto dal V paragrafo «Infideles flagitant rationem quam ipsi nequeunt reddere...» del De civitate dei, sempre agostiniana è la fonte della frase affine «iactantiae fastu corrupti atque absumpti in fumum favillamque vanescunt« (Epistolae, XLVIII, 2). 140 «Enea – il quale aveva dovuto tacere o infingersi per non soccombere, quando la donna disperatamente amante si umiliava a supplicarlo – [effonde] ora la sua pena con un groviglio di sentimenti (dichiarazione sconsolata del proprio inutile, fatale amore; orrore e stanchezza per le peregrinazioni dolorose e paurose; umanissima illusione di poter riafferrare lì, fra l’ombre, un bagliore della passione schiantata; trepido senso dell’irrevocabilità di una gioia che s’è dovuta calpestare con lo strazio del proprio cuore), nel quale c’è un’immensa pietà, pietà di lei, pietà di sé stesso, pietà di tutt ala povera umanità dolente su cui la misteriosa Provvidenza trascorre spesso con furore di tempesta», E. PARATORE, op. cit., p. 281. 141 OVIDIO, Metamorfosi, XV, 849-851. 142 «The play is called Alcestis, but the real concern is male rather than female experience. Alcestis is there as the object of loss, but also as a problem: she displays and embodies a heroism that Admetus himself cannot reach», C. SEGAL, Euripides’s “Alcestis”: Female, Death and male Tears, in «Classical Antiquity», Vol. 11, n°1 (April 1992), p. 155. 143 Cfr. F. ROSA, Introduzione a FULGENZIO, Commento all’Eneide, Milano-Trento, Luni Editrice, 1997, p. 19. 144 Ivi, p. 9. 79 «Feriatus ergo animus a paterno iudicio in quarto libro et venatu progreditur et amore torretur, et tempestate ac nubilo, velut in mentis conturbatione, coactus adulterium perficit. In quo diu praesumptum amorem relinquit; Mercurius enim deus ponitur ingenii; ergo ingenio instigante aetas deserit amoris confinia. Qui quidem amor contemptus emoritur et in cineres exustus emigrat; dum enim de corde puerili auctoritate ingenii expellitur, sepulta in oblivionis cineres favillescit.» Nel quarto libro il giovane, libero dentro il suo animo dal giudizio del padre, si fa cacciatore e fiamma d’amore. Spinto dalla tempesta e dal nubifragio, versando cioè in uno stato di confusione mentale, si abbandona all’adulterio. In tale stato permane per un lungo lasso di tempo, fino al momento in cui su spinta di Mercurio non lascia l’amore mal concepito, frutto della sua sensualità. Mercurio è presentato quale dio dell’intelligenza. E proprio su istigazione dell’ingegno la giovinezza abbandona i confini della passione. L’amore disprezzato ha termine e s’incenerisce bruciandosi poiché, quando mediante l’intelligenza, è buttata via dal cuore giovanile, la finisce per giacere sotto le ceneri della dimenticanza e sparisce in faville. Pietra di volta nel commento di Fulgenzio è il libro VI, che dimostra la fondamentale evoluzione ‘agostiniana’: e i vari incontri sia con l’ombra di Didone che di Deifobo e di altri defunti sono volti proprio a dimostrare questo. L’incontro con Didone nel regno dei morti (Expositio virgilianae, righi 413-422) viene quindi a rappresentare simbolicamente il penultimo (l’ultimo è incarnato da Deifobo, e il primo da Palinuro) ricordo/legame di Enea con il suo passato pieno di orrore e passione impura145 . «Illic etiam et Dido videtur quasi amoris atque antiquae libidinis umbra iam vacua. Contemptando enim sapientiam libido iam contemptu emortua lacrimabiliter penitendo ad memoriam revocatur. At vero dum ad locum illum venitur, ubi dicimus: “Porta adversa in gens solidoque, adamante colomnae, vis ut nulla virum, non ipsi excindere ferro caelicolae valeant, stat ferrea turris ad auras” vide quam evidentem superbiae atque tumoris imaginem designavimus.» In questo luogo Enea rivede Didone, ormai solo un ombra dell’amore e dell’antica passione. Nella contemplazione della sapienza, l’antica passione, ormai affogata nel disprezzo, riaffiora alla memoria grazie alle lacrime del pentimento. Ma quanto si arriva a quel punto, in cui dico: “Di fonte la porta, enorme: di acciaio massiccio i pilastri non forze umane, né valgono gli stessi Celesti a smantellarli col ferro, si erge nell’aria una torre di ferro” [VI, 552-554] vedi con quanta evidenza ho indicato il simbolo della superbia e dell’arroganza. È d’altronde chiaro che una concezione di Enea profondamente mutata dall’archetipo classico (non più eroe della pietas ma sapienziale), in un contesto generale di forte valenza allegorica caratterizzato da un massiccio uso della Denkform etimologica 146 , possa comportare uno stravolgimento della classica lettura dell’episodio di Didone. La vicenda di Enea è suddivisa in tre fasi, di cui ogni gradus ha un valore ontologicamente pregnante. Alla prima fase caratterizzata dal possesso di innate qualità (habere / natura) segue quella relativa alla doctrina mediante cui si realizza l’attività intellettuale (doctrina / regere): come ultimo livello evolutivo del processo, la felicitas che completa l’educazione della persona (felicitas / ornare): ontologicamente avviene un’evoluzione che parte dalla substantia corporalis (libri I-IV) e – mediante la substantia sensualis 145 Cfr. B. OTIS, op. cit., pp. 290 e passim. 146 Cfr. E. R. CURTIUS, Europäische Literatur und Lateinisches Mittelalter, Bern-München, Franke, 1973, pp. 486- 490. conversione morte rinascita 80 dei libri V-VI – approda alla substantia censualis degli ultimi sei libri dell’Eneide147 . Ne deriva una certa disparità di trattamento, con un’analisi più approfondita della prima metà del poema virgiliano e un trattamento più sommario della seconda, dedicata ai labores più pratici. 2. Lo sbilanciamento tra commento alla prima e alla seconda parte dell’Eneide (se si vuole tra parte ‘odissiaca’ e ‘iliadica’ del poema virgiliano) si accentua maggiormente con il Commentum Super Sex Libros Eneidos Virgilii di Bernardo Silvestre, redatto orientativamente tra il 1125-1130. Aldilà di tutta una serie di problemi legati alla trasmissione del testo148, chiaramente ereditato da Fulgenzio è l’idea interpretativa (allegorica) dei primi libri dell’Eneide come narrazione di un percorso di progressiva e catartica maturazione/perfezione149: rispetto all’esegesi di Fulgenzio, vi è un gusto enciclopedico ed erudito che in parte rischia di essere in alcuni punti eccessivamente gravoso. Come nel caso di Fulgenzio, d’altronde, netta e senza appello è la condanna di Didone, il cui nome, seguendo quanto adombrato già nell’Expositio Virgilianae continentiae, conterrebbe la condanna già nella sua radice etimologica (che avrà la sua importanza anche nel Convivio dantesco): Didone si conferma quindi quale regina libidinis150 , perno assiale di una civiltà e di una mentalità distorta e assolutamente contraria alla logica – crudamente sessista – di chi scrive151: ritornano, questa volta in salsa cristiana, le inossidabili convinzioni di superiorità del maschio sulla donna, inconcepibile nelle vesti di governatrice di città. In apertura di Commentum, l’autore opera una distinzione tra differenti modalità narrative («naturalem scilicet et artificialem», [1]): in particolare, la seconda consiste nella tecnica del flashback, cioè «quando a medio narrationem incipimus artificio atque modo ad principium recurrimus» ([2]). Oltre Terenzio, Bernardo inserisce anche Virgilio tra coloro che adottano questa tecnica, [2] Tum enim foret iste ordo naturalis, si primo excidium Troie describeret atque inde Troianos in Cretam, a Creta Sciciliam, a Scicilia in Libiam deduceret. Primo eos ad Didonem deducit atque Eneam subvertionem Troianam et cetera que passus fuerat enarrantem introducit. [2] Potrebbe esservi l’ordine naturale se davvero prendesse a descrivere la caduta di Troia conducendo poi i Troiani a Creta, da qui in Sicilia e dalla Sicilia in Libia. Per prima cosa invece li conduce da Didone e mostra Enea che racconta la rovina di Troia e tutte le altre disavventure. e come esempio viene indicato proprio l’episodio di Didone. Sebbene poco dopo si legga: 147 Cfr. F. ROSA, op. cit., pp. 14-15. 148 A partire dal fatto che un solo manoscritto (Parisinus 16146) porta nel titolo Bernardi Silvestris super sex libros Aeneidos Virgilii una sicurezza d’attribuzione, mentre negli altri testimoni il nome dell’autore non compare. 149 «i primi sei libri dell’epos alludono, per significato simbolico e nella figura del protagonista, esule da Troia, agli stadi dello sviluppo umano, collocati ognuno nella serialità dei libri di Virgilio: infanzia (I), fanciullezza (II), adolescenza (III), giovinezza (IV), età virile (V) e infine conquista della comprensione filosofica trascendente attraverso la discesa nel regno dei morti (VI)», B. BASILE, Introduzione a B. SILVESTRE, Commento all’ “Eneide”, Roma, Carocci, 2008, p. 30. 150 M. GIOSEFFI, La tradizione di commento a Virgilio, in «Nec timeo mori: Atti del congresso internazionale di studi ambrosiani nel XVI centenario della morte di sant’Ambrogio» (Milano, 4-11 aprile 1997, a cura di Luigi F. PIZZOLATO e M. RIZZI), Milano, Vita e Pensiero, 1998, p. 620. Cfr. anche J. E. SINGERMAN, Under clouds of Poesy. Poety and Truth in French and English Reworkings of the «Aeneid» 1160-1513, New York, Garland, 1986, pp. 1-25 e N. RUFF, Regina, meretrix and libido: the Medieval and Rrenaissance Dido, in «Acta Conventus Neo-latini Hafniensis, Copenaghen, 12-17 August 1991», Tempe, Binghamton, 1997, pp. 875-881. 151 [12 ]«In hac civitate invenit mulierem regnantem et Penos servientes quia in mundo isto talis est confusio quod imperat libido et virtutes opprimuntur quas per Penos, fortes et rigidos viros, intelligimus atque ita servit vir et imperat mulier. Ideo in dinivis libris dicitur mundus civitas Babilonis, id est confusionis». Dido < > libido 81 [3] Per immoderatum Didonis amorem ab appetitu illicitorum revocamur. [3] Attraverso l’amore libidinoso di Didone siamo distolti dal desiderio dell’illecito. l’incontro tra Didone e Enea è descritto in termini innegabilmente negativi: [12] Tectus nube Carthaginem venit. Quemadmodum nubes coruscationem ascondi, ita ignorantia sapientiam. Sub ignorantia Carthaginem venit, id est ad novam civitatem mundi scilicet qui quidem civica est omnes habens in se habitatores. In hac civitate regnum habet Dido, id est libido. Hec civica nova est Enee quia nuper in eam illatus est. [12] Nascosto in una nuvola, [Enea] giunse a Cartagine. Come la nube cela lo splendore, così l’ignoranza nasconde la sapienza. Sotto il velo dell’ignoranza egli arrivò a Cartagine, cioè la città nuova del mondo, che è anzi una città che raggruppa in sé tutti gli abitanti. Qui ha il suo regno Didone, vale a dire la lussuria. La città è nuova per Enea, che vi è giunto da poco. Dopo l’invito da parte della regina, nel secondo libro, a narrare le proprie vicende152, il commento del Quartus Liber si concentra sull’atto peccaminoso della caverna: [23] Sepulto patre venatum vadit. Tempestatibus actus in spluncam cum Didone divertit ibique adulterium committit. Quam turpem consuetudinem consilio Mercurii deserit. Dido vera deserta in cineseres excocta defficit et demigrat. [23] Sepolto il padre, [Enea] va a caccia. A causa di temepste, è costretto a rifugiarsi con Didone in una grotta dove commette adulterio. Tale turpe relazione, su consiglio di Mercurio, viene troncata. Didone, poi, abbandonata, muore e trapassa, divenuta cenere. Torna quindi sia il lemma adulterium che l’immagine della cenere, entrambi già utilizzati da Fulgenzio: se quindi «il naufragio di Enea […] è la nascita dell’uomo, gettato nudo nell’esistenza […] Didone è naturalmente l’età delle passioni, mentre Mercurio è l’intelligenza»153, grazie a questa è possibile abbandonare le insidie della carne 154 . Se anche nelle Glosae di Silvestre ritornano concetti già espressi dall’esegeta africano (come ad esempio la ricorrente equazione del mare come simbolo della passione155), l’attenzione del commentatore della scuola di Chartres si concentra, anche per quel che riguarda Didone, più che tutto sul VI libro, termine della progressione etica di Enea, e sul carattere peccaminoso della lussuria: anche in riferimento allo sguardo della regina e alle osservazioni in precedenza fatte sulla dittologia demissa vultu, Bernardo Silvestre sostiene che ella, conscia della sua colpa, è quasi costretta a guardare a terra, dal momento che “il lussurioso non alza verso i cieli l’ingegno e la sua ragione”156. È nell’Ade (segno di rinuncia a ogni fascinazione mondana) che il condottiero troiano entra in vero e fertile contatto con il sacro, lasciando dietro le sue spalle ogni mondana caducità. Solo nell’oltremondo, per Silvestre, chiuso tra infernali fiumi di dolore ([51] «Lethen esse oblivionem, Stigem odium, Flegetontem ardorem irarum, Acherontem tristiciam»), Enea acquista consapevolezza della negatività propria della sua natura contingente. 152 [15] «Per hoc enim quod ad narrandas historias suasu Didonis provocatur, nichil aliud demostratur nisi quod ad proferenda verba sua eum manifestari volens voluntas hortatur cui satisfaciens in verba prorumpit». 153 H. DE LUBAC, Esegesi medievale – i quattro sensi della Scrittura (vol. 4 sezione V “Scrittura e Eucarestia”), Milano, Jacabook, 2006, p. 293. 154 [25] «Increpat Mercurius Eneam oratione alicuius censoris. Discedit a Didone et desuescit a libidine». 155 Ad esempio [47] «MARIA: commotiones temporalium et carnis libidines» e [52] «MARIA: libidines. PEGAGI: commotionis temporalium. […] MINAS PELAGI: infestationes carnis». 156 Per la versione integrale delle Glosae di Bernardo Silvestre ai versi 450-476 del VI libro dell’Eneide, cfr. Appendice II. 92 Capitolo III DIDONE NELLA PATRISTICA DIDONE NELLA PATRISTICA NELLA PATRISTICA E NEL MEDIOEVO: LA RICEZIONE DEL MITO 93 §1 La lettura dei Padri della Chiesa 1. In particolar modo nella letteratura patristica, rispetto a quella classica1 , l’espediente retoricostilistico dell’exemplum virtutis ha goduto di indubbia fortuna: sono stati soprattutto i primi autori della cristianità latina a farne un uso ben mirato, volto a mettere in luce varie figure o personaggi appartenenti al mondo pagano, nonostante – specie per quel che concerne gli aspetti della verginità e della castità – nella storia della chiesa non mancassero fulgidi esempi, come il caso di Maria o di Susanna ed Anna dimostrano2 . Benché strenui accusatori di tanti aspetti della paganità, «the Christian Apologists had all practiced the exercices assigned by the grammaticus and rhetor and had declaimed on themes from Greek and Roman history before they began to plead the cause of Christianity»3 . In quest’ottica, Didone acquista un’importanza indiscussa, fornendo un’ulteriore dimostrazione dell’effettivo peso della tradizione ‘altra’, relativa alla regina di Cartagine, rispetto a quella della tragica passione amorosa per Enea. D’altronde, a testimoniare la presenza di casi di fedeltà estrema, anche nella letteratura latina, non erano mancati nella storia di Roma casi di donne che preferirono suicidarsi piuttosto che sopravvivere al proprio coniuge4 . Insieme a Lucrezia, moglie di Tarquinio Collatino divenuta suo malgrado adultera e perciò suicida5 , Didone è una figura che, specie in Tertulliano, ricorre con una certa insistenza. Anche Petrarca (Africa, III, 652-772), dopo aver lodato Didone, si soffermerà sulle qualità e sui meriti di Lucrezia. Il fine è ovviamente quello di mostrare un modello, strenuo e allo stesso tempo credibile, di castità, tenuta presente la visione gerarchica con la quale questa veniva considerata6 . Sul comune modo di vedere ed elogiare la verginità, è sintomatico l’uso insistito di alcuni termini e di determinate espressioni: se infatti Valerio Massimo, parlando delle donne del passato, parla di coloro che presero un solo marito quali meritevoli della «corona pudicitiae»7 , Girolamo usa l’espressione 1 Fondamentale è la distinzione presente nella Retorica aristotelica (I, 2, 8) tra induzione dialettica (ἐπαγωγή) e retorica (παράδειγµα), intendendo quest’ultimo come esempio paradigmatico. Importanti esempi di applicazioni di exempla possono trovarsi nelle Tusculanae Disputationes di Cicerone e nelle Epistolae senecane, passando – seppur indirettamente – alla Naturalis Historia pliniana, sino al Liber Memorialis di Lucio Ampelio e al già citato Collectaneae Rerum memorabilium di Giulio Solino. In questo genere particolare posizione acquista l’opera di Valerio Massimo Factorum et Dictorum memorabilium Libri Novem, cfr. M. L. LORD, Dido as Example of Chastity: The Influence of Example Literature, in «Harvard Library Buletin», XVII, 1 (January), pp. 22-23. Un’esaustiva, benché oggi datata, panoramica su quest’argomento comprensiva anche dei frammenti e fonti indirette relative a Terenzio Varrone, Cornelio Nepote e Giulio Igino è H. W. LITCHFIELD, National ‘exempla virtutis’ in Roman Literature, in «Harvard Studies in Classical Philology», XXV (1914), pp. 1-71. 2 Cfr. AMBROGIO, De Virginibus, II, 6-7 e De Viduis, 24 e LUCA, Vangelo, II, 36-37. 3 M. L. LORD, op. cit., p. 24. 4 Come ad esempio la moglie di Pomponio Labeo (cfr. TACITO, Annales, VI, 29). 5 «Sp. Lucretius cum P. Valerio Volesi filio, Collatinus cum L. Iunio Bruto venit, cum quo forte Romam rediens ab nuntio uxoris erat conventus. Lucretiam sedentem maestam in cubicolo inveniunt. Adventu suorum lacrimae obortae, quaerentique viro " Satin salve?" "Minime" inquit;"quid enim salvi est mulieri amissa pudicitia? Vestigia viri alieni, Collatine, in lecto sunt tuo; ceterum corpus est tantum violatum, animus insons; mors testis erit. Sed date dexteras fidemque haud impune adultero fore. Sex. est Tarquinius, qui hostis pro hospite priore nocte vi armatus mihi sibique, si vos viri estis, pestiferum hinc abstulit gaudium". Dant ordine omnes fidem; consolantur aegram animi avertendo noxam ab coacta in auctorem delicti: mentem peccare, non corpus, et unde consilium afuerit culpam abesse. "Vos" inquit "videritis quid illi dabeatur: ego me etsi peccato absolvo, supplicio non libero; nec ulla deinde impudica Lucretiae exemplo vivet», LIVIO, Ad Urbe Condita, I, 58, 6-10. 6 Cfr. GIROLAMO, Adversus Iovinianum, I, 3. Al primo posto vi erano ovviamente le vergini, seguite dalle vedove che rifiutavano le seconde nozze e infine dalle donne fedeli ai propri mariti. Come notato ancora da Lord (op. cit., p. 26), Agostino (De bono viduitatis, 6) sembra anteporre alla castità coniugale la continenza vedovile. 7 Factorum et Dictorum memorabilium Libri Novem, II,1,3. 94 «virginitatis coronam»8 , forse seguendo la frase tertullianea «Fortunae Muliebri coronam non imponit nisi univira, sicut nec Matri Matutae»9 . 2. Giustino, nella già citata Epitome dell’opera storica perduta di Pompeo Trogo afferma – seguendo la narrazione di Timeo – che quando i Cartaginesi obbligarono Didone a sacrificarsi per il bene della patria sposando Iarba, ella dichiarò ambiguamente che sarebbe andata dove la chiamavano il suo destino e la città. Detto ciò e fatto preparare un rogo, quasi volesse offrire un sacrificio ai Mani di Sicheo, vi salì e si uccise davanti al suo popolo. Secondo tale versione Didone muore quindi pura, e proprio in virtù della sua castità fu lodata dai Padri della Chiesa. Tra questi, Tertulliano sembra essere particolarmente interessato alla storia della regina di Cartagine. Non è d’altronde casuale che questo interesse, in una particolare fase della storia di Roma, venga da un fervido eretico proveniente dalla costa dell’Africa settentrionale10 che, da una prima adesione alla dottrina cattolica si sposta gradualmente su posizioni montaniste. Tre opere tertullianee riflettono questo passaggio: Ad uxorem (anteriore al 206), De exhortatione castitatis (circa 210) e De monogamia (214). Sin dal primo lavoro citato, che è una lunga lettera scritta alla moglie, Tertulliano pone l’accento sull’importanza della castità, in particolare vedovile: Didone viene citata direttamente nel XIII capitolo del De exhortatione castitatis: «ut Dido quae profuga in alieno solo, ubi nuptias regis ultro optasse debuerat ne tamen secundus periretur, maluit e contrario uri quam nubere». Il dato più interessante di questo passaggio risiede nella completa confutazione del messaggio paolino, secondo cui: «Dico autem non nuptis, et viduis: bonum est illis si sic permaneant sicut et ego. Quod, si non se continent, nubant. Melius est enim nubere quam uri» 11 . Parlando della monogamia in uso presso gli «ethnici» (pagani)12, la figura della regina d’origine fenicia ritorna sempre nel capitolo conclusivo del trattato: Didone, insieme a Lucrezia, viene citata come fulgido esempio di «foemina saecularis», capace di distinguersi per la sua pervicace monogamia. Nel De monogamia Didone viene nuovamente citata nell’ultimo capitolo, in maniera fortemente simile a quanto già descritto nel De exhortatione castitatis: «exurget regina Cathaginis et decernet in Christianas, quae profuga et in alieno solo et tantae civitatis cum maxime formatrix, cum regis nuptias ultro optasse debuisset, ne tamen secundas eas experiretur, maluit e contrario uri quam nubere» 13 . 8 GIROLAMO, Adversus Iovinianum, I, 3. 9 TERTULLIANO, De Monogamia, 17. 10 «a una prima fase di evangelizzazione e rinforzo della dottrina segue, dopo l’Editto di Milano del 313, l’identificazione della religione con il potere temporale, cui reagiscono movimenti di rigorismo, trattati dalla chiesa ufficiale quali eresie», P. BONO-M. V. TESSITORE, op. cit., p. 67. 11 PAOLO, Ad Corinthios, VIII, 9. Secondo Rambeaux (Tertullien face aux morales des trois premiers siècles, Paris, les Belles Lettres, 1979, p. 223) l’affermazione tertullianea non è in completa contraddizione con quella paolina, dal momento che il primo vorrebbe vedere la limitatezza del valore del vincolo matrimoniale, cui sarebbe comunque da preferire la castità. 12 «Denique, monogamia apud ethnicos ita in summo honor est, ut et virginibus legitime nubentibus univira pronuba adhibetur», TERTULLIANO, De exhortatione castitatis, XIII. 13 Id., De monogamia, XVII, 2. 95 All’interno di una galleria d’esempi di varie figure del passato che preferirono darsi la morte piuttosto che cedere alle tentazioni della carne, in Ad martyres (197) l’eretico africano cita sempre Didone: «Heraclitus, qui se bubulo stercore oblitum exussit; item Empedocles, qui in ignes Aetnaei montis dissiluit; et Peregrinus, qui non olim se rogo immisit, cum feminae quoque contempserint ignes; Dido, ne post virum dilectissimum nubere cogeretur: item Asdrubalis uxor, quae iam ardente Carthagine, cum maritum suum supplicem Scipionis videret, cum filiis suis in incendium patriae devolavit» 14 . Ancora, enumerando i casi di coraggioso disprezzo per la morte, in Ad nationes vengono citate varie donne, tra cui Didone: «Regina Aegypti bestiis suis usa est. Ignes post Carthaginensem feminam Asdrubale marito in extremis patriae constantiorem docuerat invader ipsa Dido»15 . L’associazione tra Didone e la moglie di Asdrubale, presente anche in Floro (Epitoma de Tito Livio, II, 15.15-17) e Valerio Massimo (III, 2), verrà mantenuta sino ad Orosio e Otto von Freising16 . Nell’ Apologeticum (197), Didone è ancora una volta inserita, seppur senza che ne sia fatto direttamente il nome, in una serie di positivi esempi al cui nome si lega un’ ammirevole idea di perseveranza e coraggio: «Aliqua Carthaginis conditrix rogo secundum matrimonium dedit: o preconium castitatis!» mentre nel De anima (208-212) Tertulliano, ragionando sulla trasmigrazione dell’anima umana nel corpo degli animali, si domanda sotto quale forma di animale sarebbe potuta rinascere Didone: «Age nunc, ut poetae in pavos vel in cycnos transeant, si vel cycnis decora vox est, quod animal indues viro iusto Aeaco? Quam bestiam integrae feminae Didoni?» 17 . La ricorrenza nelle citazioni tertullianee della figura di Didone quale vergine casta, martire e suicida, in nome di un ideale di fedeltà onorato sino all’estremo, conferma allora la portata della tradizione extra-virgiliana, ben diversa rispetto a quella incentrata sulla storia d’amore per Enea: inoltre l’evidenza di come Tertulliano, per indicare i valori della castità, della fedeltà e del coraggio, faccia sovente ricorso a figure pagane, dimostra come egli venga a porsi, in ultima istanza, quale continuatore di «quella stessa cultura da lui talvolta chiamata sprezzantemente pagana» 18 . D’altronde, pur se coerente con l’involuzione sempre più oltranzista della sua dottrina, tale estenuante difesa della secunda virginitas non sembra trovare riscontri né nella dottrina biblica (nell’Antico Testamento in più punti viene ribadito che la vedova senza figli maschi poteva/doveva convolare a nuove nozze). 14 Id., Ad martyres, IV. 15 Id., Ad nationes, I, 18. 16 «Sic ultimae reginae ac primae, Dydonis scilicet, sors et exitus similis fuit», Chronica de duabus civitatibus, II, 41. 17 Id., De anima, XXXIII. 18 P. BONO-M. V. TESSITORE, op. cit., p. 72. Cfr. anche M. L. CARLSON, Pagan Examples of Fortitude in the Latin Christian Apologists, in «Classical Philology», Vol. 43, n° 2, pp. 97-98. 96 3. Similmente a quanto fatto da Tertulliano, anche Girolamo accosta la storia di Didone a quella della moglie di Asdrubale, probabilmente grazie alla mediazione del testo perduto di Tertulliano Ad Amicum Philosophum19: «Nam Hasdrubalis uxor, capta et incensa urbe, cum se cerneret a Romanis capienda esse, apprehensis ad utroque latere parvulis filiis, in subiectum domus suae devolvit incendium» 20 . A differenza di Tertulliano, Girolamo tratta la storia di Didone in maniera più dettagliata; nel XIV paragrafo dell’Epistula CXXIII ad Ageruchiam de monogamia (opera composta per distogliere una giovanissima vedova da nuove nozze), viene citato direttamente il verso 552 del IV libro dell’Eneide: «Non licuit thalami expertem sine crimine vitam Degere more ferae, tales nec tangere curas. Non servata fides cineri promissa Sichaei. Proponis mihi gaudia nuptiarum: ego tibi opponam pyram, gladium, et incendium. Non tantum boni est in nuptiis quod speramus, quantum mali, quod accidere potest, et timendum est» 21 . Iin questa radicale contrapposizione tra le gioie del matrimonio e l’estremo sacrificio della rinuncia Didone viene quindi riproposta, in modo assolutamente estraneo sia all’immagine di donna mortalmente ferita dalla passione sia da quella della pericolosa ammaliatrice orientale, quale esempio di strenua forza, «reginam pudicam sexu suo fortiorem»22 . Se anche Draconzio esprime ammirazione per l’eroismo dimostrato di Didone, non ponendosi il problema della coesistenza di differenti tradizioni del suo mito23, Agostino – ad ulteriore conferma dell’inevitabilità della versione virgiliana24 della tragedia amorosa, come dimostra anche la XXVIII Dictio di Ennodio25 – racconta di come, colpevolmente dimentico dei propri errori, si fosse lasciato distrarre dalla storia di Didone26 durante i suoi studi di gioventù: «[…] primae illae litterae, quibus fiebat in me et factum est et habeo illud, ut et legam, si quid scriptum invenio, et scribam ipse, si quid volo, quam illae, quibus tenere cogebar Aeneae nescio cuius errores oblitus errorum meorum et plorare Didonem mortuam» 27 . 19 Benché sia nell’Adversus Helvidium che nella lettera ad Eustochio (Epistula XXII) Girolamo abbia discusso della superiorità della verginità rispetto al matrimonio. 20 GIROLAMO, Adversus Iovinianum, I, 43. 21 Id., Epistula CXXIII Ad Ageruchiam de monogamia, XIV. 22 M. FELICE, Octavius, XX, 6. 23 Dives Dido fugax, exctincti coniugis ultrix, / Urbis Elisaeae perfectis moenibus ample, / Ipsa pyram manibus propiis construxit, et aram, / Quam pedibus furiata suis conscendit, et arsit. / Impulit ad flammas accurrere funere vivo / Aut amor Aeneae, aut venientis terror Hiarbae. Carmen De Deo, III, 499-504. 24 P. BONO-M. V. TESSITORE, op. cit., p. 77. Cfr. anche H. JACOBSON, Augustine and Dido, «The Harvard Theological Review», Vol. 65, n°2 (April 1972), pp. 296-297. 25 Cfr. Appendice V. Con specifico riferimento a questa parafrasi in prosa dei versi 365-387 del IV libro virgiliano cfr. L. PIROVANO, La “Dictio 28” di Ennodio. Un’etopea parafrastica, in ‘Uso, riuso e abuso dei classici’ a cura di M. GIOSEFFI, Milano, LED, 2010, pp. 15-52. 26 Alla citazione agostiniana forse «non è estraneo un pizzico di compartecipazione particolare per un dettaglio per un personaggio celebre dell’Africa», E. GIANNARELLI, L’infanzia secondo Agostino: “Confessiones” e altro, in ‘”L’Adorabile vescovo di Ippona: Atti del convegno di Paola (24-25 maggio 2000) a cura di F. E. CONSOLINO, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2001, p. 17. 27 AGOSTINO, Confessiones, I, 13, 20. Sul rapporto Virgilio-Agostino, con vari riferimenti specifici a Didone, cfr. G. WILLS, Vergil and St. Augustine, in ‘A companion to Vergil’s Aeneid and its tradition’ (ed. by J. FARRELL and M. J. PUTNAM), Blackwell, Chichester, 2010, pp. 124.132. 97 Subito dopo aver ricordato gli studi giovanili, Agostino si lamenta della miseria propria di chi – come lui – viene sedotto da simili storie28: «Didone si presenta ad Agostino sub specie della poesia ammaliatrice, dell’inganno prodotto dalla fantasia»29. Con ciò resta ben inteso che la condanna morale, come affermato da Pierre Courcelle, non implica una diminuzione del fattore emozionale insito nella vicenda di Didone, anche per gli stessi lettori cristiani30, e a ulteriore dimostrazione di quanto – anche nei secoli a venire – la complessa e tragica storia di Didone ed Enea e le loro diverse interpretazioni abbiano suscitato gli interessi più vari, si veda la distinzione tra “verosimile falso” (cui afferisce la poesia) e “verosimile vero” (relativo invece alla storia) operata da Agostino Mascaldi nella Ars Historica (1636)31 . È anche importante notare come anche in sede cristiana venga dato risalto alle virtù di Didone quale fondatrice di città, in linea diretta con il primo libro dell’Eneide. Nel primo libro della raccolta dei Mythographi Vaticani, dopo alla narrazione della Fabula Didonis et Historia Saturni (211)32, il paragrafo successivo (212) è dedicato infatti all’Item de Didone et condita Carthagine, dove compare anche qualche variante del mito: «Dido cum pertrasiret insulam Iunonis, illic accepit oraculum et sacerdote eius abstulit, cum ei parum crederet promittenti sedes Cartagini. Quo cum venissent, sacerdos elegit locum faciende urbi, quo effosso inventum est capud bovis. Quod cum displicuisset, quia bos semper subiugatur, alio loco effosso capud equi inventum est, et placuit quia hoc animal, licet subiugetur, bellico sum tamen est vincite t plerumque concordat. Illic ergo Iunoni templa fecerunt. Unde et | bellicosa est Cartago per equi omen et fertilis per bovis» mentre in un’altra fonte del VII secolo, il Chronicarum Quae dicuntur Fredegarii Scholastici Liber II vi è l’inserimento, comprensivo di elementi di novità e differenza rispetto ad altre versioni, di Didone in un constesto storico relativo alla storia del popolo ebreo: «10a . Cartago inb tempore Salomonis a lacedaemonies in Africa condita est a rege Cestratoe et alias urbis plurimas. Nam et Cartago a Arcedoned Tyro, ut veroe aliae, a Dido, filia eius, 28 «Quid enim miserius misero non miserante se ipsum et flente Didonis mortem, quae fiebat amando Aenean, non flente autem mortem suam, quae fiebat non amando te, Deus, lumen cordis mei et panis oris intus animae, meae […].», Ivi, I, 13, 21. 29 P. BONO-M. V. TESSITORE, op. cit., p. 81. Cfr. anche A. G. HAMMAN, La vita quotidiana nell’Africa di S. Agostino, Milano, Jaca Book, 1989, pp. 90-91, 30 Cfr. H. DE LUBAC, Esegesi medievale. Scrittura ed Eucarestia. I quattro sensi della scrittura vol. 4 (Vol. XX Opera Omnia), Milano, Jaca book, 2006, pp. 292-293. 31 «Due sorti di verisimile, per quanto a questo luogo appartiene, si possono considerare: una che riguarda il falso, l’altra che ch’ha per oggetto il vero. E mi dichiaro: finge Virgilio, per cagion d’esempio, Didone, reina di Cartagine, innamorata d’Enea, innamorata d’Enea, ch’abbandonata e tradita furiosamente s’uccide. Il fatto è tutto falso, perché Didone fu castissima donna, né mai d’Enea s’invaghì, né mai lo vide; rattiene con tutto ciò la somiglianza del vero, perché molte donne veramente per amore disperatamente s’uccisero; e poteva Didone per avventura uccidersi, se, disonorata, sotto la fede del maritaggio, dall’amico e dall’ospite, in quelle congiunture di luogo e di tempo finte dal poeta avvenuta si fosse. Questo verisimile, che intorno a materia falsa s’aggira, falso anch’egli parimente s’appella», cit., in E. BELLINI, Agostino Mascardi tra “ars poetica” e “ars historica”, Milano, Vita e Pensiero, 2002, p. 148. Tale descrizione segue quanto scritto da Tommaso Campanella nella lettera a Cristoforo Pflug «a’ primi di luglio 1607», in cui si legge: «finge Enea avvilito appo Didone, ma con falsità intollerabile, in vituperare donna tanto eccellente» (cfr. T. CAMPANELLA, Lettere, a cura di V. SPAMPANATO, Bari, Laterza, 1927, p. 120. 32 «Dido metonis filia, quem Virgilius bellum nomat, interfecto Acerbo coniuge suo, quem Virgilius Sycheum nominat, a Pygmalione rege fratreque suo per fugam elapsa naves ascendit cum magno pondere auri et Affrice littora pervenit. Ibi ab Hyarba rege Maurorum tantum soli emit quantum corio bovis posset metiri vel occupare, et fraude urbem vendicavit. Nam corium in tenuissimas corrigias sectum tetendit occupavitque fugus erraret Iunone sociata et, ne longo tedio lassaret vie, eam nynphis Affrice commendavit alendam, quo Cartaginem magnam Iuno semper ibi habuit.» 98 ann. 144 expleta fuisse refertur. Colleguntur autem omni tempus a Moysin et egressusf Israel […]»33 . §2 Didone nel Medio Evo 1. È a partire dall’epoca medievale, però, che della storia di Didone si inizia a fare un uso diverso, dando alla vicenda della regina un significato nuovo: se «The Aeneid requires its Dido, if only to autenticate its hero’s grief»34, è in quest’epoca che la principessa d’origine cartaginese, sulla scia delle riflessioni patristiche, acquista una luce nuova. Sia nell’ essenza drammatica propria del testo virgiliano sia nella sfumatura elegiaca della VII Epistula ovidiana, la tragedia della regina di Cartagine inizia infatti ad essere considerata come possibile risposta/alternativa al tema principale dell’Eneide, con un sensibile senso di rottura nei confronti di una ben consolidata tradizione: «By displacing the epic hero Aeneas, the tradition of reading Dido disrupts the patrilineal focus of the Aeneid as an imperial foundation narrative»35. Si è visto, d’altronde, come le vicende della regina cartaginese siano intimamente connesse con gli sviluppi del più importante regno occidentale. Questo – come si è già avuto modo di osservare in vari punti – comporta molte implicazioni, di vario genere, che dal piano più strettamente storico e letterario arrivano sino a quello sociologico. Significativo, ad esempio, il fatto che per secoli le donne siano state escluse dallo studio dei testi classici36: «This pattern is closely connected with the position of women in society and with the fact that until recently the learned professions, where Latin was used, were closed to them»37. Tale realtà implicava che per secoli e secoli l’Eneide, come praticamente tutti i testi latini e greci, fossero stati destinati ad un pubblico esclusivamente maschile, come sagacemente testimoniato ad esempio da Virginia Woolf38, e tale dato ha avuto indubbie ricadute, pesanti sebbene indirette, sull’assetto socio-politico dei vari stati dell’occidente europeo 39. Accanto a Virgilio (che comunque rimane il principale artefice della fortuna nei secoli di Didone40), anche Ovidio rivestiva un ruolo importante 33 Cfr. Monumenta Germaniae Historica (Scriptorum Rerum Merovingiorum Tomus II), ed. B. KRUSCH, Hahn, Hannover, 1888, p. 48. 34 L. I. LIPKING, Abandoned women and poetic tradition, University of Chicago Press, 1988, p. 227. 35 M. DESMOND, op. cit., p. 2. 36 Quanto Virgilio sia stato centrale nella formazione dell’uomo romano è confermato da Quintiliano (Institutio oratoria, I.8.5): «Ideoque optime institutum est, ut ab Homero atque Vergilio lectio inciperet, quanquam ad intelligendas aorum virtutes firmiore sudicio opus est des huic rei super est tempus, neque enim semel legentur. Interim et sublimitate heroi carminis animus adsurgat et ex magnitudine rerum spiritum ducat et optimis imbuatur». Anche nel periodo medievale l’autore dell’Eneide fu un riferimento obbligato, cfr. A. SCAGLIONE, The Classics in Medieval Education in ‘The Classics in the Middle Ages: Papers of the Twentieth Annual Conference of the Center for Medieval and Renaissance’ (ed. by A. S. BERNARDO and S. LEVIN), Binghamton, Center of Medieval and Early renaissance Studies, 1990, pp. 343-362, M. L. HOLTZ, La survie de Virgile dans le haut moyen age in ‘La presence de Virgile: Actes du colloque des 9, 11 et 12 décembre 1976, Paris, 1978, pp. 209-222 e B. M. OLSEN, Virgile et la renaissance du XIIe siècle in ‘Lectures médiévales de Virgile: Actes du colloque organisé par l’École française de Rome’, Rome, 1985, pp. 31-48. 37 W. J. ONG, The Barbarian Within and Other Fugitive Essays and Studies, New York, The Macmillan Company, 1962, p. 162. 38 Cfr. V. WOOLF, Three Guineas, New York, 1938, p. 85. Per analoghe osservazioni relative ad altri testi di Virginia Woolf (come ad esempio A room of One’s Own, Jacob’s Room and the Waves e To the Lighthouse) cfr. M. DESMOND, op. cit. p. 4. 39 Cfr. R. I. MOORE, The Formation of a Persecuting Society: Power and Deviance in Western Europe 950-1250, Oxford, Basil Blackwell, 1987, pp. 124-153. 40 «No cabe duda de que a Virgilio exclusivamente debe Dido su vida de fama dentro de la literatura occidental», M. R. LIDA DE MALKIEL, Dido en la literatura española. Su retrato y defensa, London, Tamesis Books, 1974, p. 3. 99 nell’orizzonte didattico medievale41, e (anche) su questi autori si formavano gli uomini preposti ad aver un peso influente e decisivo nella società. L’equivalenza Romanitas >< mascolinità 42 in diretto riferimento al poema di Virgilio sembra ricevere ulteriori conferme sia dall’idea di «modern audience» dell’Eneide, secondo l’analisi di Curtius, sia da alcune riflessioni di Harold Bloom a proposito del testo virgiliano: se infatti il primo scrive: «engraved in the heart of every reader of the Aeneid are the flowerlike youths – “purpureus veluti flos” – Nisus and Euryalus, Lapsus and Pallas, and, above all the rest, Ascanius»43 , il secondo, sulla stessa lunghezza d’onda, nota: «I suspect that, if he [Virgil] was in love with any of his own characters in the poem, it was with Burnus, rather than Dido, let alone Aeneas»44. La connessione tra splendore dell’impero romano e identità (sicuramente prevaricante, secondo i canoni odierni) maschile si spiega bene, d’altronde, con la successione patrilineare della gens troiana, che viene preservata anche grazie alle perdite di Creusa e Didone45, nei confronti delle quali Enea manifesta rispettivamente disattenzione e irresponsabilità46, determinando in sostanza la loro ultima natura di vittime sacrificate sull’altare dello Splendor Romanitatis. Questo dato interessa specialmente la ricezione medievale di Enea come traditore, i cui tratti eroici vacillerebbero proprio in virtù di alcuni suoi discutibili comportamenti47 e – anche alla luce di quanto detto a proposito della lettura del testo virgiliano da parte dei padri della chiesa – riceve ulteriore conferma dalle osservazioni di Eliot su Enea, visto prototipicamente come l’eroe della cristianità: «It is only upon readers who wish to see a Christian civilization survive and develop that I am urging the importance of the study of Latin and Greek. If Christianity is not to survive, I shall not mind if the texts of the Latin and Greek languages became more oscure and forgotten than those of the language of the Etruscans»48. Queste osservazioni acquistano una particolare importanza in relazione a due fattori: in primo luogo al ruolo ‘fuori schema’ rivestito da Didone (e per certi versi da Camilla, essendovi analogie di non poca importanza tra le due donne49) all’interno dell’Eneide, e – connesso a questo 41 «Virgil and Ovid were part of medieval boys’ educational curriculum. Ovid’s Metamorphoses and Heroides provided inspiration for the depiction of love psychology in romances. His Ars amatoria and Remedia Amoris gave medieval readers a provocatively amoral, witty, sensual – male oriented – models for approaching the subjects of sexual desire and women which made its own contribution to the potential ambivalent, even anti-Christian, ways of conceiving sexual experience, a set of contradictions, latent or overt, which have fascinated, perplexed, and divided readers of many medieval romances and lyrics ever since», H. PHILLIPS, Medieval Classical Romances, in ‘Christianity and Romance in Medieval England’ (ed. by. R. FIELD, P. HARDMAN and M. SWEENEY), Cambridge, Boydell&Brewer, 2010, p. 6. 42 «Not only have readers of Virgil historically been men, but the reading of the Aeneid – as part of Latin training – has been associated with a classic-specific performance of masculinity», M. DESMOND, op. cit., pp. 7-8. 43 E. R. CURTIUS, Virgil in European Literature, in ‘Virgil’s Aeneid: Modern Critical Interpretations’ (ed. H. BLOOM), New York, Chelsea, 1987, p. 16. 44 H. BLOOM, ivi, p. 5. 45 Legate da un processo di sostituzione iniziato da Didone e concluso da Lavinia (la prima prende il posto di Creusa, mentre la seconda sostituisce la regina cartaginese) secondo una lettura di tipo antropologico del testo virgiliano fornita da M. SUZUKI, Metamorphoses of Helen: Authority, Difference, and the Epic, London, Ithaca, 1989, pp. 92-149. 46 «The women’s deaths are at least partially attributable to the manner of Aeneas’s departure although Aeneas does not acknoledge this. To Creusa Aeneas is fatally inattentive. To Dido he is also irresponsible, even treacherous», C. G. PERKELL, On Creusa, Dido and the Quality of Victory of Virgil “Aeneid”, in ‘Reflections of Women in Antiquity’ ed. H. P. FOLEY, New York, Gordon and Breach Science Publications, 1981, p. 370. 47 Cfr. M. REINHOLD, The Unhero Aeneas, in «Classica et Medievalia» vol. 27, 1966, pp. 195-207. 48 T. S. ELIOT, Modern Education and the Classics, in ‘Selected Essays’, London, Faber and Faber, 1932, p. 515. Cfr. anche ID. Virgil and the Christian World, in ‘On Poetry and Poets’, London, Faber and Faber, 1957, pp. 135-148. 49 «Both women are leaders with constructive energy that is openly acknowledged and praised in the text. Both represent the potential of power to be autonomously wielded by female leaders. Although both undergo extreme 100 primo aspetto – alla nozione di “gender” fornita recentemente; tali definizioni metodologiche diventano particolarmente cogenti soprattutto in connessione ad un’analisi della complessità della figura della regina cartaginese e delle varie letture che in letteratura e in musica ne sono state date. Se infatti Joan Wallach ha parlato di «gender» come «primary field within or by means of which power is articulated»50, Trinh Minh-ha scrive: «the notion of gender is pertinent to feminism as far as it denounces certain fundamental attitudes of imperialism and as long it remains unsettled and unsettling»51. A proposito di Camilla, inoltre, è da notare come la forte differenziazione rispetto a Didone – con l’ideale mediazione rappresentata da Lavinia – sia un tratto fondante dell’universo femminile del Roman d’Enéas52 . Per contro, su influsso dell’Adversus Iovinianum nonché seguendo il tono larmoyant dell’epistola ovidiana, Chaucer – come del resto John Gower nella sua Confessio amantis, in cui compare proprio il motivo della lettera da parte dell’amante ormai votata al suicidio a causa dell’abbandono53 – inserisce nella House of Fame la storia di Didone, o meglio la «Legenda Didonis martiris, Cartaginis regina»: in linea con la tradizione patristica degli exempla, viene così messo in luce la positività della sovrana fenicia. Ma, ad ulteriore dimostrazione della polisemica ricchezza di cui il mito di Didone si può di volta in volta ammantare54, in Chaucer la sua storia acquista un’importanza considerevole perché, all’interno della cornice onirica caratterizzante la narrazione, l’intento dell’autore è celebrativo non dei fasti della capitale dell’impero, bensì di Venere55 . 2. Se per un verso le letture eticizzate del testo virgiliano indurranno autori come Dante a condannare Didone senza appello, dall’altro intorno alla figura della regina si sviluppa, partendo dal testo di Giustino e dalla lettura fornita dai Padri della Chiesa, una lettura della leggenda volta – in maniera diametralmente opposta alla prima – a mettere in luce lo strenuo valore di castità vedovile proprio di Didone. Una delle prime testimonianze di questa seconda interpretazione – sposata da Petrarca e Boccaccio ‒ è contenuta nel Chronicon di Benzo di Alessandria in cui, al fine di purificare l’immagine della regina e preservarne la valenza storica autonoma dalle vicende di Enea, reversals, their characters nonetheless provide a representation of power as a female prerogative, if only momentarily, in the epic», M. DESMOND, op. cit., p. 14. 50 J. W. SCOTT, Gender and the Politics of History, Columbia University Press, 1988, pp. 44-45. 51 T. T. MINH-HA, Woman Native Other: Writing Post-coloniality and Feminism, Indiana University Press, 1989, p. 79. 52 «Camilla’s enhanced importance creates a trio of female portraits, presenting three female types according to contemporary perceptions: first Dido, as the epitome of the passionate, lustful woman, a sexually experienced widow, and the epitome too of woman as dangerous Desire, tempting the hero away from his heroic mission; second, Camilla, chaste and virtuous, lacking Dido’s dangerous association with unconstrained passion, yet unfruitful and participating – in quite startling fashion – in the public, masculine world of politics and bloodshed; finally Lavine, an ideal combination: young, innocent and virtuous yet ripe for love and marriage, combining intense passion with a pivotal role in the public political dramas, and representing the ideal fusion of mutual will with legal marriage», H. PHILLIPS, op. cit., pp. 19-20. 53 Cfr. P. BONO – M. V. TESSITORE, op. cit., p. 96. 54 Tale possibilità di varie, e non di rado opposte, possibilità di interpretazione è ovviamente comune ad una larghissima cerchia di figure femminili: «From Eve to Pandora, to Dido, to the elegiac domina in the works of Propertius, Tibullus, and Ovid, and to the Blessed Virgin Mary, the icon of the feminine has been used to represent a variety of complex and often contradictory notions», Introduction a Sex and Gender in Medieval and Renaissance Texts – The Latin Tradition, ed. by B. K. GOLD, P. A. MILLER and C. PLATTER, University of New York Press, 1997, p. 6. 55 Per un esaustivo inquadramento della leggenda di Didone in Chaucer cfr. C. BASWELL, Virgil in Medieval England: Figuring the Aeneid from the Twelfth Century to Chaucer, Cambridge Univerity Press, 1995. Per i rapporti tra l’ipotesto virgiliano, la VII epistula ovidiana e la lettura che dell’episodio di Didone fa Chaucer cfr. anche T. LYNN TINKLE, Medieval Venuses and Cupids: sexuality, hermeneutics, and English poetry, Stanford University Press, 1996, pp. 115 e passim. 101 viene rilevata, mediante la diretta citazione delle fonti di cui si è appunto parlato, la discrepanza cronologica che metterebbe in discussione l’incontro tra i due: «ACTOR: Eliminandus igitur per hec Trogi sive iustini dicta illorum fabulosus error, qui, sequentes Omerum, quem Sibilla Erictrea mendacem appellat, nec non Virgilium et Ovidium, sequaces Omeri, quos locutos constat ut Octaviano Augusto placerent, quibusve mos est non istoria sequi, sed legem potius artis poetice immitari, credunt, immo asserunt, Eneam Troianum hanc vidisse Didonem aut ei contemporaneum fuisse eamque eum adarnasse impudico vel pudico amore et ob id, cum se clam absentasset, ipsam se pugione confodisse, furibundi amoris vehementia victam. Preter enim dicta Trogi sive Iiustini habemus doctores illos magnos, Ieronimum et Augustinum, in testes omni exceptione contra talium errorem, maxime videlicet quod Dido nec se occiderit propter Eneam nec eum umquam venisse Carthaginem» (M, f, 136r) 56 . È quindi su questa base, analogamente a quanto sviluppato nel Roman de la Rose e nel Troy Book di Lydgate, che prende inizio «il filone di Enea traditore di un amore sincero e dunque degno di disprezzo»57, cui appartiene anche la Declamatio attribuita ad Antonio Loschi da Vicenza, in cui la regina Cartaginese prende le proprie difese contro l’autore dell’Eneide58 . §3 Didone in Dante 1. L’episodio dell’amore tragico di Didone, indiscutibilmente, ha da sempre goduto di solida fama: questo, prima che dall’indiretta testimonianza agostiniana già citata, viene confermato dai versi di Ovidio: legitur pars ulla magis de corpore toto quam non legitimo foedere iunctus amor (Tristia, II, 535-536) La figura di Didone è presente in vari loci dell’opera di Dante, e proprio in riferimento a questa pluralità di situazioni, quanto detto circa l’importanza e la complessità delle differenti tradizioni incentrate sulla regina cartaginese risulta non poco pertinente. A differenza di altri personaggi, quello di Didone è uno dei pochi appartenenti alla tradizione classico-mitologica, fatto oggetto di allusioni nella poesia cortese, giungendo direttamente dal poema virgiliano. A riprova della diffusione del mitologema virgiliano in età medievale, anche in un ambito di letteratura didascalico/moraleggiante a diffusione popolare, è all’interno di una composizione veneta che si riscontra la presenza della sovrana fenicia, sotto una particolare angolatura dell’ampia 56 Cfr. M. PETOLETTI, Il «Chronicon» di Benzo d’Alessandria e i classici latini all’inizio del XIV secolo – Edizione critica del libro XXIV: «de morbus et vita philosophorum», Milano, Vita&Pensiero, 2000, p. 100. 57 P. BONO, Una storia molte storie – La tragedia di Didone regina di Cartagine, in ‘Le forme del teatro’, Contributi del gruppo di ricerca sulla comunicazione teatrale in Inghilterra, volume IV, a cura di V. PAPETTI, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1989, p. 11. 58 Cfr. N. FESTA, Virgilio querelato da Didone. Saggio inedito di Antonio Loschi da Vicenza, in ‘Atti della Reale Accademia d’Italia, Rendiconto delle classi di Scienze Morali e Storiche’, setima serie, I, 1940, pp. 183-201. 102 tradizione che la riguarda. In qualità di negativo exemplum della femminile incostanza/volubilità, così Didone è ritratta in quello che può dirsi «il più antico testo misogino in volgare italiano»59: E Dedo libïana, que regnäo en Tire E posta en Cartaço, com’ai audito dire, avanti qe ‘l marito zese en Persi’ a morire, feceli sagramento c’altr’omo non avere. Com’ela se contene, en scrito trovato l’aio, e de quel sacramento tosto se sperçurao: alò co’ ‘l dus Eneas a Cartaço ‘rivao, senç’ogna demorança a lui s’abandonao (Proverbia super natura feminarum, 101-108), ma nel poema in nona rima, L’intelligenza, attribuito a Dino Compagni, la storia e la passione di Didone vengono giudicate meno bruscamente: all’interno di una descrizione del soffitto del palazzo di Madonna, la «avvenente» regina cartaginese viene inclusa tra le donne «di grande valore»: Nel mezzo della volta è ‘l Deo d’amore Che tiene nella destra mano un dardo, Ed avvisa qualunque ha gentil core, E fierelo, cha mai non ha riguardo; Ed havvi donne di grande valore, Che ‘nnamorar dl suo piacente sguardo. Quì v’è chi per amor portò mai pena, Qui v’è Parigi con la bella Lena E chi mai ‘nnamorò per tempo, o tardo. La bella Polissena v’è piagente. Quando Accillesse la prese ad amare. E la regina Didon v’è piangente, Quand’Eneasse si partìo per mare, Che d’una spada si fedìo nel ventre, Quando le vele li vide collare; (strofe 70-73). Venendo all’opera dantesca, prima ancora di fermare l’attenzione sulla figura di Didone, è il citato stralcio dai Proverbia a richiamare, per naturale associazione, i versi in cui il giudice Nino Visconti di Gallura, deplorando le nuove nozze della propria moglie, assume appunto l’infrazione della vedovanza60 a manifesto segnale della fragilità femminile: 59 G. CONTINI, Poeti del Duecento, Tomo I, Napoli-Roma, Ricciardi, 1995, p. 521. Sull’inserimento di Didone all’interno della folta schiera di donne che tesero inganno ai propri uomini o li indussero al peccato cfr. A. BASCAPÉ, Arte e religione nei poeti lombardi del Duecento, Firenze, Olschki, 1964, p. 49. 60 Sulla condizione di vedovanza nel medioevo cfr F. BELLETTI-L. REBUZZINI, La vita ancora: storia di famiglie vedove in Italia, Milano, Edizioni Paoline, 2008, p. 179, J. LECLERCQ, La figura della donna nel medioevo, Milano, Jaca Book, 1994, p. 57, A. V. NAZZARO, La vedovanza nel cristianesimo antico, in ‘Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Napoli’, n° 26, 1983-1984, pp. 103-132, Id., Figure di donne cristiane: la vedova, in Atti del convegno nazionale ‘La donna nel mondo antico’, Torino 21-23 aprile 1986 (a cura di R. UGLIONE), Torino, 103 Per lei assai di lieve si comprende quanto in femmina foco d’amor dura, se l’occhio o ‘l tatto spesso non l’accende (Purgatorio, VIII, 76-78) Benvenuto da Imola Alessandro Vellutello Et ex hoc Ninus arguit ab uxore sua ad alias instabilem amorem mulierum, dicens: per lei assai di lieve si comprende, idest, per unam faciliter cognoscitur de aliis; vel secundum aliam literam, di là, idest, in mundo viventium; quanto in femina foco d'amor dura, idest, non diu durat ardens amor in muliere, se l'occhio o 'l tatto spesso nol raccende. Mulier enim, ut alibi dictum est, naturaliter est frigida, sed more ferri si accenditur visu vel tactu efficitur calidior viro, quae caliditas non continuatur, nisi saepe reaccendatur. Soggiungendo, che per l'essempio di lei, assai legiermente si può comprendere, quanto in femina dura fuoco d'amore, se da l'occhio, se dal viso, o dal tatto non vien sovente ad esser acceso, volendo inferire, che dura brevissimo tempo, onde il Pet.: "Femina è cosa mobil per natura, Ond'io so ben che un amoroso stato In cor di donna picciol tempo dura". E Virg.: "Varium et mutabile semper foemina". Nel commento del Vellutello i versi danteschi vengono messi in connessione con quelli virgiliani (Eneide, IV, 569-570)61, anch’essi attestati sulla plurisecolare tradizione misogina. Procedendo in più preciso ordine, è da ricercarsi nel secondo canto dell’Inferno la prima importante connessione tra il Dante-agens e il protagonista dell’Eneide: l’espressione da parte del personaggiopoeta di tutta la sua incredulità circa la possibilità d’intraprendere il viaggio nell’oltremondo avviene mediante la doppia negazione62: Ma perché io venirvi? O chi ‘l concede? Io non Enea, non Paolo sono: (Inferno, II, 31-32) che, rivolta all’autore del poema incentrato su Enea, tende ad assimilare, in singolare sincretismo, il personaggio letterario pagano e la riconosciuta auctoritas cristiana. Nel secondo cerchio dell’Inferno (canto V) Didone è presente, fra le tante anime componenti la schiera di coloro che la ragion sommettono al talento (Inferno, V, 39)63 . A proposito di una simile collocazione, le riflessioni di Girolamo nell’ Adversus Iovinianum sono richiamate in alcuni dei primi commenti alla Commedia, mentre, al contrario, sempre a tale riguardo, il Vellutello prende in considerazione il disappunto petrarchesco Pietro Alighieri (III redazione)64 Jacopo della Lana CELID, 1990, pp. 197-219. Con specifico riferimento alla figura di Didone, cfr. il capitolo «Le trionphe de la désolation» in Y. FOEHR-JANSSENS, La veuve en majesté. Deuil et savoir au féminin dans la litérature médiévale, Genève, Droz, 2000, pp. 29-46. 61 Cfr. capitolo II pp. 67-68. 62 «This famous double denial has long been read as a kind of negative self-definition: Dante is in effect affirming that he is both Aeneas and Paul. That is to say, his journey will be modeled on theirs; he will be a new Aeneas and a new St. Paul», K. BROWNLEE, op. cit., p. 2. 63 Interessante la postilla di Torquato Tasso ad locum: «Perchè Didone non è posta nel cerchio degli uccisori di se stessi, ponendosi ciascuno ov'è condannato dal maggior peccato? e perchè Catone e Lucrezia non vi son posti?»: la questione è discussa da A. BARTOLI in Delle opere di Dante Alighieri: la Divina Commedia (vol. 1), Firenze, Sansoni, 1887. 104 Yeronimus vero scribens ad Iovinianum dicit dictam Didonem pudicam in viduitate mansisse et se occidisse propter Iarbam regem Musitanorum volentem ipsam in uxorem per vim Questa fu Dido reina di Cartagine e fu moglie di Sicheo. Or morto questo Sicheo, sicom'era usanza de' pagani, ella fe' ardere lo corpo suo, e mettere la cenere in uno vaso e sopra questo vaso giurò e fece sacramento di mantenersi castitade, e continuo lo tenea sotto lo capo del suo letto. Or in processo di tempo ella giacque con Enea e tennelo per forza più tempo. Costui li stava a invito: e secretamente fuggì da essa e fuori di sue contrade. Questa Dido veggendo che Enea era fuggito si mise una spada per lo petto e si uccise. Or, sicome appare nel testo, ella per lussuriare ruppe fede al cenere di Sicheo, sopra il quale ella giurò, com'è detto. Benvenuto da Imola Alessandro Vellutello Hic autor nominat aliam famosam reginam, quam describit ab amore et genere mortis. Quomodo autem Dido fuerit amorata de Enea, et quomodo se occiderit propter eius recessum, patet eleganter apud Virgilium, et quotidie vulgi ore celebratur. Sed hic est attente notandum quod istud, quod fingit Virgilius, nunquam fuit factum, neque possibile fieri, quin Eneas, teste Augustino in lib. de Civitate Dei, venit in Italiam per trecentos annos ante Didonem. Ipsa etiam Dido non se interfecit ob amorem laxivum, imo propter amorem honestum, quoniam Iarbas rex Affricae petebat eius coniugium, et ipsa non volens nubere alteri, et non valens contradicere potentiae eius, in cuius regno fundaverat Carthaginem, praeelegit mori, et seipsam interfecit; fuit enim pudicissima femina, sicut scribit Ieronimus contra Iovinianum hereticum. Sed statim obiicies, lector: cur ergo Virgilius finxit hoc? Dicendum quod multiplici de causa. Primo, quia voluit ostendere quod imperium romanum debebat dominari toto orbi; ideo fingit quod Eneas primus autor imperii habuerit tres uxores, unam in Asia, et haec fuit Lavinia filia regis Latini; tertiam fingit ipsum habuisse in Africa, scilicet Didonem, ut per hoc daret intelligi quod populus romanus, descensurus ab Enea, debebat de iure habere totam terram sub potestate sua, sicut vir habet uxorem sibi subiectam, et iuste dominatur ei. Secundo, ut ostendat quod odium implacabile, quod semper fuit inter Romam et Carthaginem, habuerit originem et initium a primis autoribus utriusque imperii, scilicet ab Enea et Didone; unde ipse Virgilius introducit ipsam Didonem dicentem, et imprecantem in recessu Eneae. questa vuol inferir che fu Dido figliuola di Belo e sposa di Sicheo, il qual essendo stato occiso da Pigmalion fratello di Dido, sperando posseder li suoi thesori, ella si fuggì con quelli in Affrica, ove secondo che scrive Iustino, pose Carthagine vivendo sempre in somma castità fin a tanto, ch'essendo richiesta in matrimonio da Iarba Re de' Masilitani, con protesto di crudel guerra, quando non assentisse, de la qual temendo molto i suoi cittadini, l'essortavano a questo, onde preso da loro certo tempo a rispondere, et il qual venuto, adunò tutti essi suoi cittadini, a' quali disse solamente queste poche et ultime parole "Ottimi cives, ut vultis ad virum vado". E dopo questo, datosi d'un coltello nel petto, passò a l'altra vita, più tosto elegendosi la morte, che romper fede al cener del morto Sicheo suo marito. Onde 'l Pet. nel trionfo di Castità a tal proposito di lei parlando "Taccia 'l vulgo ignorante io dico Dido, Cui studio d'honestate a morte spinse, Non vano amor, com'è pubblico grido", perchè Virg. imitato dal nostro poeta, in questo luogo, per ornar il suo poema finge, che Enea, trasportato da fortuna di mare, arivasse in Affrica, ove Dido innamorandose di lui, ultimamente la conoscesse; e che partendo poi per venir in Italia, ella s'uccidesse per troppo amore. Onde dice che s'ancise amorosa, e che ruppe fede al cener di Sicheo Prendendo in esame l’intero blocco dei versi 52-63 «a prima d i color di cui novelle Tu vuo’ saper», mi disse quelli allotta, «fu imperatrice di molte favelle. A vizio di lussuria fusì rotta, che libito fé licito in sua legge, 64 Mentre invece la prima versione del Commentarium è: «Ieronimus vero in libro Contra Iovumianum dicit quod Dido casta permansit et se occidit propter amorem castum, eo quod Iarbas rex Libie aem tamen volebat in coniugem». 105 per tòrre il biasmo in che era condotta. Ell’è Semiramìs, di cui si legge, che succedette a Nino e fu sua sposa: tenne la terra che ‘l Soldan corregge. L’altra è colei che s’ancise amorosa, e ruppe fede al cener di Sicheo; poi è Cleopatràs lussurïosa». è possibile fare varie osservazioni in riferimento a fonti latine e cristiane: se infatti Didone e Semiramide compaiono, insieme ad altre donne, nella Fabula CCXLIII di Igino (Quae se ipsae interfecerunt), tra coloro che morirono suicide («Dido Beli filia propter Aeneae amorem se occidit […] Semiramis in Babylonia equo amisso in pyram se coniecit»65) e nel girone dei lussuriosi sembrano appaiate dallo stesse parole dantesche (La prima [...] v. 52 è Semiramide, segue L’altra […] v. 61 che è appunto Didone, mentre Cleopatràs lussurïosa v. 63 è introdotta da un poi ). In un’altra fabula, ugualmente di Igino, è possibile trovare un analogo elenco («una sorte di canone inverso, […] di donne castissime»66) mentre, con specifico riferimento alle tre sovrane nominate nel Canto V, si può rinvenire nella Historia Augusta – precisamente, nei Tyranni triginta (27, 1) ad opera di Erenniano – un primo preciso antecedente della successione considerata da Dante: «Didonem et Samiramidem et Cleopatram sui generis priicpem inter cetera praedicans» Ma è nel già citato67 commento allegorico di Bernardo Silvestre che è possibile rintracciare ulteriori elementi di riflessione circa il rapporto istituito da Dante tra Didone e Semiramide: «In hac civitate invenit mulierem regnantem et Penos servientes quia in mundo isto talis est confusio quod imperat libido et virtutes opprimuntur quas per Penos forte set rigidos viros intelligimus atque ita servit vir et imperat mulier. Ideo in divinis libris dicitur mundus civica Babilonis, id est confusionis» [12] sono le osservazioni riferite ai versi 412-496 del primo libro dell’Eneide che, pur essendo incentrate esclusivamente sulla regina cartaginese, tuttavia sembrano contenere impliciti riferimenti anche a Semiramide68, e questo sia in base all’analogia tra quanto detto a proposito di quest’ultima (A vizio di lussuria fu sì rotta / che libito fé licito in sua legge, Inferno, V, 55-56), in cui la rima allitterante interna69 all’endecasillabo assume valore caratterizzante, sia perché il regno di Didone è messo dal commentatore in stretta connessione con un’idea di sfrenata lussuria («regnum habet Dido, id est 65 La fonte di questo particolare della storia, secondo cui Semiramide amò in maniera innaturale e disturbata il suo cavallo è PLINIO, Naturalis Historia, VIII, 155. 66 G. RAMIRES, Semiramide e le altre. (Ri)lettura di Dante, “Inferno” V 52-63, in «Maia», fascicolo III, anno LVII, settembre-dicembre 2005. P. 615. 67 Cfr. capitolo II paragrafo 4. 68 Cfr. S. CONTE, Dido-Semiramis, in «Giornale italiano di Filologia», n° 49, 1997, p. 252. 69 Il licito dantesco «potrebbe essere a sua volta un’eco del licuit di Virgilio, Eneide IV, 550-552: non licuit thalami esperte sine crimine vitam / degere more ferae, talis nec tangere curas; / non servata fides cineri promissa Sychaeo, cfr. G. BRUGNOLI, Studi danteschi: II I tempi cristiani di Dante, Pisa, ETS, 1998, p. 61. 106 libido»). Questo acquista anche maggior valore alla luce di quanto detto dal già menzionato Orosio70 : «Praecepit [Samiramis] enim, ut inter parentes ac filios nulla delata reverentia naturae de coniugis adpetendis ut cuique libitum esset liberum fieret» (Historiae adversus Paganos, I, 4, 8) dove ricorre un’allitterazione molto simile («libitum»/«liberum») a quella successivamente usata da Dante. Se nelle parole dell’esegeta del testo testo virgiliano è messa in risalto con particolare insistenza l’equazione sovranità femminile > caos e disordine, come sembra chiaramente risaltare dal passo poco sopra citato, posto a chiusura del paragrafo 12, è possibile trovare una consequenzialità tra l’episodio di Didone, specie per il commento di Silvestre, Orosio fonte dantesca per quanto riguarda Semiramide e vari loci della Genesi71 . A questo proposito è utile riportare anche le chiose di Jacopo Alighieri, che se per i versi direttamente riferiti a Didone (61-63) scrive, inserendo il particolare della mancata promessa non menzionato da alcuna altra fonte: «L’altra è colei che s’ancise amorosae ruppe fede al cener di Sicheo: Questa che amorosa si uccise fu Dido, moglie de[l] re Sicheo di Cartagine, la quale, dietro alla morte di lui, sopra il suo cenere, di non accompagnarsi con altro uomo, secondo l’usanza, promise; per la cui caldezza di luxuria, finalmente ad Enea troiano, essendo arrivato alla detta terra, casualmente si diede; ond’Enea partito per venire in Italia, ed ella aspettandolo, per dolor del suo non tornare sé stessa si uccise» per quel che riguarda Semiramide, insistendo sull’incontenibile lussuria di questa, annota: «Semiramìs fu moglie de[l] re Nino, la quale, dietro alla morte di lui, grand tempo i paesi d’Asia e d’Africa con sì grand abito di lussuria resse, che per legge cotale volontà appagare a ciascuno licito fece, vogliendo di sé medesima cotale biasimo tòrre». Niente affatto mero «catalogo dei nomi»72 , la rassegna dei peccatori di lussuria del V canto dell’Inferno è fondamentale per chiarire a Dante ‒ in vista degli effetti di ritrattazione palinodica di una certa idea d’amor cortese da lui pur praticata ‒ la dimensione quantitativa, la vastità/gravità del triste fenomeno della dannazione per colpa d’amore. L’enumeratio riguardante figure di spicco della storia e della letteratura o del mito, senza distinzioni d’ordine temporale ‒ Paris, Tristano ‒ è volta ad «agevolare al poeta quella conoscenza più intima dell’iter amoroso che gli sta così a cuore 70 Cfr. capitolo 1 p. 11. 71 Cfr. S. CONTE; op. cit., pp. 254-255. 72 B. CROCE, La poesia di Dante, Bari, Laterza, 1959, p. 73. Partendo dall’osservazione secondo cui, oltre che nell’enumeratio dantesca, Semiramide e Cleopatra compaiono insieme in Giovenale, XI, 108, G. BRUGNOLI (Studi danteschi II, Pisa, Giardina, 1998, pp. 57-65) ricorda che negli Scolia a Giovenale Semiramide, esattamente come Didone, compare quale fondatrice di città: «Sameramis uxor Nini, Babylonis civitatis conditrix, a filio suo, cuius concubitus inceste concupierat, occisa est»: «perciò è opportuno sottolineare che le tre donne antiche citate, non sono soltanto disinibite signore piegate a private corruzioni; ma anche cedono a più virili tentazioni, come protagoniste di singolari dismisure civili; regina di Babilonia, Semiramide costruisce le mura di una città ove con Babele avvenne la confusione delle lingue, Didone è la fondatrice della città destinata ad essere distrutta dai discendenti di Enea; mentre Cleopatra è la regina che a Roma tentò di sottrarre Cesare, per trasportare l’impero in Oriente», C. VILLA, Tra affetto e pietà: per ‘Inferno’ V, in «Lettere Italiane», anno LI, n°4, ottobre-dicembre 1999, p. 526. 107 e il cui approfondimento costituirà il tema fondamentale della seconda parte del canto»73, nonché a far sì che a tale “approfondimento”, Dante pervenga, proprio per aver visivamente constatato quante sono quelle tante anime, in uno stato di doloroso turbamento, graduale preludio allo svenimento conclusivo del canto. Del primo discorso di Francesca, dato costitutivo è certo la celeberrima triplice anafora che a partire dalla puntuale eco guinizzelliana sull’identità fra amore e cor gentile, passando per il ribadimento del topos dell’inevitabile corresponsione amorosa, giunge al vaticinio/augurio della condanna nella Caina, per colui che a tradimento ha ucciso lei e il cognato74 , sempre assecondando la tesi, virtualmente e vanamente autoassolutoria, dell’assenza di un’individuale responsabilità, essendo Amore l’unico soggetto logico del suo argomentare. In particolare, è poi l’esordio del secondo discorso di Francesca da Rimini ad essere costruito su una serie di riferimenti piuttosto chiari all’Eneide che possono esser così esemplificati: E quella a me: «Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice ne la miseria: e ciò sa ‘l tuo dottore. Ma s’a conoscer la prima radice del nostro amor tu hai cotanto affetto, dirò come colui che piange e dice. Sed si tantus amor casus cognoscere nostros […] Quamquam animus meminisse horret luctuque refugit, Incipiam. (Inferno, V, 121-126) (Eneide, II, 10; 12-13) Se a questi riferimenti si può aggiungere la prima radice (v. 123) derivato dal nesso virgiliano «a prima […] origine» (Eneide, I, 753), è da notare anche, aldilà di altre possibili connessioni75, la citazione boeziana del motto «in omni adversitate fortunae infelicissimum est genus infortunii fuisse felicem» (De consolatione philosophiae, II, 4), già messa in luce, tra gli altri, da Guido da Pisa76, Baldassarre Lombardi77 Niccolò Tommaseo78. Il rimpianto di un passato felice ormai lontano e irrecuperabile non è comunque estraneo alla stessa Didone virgiliana, risoluta a morire: Hic postquam Iliacas, vestes notumque cubile Conspexit paulum lacrimis et mente morata, 73 L. CARETTI, Il canto V dell’ “Inferno”, Firenze, Le Monnier, 1966, p. 17. 74 Claudia Villa (op. cit., p. 534) legge l’ultima terzina del primo segmento discorsivo di Francesca (Caina attende chi a vita si spense, Inferno, V, 107) come più contratta eco dellafurente maledizione scagliata da Didone (Et Dirae ultrice set di morientis Elissae, / Accipite haec meritumque malis advertite numen / Et nostra saudite preces. Si tangere portus / Infandum caput ac terris adnare necesse est / Et sic fata Iovis poscunt, hic terminus haeret: / At bello audacis populi vexatus et armis, / Finibus extorris, complexu avolsus Iuli, / Auxilium imploret videatque indigna suorum / Funera; nec, cum se sub leges pacis iniquae / Tradiderit, regno aut optata luce fruatur; […], Eneide, IV, 610-629). Anche nella formula iniziale, Claudia Villa (ivi, p. 518), crede di riscontrare, debitamente contratta nella formula Amor ch’al cor gentil ratto s’apprende, l’eco del «rapido moto di Amore, quando in veste di Ascanio lascia Enea per precipitarsi in grembo alla virtuosa Didone, subito presa, in Eneide, I, 715-722 ille […] reginam petit. Haec oculis, haec pectore / toto haeret; et interdum gremio fovet, inscia Dido / insidat quantus misera deus». 75 «Già Alberico da Rosciate aveva accostato al passo dantesco anche lo scolasticissimo Massimiano, che nel suo tempo circolava con i popolari Disticha Catonis, di cui Alberico stesso fu interessato lettore «Dura satis miseris memoratio prisca bonorum» […]; ma il concetto, come ben dicono i commentatori, è anche […] in Tommaso, Sum Theol II, II, 36: «Memoria praeteritorum honorum […] in quantum sunt amissa, causat tristitiam» […]», C. VILLA, op. cit., p. 519. 76 «Huius sententie concordat Boetius, secundo libro De consolatione, dicens ad Philosophiam: Hoc est quod recolentem vehementius quoquit: Nam in omni adversitate fortune infelicissimum genus infortunii est fuisse felicem», Expositiones et Glose super Comediam Dantis (Quintus cantus, Expositio lictere). Per il commento completo di Guido da Pisa al passo dantesco cfr. Appendice VIII. 77 D. ALIGHIERI-B. LOMBARDI, La divina commedia, Roma, presso Antonio Fulgoni, 1791, p. 77. 78 Cfr. La commedia di Dante Allighieri col comento di N. Tommaseo, Venezia, co’ tipi del gondoliere, 1837, p. 47. 108 Incubuiteque toro dixitque novissima verba: Dulces exuvae, dum fata deusque sinebant, accipite hanc animam meque his exolvite curis (Eneide, IV, 648-652) Di Guido da Pisa è inoltre da tenere presente la narrazione della vicenda di Didone contenuta all’interno dei Fatti di Enea: l’autore riassume infatti in vari capitoli tutta la storia della regina fenicia e del suo incontro con il condottiero troiano senza aggiungere elementi di particolare interesse, ad eccezione delle parole che fa pronunciare a Sicheo, il quale, nella Rubrica VIII, fornisce indicazioni sul proprio corpo martoriato assenti nell’Eneide79 . Se ha ragione Maria Chiavacci Leonardi quando, nella precisione dei particolari concernenti il racconto della sua storia, coglie l’innalzamento di Francesca a un livello epico che la renderebbe simile a Didone80, il comune denominatore di tale accostamento potrebbe essere trovato nella condizione di infelicità di entrambe le donne: se infatti, per quel che riguarda l’Eneide, della regina cartaginese si può parlare paradigmaticamente come della infelix Dido, di Francesca colpiscono in primo luogo «il suo stato di tormento che si fa tanto maggiore quanto più il passato prende corpo nella memoria e nell’espressione; e in secondo luogo, indubitabilmente, la sua gentilezza, la sua femminile sensibilità, la sua nobiltà di cuore»81. Le due donne sembrano inoltre legate dal «comune partecipare della sventura […] proprio nel momento stesso in cui il loro sogno di felicità sembrava appagarsi»82, come traspare dai versi virgiliani Ille dies primus leti primusque malorum causa fuit. […] (Eneide, IV, 169-170) e dal verso dantesco quel giorno più non vi leggemmo avante (Inferno, V, 138). Una evidente e voluta ripresa di un modulo virgiliano nel dettato dantesco è riscontrabile nel canto XXX del Purgatorio, alla prima effettiva entrata in scena di Beatrice, nel corso del poema. Dante non ha ancora visto Beatrice, non l’ha ancora effettualmente riconosciuta nella donna sovra candido vel cinta d’uliva […] sotto verde manto vestita di color di fiamma viva (Purgatorio, XXX,31-33) apparsagli sull’altra riva del fiume Lete; però sente con sicurezza che si tratta di lei, non può avere dubbi sentendo rinascere nel suo animo quello stesso profondo turbamento da cui era colto ogni volta che le capitava d’incontrarla. Pur senza averne la certezza visiva egli ha risentito la gran 79 «col corpo smorto si apriva il petto dinanzi, e mostravale [a Didone] le crudeli ferite che Pigmalione gli aveva date. Poi le pareva che Sicheo le dicesse: «Vedi che mi ha fatto il tuo fratello Pigmalione? Questo mi ha fatto per possedere il regno mio e i tesori miei, e per metter te in prigione, ovvero per ucciderti; e perciò cara mia moglie fuggi e vatti via, ma quello che puoi teco portare non lasciare in mano del tuo fratello: nel porto sono molte navi, le quali, come tu sai, sono venute a fare carico di grano; ponvi suso i tesauri del mio palagio, e in cotal luogo cava, e troverai grandissimo tesauro do’oro e d’argento. Di tutti questi tesauri, ciò che tu ne puoi portare, fa’ mettere in sulle navi, bene accompagnata di buona gente, e spezialmente maestri di tutte le arti, mettiti alla ventura e vatti via. Ma innanzi che tu ti parta, piglia il corpo mio, ch’è in cotal luogo nascosto, e fanne cenere, e portala teco, e là dove tu vai, sì la sotterra» 80 la cui storia «precisa e viva in ogni particolare, che rivoluziona di fatto tutta la poesia antica e nuova nel suo assoluto realismo, è quindi innalzata a un livello epico, e Francesca vale qui Didone», cfr. Commedia a cura A. M. CHIAVACCI LEONARDI, Milano, Mondadori, p. 135. 81 U. DOTTI, La divina commedia e la città dell’uomo, Roma, Donzelli, 1998, p. 38. 82 Ibidem. 109 potenza dell’antico amore; proprio questo vuole comunicare a Virgilio, e per rendere il Maestro meglio partecipe di una tale emozione, non esita a rivolgersi a lui con le parole: […] Men che dramma di sangue m’è rimaso che non tremi: conosco i segni de l’antica fiamma! (Purgatorio, XXX, 46-48) ostentato ricalco della confessione di Didone alla sorella […] adgnosco veteris vestigia flammae (Eneide, IV, 22) Benvenuto da Imola Alessandro Vellutello conosco i segni dell'antica fiamma, scilicet, amoris: hoc autem dicit Virgilius de Didone, quasi dicat tacite Dantes, non ita Dido arsit amore subito viso Enea conosco i segni de l'antica fiamma, ad imitatione di Virg.: "Agnosco veteris vestigia flamme” che deve ancor più porre in risalto lo stato di dolorosa prostrazione in cui Dante cade nell’accorgersi, mentre è in attesa di una risposta, di come Virgilio, da lui mai invocato tanto intensamente, proprio ora non è più al suo fianco83. Anche per questo, probabilmente, la citazione virgiliana si pone come la «più carica di suggestioni simboliche, scevra di ogni esibizionismo culturale»84, mentre sembra proiettare sul rapporto amoroso tra Dante e Beatrice il riverbero della passione di Didone per Enea, quasi a voler sottolineare, in quell’unico istante di umana debolezza del personaggio/poeta, il tragico di quella passione, l’assenza, in essa, di ogni possibilità di sublimante redenzione. Del resto, già nell’Inferno, in un contesto penale ben diverso da quello dei lussuriosi, nell’ottava delle Malebolge, nei confronti di Ulisse e Diomede, dei quali Virgilio si era arrogato il diritto/dovere (in quanto voce dell’umana ragione) di essere unico interlocutore, Dante gli aveva fatto pronunciare una particolare captatio benevolentiae direttamente modulata, per unanime giudizio dei commentatori, sulle parole di Didone: « […] s’io meritai di voi mentre ch’io vissi, s’io meritai di voi assai o poco […]» «[…] Si bene quid de te merui, fuit aut tibi quidquam Dulce meum, miserere domus labentis et istam […]» Inferno, XXVI, 80-81 Eneide, IV, 317-318 83 Con riferimento a questa precisa corrispondenza, è necesarrio rinviare allo scolio serviano – mediante il quale ben si può comprendere l’interpretazione dantesca dell’intera vicenda di Didone ‒ «bene inhonestam rem sub honesta specie confitetur, dicens se agnoscere maritalis coniugii ardorem», cui Ramires (op. cit. p. 619) opportunamente aggiunge il commento conosciuto come Servius auctus: «hoc est, quo mariti diligi solent; nam erat meretricium dicere: in amorem Aeneae incidi». 84 E. PASQUINI, Dante e le figure del vero, Milano, Mondadori, 2001, p. 83. A proposito dell’analogia tra i segni danteschi e i vestigia virgiliani: «What it is issue here is a semantic shift that also involves chronology: a corrective reversal of Dido’s temporal situation in erotic terms. That is, Dido feels the “old” flame but for a new love object, thus betraying a faith hitherto held intact with an old love. Dante, on the contrary, felles the same flame for the same initial love object; for him the betrayal has already taken place and is about to be rectified. In other words, for Dido this moment of feeling anew the traces veteris…flammae is the beginning of an “erotic” betrayal of her state of virtuous purity towards a dead beloved (Sycaeus)», K. BROWNLEE, Dante, Beatrice and the Two Departures from Dido, in «MLN – Comparative Literature», vol. 108, n°1, 1993, p. 4. Cfr. inoltre P. JENKINS, Dido, Beatrice and the Signs of Ancient Love, in ‘The Poetry of Allusion: Virgil and Ovid in Dante’s “Commedia”’ (ed. by R. JACOFF and J. T. SCHNAPP), Stanford University Press, 1991, pp. 202-213. Sempre in riferimento al nuovo approccio proprio dei ‘cultural studies’ molto puntuali sono le osservazioni su Didone (sulla tradizione e sulla riscrittura del mito) fatte da S. C. HAGEDORN, Abandoned women: rewriting the classics in Dante, Boccaccio & Chaucer, University of Michigan Press, 2004. 110 Ma dal confronto tra il poema virgiliano (che funge sempre da ipotesto) e i versi danteschi possono nascere altre considerazioni. Partendo dalle lacrime che caratterizzano il vano sfogo di Didone nel IV libro virgiliano, allorquando capisce che Enea sta veramente per partire (mene fugis? Per ego has lacrimas dextramque tuam te […] oro, si quis adhic precibus locus, exue mentem, vv. 314-319), si può osservare che, sempre nel canto XXX del Purgatorio, anche Dante (in questo caso corrispondente a Didone, mentre è Virgilio a fare le veci di Enea) piange – e l’idea è ribadita anche dal costrutto anaforico – per la dipartita di Virgilio, come la stessa Beatrice sostiene nel suo primo discorso diretto: Dante, perché Virgilio se ne vada Non pianger anco, non piangere ancora Ché pianger ti convien per altra spada. (Purgatorio, XXX, 55-57). Da questa terzina è poi possibile rilevare che la coppia di lemmi caratterizzanti il distacco di Dante da Virgilio, fiamma (v. 48) e spada (v. 57) si propongono quali termini estremi e cruciali – come visto nei capitoli precedenti – della tragica fine di Didone, secondo la doppia versione di Virgilio e di Pompeo Trogo/Giustino. Mediante un complesso gioco di richiami analogici e rifrangenze semantiche i punti di contatto tra i protagonisti del IV libro dell’Eneide e Dante e Beatrice comportano altre connessioni. Se la presentazione di quest’ultima quale regalmente ne l’atto ancor proterva (Purgatorio, XXX, 70) 85 può facilmente richiamare alla mente i tratti nobili e regali caratterizzanti Didone86, l’espressione a questa riferita, demissa vultu (Eneide, I, 561), di cui un calco è stato osservato per quel che concerne il V canto dell’Inferno87 , può essere stata assunta da Dante a primo pretesto descrittivo della sua reazione di fronte al rimprovero di Beatrice: Li occhi mi cadder giù nel chiaro fonte; ma veggendomi in esso, i trassi a l’erba tanta vergogna mi gravò la fronte (Purgatorio, XXX, 76-78). L’incipit di tale rimprovero «Guardaci ben! Ben son, ben son Beatrice […]» (Purgatorio, XXX, 73) sembra richiamare antifrasticamente il secondo emistichio num lumina flexit? (Eneide, IV, 369)88, mentre un’altra radicale differenza è la risposta che – ben diversamente dall’ostinato silenzio di Enea – Dante fornisce a Beatrice, e nella “correzione” cristiana89 che implicano i versi lo gel che m’era intorno al cor ristretto, spirito e acqua fessi, e con angoscia de la bocca e de li occhi uscì del petto (Purgatorio, XXX, 97-99) significativi per una svolta metatestuale, rispetto all’archetipo virgiliano, all’interno dell’ iter dantesco. La risposta di Dante a Beatrice nel canto seguente sembra infatti corrispondere a quella che un cristiano Enea avrebbe potuto dare ad una cristiana Didone: «contrition leads to confession 85 Come ella appare nella percezione soggettiva di Dante, anche in rapporto a quanto, nel contesto purgatoriale, potrebbe dirsi, a fronte di un ritrovato super-io, conseguenza dell’emergere di un forte senso di colpa. 86 Cfr. capitolo I p. 2. 87 Cfr. capitolo I p. 45. 88 Per le connessioni con il passo XIV della Vita nuova («mi parve sentire uno mirabile tremore incominciare nel mio petto da la sinistra parte e distendersi di subito per tutte le parti del mio corpo […] levai li occhi, e mirando le donne, vidi tra loro la gentilissima Beatrice»), cfr. E. GRIMALDI, Il canto XXX del Purgatorio, in ‘Gli ultimi canti del Purgatorio’, a cura di F. DAINOTTI, Roma, Bulzoni, 2010, pp. 182-183. 89 Cfr. K. BROWNLEE, op. cit., p. 6. 111 which leads to penance»90. Inoltre i rimproveri di Beatrice a Dante sembrano riecheggiare, mutatis mutandis, quelli di Didone nei confronti di Enea: entrambi muovono l’accusa di abbandono, come Beatrice ribadisce, in tono «via via meno solenne, più intimo e patetico»91 nel XXXI canto del Purgatorio: Tuttavia, perché mo vergogna porte Del tuo errore, e perché altra volta, udendo le sirene, sie più forte, pon giù il seme del piangere e ascolta: sì udrai come contraria parte mover dovíeti mia carne sepolta. Mai non t’appresentò natura o arte Piacer, quanto le belle membra in ch’io Rinchiusa fui, e che so’ ‘n terra sparte; e se ‘l sommo piacer sí ti fallío per mia morte, qual cosa mortale dovea poi trarre te nel tuo disio? Ben ti dovevi, per lo primo strale De le cose fallaci, levar suso Di retro a me che non era più tale. Non ti dovea gravar le penne in giuso, ad aspettar colpi, o pargoletta o altra vanità con sí breve uso. Novo augelletto due o tre aspetta; ma dinanzi da li occhi d’i pennuti rete si spiega indarno o si saetta (Purgatorio, XXXI, 43-63) e un ulteriore richiamo alla vicenda di Didone è contenuto poco dopo nella significativa similitudine – volta ad indicare la riluttanza di Dante a fornire spiegazioni alla sua interlocutrice – Con men di resistenza si disbarba robusto cerro, o vero al nostral vento o vero a quel de la terra di Iarba, ch’io non levai al suo comando il mento (70-73): Pietro Alighieri (III redazione) Jacopo della Lana Item tangit de vento Affrico spirante de terra et contrata Getulie in occidentali parte Africe ubi iam Iarba rex regnavit, ut dicit hic textus della qual terra fu re Iarba figliuolo di Iuppiter e di Garamantide ninfa, siccome descrive Virgilio: Hic a Iove natus Rapta Garamantide Nimpha Benvenuto da Imola Alessandro Vellutello della terra di Iarba Iarbas enim fuit rex Libyae tempore Didonis o vero a quello de la terra di Hiarba, o veramente a l'Austro, che vien da mezo dì, verso la qual parte è l'Affrica, ove Hiarba fu Re dei Numidi il robusto cerro costituisce un’eco abbastanza chiara della similitudine virgiliana velut annoso valida cum robore quercum (Eneide, IV, 441)92 caratterizzante la “positiva” resistenza di Enea di fronte alla disperata preghiera di Didone. Il senso delle parole di Dante è opposto, per il forte 90 Ibidem. 91 N. SAPEGNO, op. cit., p. 345 (Purgatorio). Cfr. capitolo I nota 153. 92 Cfr. capitolo I p. 35. 112 contenuto cristiano: in questo caso, infatti, pur dopo molte resistenze, Dante-agens cede alla parole di Beatrice, mentre il robusto cerro e la forza dei venti, specie di quelli africani, stanno ad indicare metaforicamente i termini oppositivi di un profondo dissidio intimo, che si risolve comunque in esemplare correttezza cristiana. Nell’elemento vento (nostral vento, v. 71) si potrebbe poi cogliere, in un senso che il contesto penitenziale capovolge diametralmente, un ulteriore richiamo alla condizione penale dei lussuriosi nel V canto dell’Inferno, […] in loco d’ogne luce muto, che mugghia come fa mar per tempesta, se da contrari venti è combattuto (28-30) dove Paolo e Francesca mostrano nella loro leggerezza, nel loro essere più degli altri in balìa del vento, la maggiore gravità della loro colpa, […] quei due che ‘nsieme vanno, e paion sí al vento esser leggieri (74-75); e dove, ad ulteriore dimostrazione dell’essere il vento l’elemento primario e costitutivo del contesto scenico93, anche Dante è invitato da Virgilio ad approfittarne, a cercare di parlare ai due innamorati Sí tosto come il vento a noi li piega (V, 79) Né più né meno di Francesca, pronta a parlare coi due visitatori, sfruttando una breve e provvisoria deviazione di quella bufera eternamente imperversante: Di quel che udire e che parlar vi piace, noi udiremo e parleremo a voi, mentre ‘l vento, come fa, si tace. (V, 94-96). Il trait d’union cruciale tra il canto dei lussuriosi e il XXXI del Purgatorio è nell’inversione della valenza del pianto: l’espressione […] io sott’esso grave carco, fuori sgorgando lagrime e sospiri (Purgatorio, XXX 19-20) richiama e capovolge i dolci sospiri (Inferno, V, 118) di Francesca, mentre lo svenimento del XXXI canto del Purgatorio (Tanta riconoscenza il cor mi morse, / ch’io caddi vinto; e quale allora femmi, / salsi colei che la cagion mi porse, vv. 88-90) richiama quello che chiude il V canto dell’Inferno (e caddi come corpo morto cade, v. 142): in ultima analisi, il riferimento a Iarba (Purgatorio XXXI, 72) «figures simultaneously the powerful threat of Didonian passion, and Dante-protagonist’s distance from it at this point in the poem»94 . 93 Riguardo al modo in cui, senza bisogno di alcuna spiegazione da parte di Virgilio, Dante subito comprende che nella forza del vento e della bufera infernale si esplica in pieno il contrappasso punitivo destinato a coloro che la ragion sommettono al talento, osserva C. VILLA (op. cit,, p. 522.) «le ragioni letterarie e poetiche della tempesta si rinsaldano in una forte relazione, che non è trascinata da analogie con i vortici della passione, ma procede da molto più lontano: perché quel vento, inesauribile tormenta associata ai muggiti del mare in burrasca, arriva direttamente da Cartagine, dove cominciò a soffiare quando, inalberandosi le vele della flotta che salpava, trascinò con sé anche la vita di Didone […] omnis et una / di lapsus calor atque in ventos vita recessit [Eneide, IV, 704-705]». 94 K. BROWNLEE, op. cit., p. 10. 113 A proposito della corrispondenza Didone/Francesca, è bene osservare che già Boccaccio mise in correlazione (nel commento letterale al Canto V compreso nelle Esposizioni sopra la Comedia di Dante) la coppia Didone/Sicheo con quella Paolo/Francesca: «Che, come vedi, ancor non m’abandona Vuol dire: come tu fai, andar continuo con lui, puoi comprendere che io l’amo, come io l’amai mentre vivevamo. Ma in questo l’autor seguita l’oppinion di Virgilio, il qual mostra nel sesto dell’Eneida, Siccheo perseverar nell’amor di Didone, dove dice: Tandem corripuit sese, atque inimica refugit In nemus umbriferum: coniunx ubi pristinus illi Respondet curis aequatque Sichaeus amorem ecc. ecc. Secondo la catolica verità questo non si dee credere, per ciò che la divina giustizia non permette che in alcuna guisa alcun dannato abbia o possa avere cosa che al suo disiderio si conformi o gli porga consolazione o piacere alcuno: alla quale assai manifestamente sarebbe contro, se questa donna, come vuol mostrare le sue parole, a se medesima compiacesse dello stare in compagnia del suo amante». Senza voler rischiare di cadere in indebite e forzate supposizioni simboliche e numerologiche, si potrebbe allora vedere una doppia corrispondenza 7+2 che Dante desume da Virgilio: ai sette exempla che accompagnano Didone e Sicheo95 nei lugentes campi (Fedra, Procri, Erifile, Evadne, Pasifae, Laodamia, Ceneo) corrisponderebbero i sette tra donne antiche e’ cavalieri (Semiramis, Cleopatra, Elena, Achille, Paris, Tristano e la stessa Didone96) cui si aggiungerebbero Paolo e Francesca. È possibile riflettere anche circa il passaggio dantesco del distacco (incompleto) da Beatrice, diverso da quello completo da Virgilio: se in quest’ultimo caso Dante cede al pianto (né quantunque perdeo l’antica matre, / valse a le guance nette di rugiada / che, lacrimando, non tornasser atre, Purgatorio, XXX, vv. 52-54), in occasione del distacco da Beatrice, quando nell’Empireo è rapito dall’ammirazione della candida rosa, il protagonista chiede spiegazioni: e volgeami con voglia riaccesa per domandar la mia donna di cose di che la mente mia era sospesa. Uno intendea, e altro mi rispuose: credea veder Beatrice, e vidi un sene vestito con le genti gloriose. (Paradiso, XXXI, 55-60) 95 Anch’egli morto per amore, come dimostra il commento di Servio «respondet curis par est mortis similitudine: ferro autem uterque consumptus est» ai versi tandem corripuit sese [Dido] atque inimica refugit / in nemus umbriferum, coniunx ubi pristinus illi / respondet curis aequatque Sichaeus amorem (Eneide, VI, 472-474): «questa interpretazione, benché forse meno attraente per chi possieda il gusto della rifinitura psicologica dei personaggi letterari, è dotata di maggior coerenza: non si potrebbe comprendere infatti che cosa ci stesse a fare Sicheo nei campi del pianto, se non fosse stato lui pure un ‘dannato’ come le otto precedenti eroine», P. POSSIEDI Con quella spada ond’elli ancise Dido, in «MLN – Comparative Literature» vol. 89, n°1, 1974, p. 24. 96 «Il parallelismo anche numerico fra i due episodi diviene così evidente, e indica l’evoluzione della figura di Didone nel passare da Virgilio a Dante: da eroina ‘moderna’, esaltata sullo sfondo costituito dall’elenco delle ‘antiche’ esemplari compagne di pena, ella viene trasferita nella Commedia a far parte dell’elenco paradigmatico, sfondo alla nuova eroina ‘moderna’ Francesca. Ma un bel comprensibile atto di omaggio al poeta-maestro la situa in una posizione antonomastica di Prima inter pares, in funzione di etichetta: “la schiera ov’è Dido”», ivi, p. 25. 114 cui risponde San Bernardo, mostrando come in realtà Beatrice sia ancora visibile, ma nella sua più consona posizione all’interno della gerarchia celeste della rosa. Se la differenza principale rispetto alla separazione da Virgilio è che la guida celeste di Dante non è sparita nel nulla, lo sguardo finale che Dante lancia a Beatrice nell’Empireo ricorda, specularmente, quello di Enea a Didone nell’Ade, mentre la chiave di volta del parallelo consiste nel fatto che al pervicace e rancoroso sguardo non rivolto ad Enea da parte dell’ombra della regina fenicia corrisponde l’empatica e rasserenante corrispondenza di Beatrice: Così orai; e quella, sì lontana Come parea, sorrise e riguardommi; poi si ritornò all’etterna fontana. (Paradiso, XXXI, 91-93). In scarto rispetto al fallimento delle lacrime e delle preghiere (prima da parte di Didone disperata, poi di Enea pentito), il testo dantesco sancisce il successo della comunicazione, quando mossa da autentica fede e sincero pentimento. L’inutile sermo di Enea (Nec magis incepto voltum sermone movetur, VI, 470) viene positivamente convertito dalla preghiera di Dante (Così orai […], Paradiso, XXX, 91), dando così pieno senso alla sublimazione cristiana di una erotica pulsione. Il fatto che nella Commedia venga desunta la sola pars destruens della tradizione di Didone sembra ricevere definitiva conferma non solo dall’allusione a Didone fatta da Folchetto di Marsiglia, sulla scorta delle parole della regina nel primo libro dell’Eneide97 ché più non arse la figlia di Belo noiando e a Sicheo e a Creusa, di me, infin che si convenne al pelo (Paradiso, IX, 98-99) Pietro Alighieri (III redazione) Jacopo della Lana Inde auctor inducit dictam umbram dicere quomodo in iuventute sua, in hoc mundo vivendo, extuavit in tali amore carnali in tantum quod neque Dido, filia Beli regis, plus non iam exarsit in Eneam dum iniuriata quasi est ab ea in hoc, Creusa uxor olim dicti Enee iam mortua et Sicheus vir ipsius Didonis etiam tunc iam mortuus Sicheo fu marito di Dido reina di Cartagine, lo quale Sicheo per accendimento d'amore ch'avea a Dido sì ne morie, ed ella fece quello ardere, e sovra la cenere sua faceva tutti i suoi sacramenti, sì com'è trattato nel quinto dello Inferno. Amicossi poi la detta Dido con Enea, e però ch'ello non rimase con essa a suo volere, sì si ancise. Benvenuto da Imola Alessandro Vellutello idest, Dido regina Carthaginis quae fuit filia regis Beli, ut patet apud Virgilium; nec intelligas de Belo rege Assyriae patre magni Nini La figlia di Belo fu Elissa detta da poi Dido, de la quale, e come fu castissima, ma che 'l poeta seguitando Virg. che finge ella essersi inamorata d'Enea, e per tale amor occisa, dicemmo nel quinto canto de l'Inf. Noiando a Sicheo, il qual, perchè fu marito di Dido, l'amore ch'ella portava ad Enea, ragionevolmente, ancora che fosse morto, li noiava, e così ancor a Creusa prima donna d'Enea ma anche in occasione della descrizione del cielo di Venere, dove il nome della regina fenicia rima con quello di Cupido ancora una volta partendo dal testo virgiliano: ma Dione onoravano e Cupido, Ut cum te gremio accipiet laetissima Dido Regalis inter mensas laticemque lyaeum, Cum dabit amplexus atque oscula dulcia figet, Occultum inspires ignem fallasque veneno. 97 Atque equidem Teucrum memini Sidona venire, / Finibus expulsum patriis, nova regna petentem / Auxilio Beli; genitor tum Belus opinam / Vastabat Cyprum et victor dicione tenebat (Eneide, I, 619-622). 115 quella per madre sua, questo per figlio; e dicean ch’el sedette in grembo a Dido; […] Haec oculis, haec pectore toto Haeret; et interdum gremio fovet, inscia Dido, Insidat quantus miserae deus. […] Eneide, I, 685-688; 717-719 Paradiso, VIII, 7-9 Pietro Alighieri (III redazione) Jacopo della Lana Sacra Dionee matri ecc. et Cupidinem ut eius filium, recordantes quomodo in persona Ascanii, filii Enee, dicta Venus misit dictum Cupidinem ad incendendum dictam Didonem in amorem ipsius Enee, ut scribit Virgilius in fine I°, inter alia sic dicendo: Ille ubi complexu Enee colloque pependit / et magnum falsi implevit genitoris amore, / reginam petit. Hec occulis, hec pectore toto / heret et interdum gremio fovet inscia Dido. Ma Dione, cioè che non solo ad essa faceano sacrificii ma alla madre che diceano essere Dione, e al figliuolo, che poneano essere Cupido. [9] E dicean, cioè esso Cupido innamorò Eneas di Didone, e Didone di lui sì com'è detto Benvenuto da Imola Alessandro Vellutello ma onoravano, tanquam deos eisdem divinis honoribus, Dione e Cupido, gratias agentes matri quae genuit talem filiam matrem generationis humanae, et tali filio impellenti homines ad hoc opus; et exponit et glosat dictum suum, dicens: quella per madre sua, scilicet Dionem; et bene; dicitur enim Dion, quasi duo nectens, per hoc intelligentes coniunctionem maris et foeminae esse causam libidinis; questo per figlio, scilicet, Cupidinem quem iam vocavit follem amorem, quem potissimum deum dicebant; de quo pleni sunt libri omnium autorum, cui sacrificium facimus de lacrymis et suspiriis. Ideo bene Ausonius poeta gallicus fingit amorem captum a mulieribus affixum cruci, in quo ostendit cruciatus ad quos ducit amor caecus, ideo dignus cruce: et specificat ipsum Cupidinem ab officio suo, quia habet incitare homines ad libidinem, sicut fingit Virgilius, quod Venus mater Eneae misit filium suum Cupidinem in forma Ascanii ad incendendam Didonem in amorem ipsius Eneae ma honoravano ancora Dione, madre, e Cupido suo figliuolo, e diceano che esso Cupido sedette in grembo a Dido, ma in forma d'Ascanio, secondo che finge Virg. nel primo, onde ch'ella fu da lui trafitta ne l'amor d'Enea 2. La rima alternata (Dido/grido) utilizzata nel V canto dell’Inferno al momento di presentare Paolo e Francesca: cotali uscir da la schiera ov’è Dido a noi venendo per l’aere maligno sì forte fu l’affettuoso grido (85-87) ritorna, come rima baciata, nella canzone Così nel mio parlar voglio esser aspro98: con quella spada ond’elli ancise Dido, Amore, a cui io grido. (36-37) 98 Cfr. R. M. DURLING-R. L. MARTINEZ, Time and the Crystal: Studies in Dante’s “Rime petrose”, University of California Press, 1990, p. 180 e passim. 116 e questo dato sembra assumere un’importanza particolare in virtù della ricorrenza della similitudine con la durezza della pietra che correla IV e VI libro virgiliano e caratterizza il rapporto Didone/Enea tanto nella finitezza della vicenda umana quanto nell’eternità dell’Ade, nella cui selva soffrono: quos durus amor crudeli tabe peredit (Eneide, VI, 471) Nel poema virgiliano vige una biunivoca – tragica – corrispondenza tra il fallimentare tentativo da parte di Didone nel cercare di trattenere Enea (IV libro) e quello, di quest’ultimo, di rompere l’ostinato silenzio della regina defunta in occasione dell’incontro presso i lugentes campi (VI libro): comune denominatore, la similitudine, utilizzata per entrambi, con la durezza della pietra (cautes): Perfide, sed duris genuit te cautibus horrens Caucasus […] (Eneide, IV, 366-367) Quam si dura silex aut stet marpesia cautes (Eneide, VI, 471) e un ulteriore riferimento alla durezza della passione amorosa ritorna, per l’appunto, nella già menzionata Così nel mio parlar voglio esser aspro (Rime, CIII). Una lettura allegorica del IV libro dell’ Eneide è presente nel Convivio 99 , all’interno della descrizione dello sviluppo delle età umane100 (IV.26.8). Discutendo della necessità di sottoporre l’appetito alla ragione, Dante scrive infatti: «E così infrenato mostra Virgilio, lo maggiore nostro poeta, che fosse Enea, ne la parte de lo Eneida ove questa etade si figura; la quale parte comprende lo quarto, lo quinto e lo sesto libro de lo Eneida. E quanto raffrenare fu quello, quando avendo ricevuto da Dido tanto di piacere quanto di sotto nel settimo trattato si dicerà, e usando con essa tanto di dilettazione, elli si partio, per seguire onesta e laudabile via e fruttuosa, come nel quarto de l’Eneida scritto è» Partendo quindi dall’interpretazione di Fulgenzio101 e dall’assunto Dido/libido, Dante in questo caso «interpreta la separazione di Enea da Didone come allegoria della temperantia» 102, ma nel secondo 99 Cfr. A. LANZA, Dante e la gnosi: esoterismo del “Convivio”, Roma, Edizioni Mediterranee, p. 223. Dopo aver commentato la presenza di Didone nella «più violentemente carnale delle Petrose» e nel Convivio, I. BALDELLI (Dante e Francesca, Firenze, Olschki, 1999, p. 77) scrive, anche in riferimento ai loci della Commedia presi in esame: «La concordanza lussuriosi dell’Inferno – lussuriosi del Paradiso appare essere tanto più notevole se avvicinata alla pagina […] citata del Convivio, ove Dido assume rilievo emblematico della carnalità: del resto il Cupido del Paradiso, VIII 7, è in Convivio, II, 5, 14, li antichi […] dissero Amore essre figlio di Venere, e in riferimento all’Eneide Dante addirittura traduce le parole di Venere al figlio: «Figlio, vertù mia, figlio del sommo padre […]». E Dante dichiara che sarebbe ritornato sul piacere ricevuto da Dido nel settimo trattato del Convivio, tanto sentiva esemplare la vicenda Didone-Enea». 100 In the “ages of man” paradigm, Dido acts as a conduit for the homosocial reading of the Aeneid; for the schoolboy, such an interpretative paradigm directs him in a lectio designed to save him from dangerous responses (such as weeping at the death of Dido) to pagan texts and simultaneously to initiate him into a circle of learned readers. The social status available to a learned reader is evident in a figure like John of Salisbury, whose philosophical writings insist on the importance of schooling for statemen», M. DESMOND, op. cit., p. 98. 101 Benché poco oltre (IV.26.9) le interpretazioni di Dante e Fulgenzio a proposito della discesa nell’Ade di Enea («nel sesto de la detta istoria») divergano: Fulgenzio infatti «intende la discesa all’Ade di Enea come il simbolo dell’iniziazione umana ai «sapientiae obscura secretaque misteria»; per Dante, invece, è l’allegoria della Fortezza, o vero Magnanimitade, dimostrata dall’ero quando affrontò i terribili segreti degli Inferi», cfr. DANTE, Opere minori tomo I parte II, a cura di A. Frugoni e G. Brugnoli, Milano-Napoli, Ricciardi, 1979, p. 845. 102 E. AUERBACH, Studi su Dante, Milano, Feltrinelli, 2005, p. 73. 117 libro del De monarchia (IV.2), riflettendo sulla imperiale nobiltà di Enea, cardine del disegno provvidenziale divino103, riflessa nelle tre mogli avute in tre diversi continenti (Creusa in Asia, Lavinia in Europa e Didone in Africa)104, quest’ultima è definita coniunx: «Secunda Dido fuit, regina et mater Cartaginensium in Affrica; et quod fuerit coniunx, Idem noster [Virgilio] vaticinatur in quarto; inquit enim de Didone: Nec iam furtivum Dido meditatur amorem Coniugium vocat; hoc pretexit nomine culpam» Quest’ultima citazione dantesca della regina cartaginese è importante nel suo, seppur parziale, cambio di prospettiva: la semplice (e limitata) interpretazione di Didone come negativo esempio di attrazione peccaminosa viene infatti messa in discussione mediante l’inserimento – paritario rispetto alle altre due donne citate – all’interno di un’ottica imperiale in cui Didone, come Creusa e Lavinia, figura quale legittima coniuge. §4 Didone in Boccaccio «mera poesis est, quicquam sub velamento componitur et exponitur exquisite»105 1. È proprio dalle Esposizioni sopra la Comedia di Dante che è utile iniziare per meglio comprendere il modo – sicuramente più profondo e complesso in confronto a quello dantesco – in cui il Boccaccio «fabuloso»106 si relaziona alla figura di Didone. In questa sede vengono infatti elaborate osservazioni di notevole interesse, a dimostrazione della complessità che avvolge la storia della regina fenicia, nonché utili per una migliore comprensione del testo dantesco. Se all’interno dell’Esposizione allegorica del I canto si legge: «La infelice Didone, secondo Virgilio, per un forestiero affabile, mai più veduto, subitamente dimenticò il lungamente e molto amato Siccheo» che sembrerebbe avallare l’interpretazione dantesca derivata dall’Eneide, ancor più rinviante a una ferma condanna potrebbe suonare il termine “fornicazione” usato da Boccaccio nell’Esposizione litterale del II canto: «È la fama un romore generale d’alcuna cosa, al quale sia stata operata, o si creda essere stata, da alcuno, al come noi sentiamo e ragioniamo delle magnifiche opere di Scipione Africano, della laudevole povertà di Fabrizio e della fornicazione di Didone e di somiglianti […]» 103 «Aut quem in illo duplici concursu sanguinis a qualibet mundi parte in unum virum predestiantio divina latebit? / [IV] Illud quoque quod ad sui perfectionem miraculorum suffragio iuvatur, est a Deo volitum; et per consequens de iure fit», DANTE, De Monarchia, II, 3-4. 104 Cfr. G. FALLANI, Dante autobiografico, Napoli, Società Editrice Napoletana, 1974, p. 221. 105 G. BOCCACCIO, Genealogia deorum, XIV, 7, 106 «Ciò che della Commedia colpì sempre il Boccaccio furono soprattutto le allusioni erudite contenute nelle rassegne degli eroi dell’antichità o dei dannati famosi: secondo quella tradizione dei «trionfi» che egli rinnovò, proprio nel ricordo del capolavoro dantesco, nell’Amorosa visione. Quello che predomina è pur sempre il Boccaccio «curiosus inquisitor omnium delectabilium historiarum», come lo ricorda appunto Benvenuto (III, p. 392), e quando si lascia andare a raccontare diffusamente le storie a lui care di uomini e di donne famose, egli sa ritrovare spesso l’estro narrativo di un tempo», G. PADOAN, Introduzione a G. BOCCACCIO, Esposizioni sopra la Comedia, a cura di G. PADOAN, Milano, Mondadori, 1965, vol. I, p. XIX. 118 e nell’Esposizione litterale del canto IV Boccaccio, parlando di Enea, aggiunge: «il quale [Enea] secondo che Virgilio testimonia, con Didone alcun tempo poco laudevole visse». In realtà questa idea negativa di Didone fornicatrice sembra essere accolta solo per il rispetto dovuto a Virgilio, e quindi al testo dantesco, come sembra d’altronde confermare il passo dell’Esposizione allegorica del canto V: «E ruppe fede, congiungendosi con altro uomo, al cener di Siccheo, suo marito stato. Vuole l’autore per questa circunscrizione che noi sentiamo costei essere Didone, figliuola che fu del re Belo di Tiro». In questo che può dirsi il punto focale tanto della lettura critica del testo dantesco, quanto di uno dei primi approfonditi inquadramenti storici della storia di Didone, Boccaccio sente la necessità di spiegare come la vicenda della regina di Cartagine goda di una duplice versione: «la istoria della quale [Didone] si raconta in due maniere»107 . Per la prima volta, nella letteratura italiana, viene messo in discussione l’archetipo virgiliano: la forza dell’argomentazione di Boccaccio è storica 108 , basata sul Chronicon di Eusebio nella traduzione di Girolamo e Macrobio e, partendo dal conflitto greco-troiano, egli giunge a mettere in dubbio l’incontro stesso tra Enea e Didone, ammettendo comunque che la versione dell’autore dell’Eneide resta pur sempre quella di riferimento: «La quale oppinione per reverenza di Virgilio io aproverei, se il tempo nol contrariasse. Assai manifesta cosa è Enea il settimo anno dopo il disfacimento di Troia esser venuto, secondo Virgilio, a Didone: e Troia fu distrutta l’anno del mondo, secondo Eusebio, ĪĪĪXX. E il detto Eusebio scrive essere oppinione d’alcuni Cartagine essere stata fatta da Carcedone tirio, e altri dicono Tidadidone, sua figliola, dopo Troia disfatta CXXXXIII anni, che fu l’anno del mondo ĪĪĪĪCLXIII; e in altra parte scrive essere stata fatta da Didone l’anno del mondo ĪĪĪĪCLXXXVI, e ancora, appresso, senza nominare alcun facitore, scrive alcun tenere Cartagine essere stata l’anno del mondo ĪĪĪĪCCCXXXXVII. De’ quali tempi alcuno non è conveniente co’ quelli d’Enea: e perciò non credo che mai Enea la vedesse. E Macrobio in libro Saturnaliorum del tutto il contradice, mostrando la forza dell’eloquenzia essere tanta che ella aveva potuto far sospettar coloro che sapevano la istoria certa di Dido e dunque Dido onesta donna e, per non romepr fede al cener di Siccheo, s’uccise. Ma l’autore seguita qui, come in assai cose fa, l’oppinion di Virgilio, e per questo si convien sostenere». 107 Per la versione integrale della ricostruzione storica di Didone fatta nelle Esposizioni cfr. Appendice IX. 108 Le Esposizioni, pur essendo per vari motivi un’opera di stampo tipicamente medievale, «rappresentano un ben deciso stacco da quel tipo di esegesi e segnano bene i nuovi interessi umanistici che ormai animavano il Boccaccio, soprattutto nella ricerca appassionata, fervida e straordinariamente fruttuosa di nuove notizie sulla biografia e sulle opere degli autori classici, che qui raggiunge il suo punto terminale e più alto, e dove trovano sistemazione le acquisizioni ottenute dai nuovi testi letti […]; né va passato sotto silenzio l’affermarsi di un ideale universalistico (attinto inizialmente ai testi patristici, e non ignoto alle compilazioni medievali) che va oltre la civiltà latina per inchinarsi riverente dinanzi alla grande cultura greca, con un fervore che rimase sconosciuto anche a Petrarca, per abbracciare poi tutta l’umanità, sino ai popoli più lontani», G. PADOAN, op. cit, p. XXII. 119 2. Quanto sinora detto, specie in relazione alla duplice versione (di carattere mitologico e di ricostruzione storica) di Virgilio e Giustino, come anche le osservazioni fatte su Didone da parte dei Padri della Chiesa, risultano di estrema importanza per la lettura che della regina cartaginese opera Boccaccio: questo in connessione prima di tutto a Virgilio e Ovidio, ma anche – in maggior vicinanza cronologica e seguendo una linea di sviluppo che sempre dai due autori latini ha inizio – a Dante e Petrarca. Al contrario di Dante, Boccaccio sembra molto più interessato alla riscoperta di tipo storico della vicenda di Didone109, seppur non ricusando in toto l’altra versione. L’autore del Decameron, infatti, si limita a ricordare nella Teseida (VI, 45, 1-4), la mera esistenza del primo vincolo matrimoniale: E di Sidonia ancor Pigmaleone vi venne; e fuvvi con esso Siceo, che poi fu sposo dell'alta Didone, e a' Fenici nobili si feo seguire a guisa di sommo barone Mentre nel Ninfale d’Ameto si fanno più evidenti le suggestioni dei due poeti latini,, come dimostra il seguente passo: «[…] e lei, di senno e d’età giovinetta, sanza compagno rimasa nel vedovo letto, nelle oscure notti triste dimoranze traeva piangendo, infino a tanto che agli occhi vaghi di lei l’aveniticcio giovane di venusta forma, non simile al rustico animo, apparve, ma non so dove; la quale non altrimenti, vedendolo, sentì di Cupido le fiamme che facesse Didone, veduto lo strano Enea. E come colei di Siccheo, così questa del primo marito la memoria in Leté tuffata, cominciò a seguire i nuovi amori, sperando le perdute letizie rintegrare col nuovo amante; le quali più tosto, avvegna che poche rimase, con dolorosa morte, per le operazioni di lui, s’apparecchiavano di terminare» (Comedia delle ninfe fiorentine110, XXIII.30) Ancor prima, nel Filocolo, il suicidio di Didone era preso a modello da Biancifiore per mettere in connessione l’elemento amoroso con quello tragico: «se è vero che ogni amore acceso di virtù, com’è il mio verso di te, sempre accese la cosa amata, sol che la tua fiamma si manifesti, io avrei sconciamente nociuto alla mia vita, però che Cupido da piccolo spazio in qua m’ha più volte posta in mano quella spada, con la quale la misera Dido nella partita di Enea si passò il petto, acciò che io quello ufficio esercitassi in me» (Filocolo, II.18). Come si vede, lo «Schwert-Motiv», di cui sono state messe già in luce le molteplici connessioni con vari motivi classici 111 , è ben presente già dalla prima apparizione di Didone nelle opere di Boccaccio. La passione della regina è comunque descritta in tutta la sua incontenibile forza: 109 Cfr. C. KALLENDORF, Boccaccio’s Dido and the Rhetorical Criticism of Virgil’s “Aeneid”, in «Studies in Philology», 82, n°4, (1985), pp. 401-415. 110 Nella stessa opera (XV) la regina cartaginese compare, come nel V canto dantesco, insieme a Semiramide: «E se ella non è celestiale, io non so chi ella si sia mondana, però che elli ha poco che io apparai che il mondo portasse sì belle cose; e bene che io già abbia udito che con cotali ornamenti soleva Semiramis entrare nelle camere del figliuolo di Belo e la sidonia Dido andare alle cacce, certissimo delle morti di quelle, qui al presente non le debbo aspettare; ma chi che ella si sia, singulare bellezza possiede». 111 Cfr. capitolo I p. 28. 120 «Ma veggiamo che chi ama, la cosa amata in qualunque maniera puote di farsela benigna e subietta s’ingegna in diversi modi, acciocché quella possa a’ suoi piaceri recare, e con più ardita fronte il disio dimandare: e che questo sia come noi parliamo, assai la infiammata Dido con le sue opere ne ‘l palesa, la quale già dell’amore d’Enea ardendo, infinattanto che ad essa con onori e con doni non glie le parve aver preso, non ebbe ardire di tentare la dubbiosa via del dimandare» (Filocolo, IV.20.4). Ma allo stesso modo, poco dopo, l’autore inserisce Didone in una frase che avvalora l’immagine della regina posta in rilievo dalla lettura dei Padri della Chiesa. L’osservazione mossa a Ferramonte, critico nei confronti delle vedove, suscita la risposta («primo seme di un discorso che germoglierà più ampio e storicamente documentato»112) di Fiammetta: «E così nella vedova come nella pulcella il vedremo potere essere fermo e forte e costante: e in ciò Dido e Adriana ci porgono con le loro opere questo essere vero» (Filocolo, IV.54.2). D’altronde già l’incipit dell’opera è incentrato sulla citazione della storia di Enea e Didone, «Mancate già tanto le forze del valoroso popolo anticamente disceso del troiano Enea, che quasi al niente venute erano per lo meraviglioso valore di Giunone, la quale la morte della pattovita Didone cartaginese non aveva voluta inulta dimenticare e all’altre offese porre non debita mancanza […]» (Filocolo, I.1.1) in cui, all’interno della classica citazione relativa all’origine troiana di Roma, la definizione di Didone quale «pattovita», cioè “alla quale erano state promesse nozze legittime”113, suona già come implicita condanna nei confronti del condottiero troiano fuggitivo. Un tono elegiaco-sentimentale114 sembra caratterizzare il personaggio di Didone nominato da Biancifiore, come dimostra ad esempio il passo: «E se non fosse che io fermamente credo che alcuna parte di quella fiamma amorosa, la qual pare che per me ti consumi, t’accenda il cuore, se vero è che ogni amore acceso da virtù, com’è il mio verso di te, sempre accese la cosa amata, sol che la sua fiamma manifesti, io avrei sconciamente nociuto alla mia vita, però che Cupido da piccolo spazio in qua m’ha più volte posta in mano quella spada, con la quale la misera Dido nella partita di Enea si passò il petto, acciò che io quello uficio essercitassi in me» (Filocolo, II.18.12) in cui il ricorrente utilizzo di una terminologia risalente alla sfera del fuoco indica la forza della passione amorosa, mentre un’altra citazione del suicidio di Didone mediante la spada avvalora la preferenza accordata da Boccaccio alla versione giustinianea rispetto a quella virgiliana. Ad 112 A. CERBO, Didone in Boccaccio, in «Annali dell’Istituto Universitario Orientale di Napoli. Sezione Romanza», vol. 21, 1979, p. 178. 113 Cfr. G. BOCCACCIO, Filocolo, a cura di A. E. QUAGLIO, Milano, Mondadori, 1967, p. 621. 114 Se è sicuramente condivisibile la prima parte dell’osservazione di Quaglio («La figura di Didone, tra le più care a Boccaccio per la forza della passione amorosa e la tragica elegia della morte, è sovente ricordata con accenti di commozione, con viva partecipazione lirica, sulla scia del celebre episodio virgiliano», G. BOCCACCIO, Filocolo, op. cit., p. 675), c’è da aggiungere che – come più volte dimostrato da molteplici citazioni contenute sia nelle opere volgari che in lavori latini – la versione tradita dall’Eneide fu da Boccaccio più volte messa in discussione, a vantaggio di quella fornita da Giustino. 121 ulteriore dimostrazione della fondamentale positività che Boccaccio riconosce alla regina cartaginese sin dal romanzo giovanile, valga il passo: «E là dove questo non fosse, manifestare vi si puote, se mai di Elena, o della dolente Dido, o dello sventurato Leandro e d’altri molti avete udito parlare: i quali chi l’etterno onore con vituperevole infamia non curava d’occupare, chi di perdere la propia vita si metteva in avventura per venire al disiato fine» (Filocolo, III.67.4). La tragica fine della pur «dolente» regina fenicia non cancella, come nel caso della sposa di Menelao, un idea di onore che nessuna «vituperevole infamia» può infangare. Nella Amorosa visione Didone ha ruolo poeticamente autonomo, aldilà dei richiami eruditi, anche se il testo di Boccaccio non va molto oltre una ripresa della versione virgiliana115, né è estraneo all’uso di un tono «malinconico, dolce, incline ad una certa sensiblerie, ovidianamente languido e dolorante»116 : è comunque interessante notare come, specie nella seconda versione dell’opera (1355-1360), l’autore voglia porre in risalto i tratti mascolini propri della regina di Cartagine, come emerge dal raffronto del medesimo passo nelle due versioni: Pareva quivi apertamente quando Dido partissi in fuga dal fratello, e similmente come, edificando a più poter, Cartagine nel bello e utile sito faceva avanzare, e come a ‘ngegno l’abitava quello. Pareva quivi apertamente quando si partì Dido dal fratello verso l’Africa, tollendo da lui bando; aggiunta dove poi, con saper bello Cartagine faceva edificare con maschile e non feminil cervello Amorosa visione (A: 1342-1343), XXVIII, 4-9 Amorosa visione (B: 1355-1360), XXVIII, 4-9 Dove, com’è logico aspettarsi, Didone acquista maggiore importanza è nell’Elegia di Madonna Fiammetta117, nell’ ottavo e conclusivo capitolo dell’opera (Nel quale madonna Fiammetta le pene sue con quelle di molte antiche donne commensurando, le sue maggiori che altre essere dimostra, e poi finalmente a’ suoi lamenti conchiude) la regina fenicia viene descritta, in un soliloquio che si prefigura come «exemplum di prosa volgare modellata sugli schemi della retorica tardo-medievale e duecentesca»118, cui non sono estranee varie suggestioni proprie del Seneca tragico119, in tutto il suo regale splendore: «Vienmi poi innanzi, con molta più forza che alcuno altro, il dolore dell’abandonata Dido, però che più al mio somigliante il conosco quasi che altro alcuno. Io imagino lei edificante Cartagine, e con somma pompa dare leggi nel tempio di Giunone a’ suoi popoli, e quivi benignamente ricever il forestiere Enea naufrago, ed essere presa della sua forma, e sé e le sue cose rimettere nell’arbitrio del troiano duca; il quale, avendo le reali delizie usate al suo piacere, e lei di giorno in giorno più accesa del suo amore, abandonatala si diparte. Oh quanto senza comparazione mi si mostra miserevole, mirando lei riguardante il mare pieno di legni del fuggente amante! Ma ultimamente, più paziente che dolorosa la tengo, considerando alla sua morte. E certo io nel primo 115 Cfr. Appendice X. 116 A. CERBO, op. cit., p. 179. 117 Cfr. il capitolo “Love: Dido and the Pietas in the Early Renaissance”, in J. D. GARRISON, Pietas from Vergil to Dryden, Wayne State University Press, 1987, pp. 127-160. 118 F. ERBANI, Introduzione a G. BOCCACCIO, Elegia di madonna Fiammetta – Corbaccio, Milano, Garzanti, 1988, p. XXIII. 119 Per le relazioni tra le tragedie di Seneca e il tema di Didone cfr. capitolo I paragrafo 3. 122 partire di Panfilo sentii per mio avviso quel medesimo dolore, che nella partita di Enea; così avessero allora gl’adii voluto che io poco sofferente mi fossi subitamente uccisa! Almeno, sì come lei, sarei stata fuori delle mie pene, le quali poi continuamente sono diventate maggiori». Nell’identificazione compiuta in base alla duplice analogia Fiammetta/Didone120 – Panfilo/Enea, vengono definiti alcuni tratti fondamentali e allo stesso tempo antinomici dei due personaggi virgiliani: la grandiosa dignità della prima e la disonorevole slealtà del secondo121, che sarà un tema ricorrente in varie opere di Christine de Pizan, la quale non a caso inserisce il condottiero troiano nella serie dei faulz amans, desloiaulz122; e come Boccaccio opti per questa versione, piuttosto che per quella basata sull’equivalenza Dido-libido, è d’altronde icasticamente dichiarato dallo stesso autore in una delle chiose all’Elegia di madonna Fiammetta: «la verità della storia fu altramente, come pone Iustino»123 . Sempre rispetto a quanto detto in precedenza circa l’origine e la doppia etimologia del nome di Didone/Elissa124, è proprio in una chiosa che Boccaccio esprime il suo parere, fornendo addirittura una triplice soluzione, secondo cui Didone «ebbe tre nomi, cioè Elissa, Fenissa e Dido»125, mentre nel XLII capitolo del De claris mulieribus, per spiegare la natura regale della regina, l’autore spiega, su probabile ispirazione serviana126, come Didone sia il corrispondente del fenicio virago127 . Ma l’identificazione tra Fiammetta e la regina cartaginese era già stata compiuta, per voce della stessa protagonista dell’opera, nel capitolo VI (Nel quale madonna Fiammetta, avendo sentito Panfilo non aver moglie presa, ma d’altra donna essere innamorato, e però non tornare, dimostra come ad ultima disperazione, volendosi uccidere, ne venisse), dove alla fierezza che caratterizza Didone sin dalla prima descrizione virgiliana sembra unirsi una malinconica tinta ovidiana: «Ecco, quella cagione che la sidonia Elissa ebbe d'abandonare il mondo, quella medesima m'ha Panfilo donata, e molto piggiore. A lui piace che io, abandonate queste, nuove regioni cerchi; e io, poiché suggetta gli sono, farò quello gli piace, e al mio amore e al commesso male e all'offeso marito ad un'ora satisfarò degnamente; e se agli spiriti sciolti dalla corporal carcere e al nuovo mondo e alcuna libertà, senza alcuna indugio con lui mi ricongiugnerò, a dove il corpo mio esser non puote, l'anima vi starà in quella vece [...]. E poi che io ultimamente fui in questo promonimento 120 «Like Dido, she berates herself for loving a foreigner è […], begs him not to leave until the weather is better […], and scorns his other obligations, which she neither believes nor countenances», M. A. CALABRESE, Feminism and the Packaging of Boccaccio's Fiammetta, in «Italica», vol. 74, n°1 (Spring 1997), p. 25. 121 Uno specifico riferimento al tema della partenza di Enea, con tutto il dolore che ciò comporta, Boccaccio lo compie anche nella lettera del 1341 a Niccolò Acciajoli, dove si legge: «Niccola, se a' miseri alcuna fede si dee, io vi giuro per la dolente anima mia che non altrimenti alla cartaginese Didone la partita del troiano Enea fu grave, che fosse a me la vostra». 122 Cfr. P. CARAFFI, op. cit., p. 19. Per questo motivo nella Epistre au dieu d’Amours cfr. Appendice XI. Per il rapporto Christine de Pizan/Didone cfr. anche i molteplici riferimenti contenuti in M. W. FERGUSON, Dido’s daughters: literacy, gender and empire in early modern England and France, University of Chicago Press, 2003. 123 G. BOCCACCIO, L’elegia di madonna Fiammetta con le chiose inedite, a cura di V. PERNICONE, Bari, Laterza, 1939, pp. 153-154. 124 Cfr. capitolo I pp. 3-4. 125 Ivi, p. 204. 126 Cfr. capitolo I p. 4. 127 Una eco di questo passo di Boccaccio è ben visibile in Christin de Pizan, che nel Des cleres femmes, parlando di Didone, dice: «et ne parliot on se d’elle non, tellement pour la grant vertu qui fu veue en elle, tant pour la hardiesce et belle entreptise que fait avoit comme son tres prudent gouvernement, luy transmuerent son nom et l’appellerent Dido: qui valut autant a dire comme virago en latin, qui est a dire celle qui a vertu et force de homme» (I.120), cfr. M. DESMOND, op. cit., p. 220 e P. CARAFFI, Boccaccio, Christine de Pizan e il mito di Didone, in ‘Boccaccio e le letterature romanze tra Medioevo e Rinascimento’ (a cura di S. MAZZONI PERUZZI), Firenze, Alinea, 2006, pp. 7-21. 123 deliberata, fra me cominciai a cercare quale dovesse de' mille modi esser l'uno che mi togliesse di vita: e prima m'occorsero ne' pensieri li ferri, a molti di quella stati cagione, tornan-domi a mente la già detta Elissa partita di vita per quelli». La stessa duplicità di accenti si coglie anche in un altro passo, contenuto nel capitolo precedente, in cui la nobile autorevolezza di tutta una serie – chiusa in climax proprio da Didone – di famosi personaggi femminili della classicità si coniuga al fattore della sofferenza amorosa: «quella, per alterezza, dicendo Semiramìs somigliare; quell’altra, considerata la sua vaghezza, sarebbe creduta Elena; e alcuna, gli atti suoi bene mirando, in niente si direbbe dissomigliare a Didone. Perché andrò io simigliandole tutte? Ciascuna per se medesima pare una cosa piena di divina maestà, non che d’umana. E io misera, prima che il mio Panfilo perdessi, più volte udii tra li giovini questionare, a quale io fossi più da essere assomigliata, o alla vergine Pulissena, o alla Ciprigna Venere, dicenti alcuni di loro essere troppo assomigliarmi a dèa, e altri rispondenti in contrario essere poco il simigliarmi a femina umana». Esattamente come la Didone virgiliana, Fiammetta percepisce in se stessa una tragica metamorfosi mediante cui la sua originaria «alterezza» che quasi l’innalzava in una sovrumana sfera trascolora – a causa della passione amorosa – in umana debolezza e dolorosa vulnerabilità. A questo dolore Fiammetta sa, comunque, che – proprio come nel caso della regina fenicia – può associarsi una fama che travalica i limiti temporali, ed è quanto vogliono dimostrare le parole rivolte ai «giovini amanti» sempre nel V capitolo: «- Oh felici voi a’ quali come a me non è stata tolta la vista di voi stessi! Ohimé! Che così come voi fate, soleva io per addietro fare. Lunga sia la vostra felicità, acciò che io sola di miseria possa essemplo rimanere a’ mondani. Almeno, se Amore, faccendoni mal contenta della cosa amata da me, sarà cagione che li miei giorni si raccorcino, me ne seguirà che io, come Dido, con dolorosa fama diventerò etterna». 3. Delle sette giovani donne componenti la «laudevol compagnia» protagonista della macrostoria in cui si contengono, in ordinata ripartizione, le cento novelle del Decameron, Boccaccio spiega in minuzioso dettaglio le ragioni di opportunità storica che lo inducono a tener celata la vera identità128; designandole per altro ognuna con un particolare nom de plume che possa rivelarne – come identicamente avverrà per i tre giovani uomini – qualità, indole, ruolo psicologico. Ultima fra le sette ad essere così indicata è Elissa, portatrice di una cifra nominale in cui già «il Billanovich indicò […] la filigrana e l’allusione alla più appassionata figura virgiliana, alla regina fenicia simbolo di amore totale»129. Collocato in apertura d’opera, l’implicito richiamo a Didone può essere 128 «li nomi delle quali io in propria forma racconterei, se giusta cagione da dirlo non mi togliesse, la quale è questa: che io non voglio che per le raccontate cose da loro, che seguono, e per l’ascoltate nel tempo avvenire, alcuna di loro possa prender vergogna, essendo oggi alquanto ristrette le leggi al piacere che allora, per le ragioni di sopra mostrate, erano nonché alla loro età ma a troppa più matura larghissime; né ancora dar materia ag’invidiosi, persti a mordere ogni laudevole vita, di diminuire in niuno atto l’onestà delle valorose donne con isconci parlari», G. BOCCACCIO, Decamon I, Introduzione, 50. 129 V. BRANCA, Introduzione a G. BOCCACCIO, Decameron, Torino, Einaudi, 1980, p. 31, nota 1. Come d’altronde gli altri nomi, quello questo s’inserisce in una coerente rete di molteplici richiami: «essi rappresentano in qualche modo coi loro nomi stessi le figure divenute esemplari per le vicende di fortuna, di intelligenza e soprattutto di amore nella letteratura e nella cultura, dalla più grande poesia latina ai più cari testi contemporanei: da Virgilio (Elissa) e da un esemplare e famoso poemetto mediolatino (Panfilo) allo Stil Novo e Dante (Neifile) al Petrarca (Lauretta), giù giù sino alle esperienze della giovineza creativa del Boccaccio presenti e vive ancora prepotentemente nel Decameron (Filomena e FIlostrato) già nel Filostrato, Fiammetta nel Filocolo, nella Commedia e nell’Elegia, Emilia nel Teseida e nella Commedia, Pampinea e Dioneo nella Commedia», Id., Bocaccio medievale, Milano, BUR 2010 [Firenze, Sansoni 1956], p. 69. 124 letto in una duplice ottica: in senso più generico, come ogni altro senhal femminile, esso testimonia la filoginia dichiarata dal Boccaccio già al momento della dedica dell’opera alle donne innamorate130. Ma se un tale atteggiamento sin troppo ostentato non manca in realtà di nascondere ben celate punte di una del tutto opposta misoginia, è quanto meno singolare che le prime parole pronunciate da Elissa «Veramente gli uomini sono delle femine capo e senza l’ordine loro rade volte riesce alcuna nostra opera a laudevole fine […]» (Decameron, I, Introduzione, 76) suonino denigratorie del sesso femminile, della sua congenita debolezza e di una conseguente dipendenza dall’uomo: difetti peraltro del tutto assenti nella Didone “storica”, lodata per la sua coraggiosa energia e le autonome capacità politiche, e proprio in quanto tale recepita da Boccaccio spesso in dichiarato contrasto con l’asse Virgilio-Dante. Non si può comunque parlare dell’archetipo Didone nel Decameron senza osservare come sotto le insegne della tragica vicenda amorosa narrata da Virgilio nel IV libro dell’Eneide si colloca l’inserimento in quarta posizione della giornata dedicata a «coloro li cui amori ebbero infelice fine». Il tema tragico, imposto in questa giornata da Filostrato, viene accolto dalla brigata con qualche resistenza, di cui si fa portavoce Fiammetta, lamentando che quella «Fiera materia di ragionare» (IV,1,2), in palese contrasto con quanto dovrebbe essere raccontato «dove per rallegrarci venuti siamo» (IV,1,2), sia stata imposta dal re «per temperare alquanto la letizia avuti li giorni passati». Non potendo trasgredire il volere regale, ella esprimerà con un eccesso di zelo il suo dissenso, raccontando «un pietoso accidente, anzi sventurato e degno delle nostre lagrime» (IV,1,2). Come palese paradigma iper-tragico, viene allora proposta la novella di Ghismonda131, la principessa salernitana «novella Didone»132. Sin dalla prima descrizione della figlia di Tancredi, appaiono chiari i riferimenti ai vari tratti peculiari della regina cartaginese, sia per quanto riguarda la bellezza che per le qualità intellettuali e morali: «Era costei bellissima del corpo e del viso quanto alcuna altra femina fosse mai, e giovane e gagliarda e savia più che a donna per avventura si richiedea» (IV, 1, 5) e proprio al suo essere «savia» molto più di quanto, per norma, si richiede a una donna per poterla ritenere tale, consiste in primo luogo la radice del tragico che la investe. Decisamente problematico, o quanto meno contorto, è il rapporto che lega il principe Tancredi alla figlia, la quale, dopo una breve parentesi matrimoniale, è tornata a vivere con lui. Essendo dunque vedova, consapevole di come il padre non pensi affatto a rimaritarla, non parendo a lei «onesta cosa […] il richiedernelo»133 130 Intendendo il Decameron come opera finalizzata ad un garbato intrattenimento, ma dichiaratamente priva di alte finalità etico-didascaliche, Boccaccio arriva a chiamarlo prencipe Galeotto, dove è sin troppo evidente il richiamo a Dante, Inferno, V, 137-138, Galeotto fu ‘l libro e chi lo scrisse: / quel giorno più non vi leggemmo avante. A questo riguardo, non si può non ricordare come, nel passo ad locum delle Esposizioni sopra la Comedia, Boccaccio inventi la storia pregressa del matrimonio contratto da Francesca con Paolo, rappresentante per procura di Giangiotto Malatesta, ma a lei presentato come suo vero marito. Un’invenzione elaborata con l’evidente finalità di giustificare, almeno parzialmente, la colpa di Francesca, riabilitando così indirettamente, anche buona parte di quella letteratura romanzesca da Dante esplicitamente condannata, nonché ‒ sulla base delle analogie Didone/Francesca precedentemente riscontrate – la stessa regina cartaginese. 131 Cfr. M. BARATTO, Realtà e stile nel Decameron, Vicenza, Neri Pozza, 1974, pp. 171-195. 132 V. BRANCA, Boccaccio medievale, op. cit., p. 113. 133 Partendo dalla vicenda – presente in rielaborazioni nel Satyricon petroniano e nell’Appendix perottina di Fedro – della Matrona di Efeso, A. BISANTI (Noterelle braccioliniane, in «MAIA», fascicolo II, anno XLIV, maggio-agosto 1992, pp. 173-192) analizza il fil rouge di un topos favolistico che dalla classicità arriva sino al Novecento di d’Annunzio (La veglia funebre) e Amado (Dona Flor e seu dois maridos). Proprio in Boccaccio viene individuato un 125 (Decameron, IV,1,5), Ghismonda mostra concretamente tutta la sua saggezza nel cercare «di volere avere, se esser potesse, occultamente un valoroso amante» (IV,1,5). Ella intende così recare ai suoi naturali istinti una soddisfazione tanto più legittima se nel realizzarla occultamente ella non scalfirà in alcun modo la sua immagine di principessa figlia e vedova. Di qui lo stratagemma da lei rinvenuto di introdurre nei suoi appartamenti il giovane amante servendosi di una grotta e di un passaggio segreto di cui tutti hanno dimenticato l’esistenza. Se un chiaro simbolismo erotico emerge nella relativa descriptio loci, l’attenzione a simili dettagli non sembra essere tanto, come voleva Auerbach 134 , il segno di una debolezza intrinseca del tragico boccacciano, facilmente contaminabile dall’elemento avventuroso, quanto proprio la dimostrazione di una femminile ‘saggezza’ straordinaria, che tale si rivela nei comportamenti empirici come si dispiegherà poi nella sua lunga orazione. Tanto cauto e saggio l’agire di Ghismonda, che nulla potrebbe determinare la scoperta dei suoi furtivi appuntamenti galanti, se non il proditorio attacco della «fortuna, invidiosa» (IV,1,15), o piuttosto, il comportamento sempre più ombroso e ambiguo del padre che, introdottosi di nascosto negli appartamenti di lei, si ritrova ad essere traumatizzato spettatore di quanto mai avrebbe immaginato o ancor meno voluto vedere. Sarà ovvio per lui e per la sua autorevolezza infierire sul giovane Guiscardo, farlo uccidere e – in un estremo sadico sussulto – inviare alla figlia il cuore di lui in una coppa d’oro. E’ proprio nel momento in cui prende avvio il tragico epilogo che Ghismonda, risoluta a darsi la morte, diventa sempre più simile a Didone. Solo alla luce di tale somiglianza, in relazione ad un modello tragico della classicità, sembrano infatti rendersi plausibili e legittime le sue manifestazioni di dolore: «udendo il padre e conoscendo non solamente il suo segreto amore esser discoperto ma ancora preso Guiscardo, dolore inestimabile sentì e a mostrarlo con romore vicina: ma pur questa viltà vincendo il suo animo altiero, il viso suo con meravigliosa forza fermò, e seco, avanti che a dovere alcun priego per sé porgere, di più non stare in vita dispose» (IV, 1,30) peraltro assolutamente straordinarie e inusuali se relazionate ad un livello medio del comportamento femminile registrabile nel Decameron in quanto specchio del costume storico-sociale vigente. Dall’ultimo passo emerge chiaramente come l’eccezionalità ‘storica’di Ghismonda consista proprio nella sua dimensione caratteriale, analoga a quella tratteggiata da Virgilio per Didone ‒ coerentemente con quanto verrà poi approfondito nelle opere latine della maturità – che al tutto la differenzia dagli atteggiamenti di debolezza comunemente ritenuti propri della donna. E come estremo momento di somiglianza tra la determinazione della vedova Ghismonda e il coraggio della univira135 Didone, valga l’explicit dell’amaro saluto, che la prima rivolge a Tancredi: «Or via, va con le femine a spander le lagrime, e incrudelendo, con un medesimo colpo, se cosi ti par che meritato abbiamo, uccidi» (IV,1,45) In un’apostrofe di profonda veemenza che intende, oltre al padre, offendere in lui l’uomo: il maschio avvilito e devirilizzato. Al contrario di quello di Tancredi, apparentabile al pianto lamentoso delle ‘femine’, quello della mulier fortis non si enuncia come segno di fragilità/debolezza. Ghismonda rinuncia infatti al suo primo proposito di restare comunque a ciglio asciutto, pur di tributare al cuore di Guiscardo, lavandolo con le sue lacrime, il più nobile omaggio elemento cruciale di quel processo evolutivo del genere che dà esiti significativi in cospicua misura all’interno del Facetiarum liber dell’umanista toscano. 134 E. AUERBACH, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Torino, Enaudi, 1956, vol. I, pp. 250-251. 135 Cfr. nota 9 del presente capitolo, oltre che capitolo I p. 25. 126 funebre. Per questo, il suo pianto è frutto del supremo sforzo di volontà, emanazione tutta cerebrale («che se una fonte d’acqua nella testa avuta avesse, senza fare alcun feminil romore», IV,1,55) 136 . Al di là di ogni inesistente somiglianza tra le due vicende umane, è la stoica e teatralizzata fine a costituire un trait d’union tra Didone e Ghismonda, e questo è anche dimostrato dalla presenza, in entrambi i casi, della solenne orazione funebre pronunciata prima dell’atto estremo: sia Didone che la principessa salernitana vengono quindi a porsi come portatrici di un’istanza tragica, secondo cui esse stesse si rendono registe della messa in scena della propria morte. 4. É appunto nelle opere latine che Boccaccio trova più ampio spazio per approfondire la ricostruzione storica della figura di Didone, senza per questo rinnegare la valenza poetica dell’opera virgiliana, come spiegato in un paragrafo della Genealogia deorum gentilium: «Quod autem Virgilio obiciunt, falsum est. Noluit quippe vir prudens recitare Didonis hystoriam; sciebat enim, ut talium doctissimus, Didonem honestate precipuam fuisse mulierem, eamque manu propria mori maluisse, quam infixum pio pectori castimonie propositum secondi inficere nuptiis. Sed, ut artificio et velamento poetico consequeretur quod erat suo operi oportunum, composuit fabulam in multis similem Didonis hystorie; quod, ut paulo ante dictum est, veteri instituto poetis conceditur» (Genealogia deorum gentilium, XIV, 13,12). Didone diventa polisemico paradigma perché prendendo a pretesto il suo comportamento (la sua scelta alternativa, non in contraddizione con la vulgata virgiliana) Boccaccio costruisce il rapporto tra poesia e storia137, portando così ad una perfetta coincidenza l’istanza morale e l’istanza politica. La questione era stata affrontata già da Benzo di Alessandria, alquanto scettico circa l’impianto storico delle narrazioni virgiliane138 e, con specifico riferimento a Didone, da Giovanni del Galles, che nel suo Breviloquium de virtutibus principum et philosophorum scrive, in una prosa densa di richiami patristici: «Dido enim soror Pigmalionis, multo auri et argenti pondere congregato, Affricam navigavit ibique urbem Cartaginem condidit; et cum a Iarba rege Libie in coniugium peteretur, paulisper distulit nuptias, donec conderet civitatem, nec multo post extructam civitatem in 136 Partendo dalla «quivi non era da piagnere» (IV,4,16), S. MARCHESI (Lisabetta e Didone: una proposta per “Decameron” IV, 5, in «Studi sul Boccaccio», vol. 27, 1999, pp. 137-147) traccia un parallelo tra la prima parte della quinta novella della quarta giornata e gli inizi delle avventure della regina cartaginese: aldilà della somiglianza del nome (Elissa>Elisa> [E]lisabetta) entrambe le vicende si muovono «tra i poli di un avvio felice ed un esito luttuoso» (p. 137), e sia Didone che Lisabetta soffrono per l’omicidio dell’amato (Sicheo/Lorenzo) ad opera di fratelli accecati dall’avidità. Se comunque anche le divergenze sono sensibili tra i due casi (dopo il lutto «per Didone il ruolo di regina prevale su quello di amante infelice (almeno sino all’arrivo di Enea a Cartagine); per Lisabetta, al contrario, la vicenda si tinge di colori elegiaci prima che epici», p. 139). Interessante, in riferimento al macabro particolare della decapitazione del cadavere di Lorenzo, è tuttavia il richiamo che l’autrice fa ad una miniatura dell’ombra di Sicheo priva di capo contenuta in un manoscritto francese della Histoire Ancienne jusqu’à Cesar (pp. 145-147). Per quel che riguarda il Boccaccio, basti ricordare la novella (II,2) di Rinaldo d’Esti e il comportamento della vedova amante del marchese Azzo da Ferrara. 137 Allo stesso tempo Boccaccio cita almeno quattro ragioni che potrebbero essere alla base della rielaborazione virgiliana del mito didoniano: «seguire la lezione di Omero nella struttura del poema, ossia narrando i fatti senza ordine cronologico e non descrivendoli nel loro farsi bensì riferendoli come ricordo dei personaggi (Ulisse racconta ad Alcinoo le sue peripezie come Enea a Didone la fine di Troia); prefigurare mostrare il ravvedimento dell’eroe di fronte al male; esaltare la nobiltà e la fierezza della gens Julia; prefigurare l’espansione politica e militare di Roma», A. CERBO, op. cit., p. 184. 138 «Cum autem tantis auctoribus, scilicet Ennio, Varrone, Trogo, Ysidoro, Tito et Solino constat Romam conditam et denominatam a Romulo, licet Salustius dicat fuisse Troyanos et Virgilius dicat esset Evandrum, qui non fuit historiographus, sed poeta» (M, f, 140v, cfr. M. PETOLETTI, op. cit., p. 103). 127 memoriam mariti quondam Sichei maluit ardere quam nubere; casta mulier Cartaginem condidit». E se dalla storia si può trarre diretto insegnamento, più difficile è il percorso della poesia: «non futilis, sed succiplena facultas, sensus volentibus ex fictionibus ingeni» (Genealogia, XIV,6,9). Ancora, è la figura della regina cartaginese a saldare in un unico discorso estetico-poetologico le disquisizioni contenute nella Genealogia deorum gentilium con l’impianto narrativo proprio del De claris mulieribus e del De casibus virorum illustrium. Queste due opere presentano significative analogie e differenze: se l’intento comune è quello di riabilitare l’immagine della regina cartaginese, in risposta alla condanna della Commedia dantesca e in linea – come si avrà a breve modo di vedere – con il pensiero petrarchiano, i due testi nascono sulla base di una differente impostazione: il De casibus «ha una sua cornice, il tema della sventura moralisticamente inteso, nella quale i personaggi sono inseriti e presentati» 139 , comportando ciò una preminenza delle riflessioni etiche sulla narrazione vera e propria, mentre il De claris è più semplicemente una raccolta di profili biografici, tra i quali il capitolo XLII è appunto intitolato De Didone seu Elissa Cartaginensium regina; altrettanto importante è però rilevare l’analoga conclusione di carattere tragico – in cui è quindi possibile rinvenire un’eco virgiliana – della vicenda di Didone. Se infatti nel De claris si legge: «Didonem igitur exangue cum lacrimis publicis et memore cives, non solum humanis, sed divinis etiam honoribus funus exercentes magnificum, extulere pro viribus; nec tantum publice matris et regine loco, sed deitatis inclite eisque faventis assidue, dum stetit Cartago, artis templisque excogitates sacrificiis coluere» (De claris mulieribus, XLII, 16) nel De casibus l’autore scrive: «Carthaginienses autem tam dirum cernentes facinus in gemitus et memorem lapsi, optimam reginam atque pudicam flevere diu et cruentas exequias multo cum ploratu celebrantes illam patrie matrem vocantes, humanos divinosque illi honores impendere omnes, ut si quid vite abstulisset boni fortune crudelitas, in morte civium repensaret pietas» (De casibus virorum illustrium, II, X, 30). Elemento fondante della descrizione di Didone è il carattere virile – sottolineato ancora dalla similitudine con la quercia («Mulieris virile robur. O feminei pudoris decus laude perpetua celebrandum», De casibus virorum illustrium, II, XI, 1) – che la contraddistingue: se infatti l’agire di quest’ultima viene, sotto il chiaro influsso della letteratura patristica, mostrato come eroicamente paradigmatico140 nella prima opera: «et posita feminea mollicie et firmato in virile robur animo, ex quo postea Didonis nomen meruit, Phenicum lingua sonans quod virago latina» (De claris mulieribus, XLII, 5) simili tratti compaiono anche nella seconda, in cui la descrizione di Didone, decisa al suicidio allorquando Enea raggiunge le sue coste, sembra assumere un crisma martirologico141: 139 Ivi, p. 194. 140 «L’apertura della “mens” di Didone, simile a quella virile perché capace di affrontare e dominare la realtà con lo stesso ardimento e la stessa perspicacia, trova la sua giustificazione nell’essere la donna antesignana della morale cristiana», A. CERBO, op. cit., p. 197. 141 «Didone che si uccide per ricongiungersi inviolata allo sposo è l’archetipo della tragedia cristiana; simboleggia, infatti, la difesa della virtù contro le esigenze materiali, il rispetto della grazia interiore e il sentirsi destinata ad una vita 128 «Quo concesso atque adveniente Enea troiano nunquam viso, mori potius quam infringendam fore castimoniam rata, in sublimiori patrie parte, opinione civium manes placatura Sicei, rogum construxit ingentem et pulla tecta veste et cerimoniis servatiis variis, ac hostiis cesis plurimis, illum conscendit, civibus frequenti multitudine spectantibus quidam factura esset. Que cum omnia pro votis elisse, cultro, quem sub vesti bus gesserat, exerto ac castissimo aposito pectori vocatoque Syceo inquit – Prout vultis cives optimi, ad virum vado ‒. Et vix verbis tam paucis finitis summa omnium intuentium mestitia, in cultrum sese precipitem dedit et auxiliis frustra admotis, cum perfodisset vitalia, pudicissimum effundens sanguine, ivit in mortem» (De claris mulieribus, XLII, 14). È proprio in virtù della rinuncia all’eroe – strumento attivo del Fato – che Didone viene a porsi come paradigma di purezza vedovile e fulgido esempio di fedeltà coniugale, e questo non poteva non risuonare come un chiaro richiamo da parte di Boccaccio alla comunità civile a lui contemporanea, all’interno del quadro di rinascita spirituale successivo alla peste del 1348. Il tratto di maggior differenza con l’archetipo virgiliano è proprio nell’opposto stato d’animo con cui Didone decide di andare incontro alla morte: se infatti nell’Eneide l’odio e il risentimento della regina abbandonata sfociano in aperta minaccia: Exoriare aliquis nostris ex ossibus ultor, Qui face Dardanios ferroque sequare colonos, Nunc, olim, quocumque dabunt se tempore vires. Litora litoribus contraria, fluctibus undas Inprecor, arma armis, pugnent ipsique nepotesque. (Eneide, IV, 625-629) qui, al contrario, la serenità della protagonista è esemplificata nell’annuncio «Ad virum vado», simbolo di coerente e fedele dedizione all’amore coniugale: «O pudicitie inviolatum decus! O viduitatis infracte venerandum eternumque specimen. Dido! In te velim ingerant oculos vidue mulieres et potissime cristiane tuum robur inspiciant, te, si possunt, castissimum effudentem sanguinem, tota mente considerent, et he potissime quibus fuit ne ad secunda solum dicam, sed ad tertia et ulteriora etiam vota transvolasse levissimum!» (De claris mulieribus, XLII, 16). Il tratto distintivo di Didone consiste proprio nella totale e cosciente rinuncia e ripulsa di ogni attrattiva sensuale, a differenza delle altre vedove che confessano e tentano di addurre giustificazioni ai loro cedimenti: «O ridiculum! Dido quorum subsidio confidebat, cui exuli frater unicus erat hostis? Nonne et Didoni provocatores fuere plurimi? Imo, et ipsa Dido eratne saxea aut lignea142 magis quam hodierne sint? Non equidem» (De claris mulieribus, XLII, 17). superiore. Per la regina suicida la vita terrena è esercizio di virtù, ed è quindi il rifiutarsi quando il conservarla è subordinato al peccato e alla colpa», ivi, p. 208. 142 Nel passo latino si può cogliere un’eco di un particolare segmento dell’orazione di Ghismonda a Tancredi: «Esser ti dové, Tancredi, manifesto, essendo tu di carne, aver generata figliuola di carne e non di pietra o di ferro; e ricordarti dovevi e dei, quantunque tu ora sie vecchio, cehnti e quali e con che forza vengano le leggi della giovanezza», Decameron, IV, I, 33. 129 Un’altra vedova, più giovane, cita addirittura il precetto paolino143, a giustificazione della propria debolezza: «Aderit, suo iudicio, astutior ceteris unaque dicat: - Iuvenis eram; fervet, ut nosti, iuventus; continere non poteram; doctoris gentium aientis: ‘Melius est nubere quam uri’ sum secuta consilium - » (De claris mulieribus, XLII, 22) alla quale l’autore contrappone la risposta: «O quam bene dictum! Quas ego aniculis imperem castitatem, vel non fuerit, dum firmavit animo castimoniam, iuvencula Dido! O scelestum facinus! Non a Paulo tam sancte consilium illud datur quin in defensionem facinoris persepe turpius alligetur. Exhaustas vires sensim cibis restaurare possumus: superfluas abstinentia minorare non possumus! Gerntilis femina ob inanem gloriam fervori suo imperare potuit et leges imponere; cristiana, ut consequatur eternam, imperare non potest!» (De claris mulieribus, XLII, 22). Il legame tra Didone (cui Boccaccio attribuisce la medesima pietas che Virgilio aveva riconosciuto a Enea) e Sicheo (al quale è dedicato l’apposito capitolo LVII De Syceo Phylistenis filio et Didonis viro delle Genealogiae deorum gentilium) è presentato in tutta la sua risplendente onestà («Hi [Didone e Sicheo] autem invicem sanctissime se amarunt», De claris mulieribus, LLII, 4), e sin da subito viene posto l’accento sulla differenza tra il coniuge e il fratello della regina144 (al quale Boccaccio dedica il breve capitolo LIX De Pygmalione filio Beli delle Genealogiae deorum gentilium): «Erat preceteris mortalibus cupidissimus et inexplicabilis Pygmalion auri, sic et Acerba ditissimus; esto, regis avaritia cognita, illud occultasset latebris. Verum cum famam occultasse nequiverit, in aviditatem tractus, Pygmalion, spe potiundi, per fraudem occidit incautum. Quod cum cognovisset Elyssa, adeo impatienter tulit ut vix abstineret a morte» (De claris mulieribus, XLII, 4-5). Il vincolo matrimoniale tra Didone e il suo sposo viene descritto, in una prosa «non priva di lirismo misto a rigore etico»145, come paradigma di felicità e fedeltà, e proprio in questo è chiara la derivazione da Tertulliano che nel già citato Ad uxorem (II, 8) scrive a proposito del legame coniugale: «Ambo fratres, ambo conservi, nulla spiritus carnisve discretio. Vere duo in carne una. Ubi caro una, unus et spiritus». 143 Cfr. p. 94 nota 11. 144 Lo stesso argomento viene trattato più estesamente – oltre che in maniera diretta – nel De casibus virorum illustrium (II, 10): «Optimi navigationis nostre socii, quod feceritis ignoratis arbitror; opers Acerbe ac Pygmalionis proiecistis in undas, quo facinore ego aut mortis aut fuge socios adinveni. Avaritiam quidem Pygmalionis novistis; has ob opes Acerba vir meus occisus est. Nec dubium si ad eum proiectis his deveniamus, quin spe frustrates et succensus ira, nos omnes in cruciatus mortemque compellat. Quam quidem (postquam is quem summe diligebam subtractus est) libens adsumam; sed vobis compatior. Et idcirco si me una vobiscum nefario e conspectus fratris fuga auferre velitis, vite parcam mee, et ad sedes lettore pretenda faustis avibus me ducem vobis offero». Particolarmente importante è il verbo “compati”, in cui «è la manifestazione della propria responsabilità e insieme il sentimento di carità umana che stringe fra loro la sofferenza della vedova e le sorti dei compagni fuggitivi», A. CERBO, op. cit., p. 199. 145 Ivi., p. 191. 130 Mediante questo profondo senso biblico-evangelico, presente sia nella Genealogia sia nel De casibus virorum illustrium sia nel De claris mulieribus, si manifesta l’intento di Boccaccio di rintracciare nel repertorio classico l’annuncio e l’anticipazione del messaggio cristiano, e proprio a questo scopo, grazie al consolidamento della tradizione esegetica inaugurata da Pompeo Trogo/ Giustino e confermata in sede patristica, il caso di Didone gli appare fortemente pregnante146 . §5 Didone in Petrarca 1. «[…] e però Virgilio fece molto male a dare tale infamia a sì onesta donna, per fare bella la sua poesia; e lo nostro autore Dante fece peggio a seguitarlo in questo, che credo avessero veduto Geronimo e li altri che di ciò parlano: potrebbesi scusare; ma le scuse non sono sufficienti; però le lascio» Il commento di Francesco da Buti147 al già citato passo del V canto dell’Inferno funge da ulteriore testimonianza di come, anche in connessione con la letteratura esemplare di matrice patristica, la volontà di riabilitare Didone e dare fondamento storico e morale alla sua figura sia ben attestata, nella letteratura italiana, in età trecentesca. Oltre le minuziose ricostruzioni di Boccaccio infatti, anche Petrarca ‒ come in parte già visto dal commento del Vellutello a Dante ‒ assume una posizione critica nei confronti della collocazione di Didone, da parte di quest’ultimo, tra i «peccator carnali». Come negli autori latini della prima cristianità venivano assunte, in funzione didascalico/esemplare, varie storie di donne non cristiane, così nel Triumphus Pudicitiae 148 , elaborando una narrazione di carattere mitografico in linea diretta con il Boccaccio della Amorosa visione149, Petrarca nomina la regina fenicia tra donne pagane, come Virginia, la greca Ippona, la vestale Tuccia e la sabina Ersilia, oltre che l’ebrea Giuditta e Piccarda Donati. Proprio sfruttando la medesima rima dantesca Dido/grido Petrarca ribadisce il concetto polarmente opposto a quello che Dante, assumendolo in proprio, faceva esprimere a Virgilio: e veggio ad un lacciuol Giunone e Dido, ch’amor pio del suo sposo a morte spinse, non quel d’Enea com’è il publico grido (10-12) 146 Cfr. il capitolo XI In laudem Didonis del De casibus virorum illustrium riportato nell’Appendice XII. Importanti osservazioni sul rapporto Didone-Boccaccio sono contenute in C. JORDAN, Renaissance feminism: Literary Texts and Political Models, Cornell University Press, 1990, pp. 116 e passim nonché in A. WLOSOK, Boccaccio über Dido – mit und ohne Aeneas, in ‘Acta Antiqua Academiae Scientiarum Hungaricae’ 30, Budapest, 1988, 457-70. 147 Cfr. Appendice XIII. 148 Soprattutto rispetto a quanto detto prima circa l’accostamento dantesco Didone/Cleopatra/Semiramide (pp. 103-104), è interessante notare che mentre appunto nel Triumphus Pudicitie Petrarca si preoccupa di riabilitare il buon nome della prima, la seconda e la terza sovrana vengono accoppiate, insieme con altri personaggi femminili, nel Triumphus Amoris (Semiramìs, Biblì e Mirra ria, / come ciascuna par che si vergogni / de la sua non cencessa e torta via! vv. 76-78 e Quel che ‘n sì signorile e sì superba / vista vien primo è Cesar, che ‘n Egitto / Cleöpatra legò tra’ fiori e l’erba. vv. 88- 90). 149 Entrambi i testi comunicano una «una visione cristiana espressa attraverso raffigurazioni di una concatenata serie di trionfi classici», V. BRANCA, Boccaccio medievale, op. cit., p. 309. Esempi classici presenti in queste due opere animano la Fimerodia di Jacopo di Montepulciano, in cui anche Didone è nominata all’interno di un elenco di casi giudicati negativamente dalla «fobia nei confronti dell’amore sensuale» (M. GIANCOTTI, La poesia del Trecento, in Il mito nela letteratura italiana I, dal Medio Evo al Rinascimento’, a cura di P. GIBELLINI, Venezia, Morcelliana, 2005, p. 262): Non bisogna, o amanti, che a Dido / in Cartagine andiate o in Atene, / ove Fedra fé far mortale strido, / per assempli e prodigi, ove convene / che le menti al sognar sien sempre deste / veder per quelli Amor quali ha catene (I, 3, 43-48). 131 e oltre: poi vidi fra le donne pellegrine, quella che per lo suo diletto e fido sposo, non per Enea, volse ire al fine (taccia ‘l vulgo ignorante); io dico Dido, cui studio d’onestate a morte spinse, non vano amor com’è publico grido (154-159). Ma la suggestione della figura di Didone operante in Petrarca è sensibile anche in altri luoghi dei Trionfi: è possibile infatti tracciare un legame diretto Virgilio-Petrarca via Dante, partendo dalla prima radice del V canto dell’Inferno che riecheggia un passaggio del II libro dell’Eneide, ma che serve anche da modello per Petrarca; la duplice suggestione virgiliano-dantesca è rintracciabile non solo nell’incipit del primo Triumphus Cupidinis150: Al tempo che rinnova i miei sospiri Per la dolce memoria di quel giorno Che fu principio a sì lunghi martiri, (1-3) ma anche nel sonetto CCCLVI L’aura mia sacra al mio stanco riposo dei RVF: I’ comincio da quel guardo amoroso, che fu principio a sì lungo tormento (5-6). Ancor più cogenti sembrano essere le analogie tra la chiusa del IV libro dell’Eneide e la descrizione della morte di Laura, dove le suggestioni classiche callimacheo-catulliane giocano un ruolo fondamentale: Allor di quella bionda testa svelse Morte co la sua mano un aureo crine: così del mondo il più bel fiore scelse151 Nondum illi flavom Proserpina vertice crinem Abstulerat Stygioque caput damnaverat Orco. […] Sic ait et dextra crinem secat: […] Triumphus Mortis, I, 113-115 Eneide, IV, 698-700; 704 proprio gli ultimi versi virgiliani sono un chiaro modello per Petrarca Ergo Iris croceis per caelum roscida pinnis Mille trahens varios adverso sole colores Devolat et supra caput adstitit: Hunc ego Diti Sacrum iussa fero teque isto corpore solvo. Sic ait et dextra crinem secat: omnis et una Dilapsus calor atque in ventos vita recessit. Lo spirto, per partir di quel bel seno, con tutte le sue virtuti, in sé romito, fatto avea in quella parte il ciel sereno […] Sendo lo spirto già da lei diviso Eneide, IV, 700-705 Triumphus Mortis, I, 151-153; 170 150 «Petrarca, aprendo I Triumphi con la reminiscenza dell’«ille dies» virgiliano, instaura un rapporto diretto tra la vicenda di Didone e la propria», M. RICCUCCI, L’esordio dei “Triumphi”: tra “Eneide” e “Commedia”, in «Rivista di letteratura italiana» XII, 1994, pp. 322-323. 151 «Le parole-rima «svelse:scelse» di TM I 113-115 sono le stesse di Rvf CCCXVIII 1 e 5: «Al cader d’una pianta che si svelse / vidi un’altra ch’Amor obiecto scelse» in cui Petrarca parla della morte di Laura», M RICCUCCI, op. cit., p. 323. 132 Connessi alla morte di Didone e Laura, sono i lamenti delle ancelle e delle amiche: Lamentis gemitusque et femineo ululato Tecta fremunt, resonat magnis plangor aether tutte sue amiche e tutte eran vicine. […] Quanti lamenti lagrimosi sparsi fur ivi […] le belle donne intorno al casto letto Eneide, IV, 667-668 Triumphus Mortis, I, 112; 118-119; 146 Potendo anche intravedere, in filigrana, una traccia della sottile diffidenza nutrita da Petrarca nei confronti di Dante, autore – a suo giudizio ‒ non sufficientemente indifferente all’ammirazione del «vulgo ignorante», prioritaria è però la cura nell’evitare che un’errata interpretazione del mito capace di una più popolare diffusione, basata sul vano amor per Enea, finisca per offuscare il ben più importante studio d’onestate che dettò il comportamento della regina cartaginese sino alla scelta estrema di morte. Questo concetto è strettamente collegato con l’idea petrarchiana di interpretazione allegorica del testo virgiliano152, come spiegato anche nel quinto paragrafo della quarta della Seniles indirizzata a Federigo Aretino, in cui si legge: «Et sane cur poeta doctissimus omnium atque optimum nam finxisse constat haec finxerit cur cum vel aliam quamlibet heroidum ex numero eligere, vel personam formare novam suo iure licuisset, unam hanc elegerit sempiterno elogio notandam, ut qual studio castitatis ac servande viduitatis extinctam sciret, hanc lascivo amore perente faciat, et queri potest et dubium valde est» (Res seniles, IV, 5, 66). Petrarca tiene in sostanza a precisare l’idea chiara ed esatta che egli ha di Virgilio153 («Itaque, cum adhuc novus atque ignotus hec dicerem, exclamabant, quasi ego Virgilium ignorantie damnarem» [64]), similmente a quanto sostenuto da Boccaccio nelle Genealogie, anch’egli si dice convinto di come l’autore dell’Eneide abbia inserito e costruito la storia di Didone e Enea nei ben precisi limiti della fabula, perfettamente consapevole delle differenze ‘di invenzione’, rispetto alla realtà storica: «Cumque non hec illum nescisse, sed scientem lusisse contenderem, mirabantur et querebant facti causam» (Res seniles, IV, 5, 65). 152 «Petrarch thus solves the interpretative difficulties posed by Dido’s textual past by reading Virgil’s Dido as a poetic adaptation of the historical figure. For Petrarch, Virgil’s Dido is a singularly authoritative revision of a preexisting historical account of Dido», M. DESMOND, op. cit., p. 23. Di estrema importanza sono ovviamente le postille di Petrarca al codice Virgilio Ambrosiano, cfr. F. PETRARCA, Le postille al Virgilio Ambrosiano (a cura di G. VELLI), Padova, Antenore, 2006. 153 Nella sesta stanza della Canzone XXIX Verdi panni, sanguigni oscuri o persi dei Rerum Vulgarium Fragmenta Petrarca scrive: Da me son fatti i miei pensier’ diversi: / tal già, qual io mi stancho / l’amata spada in se stessa contorse (vv. 36-38) e il commento leopardiano ad locum è: «I miei pensieri combattono meco medesimo. Io cangio pensiero ad ora ad ora. Una donna già, cioè Didone, travagliata da una battaglia simile a questo nella quale io mi stanco, rivolse contro se stessa l’amata spada, cioè si uccise colla spada di Enea»; sia Petrarca (i cui versi sembrano dettati da un pathos elegiaco che risente della lettura ovidiana, precisamente della VII eroide, della storia di Didone) che Leopardi sembrano quindi accettare l’originaria appartenenza della spada ad Enea (cfr. Capitolo II p. 70 nota 115. Sulle connessioni Virgilio/Catullo in riferimento alla spada cfr. Capitolo II p. 77). Analoga suggestione ovidiana è rintracciabile nella Ballata XII di Cino da Pistoia: Li più belli occhi che lucesser mai, / Oimé, lasso, lasciai; / Ancider mi devea quand’il pensai. / Ben mi dovea ancider io stesso, / come fe’ Dido quando quell’Enea / Le lasciò tanto amore; / Ch’era presente e fecemi lontano / Da quella gioia, che più mi diletta, / che nulla creatura (vv. 1-9). 133 Ad ulteriore dimostrazione di ciò, Petrarca cita direttamente le fonti care anche a Boccaccio (Pompeo Trogo e Giustino, ma anche Macrobio e Agostino) ponendo l’accento sull’incongruenza cronologica che dovrebbe smentire l’incontro tra il condottiero troiano e la regina cartaginese: «Neque vero Eneam ac Didonem coetaneos fuisse aut se videre potuisse, cum trecentis annis aut circiter hec post illius obitum nata sit, notunt omnes quibus aut ratio temporum aut graie puniceque historie notitia ulla est, non hi tantum qui commentarios in Virgilium, sed qui libros Saturnalium legerunt, neque «Eneam aliquando Carthaginem venisse» secundum Confessionum Augustinus meminit. Totam autem Didonis historiam originemque Carthaginis Trogus Pompeius seu Iustinus explicuit libro Historiarum decimo octavo. Et quid rei manifestissime testes quero? Quis enim, nisi pars vulgi sit, quis usquam, questo, tam indoctus ut nesciat Didonis et Enee fabulam esse confictam verique locum inter nomine non tam veri avidos quam decori et venustate materie et dulcedine atque obtinuisse fingentis, usqueadeo ut iam triste set inviti verum adianto ac prescripta dulcis possessione mendacii spolietur?» (Res seniles, IV, 5, 60-62). La questione era stata trattata anche da Riccobaldo da Ferrara, che nel suo Compendium Romanae Historiae scrive chiaramente: «Falsum est quod de Enea et Didone scripserunt Homerus et Virgilius: nam Eneas mortuus est ante mortem Didonis per annos CCCXXX» nonché, prima, da Ilario di Orléans nel suo commento all’Eneide154 . E se inoltre già Guido Delle Colonne nella Historia destructionis Troiae aveva stabilito una relazione diretta Omero/Virgilio («Virgilius etiam in opere Eneydos, si pro maiori gesta Troum, cum de eis tetigit, sub veritate lucis narravit, ab Homeri tamen fictionibus noluit in aliquibus abstinere»), con specifico riferimento alla vicenda di Didone e Enea ‒ «a morally perfect hero through whome virtue is praised and vice is condamned» 155 ‒ si può citare ancora una nota corsiva notarile del XIV secolo (riportata a margine del codice Ambrosiano B, 24 inf.)156, in cui viene ripresa la questione circa il rapporto tra vericidità storica e invenzione poetica già esaminato a proposito delle posizioni di Boccaccio: «Nota quod Eneas Kartaginem vel Didonem non potuit, licet Virgilius hoc poetice fingat». Nell’Africa, Petrarca si era posto problemi relativi ai principi della poesia epica, in particolar modo all’inizio del IX libro 157 , quando vengono lodate le virtù di Scipione quale modello per le generazioni future. Trattando poi l’ultima fase della seconda guerra punica e in connessione con la figura di Sofonisba158, Petrarca aveva parlato di Didone in accezione positiva, mettendo in luce la sua fedele castità vedovile. Alla regina cartaginese viene infatti dedicato un accenno nel III libro, quando nel corso del banchetto che vede partecipe Lelio, ambasciatore romano inviato da Scipione per stringere alleanza con Siface, vengono cantati – seguendo l’esempio dell’Odissea e dell’Eneide – vari argomenti mitici, tra cui le fatiche di Ercole e di Atlante, ma anche la fondazione di Cartagine: 154 Cfr. V. DE ANGELIS, Petrarca, i suoi libri e i commenti ai classici, in ‘ACME’, vol. 52, 1999, pp. 53-54. 155 C. KALLENDORF, In Praise of Aeneas: Virgil and the Epideictic Rethoric in the Early Italian Renaissance, Hanover-London, University Press of New England, 1989, p. 9. 156 Cfr. M. PETOLETTI, op. cit., p. 101. 157 «As the Roman fleet leale Africa behind, the triumphant Scipio turns to Ennius, the epic writer who is to chronicle his accomplishments, and charges him to wile away the time in an examination of the nature and goals of poetry», C. KALLENDORF, op. cit., p. 22. 158 Cfr. J. CAVALLO, Croce e delizia: la donna “sotto” la penna di Petrarca, in ‘Petrarca’, a cura di S. VINCETI, Roma, Armando editore, 2004, pp. 48 e passim e D. GILMAN, Petrarch’s Sofonisba: Seduction, Sacrifice and Patriarchal Politics, in Introduction a Sex and Gender in Medieval and Renaissance Texts – The Latin Tradition, op. cit., pp. 111-138. Per i rapporti tra l’Africa di Petrarca e il Boccaccio latino cfr. G. BILLANOVICH, Petrarca letterato. I Lo scrittorio di Petrarca, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1947, pp. 153-156. 134 Post regina Tyro fugiens his finibus amplas Moenia construxit, magnam Chartaginis urbem; Ex re nomen ei est. Mox aspernata propinqui Coniugium regis, quum pubblica vota suorum Urgerent, veteris non immemor illa mariti Morte pudicitiam redemit159. Sic urbis origo Oppetiit regina ferox. Iniuria quanta Huic fiat, si forte aliquis (quod credere non est) Ingenio confisus, erit, qui carmine sacrum Nomen ad illicitos ludens traducat amores (Africa, III, 417-426); Se, come Didone, anche Sofonisba è chiamata a regnare su un regno africano in assenza del marito, i termini in cui Petrarca descrive nel V libro l’amore tra lei e Massinissa si rifanno chiaramente a quelli virgiliani relativi alla passione tra Didone e Enea: il legame tra i due personaggi dell’Africa (che insolitis ardebant viscera flambi, V, 109), rapiti da vulnifico […] amori (V, 198), è però a tutti gli effetti – a differenza della relazione di Elissa con il duce troiano – adulterina, dal momento che Siface è ancora vivo. In tal modo, analogamente a quanto avviene nel IV libro virgiliano, la Fama ha gioco facile a diffondere la notizia: Fama leves rumore replet succedere castris Syphacem victum trahi; ruit obvius omnis Visendisque avidus positis exercitus armis, Illum admirari, atque illum celebrare frequentes. (Africa, V, 293-297). Il modello oltremondano del VI libro dell’Eneide è ben chiaro per il descensus ad inferos di Sofonisba, moglie dello sconfitto re Siface nonché consorte del vincitore Massinissa: «an unmistakable Dido figure, caught in a relationship with Massinissa that strains at the bond of conventional morality and her lover’s obligations to Scipio»160. Ma è proprio in questo punto che Petrarca tocca una questione delicata relativa al suicidio di Didone (e messa in evidenza da Tasso)161: nell’Ade Sofonisba incontra Minosse, il cui ruolo è quello di indirizzare le anime dei morti nei luoghi di pena appropriati per ogni specifica colpa: Quaesitor Minos urnam movet: ille silentum Conciliumque vocat vitasque et crimina discit. Judicis inferni postquam ad praetoria ventum est, Injecit sibi saeva manu: candentia Minos Ora movens dixit: […] Eneide, VI, 432-433 Africa, VI, 11-13 La differenza tra Virgilio e Petrarca è però sensibile: se il suicidio nell’Eneide non costituiva una colpa ([…] qui sibi letum / Insontes peperere manu lucemque perosi / Proiecere animas. […], VI, 434-436), in Petrarca è chiaramente condannato (Quem sontes habitant animae, quibus ultima vitae 159 Una riflessione andrebbe fatta sull’uso del perfetto redemit: se infatti il verbo redimere ha fra i suoi significati quello di “liberare”, “affrancare”, si potrebbe presupporre la coscienza di una colpa pregressa tale da indurre a riscattare con la morte il pudore prima macchiato, oppure ipotizzare una attrazione nei confronti di Enea a cui Didone preferisce porre fine uccidendosi, piuttosto che rischiare l’eventuale cedimento, in ideale connessione con i versi virgiiani Vel pater omnipotens abigat me fulmine ad umbras, / Pallentis umbras Erebi noctemque profundam, / Ante, Pudor, quam te violo aut tua iura resolvo. (IV, 25-27). 160 C. KALLENDORF, op. cit., p. 40. 161 Cfr. nota 63 p. 103. 135 / Cura fuit neglecta suae […], Africa, VI, 14-15). Secondo il giudizio di Eaco, Sofonisba, morta per amore, viene inviata nei Lugentes Campi162: «Mortis amor causa est, lucem coacta reliquit Tertia claustra sibi sunt legibus addita nostris; Huc eat; immeritae neque haec injuria vestra Accedat nunc voce recens. Satis aspera vitae Mansit apud Superos fortuna et mortis acerbae» (Africa, VI, 20-24). Ma se in questo passo i paralleli tra la storia di Sofonisba e quella di Didone appaiono evidenti, la stessa regina cartaginese è chiamata in causa, in qualità di exemplum castitatis, nel III e IV libro del poema giovanile petrarchiano. Fondamentale risulta anche la conclusione del discorso di Lelio in lode di Roma, con un dettagliato racconto sulle vicende di Lucrezia (figura, come visto, apprezzata anche in sede patristica e non a caso talvolta accostata a Didone). Oltre al riferimento poco sopra considerato, quando Lelio, all’inizio del libro IV, prende a narrare, in seguito alla richiesta del re, la gloriosa storia di Roma, la citazione della vicenda di Lucrezia (figura non a caso fondamentale per la patristica, come si è già avuto modo di vedere163) provoca l’appassionato commento di Siface: Sentio preterea quid femina vestra pudica Morte velit: ne cuncta sibi ima candida Dido Arroget […] (Africa, IV, 4-6). Il ruolo di Mercurio, che richiama all’ordine Enea, è nel poema petrarchiano affidato a Scipione. Una sensibile differenza consiste però nel differente turbamento che l’ammonimento causa nel condottiero troiano e in Massinissa: se il primo si risolve infatti in pochi versi (IV, 279-287), nel secondo caso viene dedicato uno spazio molto più ampio (II, 442-718) per arrivare alla conclusione che l’unica soluzione al dissidio consiste nella morte di Sofonisba, «and final decisioni s motivated as much by fear of Scipio’s greater power as by a renewed sense of virtue within him»164. Un altro comune denominatore tra i due personaggi femminili è costituito dalle minacce rivolte a Enea e Scipione: Sol qui terrarum flambi opera omnia lustras, Tuque harum interpres curarum et conscia Iuno Nocturnisque Hecate triviis ululate per urbes, E Dirae ultrices et di morientis Elissae, Accipite haec meritumque malis advertite numen Et nostra saudite preces. […] Inprecor, arma armis, pungent ipsique nepotesque […] Sint ultima vitae Tristia, et eximiis sua Roma ingrata tropaeis. Exsul ut a patria deserto in rure senescat Solus, et a fidis longe semotus amicis; Nec videat sibi dulce aliquid, qui dulcia nobis Omnia praeripuit; tum cari injuria fratris Exagitet, doleatque suos non aequa ferentes. Filius extremosinglorius aggravet annos. Indigno tandem atque inopi claudare sepulcro Iratusque tibi, et patriae moriare relictae, Scipio, et infames saxis inscribe querelas 162 Secondo Kallendorf (op. cit., p. 41), i versi petrarchiani 43-44 del VI libro (Non hic armo rum strepitus studiumve frementum / Cornipedum, non cura canum pecudumque boumque), che richiamano i virgiliani Per campum pascuntur equi.Quae gratia currum / Armorumque fuit vivis, quae cura nitentis / Pascere equos, eadem sequitur tellure deposito (Eneide, VI, 653-655), sono volti a specificare che non si tratta dei Campi Elisi. 163 Cfr. paragrafo 1 di questo capitolo. 164 C. KALLENDORF, op. cit., p. 48. Cfr. anche P. BONO-M. V. TESSITORE, op. cit., pp. 203-204. 136 Eneide, IV, 607-629 Africa, V, 748-758 benché sia opportuno puntualizzare che permangano significative diffenze tra l’Eneide e il poema latino di Petrarca, bne sintetizzate da Kallendorf: «Though Sophonisba is similar to Virgil’s Dido in many ways, Massinissa, not Scipio, is her lover; Scipio is instead the new Mercury, a moral hero whose self-controled is, as Massinissa notes, godlike: Ille equidem astrigeros tractus celumque tenebit Dux sacer, humanis in totum morbus impar [V, 555-556]»165 . È ancora una volta la purezza della candida Dido a trionfare, e l’indiscutibile messa in evidenza di un chiaro esempio di femminile castità intende condannare a priori, bollarla come del tutto errata, nonché d’incredibile elaborazione, l’eventuale versione del mito ‒ proprio quella fornita da Virgilio e seguita da Dante ‒ che pretendesse di compendiare sotto la rubrica degli illecitos amores quella vicenda di preclara virtù. D’altronde, nella conclusione delle Istorie fiorentine (CAP. XXI, Come Enea si partì di Troia, ed arrivò in Cartagine in Affrica), dopo aver sostanzialmente ripreso il mito senguendo la vulgata virgiliano-dantesca, Giovanni Villani scrive: «E però la detta regina Dido per lo smaniante amore con la spada del detto Enea ella medesima sé uccise. E chi questa istoria più pienamente vorrà trovare, legga il primo e secondo libro dell’Eneida, che fece il grande poeta Virgilio». Omettendo il riferimento al IV libro, l’autore mostra però di voler indirizzare il suo interesse storiografico unicamente verso la Didone coraggiosa e intrepida fondatrice di città, tralasciando il côté privato e larmoyant della vicenda amorosa166 . 2. Se una suggestione ovidiana167 è rintracciabile nella Ballata XII di Cino da Pistoia Li più belli occhi che lucesser mai, Oimé, lasso, lasciai; Ancider mi devea quand’il pensai. Ben mi dovea ancider io stesso, come fe’ Dido quando quell’Enea Le lasciò tanto amore; Ch’era presente e fecemi lontano Da quella gioia, che più mi diletta, che nulla creatura. (vv. 1-9) 165 Ibidem. 166 Il racconto di Giovanni Villani è ripreso da Ser Giovanni Fiorentino nel Pecorone (XVI,1), seguendo il particolare riscontrato nella chiosa di Jacopo Alighieri circa il particolare secondo cui il suicidio di Didone sarebbe stato causato dalla mancata promessa di ritorno fattale dal condottiero troiano; alla regina fenicia viene infatti attribuita la seguente recriminazione: «Io non avrei mai creduto, che considerato come tu scacciato dalla fortuna fusti da me con tanto onore ricevuto, che non solo ti ho campato la vita, ma insieme con le mie cose ti ho donata me stessa, tu ingrato, al presente mi dovessi abbandonare»; mentre il racconto continua: «et Enea le promise di ritornare, ma ella con molte lacrime gli soggiunse: Io ti conosco; tuo desiderio è di signoreggiare lItalia: or tal sia; e poi, veggendolo partire, con la spada da lui lasciatale s’uccise». 167 E. M. DUSO ha dimostrato cime i versi 3-8 della VII Epistula delle Heroides siano il modello della prima stanza della Canzone Si come al fin della sua vita canta di Giovanni Quirini, cfr. G. QUIRINI, Rime, ed. critica a cura di E. M. GUSO, padova, Antenore, 2002, pp. 185-186. 137 i versi della sesta stanza della Canzone XXIX Verdi panni, sanguigni oscuri o persi dei Rerum Vulgarium Fragmenta: Da me son fatti i miei pensier’ diversi: tal già, qual io mi stancho/ l’amata spada in se stessa contorse (vv. 36-38)168 sembrano ugualmente dettati da un pathos elegiaco che risente della lettura della storia di Didone propria della VII eroide. Ma è l’Eneide, e particolarmente il IV libro, a giocare un ruolo importante in diversi punti del Canzoniere petrarchesco. In questo, infatti, pur senza riferimenti espliciti alla vicenda di Didone, è possibile infatti cogliere una serie di richiami ai versi virgiliani. Ancora nella Canzone XXIX, con duplice riferimento al primo e all’ultimo termine virgiliano ille dies primus leti primusque malorum (ma anche all’ovidiano Illa dies nocuit […])169, è possibile vedere una corrispondenza tra i versi dell’Eneide e quelli petrarchiani dell’incipit della quarta stanza, dove il lemma radice in tale accezione già usato da Dante (Inferno, V, 126) funge da trait d’union (dies > giorno / dolorem > addoglia + radice > radice): Ma l’ora e ‘l giorno ch’io le luci apersi Nel bel nero et nel bel bianco, novella d’esta vita che m’addoglia furon radice, […] (22-26) Se i primi due endecasillabi della sirma del Sonetto XX, Vergognando talor ch’ancor si taccia Più volte già per dir le labbra apersi, poi rimase la voce in mezzo ‘l pecto (9-10) riecheggiano l’Incipit effari mediaque in voce resistit (IV, 76) con cui Virgilio esprime l’affiorare della prima emozione d’amore della regina fenicia nei confronti di Enea, ugualmente nel dato intimamente emozionale consiste il comune denominatore tra i versi petrarchiani del Sonetto C Quella fenestra ove l’un sol si vede: e ‘l volto, et le parole che mi stanno altamente confitte in mezzo al core che descrivono gli indelebili segni lasciati da Laura nel cuore del poeta e quelli virgiliani relativi alle prime inquietudini notturne di Didone: […] haerent infixi pectore voltus Verbaque, nec placidam membris dat cura quietem (IV, 4-5). Tutta la fronte del Sonetto CLXIV Or che ‘l ciel et la terra e ‘l vento tace (ma la stessa eco tematica più diffusamente si distende nella Canzone L Ne la stagion che ‘l ciel rapido inchina) risente inoltre 168 il commento leopardiano ad locum è: «I miei pensieri combattono meco medesimo. Io cangio pensiero ad ora ad ora. Una donna già, cioè Didone, travagliata da una battaglia simile a questo nella quale io mi stanco, rivolse contro se stessa l’amata spada, cioè si uccise colla spada di Enea»; sia Petrarca che Leopardi sembrano quindi accettare l’originaria appartenenza della spada ad Enea (cfr. Capitolo II p. 70 nota 115). 169 Cfr. Capitolo III, pp. 90-91. 138 dei versi in cui il poeta mantovano descrive l’unanime silente riposo notturno contrastante con il furore che sconvolge tragicamente la sovrana fenicia 170 Nox erat et placidum carpebant fessa soporem Corpora per terras silvaeque et saeva quierant Aequora; cum medio volvuntur sidera lapsu, Cum tacet omnis ager, pecudes pictaeque volucres, Quaeque lacus late liquidos, quaeque aspera dumis Rura tenent, somno positae sub nocte silenti. [Lenibant cura set corda oblita laborum] At non infelix animi Phoenissa neque noctem Accipit. Ingeminant curae rursusque resurgens Saevit amor magnoque irarum flutuat auestu Or che ‘l ciel et la terra e’l vento tace Et le fere e gli augelli il sonno affrena, Notte il carro stellato in giro mena Et nel suo letto il mar senz’onda giace, vegghio, penso, ardo, piango; et chi mi sface sempre m’è inanzi per mia dolce pena: guerra è ‘l mio stato, d’ira et di duol piena, et sol di lei pensando ò qualche pace Eneide, IV, 522-532 RVF, CLXIV, 1-8 É il motivo della passione amorosa che anima Didone ad attrarre maggiormente il Petrarca del Canzoniere, e questo dato risalta ancora di più se confrontato con la condanna nei confronti di questo sentimento operata in altra sede: nella lettera a Giovanni Colonna, infatti, portando ad esempio i versi 4-5 del IV libro virgiliano appena citati, Petrarca parla di «insanus et obscenus amor» (Familiares, II, 6, 4)171, riferendosi ad una particolare tipologia di amore ‘femmineo’: questa viene codificata nella chiusa del De absentia amicorum (II, 53) del De remediis utriusque fortunae: «9. Dolor: Dilecti absentia me affligit. 10. Ratio: Est id, fateor, commune mulierum, atque omnium muliebriter amantium, quorum delectation omnis in sensibus est; nichilominus de iis ipsis Poeta loquebatur ubi ait: Illum absens absentem auditque videtque» citando non a caso un verso (83) dal IV libro dell’Eneide. È questo il deleterio amore che nel III libro del Secretum era stato giudicato negativamente da Agostino come «amantium infame privilegium», esemplificato sulle parole illum absens absentem auditque videtque (Eneide, IV, 83). Ed è proprio questo pregnante costrutto virgiliano (doppia allitterazione + epifora) a fungere da ipotesto per i passaggi ch’io l’ò negli occhi […] (7) e Parme d’udirla […] (9) del Sonetto CLXXVI Per mezz’i boschi inhospiti et selvaggi: «qui la condanna del Secretum è remota: trionfano la dolcezza del desiderio e la gioia della sua enunciazione»172. L’identificazione si fa ancora più cogente se si raffrontano le similitudini […] qualis coniecta cerva sagitta, Quam procul incautam nemora inter cresia fixit Pastor agens telis liquitque volatile ferrum Nescius; illa fuga silvas saltusque peragrat Dictaeos, haeret lateri letalis harundo. Et qual cervo ferito di saetta, col ferro avelenato dentr’al fianco, fugge, et più duolsi quanto più s’affretta, tal io, con quello stral dal lato manco, che mi consuma, et parte mi diletta, di duol mi struggo, et di fuggir mi stanco Eneide, IV, 69-73 RVF, CCIX, 9-14 170 M. FEO, ‘voce’ Petrarca (cui si rimanda per il complessivo confronto tra i due autori in questione) della ‘Enciclopedia Virgiliana’ (Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1996, vol. IV, p. 68) parla a questo proposito di «rivaleggiamento» tra i due testi. 171 «al moralista si oppone conflittualmente, non senza che talora ad esso si intrecci, il poeta lirico», ivi, p. 69. 172 Ibidem. 139 in cui si assiste addirittura all’assimilazione tra la ‘cerva piagata’ (Didone) e il ‘cervo ferito’ (Petrarca stesso) nominato nella sirma del Sonetto CCIX I dolci colli ov’io lasciai me stesso173 . Proprio questo accostamento viene esplicitamente ammesso da Petrarca nel III libro del Secretum, con la citazione virgiliana: «Quod quantum michi profuerit, vides. Itaque sepe animum tetigit virgiliana comparatio: qualis coniecta cerva sagitta, […] Huic ergo cerve non absimilis factus sum. Fugi enim, sed malum meum ubique circumferens». E se nel primo libro della stessa opera è Agostino a definire i termini della conoscenza e della frequenza petrarchiana del testo virgiliano, citando ancora una volta un verso dal IV libro: «mens immota manet, lacrime volvuntur inanes Verum ego, etsi multa congerere poteram, unico tamen eoque domestico exemplo contentus fui» è lo stesso autore delle Confessiones ad assimilare, nel III libro, Petrarca a Didone, allorquando il primo racconta della fatale coincidenza tra il primo incontro con Laura e il subitaneo innamoramento: «F. Profecto et illius oc cursus et exhorbitatio mea unum in tempus inciderunt. A. Habeo quod volebam. Obstupuisti, credo, perstinxitque oculos fulgor insolitus. Dicunt enim stuporem amoris esse principium; hinc est apud nature conscium poetam: Obstupuit primo aspecto sidonia Dido. Post quod dictum sequitur: Ardet amans Dido. Que quamvis, ut nosti optime, fabulosa narratio tota sit, ad nature tamen ordinem respexit ille, dum fingeret. Sed cum obstupuisses ad illius occursum, cur ad levam potissimum deflexisti?». Similmente a quanto operato da Boccaccio, tanto ferrato nella esatta e ‘positiva’ ricostruzione della vicenda di Didone quanto pronto ad ammettere il magistero poetico virgiliano, anche in Petrarca convivono – in modo pur parzialmente contraddittorio quanto sentimentalmente vivo – i due aspetti fondanti della storia della regina cartaginese, sulla quale non a caso, nella quinta epistola delle Sine nomine, si esprime nei seguenti termini: «si tamen amans miserabili set non pudicissima ac constantissima mulier fuit Dido». 173 Alla luce di questi (come certamente di tanti altri) accostamenti è possibile condividere in pieno quanto scritto da E. SANGUINETI: «Ogni frammento dei Fragmenta, finalmente, è una replica, condotta all’ultima perfezione, di un vero e proprio microgenere lirico. Non si inventa niente, in quelle pagine, ma si riscrive, inventariando scrupolosamente, in intenzione almeno, l’intiero repertorio dei luoghi accertabili in tutto l’orizzonte del versificato […]», L’opera di Francesco Petrarca in Cultura e realtà, a cura di E. RISSO, Milano, Feltrinelli, 2010, p. 77. 155 Capitolo IV DIDONE NELLA TRADIZIONE UMANISTICA. NEL SEGNO DI ELISSA: NEL SEGNO DI ELISSA: DI ELISSA: DONNE ABBANDONATE, ABBANDONATE,MAGHEE INCANTATRICI INCANTATRICI 156 §1 Landino e gli altri umanisti di fronte a Didone 1. Nel suo Comento sopra la Comedia1 dantesca, Cristoforo Landino nomina in varie occasioni la principessa cartaginese, anche discutendo versi dove questa non è esplicitamente nominata. Già a proposito del colle illuminato dal sole, nel primo canto dell’Inferno, al verso 21 la notte ch’io passai con tanta pièta volto ad indicare, secondo il commentatore, il dolore da parte di Dante d’aver perso la retta via, Landino descrive le due possibilità di vita, radicalmente contrapposte, a seconda che si sia scelta «una virtù decta temperantia, nella quale chi ha fatto abito in forma si contiene et abstiene da ogni piacere, et voluptà vitiosa et non honesta», oppure il «vitio della intemperantia», peccato in cui cade colui che «si dà tutto alla vita lasciva et voluptuosa et a ogni libidine». Questa visione dicotomica è legata a inconciliabili visioni etico-comportamentali: se infatti nel primo caso si parla di «virtù», nel secondo si scivola nel «vitio, imperò ché lo incontinente anchora lui non vorrebbe cader nel vitio, et chombatte chon la libidine chome combatteva el continente; ma non la vince chome il continente, ma lasciasi vincere». E come paradigmatico esempio di questa seconda esecranda tipologia Landino porta proprio il caso di Didone: «Adunque, seguitando la fictione di Virgilio, Didone nel principio che vide Enea era temperata et volentieri et sanza faticha s’absteneva da ogni lascivia. Onde dice: «tum breviter Dido vultum demissa profatur». Dipoi dopo il convito cominciando già le fiamme, s’inclinava all’amore; ma pure, benché gli fussi difficile, niente dimeno s’abstenea dagli acti libidinosi. Il perché non era più temperata, ma era diventata continente et combatteva col vitio, ma pure vinceva. Il perché dice: «si mihi non animo fixum immotumque sederet. Ne cui me vinclo vellem sociare iugali […] Huic uni forsan potui succumbere culpe». È dunque combattuta dall’amore, ma pure lo vince. Onde conchiude volere essre prima fulminata da Iove che violare la castità. Ma non dopo molto tempo diventa incontinente, perché continuando l’amore di tormentalla, finalmente si lascia vincere benché malvolentieri, maxime per le persuasioni di sua sorella. Né cessò di ruvinare al fondo insino a tanto che diventò intemperante, perché facto già habito nella lascivia, volentieri a quella si dava. Il che el poeta dicendo: «nec iam furtivum Dido meditatur amorem». Vedi dunque che chosa è temperantia, continentia, incontinentia et intemperantia. Il perché tornando a proposito, Danthe era non intemperato, perché non havea facto habito del vitio, ma incontinente, perché benché combattessi col vitio, nientedimeno si lasciava vincere». Nell’ottica rigidamente moraleggiante dell’umanista fiorentino, la fascinosa particolarità, e al contempo la grande complessità propria di Didone, capace di mutarsi da nobile regina amministratrice di un impero a vulnerabile donna pronta a mettere tutto in discussione per una rinnovata fiamma d’amore – e il verso di Eneide IV, 23, ben noto a Dante, viene interpretato proprio come dimostrazione non solo di una lacerazione interna, ma anche come deriva peccaminosa – subiscono la reductio da una condizione di merito ad una di condanna. L’ «astenersi 1 Per un adeguato inserimento nel contesto storico del Quattrocento e un’approfondita indagine circa la genesi del Comento landiniano cfr. P. PROCACCIOLI, Filologia ed esegesi dantesca nel Quattrocento – L’«Inferno» nel «Comento sopra la Coemdia» di Cristoforo Landino (premessa di G. PETROCCHI), Firenze, Olschki, 1989. 157 da ogni lascivia» è invece interpretato sulla base di una supposta propensione di Didone al breviloquio e alla morigeratezza, come dimostrato dal verso 23 del primo libro virgiliano. In questo caso, una possibile fonte di Landino potrebbe ravvisarsi in Petrarca, il quale, nella Collatio coram Domino Iohanne, per descrivere le principali doti proprie di un regnante, cita proprio questo verso dell’Eneide: «Sane inter conditiones principum, de quibus multi multa dixerunt, gloriosissime regum, quantum michi ex quibusquam veterum scriptis in rege, breviloquium et verecondia in regina; et hec duo simul attigit ille nature conscius poeta ubi ait: Tum breviter Dido vultum demissa» 2 . A differenza delle letture allegorizzanti dell’ Eneide, in cui Didone era bollata tout court come emblema di vizio e libidine, in Landino la vicenda di Didone è quindi considerata nel suo tragico svolgimento, in un’ottica bipolare che riconosce gli indubbi meriti civili della sovrana ma ne condanna l’incipiente deriva passionale. Simbolo proprio dell’incontinenza è la lonza che, dice Dante, non mi si partiva dinanzi al volto (Inferno, I, 34)3 : la spiegazione landiniana ad locum è: «perché sempre sta fixo nella mente la forma della cosa amata. Questo dimostra Virgilio in Didone, la quale vedea et udiva Enea benché absente. Questa molto impedisce el camino, perché nessuna chosa è ce tanto ci ritragha della speculazione quanto el lascivo amore, in forma che etiam gli alti ingegni et meravigliosi huomini spesso torce dal vero camino». In questo secondo caso in cui è menzionata Didone pur non essendo questa stata ancora nominata da Dante, il commentatore sembra avvicinarsi all’equazione Dido/libido propria della Expositio Virgilianae continentiae di Fulgenzio 4 . Un altro riferimento a Virgilio via Petrarca è invece possibile quando Landino, per le prime due terzine del secondo canto dell’Inferno Lo giorno se n’andava, e l’aere bruno toglieva li animai che sono in terra da le fatiche loro; e io sol uno m’apparecchiava a sostener la guerra sì del cammino e sì de la pietate, che ritrarrà la mente che non erra. (Inferno, 1-6). Tenuto presente quanto detto nel capitolo precedente a proposito del Sonetto CLXIV Or che ‘l ciel et la terra e ‘l vento tace (ma anche della Canzone L Ne la stagion che ‘l ciel rapido inchina) 5 , Landino afferma esplicitamente circa il testo dantesco: «Questo luogho è tracto del quarto libro di Virgilio, dove induce Didone veghiare pel dolore et pegli affanni in quella hora nella quale tutti gli animali si posano»6 . 2 Per le suggestioni e i richiami legati a questo verso virgiliano cfr. Capitolo I p. 15 e Capitolo 2 p. 45. 3 Cfr. N. SAPEGNO, op. cit., p. 8 (Inferno). 4 Cfr. Capitolo II p. 80. 5 Cfr. Capitolo III, pp. 137-138. 6 Landino prosegue poco oltre, citando i versi 10-13 del sonetto VII La gola e ‘l sonno et l’otïose piume del Canzoniere petrarchesco: «Adunque io solo, cioè posto in solitudine; o veramente io solo dimostrando che e contemplativi sono soli 158 Se Petrarca7 è chiamato ancora direttamente in causa commentando i versi Ora incomincian le dolenti note a farmisi sentire; or son venuto là dove molto pianto mi percuote. (Inferno,V, 25- 27) poco prima, riferendosi ai deleteri effetti della «luxuria», Landino parla idi «cecità di mente et inconsideratione», continuando: «Queste due cecità, una della ragione superiore , et l’altra della inferiore, exprexe optimamente Virgilio. La prima in Enea, el quale per Didone lasciava l’Italia, cioè la inquisitione et contemplatione delle chose celesti. La seconda in Didone, la quale impedita dall’amore, ogni altra chosa in tralasciava, unde «non cepte insurgunt turres». Item induce la lux uria incostante». La citazione del passo del IV libro dell’Eneide8 , in cui si descrive il degrado e l’involuzione che affliggono la città e la gente di Cartagine a causa della amorosa distrazione della regina vuole appunto sottolineare le catastrofiche conseguenze di tale passione. Al verso dantesco in cui per la prima volta viene nominata la regina fenicia, Landino appone una breve storia di questa9 : «Chostei [Didone] fu figliuola di Belo re di Phenycia, et moglie di Sicheo, el quale perché haveva di molto thesoro, da Pygmaleone fratello di Didone fu ucciso sperando possedere le sue riccheze. Ma Didone con quelle si fuggì in Affrica, dove edificò Cartagine, et vixe in gran castità, né mai ruppe fede al già morto marito. Et finalmente vedendosi constringere a Iarba re di Mauritania, el quale la volea sposare, chon le proprie mani s’uccise per non rompere la fede a Sicheo. Ma Virgilio per ornare el suo poema finge che arrivando per tempesta Enea a’ liti cartaginesi, et visitandola, lei s’innamorò di lui, et fuggendo nella caccia la piova un una speloncha dove s’accozorono, lo conobbe. Dipoi andatosene Enea in Italia, Didone vincta dal troppo amore s’uccise. Adunque Dante seguitando Virgilio nell’altre chose, lo seguita anchora in questa storia». Ancora una volta, quindi, viene accolta la versione secondo cui, innamorandosi di Enea e tradendo il giuramento di fedeltà nei confronti di Sicheo, Didone avrebbe infangato e perso il suo status regale. Ma Landino – in linea con quanto già osservato circa le riflessioni di Boccaccio e Petrarca – et pochissimi, onde el Petrarcha «povera et nuda vai philosophia, Dice la turba al vile guadagno attesa. Pochi compagni harai per la tua via» […]». 7 «chi vuole apuncto intendere la incostantia de gli amanti, et la ruina de’ loro consigli da un extremo a un altro, legga il trionpho che scrive Francesco Petrarcha dell’amore, chosa molto utile considerando o bene a chi cercha di liberarsi da sì crudele servitù». 8 Non coeptae adsurgunt turres, non arma iuventus / Exercet portusve aut propugnacula bello / Tuta parant: pendent opera interrupta minaeque / Murorum ingentes aequataque machina caelo, Eneide, IV, 86-89. 9 Similmente il commento ad locum delle Chiose Palatine: «L’altr’è colei che s’ancise amorosa et cetera. Questa è Dido, moglie che fue di Siceo re di Tiria e suora di Pignaleone e figliola di Belo; preso e morto Siceo dal cognato, questa donna con certi di Tiria, recadone seco la cenere del suo marito, venne in Affrica e quivi edificò Cartagine dove arrivoe Enea con li sui, fuggiti di Troia, del quale Dido innamorò e venne a carna’ uso, dal quale poi abbandonata sé medesima uccise, sé come scrive Virgilio nel quarto libro de l’Eneida, sìche prima ruppe fede a la cenere del suo marito, poi innamorata se uccise, e questo dice il testo». 159 ammette essere questa un’invenzione virgiliana, come d’altronde riconosce anche Leonardo Bruni nel De studiis et litteris ad dominam Baptistam de Malatestis: «Equidem, si quando Didonis Eneeque amores apud Virgilium lego, ingenium poete admirari soleo, rem autem ipsam, quia fictam esse scio, nequaquam attendere». In accezione sicuramente positiva è da leggersi il parere di Bruni relativo alla regina cartaginese, contenuto nel secondo libro dei Dialogi ad Petrum Paulum Histrum (1401): «Cur Virgilius castissimam mulierem, quae pro pudicitia conservando mori sustinuit, ita libidinosam fingit, ut amoris gratia seipsam interimat?»10 . Il fascino e il valore dell’inventio poetica devono quindi essere ben distinti dalla realtà ‘storica’ del personaggio, e questo concetto sembra essere confermato dal commento ad locum non solo delle Chiose Filippine: «L’altra, id est Dido relicta quondam Sichei, que concubuit cum Enea et propter amorem et recessum occidit se ipsam. Che s’ancise amorosa, idest que se occidit propter amorem. Nota quod autor sequitur hic Virgilium in quarto et eciam primo Eneidos, de Didone, filia Beli regis Tiri et Sidonis, in provincia Fenici set Palestine, que fuir uxor Sichei regis Barith, que in veritate fuit castissima»11 . ma anche, più chiaramente, di Matteo Chiromono: «[L’altra è collei che s’ancise amorosa] Revera Dido pudicissima foemina fuit quae, ut inquit Iustinus xviii libro, ne Hiarbe, Maurorum regi, matrimonio iungeretur, se gradio transixit; quae a Virgilio narrata sunt de ipsa, fabulosa sunt. Nec etiam retio temporum convenit: nam Eneas venit in Italia, per ecce annos ante Didonis tempora [amorosa] plena amoris». L’importanza che il IV libro virgiliano riveste per il commento landiniano emerge anche a proposito di altri luoghi della Commedia, come dimostra ad esempio la terzina «Lo nostro scender conviene esser tardo, sì che s’ausi un poco in prima il senso al tristo fiato; e poi no i fia riguardo (Inferno, XI, 10-12). Dopo la sosta presso la tomba di papa Anastasio II, alla percezione dell’orribile soperchio / […] puzzo (Inferno, XI, 4-5), i versi danteschi – in cui è chiara un’eco virgiliana (fauces grave olentis Averni) – vengono così chiosati da Landino: 10 Cfr. L. BRUNI, Dialogi ad Petrum Paulum Histrum, a cura di U. BALDASSARRI, Firenze, Olschki, 1994, p. 136. Cfr. S. H. JED, Chaste thinking: the rape of Lucretia and the birth of Humanism, Bloomington, Indiana University Press, 1989, p. 35. 11 Analogamente, il commento delle Chiose Filippine al verso 85 (cotali uscir de la schiera ov’è Dido) è: «Acies Didonis est acies filocaptorum», mentre Matteo Chiromono chiosa: «[ov’è Dido] ubi est Dido, quae se amore Aeneae interemit». 160 «Imperoché ogni dura cosa si sopporta meglio poi che l’huomo vi s’è hausato, che nel principio. Onde et Didone apresso di Virgilio: «tempus inane peto requiem spatiumque furori Dum mea me victam doceant [doceat] fortuna dolere». Et allegoricamente intenderemo che non dobbiamo scendere alla meditazione di simili vitii con subito empito d’animo, ma maturamente et chon ragione, perché altrimenti da quegli potremmo esser presi» . Ma anche il tema del suicidio – colto nel suo ultimo esito (Eneide, IV, 697) – della regina cartaginese è presente nel commento dell’umanista fiorentino: nel pozzo dei giganti, al canto XXXI, la terzina Ancor ti può nel mondo render fama, ch’el vive, e lunga vita ancor aspetta se ‘nnanzi tempo Grazia a sé nol chiama (Inferno, XXXI, 127-129) posto a chiusura del discorso di Virgilio a Dante sulla fama, sul positivo ricordo da lasciare tra i vivi, è così commentata: «se per grazia divina lui non è chiamato alla celeste vita innanzi al corso naturale della humana vita. Imperoché chi muore inanzi al natural corso muore inanzi al tempo. Onde Virgilio di Didone: «sed misera ante diem subitoque accensa furore»». Altri accenni alla vicenda di Didone e Enea tornano anche in altre occasioni: a proposito del canto IX del Purgatorio (vv. 22-24), ad esempio, quando Dante, addormentatosi sul prato fiorito immagina in sogno d’esser prelevato da un’aquila che lo innalza sino alla sfera di fuoco, viene citata la storia di Ganimede12 sull’onda di indubbie suggestioni classiche, e infatti a tale proposito Landino scrive: «Et è cosa mirabile con quanto acume d’ingegno et di giudicio, et quanto copertamente lui [Dante] imita Virgilio. Il che mi parabordo exprimere in questo luogho. Volle dunque l’uno e l’altro di questi poeti dimostrare, che questo interviene, che gl’huomini, e quali si danno alla contemplazione, o stracchi dalla fatica, o perterrefacti, et sbigoctiti, dalla difficoltà, mutano proposito, et ritornano alla vita civile […]. Questo significa Virgilio in Enea, el qual afflicto per la temepsta concitata da Iunone et da Eolo, abbandona la ‘mpresa d’andare in Italia, la quale chome dimostrai nelle nostre allegorie, sempre pone per la vita contemplativa. Et prende partito andare in Cartagine, i. alla vita activa. Et quivi facto marito di Didone, si sarebbe posato, se Iove non havessi mandato Mercurio ad excitarlo, et admonirlo, che non abbandonassi la prima impresa, i. se Idio non havessi dimostrogli per vera doctrina, quanto sia da preporre Maria a Marta». Analogamente, quando nel XX del Purgatorio, parlando di Ugo Capeto, viene menzionato Pigmalione: Noi repetiam Pigmalion allotta, cui traditore e ladro e parricida 12 Cfr. OVIDIO, Metamorfosi, X, 155-161 e VIRGILIO, Enedie, V, 252-255. 161 fece voglia sua l’oro de l’avaro Mida (Purgatorio, XX, 103-105)13 Landino puntualizza: «fu figliolo di Belo, uccise a tradimento Sicheo sacerdote d’Hercole, et mentre che sacrificava, el quale era suo zio et marito di Didon sua sirocchia. Né l’uccise provocato da alchuna ingiuria, ma per usurpare le sue richeze, le quali nientedimeno non poté havere, perché Didone con quelle fuggì in Africa, et edificò Cartagine». Entrambe le versioni del mito di Didone sono ben presenti a Landino, sia quella di matrice virgiliano-dantesca da cui deriva la condanna del tradimento alla memoria del defunto Sicheo, sia quella indipendente da Enea – e derivata da Giustino – volta a mettere in risalto i meriti e la castità della regina. La prima accezione negativa emerge nel commento degli ultimi quattro versi del XXV canto del Purgatorio, dove si descrive il girone dei lussuriosi E questo modo credo che lor basti Per tutto il tempo che ‘l foco li abbrucia: con tal cura conviene e con tai pasti che la piaga da sezzo si ricucia (Purgatorio, XXV, 136-139) il cui commento, volto ancora una volta a biasimare il peccato della libidine, è: «Imperoché chome el corpo rimane squarciato per lo colpo datogli, chosì l’anima riceve piagha, quando el vitio lo percuote. Et non che in questo, ma in molte altre chose per translatione diamo all’anima quello, che è del corpo. Onde Vir.: «at regina gravi iamdudum saucia cura Vulnus alit veni set ceco rapitur igni», dove pone l’anima di Didone esser ferita et ardere, le quali chose sono del corpo et non dell’anima, ma piglionsi per similitudini» È certo la luxuria ultima nell’ordine de’ capitali peccati. Ma diventa molto abominevole, perché rimuove l’huomo, che in quella si submerge, da ogni virile generosità, et fallo simile a’ bruti». mentre la seconda accezione, positiva, è alla base del commento dei versi in cui viene citato Folquet de Marselha, e viene fornita una spiegazione alla duplice etimologia che caratterizza la regina fenicia: Che più non arse la figlia di Belo, noiando a Sicheo et ad Creusa (Paradiso, IX, 97-98)14 «la figlia di Belo: el nome di costei fu Elissa, ma per l’animo suo virile fu nominata Didone. Castissima al tucto femina secondo le historie, ma Virgilio finge che essa s’innammorassi d’Enea, et per amore partendosi da llei s’uccisessi, et questo seguita il poeta; noiando ad 13 Matteo Chiromono scrive ad locum: «[repetiam Pigmalion] Primo tangit avarizia Pygmalionis, fratris Didonis, qui caeca auri cupidi tate Sicheum, sororium suum, interfecit; ob quod Dido Tyro, urbe phoeniciae, discedens, in Lybiam profecta est ibique Carthaginem condidit, ut Virgilius in primo et iiij Aeneidos attestatur». 14 A questo passo si riferisce Matteo Chiromono quando, commentando la citazione di Iarba nel XXXI del Purgatorio (Con men di resistenza si disbarba / robusto cerro, o vero al nostral vento / o vero a quel de la terra di Iarba, / ch’io levai al suo comando il mento, 70-74, cfr Capitolo III pp. 111-112), scrive: «[Iarba] Hiarbas rex Mauritaniae fuit, qui Didonem uxorem habere voluit, de quo in Paradisi 9 o capitulo fit mentio». 162 Sicheo et a Creusa: perché in queste coniunctione Enea non observò la fede a Creusa sua moglie, né Didone ad Sicheo suo marito: ma tal favola già più volte narrata». 2. Le osservazioni relative a Didone esposte nel commento alla Commedia dantesca sono da mettere in connessione con altri loci landiniani, in primo luogo delle Disputationes Camaldulenses. Per fare questo però, come è stato anche di recente notato 15 , non ci si può esimere dal contestualizzare le speculazioni dell’umanista attivo al Collegium Florentinum all’interno dell’attività dell’Accademia Platonica 16 ; questo è ancor più importante se si considera l’idea allegorizzante applicata ai primi sei libri del poema virgiliano nel III e IV libro delle Disputationes17, in cui l’evoluzione della figura di Enea è analizzata alla luce del passaggio dalle seduzioni (Troia) alla vita contemplativa (Italia) attraverso la vita attiva (Cartagine). Tenendo inoltre presente che il pensiero filosofico landiniano è stato praticamente oscurato da quello ficiniano 18 , è necessario distinguere con quale veste (grammatico-retorica o filosoficoallegorizzante) Landino approccia i vari testi della classicità19. Assunto basilare per l’esegesi di Landino, contenuto nel terzo libro delle Disputationes, la cui fonte è l’ Oratio ad adolescentes (IV, 42) di Basilio, è la frase: «totam Homeri poesim laudem virtutis continere»20 Espressione di un concetto che ritorna nei proemi sia dei commenti virgiliani pubblicati nel 1488 sia del commento al poema dantesco: Qua obsecro ille acrimonia, quo verbo rum fulmine metum, ignaviam, luxuriam, incontinentiam, impietatem, perfidiam, ac omnia iniustitiae genera reliquaque vitia insectatur vexatque? Quibus contra Con quanto ardore, con quanta acrimonia la ingiustizia, la perfidia, la incontinenza, la crudeltà, la pusillanimità, la insolenza e tutti gl’altri vizi fulmina e vitupera! Con quanta lode, con quanti premi c’invita alle virtù, e ci 15 C. KALLENDORF, op. cit., pp. 130-131. 16 Cfr. P. O. KRISTELLER, The Platonic Academy of Florence, in Renaissance Thought II: papers on humanism and the arts, New York, Harper and Rowe, 1965, pp. 89-101. 17 Per un inquadramento generale dell’allegoria nell’opera landiniana con particolare attenzione a Viriglio, cfr. D. C. ALLEN, Mysteriously Meant: The Rediscovery of Pagan Symbolism and Allegorical Interpretation in the Renaissance, Johns Hopkins University, Baltimore, 1970, pp. 142-154, E. MÜLLER-BOCHAT, Leon battista Alberti und die VergilDeutung der Disputationes Camaldulenses. Zur alleogorischen Dichter-Erklärung bei Critoforo Landino, Scherpe, Krefeld, 1968 ed infine, anche se ormai con un approccio metodologico oggi alquanto datato, E. WOLF, Die allegoriche Vergil-Erklärung des Cristoforo Landino, in «Neue Jahrbücher für das klassische Altertum, Geschichte, und deutsche Literatur und für Pädagogik, 43, 1919, pp. 194-202. 18 Cfr. M. LENTZEN, Zum gegenwärtigen Stand der Landino-Forschung, in «Wolfenbütteler Renaissance Mitteilungen», Jahrgang V/2, 1981, pp. 92-100, E. GARIN, La letteratura degli umanisti, in Storia della letteratura italiana III: Il Quattrocento e l’Ariosto, Milano, Garzanti, 1965, p. 294, M. MURRIN, The Allegorical Epic: Essays in Its Rise and Decline, Chicago University Press, 1980, pp. 27-50, S. GENNAI, Cristoforo Landino commentatore di Dante, in «Atti del convegno di studi su aspetti e problemi di critica dantesca», Lectura Dantis Internazionale, Roma, De Luca, 1967, p. 119. 19 Nel posteriore commento oraziano, Landino infatti parla del precedente atteggiamento avuto nei confronti del testo virgiliano. Nel proemio delle Horatii Flacci interpretationes si legge infatti: «nam in Marone, ceteris omnibus praetermissis quae grammatici rhetorisque partes viderentur et a plurimis doctissimis viris conscriptae essent, eos tantum sensus, quos divinitas tanti ingenii mirificis figmentais per eam quam Graeci allegoriam nominant penitus absidi atque pulcherrimis integumentis operuit, pro viribus aperiendos delegi». Per i legami con l’allegorismo di Macrobio (autore fondamentale per la tradizione della classicità, come anche la testimonianza a proposito di Didone dimostra) cfr. S. LECOMPTE, La chaîne d’or des poètes: présence de Macrobe dans l’Europe humaniste, Genève, Droz, 2009, pp. 166 e passim. 20 C. LANDINO, Disputationes camaldulenses, a cura di P. LOHE, Firenze, Sansoni, 1980, p. 118. 163 laudi bus, quibus praemiis invictam animi magnitudinem, et pro patria, pro parenti bus, pro cognatis amicisque consideratam periculorum susceptionem, religionem in Deum, pietatem in maiores, caritatem in omnes prosequitur! […] Ita locum concludam, ut universam huius scriptoris poesim laudem virtutis atque omnia ad illam referri sine dubitatione affirmem. persuade osservare la giustizia, usare la temperanza, avere franco e constante l’animo, e per la patria, pe’ parenti e per gl’amici non ricusare alcuno pericolo, avere vera religione verso di Dio, somma pietà inverso e’ maggiori, ardente carità verso di tutti! Per la qual cosa verissimamente si conchiude tutto el suo poema niente altro contenere che lode di virtù. In P. Vergilii interpretationes prohemium Comento di Cristoforo Landino Fiorentino sopra la Comedia di Dante Alighieri poeta Fiorentino: Proemio La definizione del bene morale è il concetto alla base dell’approccio analitico dell’umanista fiorentino, che adotta quindi una visione fortemente gerarchica delle virtù21. All’interno della descrizione del «summum bonum» da parte di Enea, fondamentale nella lettura dell’umanista fiorentino22, Didone si rivela in tutta la sua drammatica importanza. Dal passaggio «a voluptate ad virtutem», infatti, la regina cartaginese gioca un ruolo fondamentale in riferimento sia alla distrazione di cui è momentaneamente vittima Enea, sia per il suo conflitto che non si potrà che concludere tragicamente: «Verum ut, quae verbis adumbro, ea exemplo expressiora reddantur, dicimus continentem a principio fuisse Didone, quae, quanti Aeneae amore teneretur, tamen adeo virilitir repugnat, ut mori malit quam pudorem violare»23 . C’è quindi un filo diretto tra la lettura positiva che importanti voci della patristica danno della vicenda di Didone e questa interpretazione, fortemente contraddicente, tra l’altro, quanto scritto nel commento alla Commedia dantesca. Accanto a questa valutazione della regina cartaginese, un altro aspetto merita d’essere messo in evidenza, all’interno dell’opera landiniana: la presa di coscienza del dramma interiore vissuto dalla regina: «Incontinens autem paulo post redditur, cum sororis oratione victa pudorem solvit. Prius enim fortiuscula adhuc ita pugnabat, ut vicari evaderet. Deinde enervata omnino pugnando succubi. Pugnat enim continens, sed superat, pugnat incontinens, sed superatur»24 . Il tragico dissidio dilaniante il destino della regina è retoricamente esemplificato da Landino in questa dispositio simmetrica: A[x]|B|C ǁ A|B1 |C1 A : verbo (pugnat) A: verbo (pugnat) [x]: congiunzione (enim) 21 Come sembra dimostrare il passo del terzo libro delle Disputationes camaldulenses: «Divinus enim Plato, cum virtutes de vita et morbus easdem quas ceteriposuissset, ita ad postremum illas diversis sive ordini bus sive generi bus distinguit, ut alia quadam retione ab iis illas coli ostendat, qui coetus ac civitates adamant, alia ab iis, qui omnem mortalitatem dediscere capiente et humanarum rerum odio moti ad sola divina cognoscenda eriguntur, alia postremo ab iis, qui ab omni iam contagiose expiati in solis divinis versantur. Primas igitur “civiles” dixit, secundas “purgatorias” ac tertias “animi iam purgati”». 22 «Landino is interested in a straight-forward account of Aeneas’ spiritual development, not the drama of Virgil’s in medias res presentation», C. KALLENDORF, op. cit., p. 139. 23 C. LANDINO, Disputationes camaldulenses, op. cit., 135 (Liber tertius). 24 Ivi, p. 136, (Liber tertius). 164 B: participio (continens) B1 : participio speculare (incontinens) C: verbo attivo (superat) C1 : verbo passivo speculare (superatur) 3. A Didone dedicano vari accenni anche Coluccio Salutati e Maffeo Vegio. Il punto di partenza è ancora una volta il dibattito poetologico circa il rapporto tra inventio e rispetto della verità storica che deve regolare l’operato degli scrittori, così come riassunto da Boccaccio nella frase «poetas non esse mendaces»25. Salutati26, nel secondo capitulum (Que sint poetice fundamenta) del secondo libro del De laboribus Herculis, scrive a tale riguardo: «Quantum autem ad creaturas attinet, habent ipsi poete propriam subiectamque materiam rerum omnium naturam, productiones, et mores. Und eque fabulosa videntur apud poetas inseri, sive omnino ficta sint sive pura videntur hystoria, cum tamen vera non fuerint (qualis est amor Didonis et Enee), qui nedum non fuit sed etiam omnino esse non potuit, cum Eneas fuerit annis CXLIII, ut quidam dicunt, vel sicut illi qui plus temporis tradiderunt, duobus ferme seculis ante reginam que continentissima viduitatis fuit, adeo quod illata necessitate coniugii spontanea morte potius quam nuptiis viduitatem elegerit interrumpere, que quidem constat Silvii Latini temporibus, qui fuit Latinorum rex quintus, facta esse), omnia, inquam, que apud poetas fabulosa videntur, oportet vel ad deum vel ad creaturas aut ad aliquid ad hos pertinens debita expositione reduci». Seguendo l’esempio di Boccaccio quindi, ma lungo una linea mitico/esegetica già presente nel Chronicon di Benzo di Alessandria27, l’attenzione viene posta sulla discrepanza cronologica che metterebbe in dubbio lo stesso incontro tra Didone ed Enea. Similmente si muoverà Girolamo Fracastoro Naugero: nel suo De poetica dialogus (1540 circa) Naugero dice infatti all’interlocutore Bardulone: «Quod vero et aperte falsa et impudenter quidem assumant [poetae], manifestum esse potest in iis quae de Aenea et Didone Virgilius scribit: quos constat multo tempore discretos fuisse»28 25 G. BOCCACCIO, Genealogie deorum gentilium, XIV, 13. 26 Didone viene fugacemente nominata da Salutati anche nella lettera a Iacopo della Massa Alidosi («Insigni viro Iacobo de massa Alidosiorum»), colpevole di un giudizio sfavorevole su Virgilio («Indignatione commotus, quod nostrum Virgilium reprehendi videam, contineri non potui, quind his scribis respondeam»); dopo aver riportato l’accusa mossa dal destinatario della missiva, secondo cui l’autore dell’Eneide avrebbe dipinto il protagonista come figlio di un’unione illegittima di Venere («Inquis enim quod, cum voluerit MaroAugusti genus commendare, dicit Eneam Veneri set Anchise filium, quod quidem macula videatur, non laus generis, cum certa ratione relinquat intelligi sanguinis autore Eneam non legittimi nuptiis, sed stupro potius illicitoque concubitu procreatum»), ma – continua Salutati – Virgilio non avrebbe certo composto il poema, né posto a Didone i versi 616-617 del I libro, se ciò avesse potuto nuocere ad Enea: «quid enim Dido? Nonne Enea, conciliano sibi dixisse legitur post primam eius allocutionem: Tune ille Eneas, quem dardanio Anchise Alma Venus phrygii genuit Simoentis ad undas?», cfr. C. SALUTATI, Epistolario, volume I, a cura di F. NOVATI (edizioni 15-18 per la storia d’Italia, pubblicati dall’Istituto Storico italiano, secoli XIV-XV), Roma, Forzani, 1891, pp. 264-268. 27 Cfr. capitolo III p. 111. 28 Cfr. A. F. KINNEY, Continental Humanist Poetics – Studies in Herasmus, Castiglione, Marguerite de Navarre, Rabelais, and Cervantes, University of Massachusetts Press, 1989, p. 317 e G. FRACASTORO NAVAGERO, Della poetica, testo critico, introduzione, traduzione e note a cura di E. PERUZZI, Firenze, Alinea, 2005, p. 99. 165 Varie qualità della regina vengono messe in luce dagli esegeti umanisti: se infatti Salutati parla di Didone, come di regina «que continentissime viduitatis fuit», Francesco Barbaro, nel De re uxoria, scrive: «nutricis […] ingenium et natura quam Aeneam sit, prudentissimus vates Maro demonstrat, apud quem Dido cum Aeneam non modo ferum, sed etiam ferreum vocet, ‘Hircanae, inquit, admorunt ubera tigres’. Castità e carattere ferreo, quindi, in ossequio ad una linea della tradizione saldamente affermata in sede esegetica cristiana e allo stesso testo virgiliano per quel che concerne il ritratto fornito della regina fondatrice e amministratrice di Cartagine. Proprio partendo dalle qualità del condottiero troiano («vir omni virtute praeditus»29), Maffeo Vegio, all’interno di una trattazione di chiara impostazione pedagogica, pone come modello comportamentale femminile quello di Didone, simbolo di nobiltà d’animo e valore di tutte le virtù domestiche30, sostenendo: «Quae nam enim audiens illam condendis tantae urbis moenibus intensissime vacantem […] marito etiam extincto fidem ac pacta tori conservantem […] non eius exemplo moveatur atque ad virtutis stadium magnopere incendatur; contra vero intelligens novi eam ospiti amore insanientem […] mortem etiam ultro sibi consciscentem non amìnimo conquassetur, non exterreatur?». Un’indagine sull’evoluzione della figura di Didone nel periodo rinascimentale non può però prescindere da uno sguardo alla diffusione che ebbero i volgarizzamenti dei testi virgiliani e ovidiani31: diffusione che si fa particolarmente significativa in relazione al IV libro dell’Eneide, considerato quale «infrazione della materia epica in direzione tragico-elegiaca»32 . Aldilà della tematica in senso stretto, il repertorio dei testi classici volgarizzati investe anche il passaggio dalla terza rima di matrice dantesca all’ottava rima, che dalla sperimentazione di Boccaccio era poi venuta connaturandosi al poema cavalleresco33. Sempre in riferimento alle riprese/rielaborazioni 29 La definizione, tratta dal De perseverantia religionis (I, 5), è ripresa anche nel secondo libro del De educatione liberorum et eorum claris moribus. 30 Cfr. C. C. GREENFIELD, Humanist and scholastics poetics, 1250-1500, Lewisburg, Buckwell University Press, 1981, p. 185 e M. A. FRANKLIN, Boccaccio’s heroines: power and virtue in Renaissance society, Aldershot, Ashgate, 2006, p. 159 nota 104. 31 Cfr. G. FOLENA, ‘Volgarizzare’ e ‘tradurre’. Idea e terminologia della traduzione e W. ROMANI, La traduzione letterarie nel Cinquecento, in La traduzione. Saggi e studi, Atti del convegno di studi sulla traduzione, Lint, Trieste, 1973, a cura di G. PETRONIO, pp. 59-120 e pp. 389-402, L. BORSETTO, L’«Eneida» tradotta. Riscritture poetiche del testo di Virgilio nel XVI secolo, Milano, Unicopli, 1989 e Id. Tradurre Orazio, tradurre Virgilio. «Eneide» e «Arte poetica» nel Cinque e Seicento, Padova, CLUEP, 1996, B. GUTHMÜLLER, Letteratura nazionale e traduzione dei classici nel Cinquecento, in «Lettere Italiane», XLV, 1993, n°4, pp. 501-518. Con specifico riferimento a Virgilio cfr. M. DAVIES-J. GOLDFINCH, A census of printed editions 1469-1500, London, The Bibliographical Society, 1992 e C. KALLENDORF, A bibliography of Renaissance Italian translation of Vergil, Firenze, Olschki, 1994 e M. SAVORETTI, L’«Eneide» di Virgilio nelle traduzioni cinquecentesche in ottava rima di Aldobrando Cerretani, Lodovico Dolce e Ercole Udine, in «Critica letteraria», 29, 2001, n°3, pp. 435-457, mentre per Ovidio cfr. I. GALLI-L. NICASTRI, Aetates Ovidianae: lettori di Ovidio dall’antichità al Rinascimento, NAPOLI, ESI, 1995 e B. GUTHMÜLLER, Mito, poesia, arte. Saggi sulla tradizione ovidiana nel Rinascimento, Roma, Bulzoni, 1997. Per una parziale (oltre che eterogenea) catalogazione di questo materiale cfr. inoltre S. MAFFEI, Traduttori italiani. O sia notizia de’ volgarizzamenti d’antichi scrittori latini e greci che sono in luce, Venezia, Coleti, 1720, pp. 82-83, F. S. QUADRIO, Della storia e della ragione di ogni poesia, Milano, Agnelli, 1749, volume IV, pp. 694-700, F. ARGELATI, Biblioteca degli volgarizzatori. O sia notizia dall’opere volgarizzate d’autori che scrissero in lingue morte prima del secolo XV, Milano, Agnelli, 1767, volume IV, pp. 100-171, B. GAMBA, Dei volgarizzamenti italiani delle opere di Virgilio, in «Poligrafo», VII, 1831, pp. 371-377. 32 S. SIGNORINI, L’«antiqua fiamma». Didone nella riscrittura di Bernardo Accolti (cod. Vaticano Rossiano 680), in «Studi di letteratura italiana in onore di Claudio Scarpati», a cura di E. BELLINI, M. T. GIRADI, U. MOTTA, Milano, Vita e pensiero, 2010, pp. 167-198. 33 Cfr. A. LIMENTANI, Struttura e storia dell’ottava rima, in «Lettere Italiane», n° 12, 1961, pp. 20-77A. RONCAGLIA, Per una storia dell’ottava rima, in «Cultura neolatina», XXV, 1965, pp. 5-14, G. GORNI, Ipotesi 166 della vicenda di Didone, non bisogna infine dimenticare la prospettiva sociologica in cui s’inserisce la letteratura cortigiana34 . §2 Ludovico Ariosto e Didone Per te [Amor] Dido, costante, ardita e forte Passossi ‘l petto nel partir d’Enea 1. Sembrerebbe emergere, dai versi citati 35 , una palese contraddizione rispetto a quanto, nell’Orlando Furioso (XXXV, XXVII, 1-4), Ludovico Ariosto dice di Didone: Da l’altra parte odi che fama lascia Elissa, ch’ebbe il cor tanto pudico; che riputata viene una bagascia, solo perché Maron non le fu amico. Suona infatti qui evidente l’adesione all’ipotesi storico/critica avanzata da Petrarca nei Trionfi e fatta propria anche da Boccaccio nelle opere latine, sulla scia di Giustino e Tertulliano, secondo quanto già considerato nel terzo capitolo. Si tratta però di chiarire, in primo luogo, la particolarità del contesto in cui la citazione s’inserisce. Al canto XXXIV, si è realizzato, grazie ad Astolfo guidato da San Giovanni, il recupero del senno di Orlando; successivamente, il santo evangelista ha mostrato al duca inglese «il palazzo del tempo e della gloria»36, e avendo puntualizzato come ([…] non si muove fronda / là giù, che segno qui non se ne faccia, XXXV, 18, 1-2), consente a lui e al lettore di entrare in un sistema di raffigurazione allegorica secondo cui, come fra tutti i nomi d’uomini, che il Tempo disperde nel fiume dell’oblio, solo si salvano, sulla Luna, quei pochi che due candidi cigni prendono nel becco, così, nel mondo terreno, solo gli eroi cantati dai veri poeti possono godere di fama eterna. Una fama, però, legata indissolubilmente a quanto il poeta ha detto di loro, molto spesso priva di reale fondamento storico. In questo senso, l’ottava XXVIII dedicata a Didone è preceduta da quelle riguardanti Augusto e Nerone – il primo, forse, non […] sì santo né benigno […] / come la tuba di Virgilio suona, il secondo, probabilmente reputato meno ingiusto / […] se gli scrittor sapea tenersi amici (XXVI, 1-2 e 5-8) – quindi la saga omerica intorno a Agamennòn vittorïoso, / […] i Troian […] vili et inerti (XXVII, 1-2) da leggersi tutta al contrario se si vuole davvero conoscere la verità storica. Si tratta dunque di uno dei passi più problematici del sull’origine dell’ottava rima, in «Metrica», I, 1978, pp. 79-84, A. BALDUINO, Pater semper incertus. Ancora sull’origine dell’ottava rima, in «Metrica», III, 1982, pp. 107-158, A. LIMENTANI, Il racconto epico: funzioni della lassa e dell’ottava, in «I cantari. Struttura e tradizione», a cura di M. PICONE e M. BENDINELLI PREDELLI, Firenze, Olschki, 1984, pp. 49-74 e L. BARTOLI, Considerazioni intorno ad una questione metricologica. Il Boccaccio e le origni dell’’ottava rima, in «Quaderns d’Italià» 4/5, 1999-2000, pp. 91-99. Con specifico riferimento al poema di Bernardo Tasso, cfr. V. ZANETTE, L’ottava dell’«Amadigi» di Bernardo Tasso – schemi sintattici e tecniche di ripresa, in «Studi tassiani», n° 52, 2004, pp. 23-49. 34 «il pubblico dei palazzi, in larga parte costituito da nobili signore, suggeriva e autorizzava una rilettura del mito in chiave moderna. In una prospettiva cortigiana, la passionalità sconvolta della donna si colora dei tratti dell’onestà e della rettitudine, risolvendo la vicenda della regina fenicia in un sia pur problematico exemplum di talenti femminili». S. SIGNORINI, op. cit., p. 186. Cfr. sull’argomento M. L. LENZI, Donne e madonne. L’educazione femminile nel primo Rinascimento italiano, Torino, Loescher, 1982, e «Rinascimento al femminile», a cura di O. NICCOLI, Roma-Bari, Laterza, 1991. 35 L. ARIOSTO, Epicedio de morte illustrissimae Lionaroae Estensis de Aragonia ducissae Ferrariae, XXVI, 55-56. 36 G. FERRONI, Ariosto, Roma, Salerno editrice, 2009, p. 145. 167 poema dove l’autore, facendo sue le parole di San Giovanni in chiusura dell’ottava XXVIII (Gli scrittori amo, e fo il debito mio; / ch’al vostro mondo fui scrittore anch’io), tanto più sembra sottoporre ad ironica autocritica il suo stesso ruolo di poeta cortigiano, pur in un’estrema distinzione tra finti e veri cortigian gentili (XXI,1)37 . Celandosi, in quest’occasione, dietro la figura di San Giovanni, è Ludovico Ariosto stesso a rivendicare il suo status di poeta ([…] al vostro mondo fui scrittore anch’io), XXVIII, 8) che, nel costruire il mondo meraviglioso dell’Orlando furioso, ha ben presente il modello virgiliano. Quasi superfluo è ricordare la dimensione eziologico-encomiastica caratterizzante il capolavoro – Casa d’Este >< gens Julia – il particolare tratteggio di singoli episodi (l’eroica amicizia tra Cloridano e Medoro >< Eurialo e Niso), il motivo della distrazione amorosa che distoglie l’eroe dal suo prioritario dovere di guerriero e di fondatore. Quest’ultimo, che nell’Eneide vede Enea distolto dal suo cammino verso l’Italia, perché trattenuto sulle coste africane dall’amore di Didone, soprattutto per volontà di Giunone, si umanizza nel Furioso, prendendo a protagonista Ruggiero, in quanto deus ex machina della sua realizzazione è il vecchio mago Atlante, che con paterna sollecitudine cerca di allontanare Ruggiero dal campo di battaglia, perché spera così, di fugare il precoce destino di morte che attende il suo giovane pupillo. 2. Tralasciando al momento le sequenze dei due palazzi incantati costruiti dal mago Atlante per trattenervi Ruggiero in lieta compagnia, più direttamente connesso al discorso che qui si sta svolgendo è tutto quanto si attiene alla figura della maga Alcina, enchanteresse che rapisce Ruggiero sulla sua isola beata38, lo induce a dimenticare doveri e affetti, finché la fata Melissa ‒ Mercurio nell’Eneide ‒ non lo raggiunge rivelandogli, grazie all’anello fatato, il sortilegio di cui è vittima, convincendolo così a fuggire verso il regno di Logistilla, la maga buona, figura della virtù e della ragione. In termini di essenziale struttura di racconto, il ruolo di Alcina appare ricalcato su quello di Didone; segno evidente di come anche dichiarando di non condividere la tesi più vulgata sul tragico amore della regina fenicia per Enea, in realtà Ariosto riconosce ad essa il merito di una maggiore funzionalità in una peripezia avventurosa, e pertanto la fa propria. É vero, per altro, che in primo luogo la dimensione magica di Alcina, il modo in cui ella si sbarazza degli amanti quando le vengono a noia ‒ primo incontro di Ruggiero nel regno di Alcina è quello con Astolfo trasformato in mirto ‒ lascia ampio spazio alle suggestioni dell’archetipo Circe. Ad ogni modo, la regina cartaginese è chiamata direttamente in causa nella chiusa dell’episodio al canto X (LV-LVI), quando Alcina, dopo aver tentato disperatamente di riconquistarlo, comprende di aver perduto definitivamente Ruggiero. La sua disperazione amorosa richiama allora, in un duplice nesso di analogia e antitesi, quella di Didone: Fuggesi Alcina, e sua misera gente Arsa e presa riman, rotta e sommersa. D’aver Ruggier perduto ella si sente Via più doler che d’altra cosa aversa: 37 L’ironia già si è palesata come aspro sarcasmo all’ottava XX dello stesso canto: E come qua su i corvi e gli avoltori / e le mulacchie e gli altri vari augelli s’affaticano tutti per trar fuori / de l’acqua i nomi che veggion più belli: / così là giù ruffiani, adulatori, / buffon, cinedi, accusatori, e quelli / che viveno alle corti e che vi sono / più grati assai che ‘l virtuoso e ‘l buono, […]. 38 Cfr. J. STAROBINSKI, Le incantatrici (disegni di K. E. HERRMANN), Torino, EDT, 2007, p. 188 e B. GUTHMÜLLER, Il poema mitologico e il poema cavalleresco, in «Il mito nella letteratura italiana» (ed. P. GIBELLINI), I – Dal Medio Evo al Rinascimento, Brescia, Morcelliana, 2005, pp. 527-528. 168 notte e dì per lui geme amaramente, e lacrime per lui dagli occhi versa; e per dar fine a tanto aspro martíre, spesso si duol di non poter morire. Morir non puote alcuna fata mai, fin che ‘l sol gira, o il ciel non muta stilo. Se ciò non fosse, era il dolore assai Per muover Cloto ad inasparle il filo; o, qual Didon, finia col ferro i guai; o la regina splendida del Nilo avria imitata con mortifer sonno: ma le fate morir sempre non ponno. Pari a quello della regina fenicia, è il furor mortis che invade la maga ma, dando prova del suo frequente gusto del paradosso, Ariosto sottolinea come le creature fatate, pur godendo di ogni privilegio, si vedano però private del sollievo di una morte liberatrice, convertendosi così in tragica iattura il dono supremo dell’immortalità. L’impossibilità della Parca ad inasparle il filo consente ancor più di intravedere in questo caso, dietro la maga Alcina, l’archetipo Didone alla luce della chiusa del IV libro (702-705) del poema virgiliano, dove Iride, inviata da Giunone, svolge le mansioni di Cloto: Devolat et supra caput adstit Sacrum iussa fero teque isto corpore solvo. Sic ait et dextra crinem secat: omnis et una Dilapsus calor atque in ventos vita recessit.39 Ma è anche la fata Melissa che può assumere qualche tratto proprio di Didone: colei che nel III Canto è chiamata a rivelare a Bradamante la futura discendenza, viene infatti descritta nei seguenti termini: discinta e scalza, e sciolte avea le chiome (III, VIII, 7), e il commento ad locum di Orazio Toscanella è: «Una donna discinta e scalza significa deliberazione, overo proposito fermo et moto subito, et significa furore che significa deliberazione [...] si vede per la imagine che pone Giulio Camillo sotto le Gorgoni di Marte nell’idea del suo Teatro, dove afferma che Virgilio ci espresse una tal figura, nella subita et ferma deliberazione di morire, che fece Didone dicendo ch’ella era Unum exuta pedem vinclis, in veste recincta. [Eneide, IV, 518]40 39 Cfr. capitolo II pp. 80-81. 40 Per le assonanze ovidiane di questo verso virgiliano cfr. R. DIMUNDO, Ovidio, lezioni d’amore – Saggio di commento al I libro dell’”Ars amatoria”, Bari, Edipuglia, 2003, p. 204. 169 Che significhi poi furore, la cosa istessa chiaramente ce lo mostra. Et nel VI di Virgilio leggiamo, che lo haver le chiome sparse, è indicio di furore, dove, montando in furore la Sibilla, è da lui in questa guisa descritta: Ante fores subito non vultus, non color unus, non comptae mansere comae» 41 [Eneide, IV, 47-48]. 3. La vicenda di Didone, insieme a suggestioni catulliane e ovidiane (carme LXIV e decima lettera delle Heroides), gioca un ruolo discretamente importante anche nell’episodio – inserito nell’edizione C del 1532 quale necessario bilanciamento strutturale del poema42 ‒ dell’abbandono di Olimpia sull’isola selvaggia e deserta da parte del perfido Bireno (X, XXVII, 5), nonostante modello principale sia in questo caso la storia di Arianna43. L’evidente debito dell’Ariosto nei confronti degli autori dell’età augustea era del resto già stata messa in luce dall’esegesi di Lodovico Dolce: «Questa finzione d’Olimpia lasciata dallo ingrato Bireno sola nell’Isola, è la medesima d’Arianna abbandonata da Teseo; perciò chi desidera di vedere, come bene et felicemente l’Ariosto ha saputo imitare, et servirsi delle cose altrui, legga tutta la epistola di Ovidio, la quale Arianna scrive a Teseo, e così incomincia Mitius inveni, quam te, genus omne ferarum, Credita non ulli, quam tibi, pejus eram Leggasi ancora il lamento, che fa la medesima Arianna presso Catullo nell’Argonautica; a’ versi del quale molti di questi dell’Ariosto son simili. Pro quo dilacerando feris dabor, alitibusque Praeda, nec iniecta tumulabor mortua terra. 41 O. TOSCANELLA, Bellezze del Furioso di M. Lodouico Ariosto; scielte da Oratio Toscanella: con gli argomenti, et allegorie de i canti: con l'allegorie de i nomi proprii principali dell'opera: et co i luochi communi dell'autore, per ordine di alfabeto; del medesimo, in Venetia, appresso Pietro de i Franceschi, & nepoti, 1574, pp. 34-36. Cfr. L. BOLZONI, La stanza della memoria. Modelli letterari e iconografici, p. 211. nell’età della stampa, Einaudi, Torino 1995 42 Cfr. C. SEGRE, Storia interna dell’«Orlando furioso», in Esperienze ariostesche, Pisa, Nistri-Lischi, 1966, pp. 29- 41, F. POOL, L’episodio di Olimpia, in Interpretazione dell’Orlando furioso, Firenze, la Nuova Italia, 1968, pp. 49-63, G. DALLA PALMA, Dal secondo al terzo «Furioso»: mutamenti di struttura e moventi ideologici, in «Ludovico Ariosto: lingua, stile e tradizione», Atti del congresso di Reggio Emilia e Ferrara (12-16 ottobre 1974), a cura di C. SEGRE, Milano, Feltrinelli, 1976, pp. 95-105, Id. Le strutture narrative dell’«Orlando furioso», Firenze, Olschki, 1984, pp. 57-61 e 164-167, M. SANTORO, Un’ «addizione» esemplare del terzo ‘Furioso’: la storia di Olimpia, in Ariosto e il Rinascimento, Napoli, Liguori, 1989, pp. 275-294 e C. FAHY. L’”Orlando furioso” del 1532: profilo di un’edizione, Milano, Vita e Pensiero, 1989. Per una ricca rassegna bibliografica, nonché per una nutrita serie di richiami classici presenti nell’episodio di Olimpia, cfr. M. MINUTELLI, Il lamento dell’eroina abbandonata nell’«Orlando furiso, in «Rivista di letteratura italiana», IX, 3, 1991, pp. 401-464. Per una ricognizione bibliografica più recente sull’argomento cfr. infine S. ROMANI, Donne abbandonate sulla riva del mare. Arianna figura del lamento, «Acme», LII, 1999, pp. 109-127, L. FREEDMAN, The poesia: Ovid, Ariosto and Titian on "the heroic liberation of the maiden", in Wege zum Mythos, Berlin, Mann, 2001, pp. 13-38, I. Mac CARTHY, Olimpia: Faithful or Foolhardy?, in «Olifant», 22, 2003, pp. 103-118, Id, Olimpia: Moral Ambiguity in the Third Furioso, in Women and the Making of Poetry in Ariosto’s Orlando furioso, Troubador Press, Leicester 2007, pp. 117-133. 43 Cfr. M. A. BALDUCCI, Il destino di Olimpia e il motivo della “donna abbandonata”, in «Italica», Vol. 70, n° 3 (Autumn 1993), pp. 303-328 e N. CICCONE, Ovid’s and Ariosto’s Abandoned Women, in «Pacific Coast Philology», Vol 32, n° 1, 1997, pp. 3-16. 170 Con molti altri non indegni d’esser veduti in questo paragone Creduto avria, che fosse statua finta O d’alabastro, o d’altri marmi industri Ruggiero, e su lo scoglio, così avvinta Per artificio di scultori illustri, Se non vedea la lacrima distinta Tra fresche rose, e candidi ligustri Far rugiadose le crudette pome, E l’aura sventolar l’aurate chiome Così medesimamente Ovidio nel quarto delle Trasformazioni Quam simul ad duras relegata brachia cautes Vidit Abantiades, nisi quod levis aura capillos Moverat, & trepido manabant lumina fletu, Marmoreum ratus esset opus» 44 . Con specifico riferimento alla vicenda della duchessa d’Olanda, è però interessante vedere come nel poema ariostesco vengano metabolizzate le due differenti tradizioni inerenti la storia di Didone. Per quest’ultima sembra infatti essere ‒ come d’altronde per Medea ‒ cruciale l’atto di «una scelta di vita che presenta un impossibile ritorno al mondo cui entrambe le eroine appartengono, dopo la decisione di unirsi sentimentalmente all’eroe straniero che giunge all’improvviso, destabilizzando in un attimo il loro precedente equilibrio»: Ariosto, che per tutto quanto già accennato a proposito della pulsione di morte da cui Alcina è invasa dopo la perdita di Ruggiero e che può essere suffragato anche da una testimonianza di Giraldi Cinzio proprio nella Lettera sulla “Didone”45 , avrebbe potenziato la sua esperienza teatrale traducendo «l’Andria e l’Eunuco di Terenzio»46, aveva 44 L. DOLCE, Orlando Furioso di M. Lodovico Ariosto, con cinque nuovi canti del medesimo. Ornato di figure. Con queste aggiunzioni. Vita dell’autore scritta per M. Simon Fórnari. Allegorie in ciascun Canto, di M. Clemente Valvassori Giurecons. Argomenti ad ogni Canto, di M. Gio. Maria Verdezzotti. Annotazioni, Imitazioni & Avertimenti sopra i luoghi difficili di M. Lodovico Dolce, & d’altri. Pareri in duello d’incerto Auttore. Dichiaratione d’Historie & di Favole di M. Thomaso Porcacchi. Ricolta di tutte le comparationi usate dall’Auttore. Vocabolario di parole oscure con l’espositione. Rimario con tutte le Cadentie usate dall’Ariosto, di M. Gio. Giacomo Paruta, Valvassori, Venezia 1566, p. 101. Un confronto tra il testo ariosteo e l’archetipo virgiliano era stato compiuto anche da Sebastiano Fausto da Longiano nel Paragone () «[...] non solamente l’Ariosto ha imitato le persone, ma ancor le materie, come si vede in Angelica esposta al mostro e liberata da Ruggiero su l’ippogrifo, che rappresenta Andromeda esposta al mostro e liberata da Perseo sul caval Pegaseo; Olimpia abbandonata nell’isola da Bireno è Arianna abandonata da Teseo; [...] l’anello d’Angelica che faceva andare invisibile adombra la nuvola d’Enea. che lo faceva invisibile, o più tosto l’anello di Gigi; le due fontane di Merlino, l’una delle quali accende e l’altra spegne amore, sono le due saette d’Amore, l’indorata e l’impiombata; [...]», cit., in F. SBERLATI, IL genere e la disputa: la poetica tra Ariosto e Tasso, Roma, Bulzoni, 2001, p. 145. Il discorso riguarda, ovviamente (benché in seconda battuta e in modo non strettamente collegato all’evoluzione e all’eredità di Didone nel poema cavalleresco), il problema dei volgarizzamenti e delle varie operazioni combinatorie letterarie a questi collegati, cfr. D. JAVITCH, The influence of the ‘Orlando furioso’ on Ovid’s ‘Metamorphoses in Italian, in «The Journal of Medieval and Renaissance Studies», I, 1984, n°1, pp. 1-21. Per la questione del «sistema di imitazioni alla seconda potenza» presente nell’ Orlando furioso, cfr. C. BOLOGNA, La macchina del “Furioso”, Torino, Einaudi, 1998, p. 238 e D. JAVITCH, The Imitation of Imitations in “Orlando furioso”, in «Renaissance Quarterly», XXXVIII, 1985, pp. 215-239. 45 Cfr. Trattati di poetica e retorica del Cinquecento, a cura di B. WEINBERG, Bari, Laterza, 1970, volume I, p. 471. 46 Cfr. G. COLUCCIA, L’esperienza teatrale di Ariosto, Manni, Lecce, 2001, p. 14 nota 2. 171 certo piena consapevolezza della maggior diffusione e della più ricca praticabilità in ambito scenico/narrativo della versione più famosa della storia di Didone, quella tragico-elegiaca che dal filone virgiliano-dantesco torna appunto in auge con il teatro cinquecentesco, per raggiungere poi, due secoli dopo, il suo picco massimo con la prima opera metastasiana. Non a caso, a proposito della follia amorosa che lo affligge, rendendolo simile a Orlando, il narratore ariostesco si dichiara pronto a riconoscere il male che lo accomuna al suo eroe, ma incapace a trovarvi un rimedio, che ‘l male è penetrato infin all’osso (XXIV, III, 8) che suona esemplificazione del virgiliano Ardet amans Dido traxitque per ossa furorem (Eneide, IV, 101); ma la strenua fedeltà di Olimpia nei confronti dell’amato, sino all’estremo sacrificio per lui, ma mi prometta, e la sua fé mi dia, che questo cambio sarà fatto in guisa, ch’a un tempo io data, e liberato fia Bireno: sì che quando io sarò uccisa, morrò contenta, poi che la mia morte avrà dato la vita al mio consorte. (IX, LIV, 3-8) non può non ricordare la forza d’animo propria della Didone difesa in sede patristica, e in seguito esaltata da Petrarca e dal Boccaccio latino. Se infatti la strenua forza del sentimento è l’elemento su cui si basa principalmente la difesa della regina cartaginese, analogamente Ariosto inizia il Canto X (I, 1-6) tessendo le lodi di Olimpia: Fra quanti amor, fra quante fede al mondo mai si trovâr, fra quanti cor constanti, fra quante, o per dolente o per iocondo stato, fêr prove mai famosi amanti; più tosto il primo loco ch’il secondo darò ad Olimpia: […]47 . Una sorta di doppia natura era stata già peraltro riconosciuta proprio in Olimpia più di un secolo fa 48 . É d’altronde innegabile che tra la contessa d’Olanda e la «univira» cartaginese vi siano 47 Per la “sintomatica affinità” che queste lodi delle qualità femminili mostrano con la prima quartina della CI ottava del Canto CXV, dove «è la stessa Bradamante, suo malgrado promessa al figlio di Costantino, a promuoversi modello d’inconcutibile dedizione familiare», cfr. M. MINUTELLI, op. cit., p. 405 nota 7. 48 «E qui ci imbattiamo nella storia di Olimpia (IX, 17), che è la prima tra le grandi aggiunte dal poeta per l’edizione del trentadue. Si compone di due parti, dirette entrambe alla glorificazione del sesso femminile. Nell’una abbiamo la donna amante, illimitatamente devota, vogliosa di dare se stessa per la salvezza di colui che ama. Nella seconda vediamo questa medesima donna ricambiata colla più nera ingratitudine, abbandonata per un’altra in mezzo al mare da chi tutto le deve», P. RAJNA, Le fonti dell’Orlando furioso: ricerche e studi, Firenze, Sansoni, 1900, p. 209. Più di recente, Valeria Fanucci (The Lady Vanishes. Subjectivity and Representation in Castiglione and Ariosto, Stanford University Press, 1992, pp. 152 e passim), divisa nei Canti IX e X-XI. Scrive a tale proposito I. ZANINI-CORDI (Donne sciolte – Abbandono ed identità femminile nella letteratura italiana, Ravenna, Longo, 2008, p. 42): «È senza dubbio un’interpretazione plausibile, ma potrebbe non essere necesario postulare due Olimpie in primo luogo, o ascrivere questo sviluppo ed il tono generale delle altre aggiunte all’edizione del 1532 ad un più tardo pessimismo ariostesco nei confronti della fallibilità umana» . 172 sensibili differenze, soprattutto rispetto alle conseguenze che la loro scelta comporta: l’atto di Olimpia, omicida di Arbante, provoca infatti la morte del padre e dei fratelli, nonché la rovina del proprio regno, sconfitto in guerra da Cimosco. Sicuramente più simile a Medea si dimostra Olimpia per il furore sanguinario che arma la sua mano contro lo sposo non voluto: Io dietro alle cortine avea nascosto Quel mio fedele; il qual nulla si mosse Prima che a me venir vide lo sposo; e non l’attese che corcato fosse, ch’alzò un’accetta e con sì valoroso braccio dietro nel capo lo percosse che gli levò la vita e la parola: io saltai presta, e gli segai la gola. (IX, XLI, 1-8), dal momento che, nella regina cartaginese, l’istinto di violenza affiora solo dopo la partenza di Enea, e si ritorce contro se stessa. 

La componente magico-bacchica che accomuna Arianna e Medea, e si ritrova trasfusa in Olimpia, Corre di nuovo in su l’estrema sabbia, e ruota il capo e sparge all’aria il crine; e sembra forsennata, e ch’addosso abbia non un demonio sol, ma le decine: o, qual Ecuba, sia conversa in rabbia, vistosi morto Polidoro al fine. Or si ferma s’un sasso, e guarda il mare; né men d’un vero sasso, un sasso pare. (X, XXXIV, 3-8), tornerà a manifestarsi anche in Fiordiligi, annientata dal dolore per la morte di Brandimarte a Lipadusa, Al tornar de lo spirto, ella alle chiome caccia le mani; et alle belle gote, indarno ripetendo il caro nome, fa danno et onta più che far lor puote: straccia i capelli e sparge; e grida, come donna talor che ‘l demon rio percuote, o come d’ode che già a suon di corno Menade corse, et aggirossi intorno. (XLIII, CLVIII) Restando comunque, in origine, meno preponderante nella figura di Didone, rispetto agli altri due archetipi complementari, appunto Arianna e Medea 49 . Ma è in particolare il quinto verso dell’ottava appena citata a permettere un’altra riflessione, in duplice connessione con 49 È vero che Virgilio descrive la disperazione di Didone con termini riferibili alla sfera semantica del furore bacchico (furens, Eneide, IV, 298/accensa, ivi, 364/furibunda, ivi, 646, cfr. M. A. BALDUCCI, op. cit., p. 324, nota 12), tuttavia il tratto magico in Didone, a differenza di Medea, è molto più sfumato e meno importante (cfr. Capitolo I pp. 72-73). Per un inquadramento generale dei rapporti di Ariosto con le arti magiche si veda A. VALLONE, Pomponazzi, Ariosto e la magia, in «Italica», Vol 26, n°3 (September 1949), pp. 198-204. 173 Didone/Olimpia, senza dimenticare l’Arianna ovidiana. Il verbo spargere (italiano)/spargo (latino) sembra infatti rappresentare un elemento ricorrente in varie scene del dolore dell’abbandono; se, come già notato a fine Ottocento50, la «perifrasi mattinale»51 accomuna il lamento di Olimpia con quello di Arianna Tempus erat, vitrea quo primum terra pruina spargitur et tectae fronde queruntur aves. Incertum vigilans, a somno languida, movi Thesea prensuras semisupina manus; nullus era. Referoque manus iterumque retempto perque torum moveo bracchia; nullus erat. Excussere metus somnum; conterrita surgo, memraque sunt viduo precipitata toro Rimase a dietro il lido e la meschina Olimpia, che dormì senza destarse, fin che l’Aurora la gelata brina da le dorate ruote in terra sparse, e s’udîr le Alcïone alla marina de l’antico infortunio lamentarse. Né desta né dormendo, ella la mano per Bireno abbracciar distese, ma invano. Nessuno truova: a sé la man ritira: di nuovo tenta, e pur nessuno truova. Di qua l’un braccio, e di là l’altro gira; or l’una, or l’altra gamba; e nulla giova. Caccia il sonno il timor: gli occhi apre, e mira: non vede alcuno. Or già non scalda e cova più le vedove piume, ma si getta del letto e fuor del padiglione in fretta Heroides, X, 7-14 Orlando furioso, X, XX-XXI È il verbo spargere a caratterizzare anche l’inizio del planctus di Didone, Et iam primo novo spargebat lumine terras Tithoni croceum linquens Aurora cubile (Eneide, IV, 584-585)52 la cui insonnia (Eneide, IV, 529-531) rappresenta, aldilà dei furori di matrice bacchica, un trait d’union che lega Olimpia a Medea53. Sarà inoltre proprio il participio passato sparsa, in più diretta connessione con la morte incipiente dell’abbandonata Ermengarda, ad aprire il celebre coro manzoniano del IV atto dell’Adelchi: Sparsa le trecce morbide su l’affannoso petto, lenta le palme, e rorida di morte il bianco aspetto, giace la pia, col tremolo guardo cercando il ciel54 . 50 A. ROMIZI, Arianna ed Olimpia, in Comparazioni letterarie tra poeti greci, latini e italiani, Livorno, Giusti, 1893, pp. 27-36. 51 M. MINUTELLI, op. cit., p. 418. 52 Cfr. Capitolo II pp. 75-76. 53 Cfr. Capitolo I pp. 19-20. 54 Come nel caso di Didone, il verbo «spargere» si lega ad un’idea di albedo (l’alba in Virgilio, il pallore mortale in Manzoni) che in entrambi i casi preannuncia la morte. Per vari possibili legami tra Didone ed Ermengarda, come più in generale per le suggestioni virgiliane presenti nel Manzoni tragico, cfr. C. ANNONI, Lo spettacolo dell’uomo interiore: teoria e poesia del teatro manzoniano, Milano, Vita e Pensiero, 1997, pp. 146 e passim. 174 Ma un importante - ancorché alquanto scontato per le scene di dolore - elemento in comune che da Arianna, via Didone (o viceversa), passa in Olimpia è il gesto di battersi il petto: anche in questo caso il testo virgiliano potrebbe rappresentare sia l’archetipo sia il vettore del topos che da Ovidio (considerando sia la X Eroide sia un passo del primo libro dell’Ars amandi) passa in Ariosto: Terque quaterque manus percussa decorum Flaventisque abscissa comas. Pro Iuppiter! […] e corre al mar, graffiandosi le gote, presaga e certa ormai di sua fortuna. Si straccia i crini, e il petto si percuote, e va guardando (che splendea la luna) se veder cosa, fuor, che ‘l lito, puote; né fuor che ‘l lito, vede cosa alcuna. Bireno chiama: e al nome di Bireno Rispondean gli Antri che pietà n’avieno. Eneide, IV, 589-590 Orlando furioso, X, XXII In tre casi su quattro (eccezion fatta per la descrizione di Arianna contenuta nell’ Ars amandi) il battersi il petto si accompagna all’altrettanto disperato gesto di strapparsi i capelli. Va inoltre notato che il suppletivo atto di graffiarsi a sangue le guance, attestato per Olimpia, Virgilio lo utilizza non per Didone, bensì per la sorella Anna: allorquando si accorge della tragedia avvenuta, anche quest’ultima si batte i pugni in petto e si abbandona ad una serie di domande destinate a rimanere senza risposta: Audiit esanimi, trepidoque exterrita cursu, Unguibus ora soror foedans et pectora pugnis, Per medios ruit ac morientem nomine clamat: (Eneide, IV, 672-674). Tanto Ovidio quanto Ariosto usano inoltre topicamente la figura della sillessi, con gli stessi lemmi, per meglio descrivere la recriminazione della donna abbandonata, come appunto le parole di Fillide, Saffo, oltre che dell’Elissa ovidiana, dimostrano: Demophoon, venti set verba et vela dedisti Vela queror reditu, verba carere fide II 25-26 Ma i venti che portavano le vele per l’alto mar di quel giovene infido, portavano anco i prieghi e le querele de l’infelice Olimpia, e ‘l pianto e ‘l grido. Certus es ire tamen miseramque relinquere Didon, atque idem venti vela fidemque ferent? VII 9-10 An riget, et Zephyri verba caduca ferunt? XV Protinus adductis sonuerunt pectora palmis, utque erat e somno turbida, rapta coma est. Luna fuit; specto siquid nisi litora cernam; quod videant oculi, nil nisi litus habent. Nunc huc, nunc illuc, et utroque sine ordine, curro; alta duellare tardat harena pedes. Interesa toto clamavi in litore «Theseu»; reddebant nomen concava saxa tuum, et quotiens ego te, totiens locus ipse vocabat; ipse locus miserae ferre volebat opem. Iamque iterum tundens mollissima pectora palmis Heroides, X, 15-24 Ars amandi, I, 535 175 Qui mea verba ferunt, vellem tua vela referrent 208-209 Heroides Orlando furioso, X, XXVI, 1-4 In entrambi i casi, la doppia allitterazione (venti/vela-vele/verba) 55 è direttamente connessa al tradimento della fiducia. Se su questo aspetto, in relazione a Didone, ci si è già soffermati in precedenza56, ora vale la pena notare la ricorrenza dell’idea di fedeltà all’interno della vicenda di Olimpia. Dopo il fede (plurale per “fedi”) presente nell’endecasillabo d’apertura, questa ritorna in vari loci e sotto varie fogge semantiche e grammaticali del X Canto: aggettivale in sì fide e sì devote (II, 5), predicativa in se fu sì a lei fedele / come ella a lui (IV, 2-3), sostantivale in ch’a parole d’amante abbia a dar fede (V, 4) ed infine avverbiale in v’amano e riveriscono con quanto / studio de’ far chi fedelmente serve; (VIII, 3-4); è inoltre alla sfera semantica della fedeltà che sono connessi i termini, disposti chiasticamente, di promesse e giuramenti: L’amante, per aver quel che desia, senza guardar che Dio tutto ode e vede, aviluppa promesse e giuramenti, che tutti spargon poi per l’aria i venti. I giuramenti e le promesse vanno dai venti in aria disipate e sparse (Canto X, V, 5-8 – VI, 1-2). Infine, un altro analogo gesto simbolico sembra accomunare Didone e Olimpia: l’ultimo, estremo ritorno sul letto, in ricordo dell’amato ormai perso 57: Dixit et os impressa toro: […] e ritornò dove la notte giacque. E con la faccia in giù stesa sul letto, bagnandolo di pianto, dicea lui: Eneide, IV, 659 Orlando furioso, X, XXVI, 8-XXVII, 1-2 Ma se, genericamente, tra Didone e Olimpia comune denominatore è il motivo dell’abbandono, è anche vero che la conclusione delle rispettive storie è profondamente differente: se l’esito della vicenda della regina fenicia non può che essere tragico, al contrario la peripezia della duchessa d’Olanda sarà in ultimo contrassegnata dall’happy end del canto XI, dove richiamata in scena dal’agile dispiegarsi dell’entrelacement, – catturata dai corsari di Ebuda per essere data in pasto all’orca, e quindi salvata da Orlando 58 ‒ convolerà a nozze con Oberto re d’Irlanda: Olimpia Oberto si pigliò per moglie, e di contessa la fe’ gran regina (CI, LXXX, 1-2). 55 Cfr. M. MINUTELLI, op. cit., pp. 439-440. 56 Cfr. Capitolo II paragrafo 1. 57 Il motivo del bacio al letto è presente anche nelle Metamorfosi (X, 281) Ovidio, a proposito del racconto di Pigmalione (incumbensque toro dedit oscula), cfr. P. POCCETTI, D. POLI, C. SANTINI, Una storia della lingua latina: formazione, usi, comunicazione, Roma, Carocci, 1999, p. 284. 58 Cfr. C. P. BRAND, L’entrelacement nell’«Orlando furioso», in «Giornale storico della letteratura italiana», CLIV, 1977, pp. 509-530 e M. PRALORAN, Le lingue del racconto: studi su Boiardo e Ariosto, Roma, Bulzoni, 2009, pp. 81 e passim. 176 La differenza tra poema epico e cavalleresco comporta allora non solo una ovviamente diversa visione storico-politica, ma lo scarto cruciale è rappresentato dall’ironia ariostesca 59 . E se è difficilmente condivisibile l’interpretazione secondo cui «Olimpia, col suo regno saccheggiato e usurpato, appare indubbiamente una figura emblematica di vittima che resiste e soccombe alla sopraffazione e all’inganno d’impudenti oppressori politici»60 dal momento che ella si mostra sempre consapevole delle proprie azioni e delle conseguenze che queste comportano, è semmai da rimarcare come, tanto nell’Eneide quanto nell’Orlando furioso, le storie di Didone e di Olimpia siano contrassegnate da una profonda visione maschilista61. Che tale si caratterizza in primis la visione di Virgilio in quanto voce di ufficiale apologia della pax augustea celebrata nella sua più nobile leggenda eziologica. Ugualmente sintonizzata sui parametri tradizionali del potere e della ragione dominante quella di Ludovico Ariosto, che col ricorso all’archetipo della sedotta e abbandonata, tratteggia su Olimpia l’exemplum di una ribellione femminile all’ordine socio/familiare ‒ il suo amore per un giovane “straniero” ‒ della punizione che ne è inevitabile conseguenza ‒ l’abbandono da parte dell’amante/traditore ‒ eccezionalmente seguita da un lieto fine, necessario per altro verso a riequilibrare le posizioni dell’eroe eponimo entro il poema. In realtà il decisivo intervento di Orlando, che si renderà pronubo delle nozze fra Olimpia e Oberto, servirà ad annullare o far rientrare nei canoni della norma il tentativo di ribellione della contessa d’Olanda, che solo in quanto futura moglie, verrà reintegrata nel ruolo femminile canonico di promessa sposa, ovvero,oggetto di scambio. §3 Didone in Torquato Tasso. 1. Se nei Discorsi del poema eroico è possibile capire direttamente l’ammirazione che Tasso nutrì per l’autore dell’Eneide62 sin dal giovanile Rinaldo, composto secondo presupposti formali opposti a quelli regolanti l’Orlando furioso63 , Tasso ebbe presente la storia di Didone secondo la più diffusa tradizione virgiliana: come notato sin da Pierre Louis Ginguené64, echi di questa sono ravvisabili, infatti, già in questo poema giovanile, composto tra il 1761 e il 1762: a questo proposito vale inoltre la pena riportare il giudizio riservato, nel Ragionamento della poesia, da Bernardo Tasso all’episodio Didone: «Chi è quello di cor sì alpestre, aspro e lontano da ogni umanità, che udendo ciò che Virgilio dice sotto nome di Didone già deliberata d’uccidersi, non si senta infiammare di pietà». 59 Con specifico riferimento all’esito della vicenda di Olimpia, cfr. M. MINUTELLI, op. cit., pp. 451-452. 60 A. C. FIORATO, La «gallica face» nell’ “Orlando Furioso”, in «La corte di Ferrara e il suo mecenatismo 1441- 1598», a cura di M. PADE, L. WAAGE PETERSEN e D. QUARTA, København, Museum Tusculanum/Modena, Panini, 1990, p. 171. 61 Se riguardo alla prima ci si è già soffermati (cfr. Capitolo III paragrafo 2), mentre per la seconda sono condivisibili le osservazioni di Irene Zanini-Cordi: «la sedotta viene abbandonata perché si è arrogata il diritto di desiderare, di agire e di crearsi una storia indipendentemente dalla struttura patriarcale. L’abbandono è il prezzo da pagare per la possibilità di essere reintegrata in società, a condizione di ritornarci come oggetto di desiderio, oggetto di scambio e quindi di una narrativa maschile», I. ZANINI-CORDI, op. cit., p. 45. 62 Particolarmente nella Difesa di Virgilio, cfr. C. GIGANTE, Tasso, Salerno editrice, 2007, p. 344. 63 «Il Rinaldo è in dodici canti, sul modello di Eneide e Tebaide; la scelta del numero dei canti nei tre poemi narrativi di Tasso è sempre riferibile a una misura classica, intuitivamente in opposizione al “disordine” del Furioso, dell’Italia liberata o dell’Amadigi», C. GIGANTE, op. cit., p. 68. 64 P. L. GINGUENÉ, Storia della letteratura italiana (traduzione del Prof. Francesco Perotti), Milano, Tipografia del Commercio, 1824, tomo VII, p. 19. 177 Nel Canto IX il protagonista e Florindo incontrano la figlia del re di Media, Floriana, che si innamora del primo. Anche quest’ultima, come Didone, è curiosa di conoscere l’avventuroso passato dell’eroe eponimo, e gli chiede di narrare del vittorioso conflitto avuto, poco meno che adolescente, con il maganzese Ginamo; se gli amori di Floriana e Rinaldo ricalcano quindi, piuttosto scopertamente, quelli di Didone ed Enea, il ruolo di richiamo al dovere svolto da Mercurio nel poema virgiliano è qui affidato a Clarice65. Il topos della fiamma d’amore quale tormento crescente, correlato a Didone in vari loci virgiliani e in diretta allusione ripreso poi da Dante (Purg., XXX), è riferito a Floriana nei seguenti termini: Sent’ella farsi il cor nuova fucina, e crescervi la fiamma a poco a poco; pur come sia del suo mal propio vaga, d’arder più sempre e di languir s’appaga. (Rinaldo, IX, XVIII, 5-8) 66 . Analogamente, come il palazzo di Didone, anche quello di Floriana appare ai due cavalieri estremamente ricco e lussuoso, grazie al concorso di tante persone67: […] simul Aenean in regia ducit Tecta, simul divom templis indicit honorem. Nec minus interea sociis ad litora mittit Viginti tauros, magno rum horrentia centum Terga suum, pinguis centum cum matribus agnos, Munera laetitiam dii. At domus interior regali splendida luxu Instruitur mediisque parant convivia tectis: Arte laboratae vestes ostroque superbo, Ingens argentum mensis caelataeque in auro Fortia facta patrum, series longissima rerum Per tot ducta viros antiquae ab origine gentis. Il palagio real fra tanto adorno con magnifica pompa a pien si rende: chi razzi aurati per le mura intorno a l’eburnee cornici alto sospende; chi bei tapeti, che potriano scorno far a tutt’altri per le soglie stende; chi loca al lume suo dipinti quadri, vivi ritratti degli estinti padri. Eneide, I, 631-642 Rinaldo, IX, XX mentre analogo costrutto sinestetico è utilizzato per descrivere l’insinuarsi dei primi sintomi dell’amore nei cuori delle donne, cui s’unisce la curiosità di una maggiore conoscenza circa le avventure trascorse: Nec non et vario noctem sermone trahebat Infelix Dido longumque bibebat amorem, Multa super Priamo rogitans, super Hectore multa, Trae, già cenato, de la notte l’ore Floriana in parlar vario e giocondo; e non men per l’orecchie il lungo amore 65 Moglie di Rinaldo che nella tradizione cavalleresca si richiama per assonanza a Beatrice. Cfr. C. GIGANTE, op. cit, pp. 68-69. 66 E. PROTO (Sul Rinaldo di Tasso: note letterarie e critiche, Napoli, Cav. A Tocco, 1895, p. 202) cita, come possibili fonti del passo tassiano, anche i Dieci canti di Sagripante di Ludovico Dolce (Marfisa, innamorata di Selanio già sente aprir il petto a poco / e ‘l freddo ghiaccio tramutarsi in foco, III, XIX, 7-8) e il Valerio Flacco (Argonautiche, VI, 662- 663) descrittore della passione di Medea (eandem in gaudia cursus / labitur et saevae trahitur dulcedine flammae). 67 Tra le due situazioni vi è comunque una sensibile differenza: «In Virgilio Didone non è ancora innamorata, ma lo sarà fra breve, costretta ad amare Enea, ricevendo il rio veleno dallo stesso Dio Amore, sotto le forme di Ascanio (Aen. I, 715-22). L’incontro, dunque, dei futuri amanti, e il loro innamoramento, non è lo stesso, che nel poeta latino. Manca al poemetto del Tasso la forza soprannaturale, per cui, in Virgilio, Enea è spinto da Giunone sulle terre di Cartagine», E. PROTO, op. cit., p. 206. 178 Nunc quibus Aurorae venisset filius armis, Nunc quales Diomedis equi, nunc quantus Achilles. Immo age et prima dic, hospes, origine nobis Insiadias, inquit, Danaum casusque tuorum Erroresque tuos. […] bee che per gli occhi, e ‘l manda al cor profondo. Molte cose or di Carlo, or del valore chiede d’Orlando, sì famoso al mondo; de’ propi fatti suoi chiede non meno, ch’ei l’esser suo l’avea già detto a pieno. Eneide, I, 748-755 Rinaldo, IX, XXXI Una chiara logica imitativa detta anche gli endecasillabi (1-6) che aprono l’ottava LV del medesimo canto, in cui si descrive lo stupore della donna rapita dal racconto: Così dicea Rinaldo, e la donzella pendea dal suo parlar con dolce affetto. Poi che chiuse le labbra a la favella, sorse essa in piè, cangiato il vago aspetto, e da lui pur si svelle al fine, e ‘n quella sentio svellersi il cor da mezzo il petto in cui il petto si conferma – lungo una tradizione consolidata che da Omero arriva appunto sino a Tasso via Petrarca68 – sede privilegiata dei sentimenti più forti. Direttamente collegato alla fase più intensa dell’innamoramento, è (come visto anche per l’Olimpia ariostesca) l’insonnia, messa ancor più in risalto rispetto al torpore che invece avvolge il mondo circostante la donna. L’exemplum virgiliano (ma già presente, come visto, in Apollonio Rodio), è punto di riferimento non solo per il giovane Tasso, ma anche per il padre Bernardo, come dimostra il seguente passo dell’ Amadigi a proposito dell’innamoramento di Lucilla: Ella alla cena mangia poco, e manco dorme la notte, ma dogliosa ognora con la crudel d’amor saetta al fianco, da se medesma s’affligge ed accora; ed or sul destro, ora sovra il lato manco si volge, e ‘l letto, dov’ella dimora, ch’è molle e fresco, parla aspro e cocente, come ad infermo, ch’abbia febbre ardente. Del suo lungo viaggio il terzo almeno trascorso già l’umida notte avea, e ‘n maggior copia da l’oscuro seno sonni queti e profondi a noi piovea; la regina però, cui rio veleno tacito per le vene ognor serpea, non dava gli occhi stanchi in preda al sonno, ché le cure d’amor dormir non ponno: Amadigi, LXXII, XLIII Rinaldo, IX, LVI né è d’altronde da trascurare il passaggio delle Stanze di Poliziano che presenta, seppur in sottile variatio, medesima rima baciata a identico proposito: E dentro al petto sopito dal sonno Gli Spirti d’Amor posar non ponno. (Stanze, II, XX, 7-8). Ugualmente oggetto di imitazione alquanto pedissequa è l’invito, rivolto da Floriana a Rinaldo, a visitare il proprio regno, proprio come aveva fatto Didone con Enea: Nunc media Aenean secum per moenia ducit, Ella dolce il saluta e ‘l mena poi 68 Cfr. Capitolo III p. 152. 179 Sidoniasque ostentat opes urbemque paratam: per Acatana, sua real cittade. Gli mostra i tempii che gli antiqui eroi ornar di palme ne la prisca etade, i gran sepolcri de’ maggiori suoi, i bei palagi e le diritte strade, le mura, l’alte torri e le fortezze, e tutto il suo potere e le ricchezze. Eneide, IV, 74-75 Rinaldo, IX, LXIII Tutta la sintomatologia amorosa, che causa un impedimento nel parlare, propria di Didone (incipit effari mediaque in voce resistit, Eneide, IV, 76) e ben nota anche a Petrarca69, si riflette in vari personaggi dell’Amadigi e del Rinaldo: se il passo relativo ad Alidoro, innamorato della guerriera Mirinda, è più genericamente improntato alla sofferenza d’amore, e quello di Floriana incapace di proferir verbo è più scopertamente modellato sul IV libro virgiliano: Ma la piaga d’Amor empia, che fea L’anima odiar la sua prigion terrestra Cresce tanto ad ogn’or, che non gli avanza Di poterla sanare omai speranza Si cangia d’or in or ne la sembianza, apre a parlar la bocca e poi si tace, e la voce troncata a mezzo resta, gli occhi travolge, e move or piedi or testa. Amadigi, XVIII, LII, 5-8 Rinaldo, IX, LXIV, 5-8 Anche la confessione di Didone alla sorella Anna viene fedelmente seguita dal giovane Torquato Tasso, come dimostra la confessione cui si lascia andare Floriana con la nutrice Elidonia: Cara Elidonia mia, tu che già desti a le mie membra il nutrimento primo, e col tuo sangue aita a me porgesti, cui, non avendo io madre, in madre estimo: tu mi soccorri or che novelli infesti desir se ‘n vanno del mio core a l’imo, e ‘l non ben noto male è in me sì forte che m’ha condutt’ormai vicino a morte. […] (Rinaldo, IX, LVI e passim). La partenza di Rinaldo, come quella di Enea moenia respiciens (Eneide, V, 3), si svolge in segreto mentre l’eroe è dilaniato da rimorsi interiori più intensamente definiti rispetto all’archetipo virgiliano, come possono dimostrare le seguenti ottave70: Come accorto nocchiero i dolci accenti fugge de le Sirene, e tutte sciôrre fa le sue vele dispiegate ai venti, ed ogni remo appresso in uso porre, 69 Ibidem. 70 Mentre Agramoro (B. TASSO, Amadigi, LXXIX, XXX-L), pur dispiacendosi di non poter assecondare la passione di Drusilla, non cede alla tentazione del tradimento. 180 così quei cari preghi e quei lamenti, che lo potrian dal suo pensier distôrre, schiva Rinaldo, e tacito se n’esce, ma pur di Floriana assai l’incresce: ché, benché quel ardor già spento sia, non è però ch’egli non l’ami ancora; e l’alta sua beltà, la cortesia, e l’altre sue virtù pregia ed onora; e ben quel duolo mitigar vorria, ch’assalir délla in breve spazio d’ora; ma perciò ch’in se stesso ha poca fede, parte sì ch’altri allor non se n’avede. (Rinaldo, IX, XCI-XCII). L’incipit del Canto seguente del Rinaldo presenta, in apertura, la medesima particella avversativa utilizzata da Virgilio all’inizio del ‘secondo atto’ 71, nonché uno svolgimento fraseologico analogo a quello del passo del IV libro dell’Eneide: At regina dolos (quis fallere possit amantem?) Praesensit motusque exepit prima futuros, Omnia tuta timens. Eadem impia Fama furenti Detulit, armari classem cursumque parari. Saevit inops animi totamque incensa per urbem Bacchatur, qualis commotis excita sacris Thias, ubi audito stimulant trieterica Baccho Orgia nocturnusque vocat clamore Cithaeron. Ma ‘l fero Amor, che al fin discopre e vede gli occulti fatti, ancorché d’occhi privo, a la regina chiari indizii diede del partir de l’amante fuggitivo, lasciando lei d’acerbi affanni erede, e fuor per gli occhi in lagrimoso rivo ogni gioia scacciando: ond’egro il core rimase in preda al sùbito dolore. Eneide, IV, 296-303 Rinaldo, X, I come simile allo smarrimento di Didone, che vaga confusa e disperata per Cartagine, può dirsi quello in cui versa Floriana Uritur infelix Dido totaque vagatur Urbe furens, qualis coniecta cerva sagitta, Quam procul incautam nemora inter cresia fixit Pastora gens telis liquitque volatile ferrum Nescius; illa fuga silvas saltusque peragrat Dictaeos, haeret lateri letalis harundo. S’aggira intorno, e non con grave passo, qual si conviene a donna ed a regina, ch’a ciò punto non guarda, e ‘l corpo lasso dal furor trasportato oltre camina: onde non manco egli di lena è casso che sia di gioia l’anima meschina; e non trovando questa o tregua o pace, né quello anco in riposo unqua si giace. Eneide, IV, 68-73 Rinaldo, X, V con la differenza secondo cui la regina cartaginese è immersa in tale stato d’animo prima della partenza di Enea, mentre Floriana ne è vittima dopo la separazione da Rinaldo. La differenza con 71 Cfr. Capitolo II pp. 62-63. 181 Didone, e al contempo l’analogia con l’Alcina ariostesca può se mai individuarsi nel rapido e rabbioso invio di propri emissari, che tentino di riportare indietro il fuggitivo: Alcina, ch’avea intanto avuto aviso di Ruggier, che sforzato avea la porta, e de la guardia buon numero ucciso, fu, vinta dal dolor, per restar morta. Squarciossi i panni e si percosse il viso, e sciocca nominossi e malaccorta; e fece dar all’arme immantinente, e intorno a sé raccor tutta la sua gente. E poi ne fa due aprti, e manda l’una Per quella strada ove Ruggier camina; al porto l’altra subito raguna, imbarca, et uscir fa ne la marina; Pur si risveglia ed eseguisce intanto ciò ch’a la vita sua giovevol sia, ché per mare e per terra in ogni canto molti guerrier dietro l’amante invia, i quai per ricondurlo oprin poi quanto d’eloquenza e di forza in lor più fia; e quel che non potran co’ detti umani, almen si faccia con l’armate mani. Orlando furioso, VIII, XII-XIII, 1-4 Rinaldo, X, VII Infine, dopo le imprecazioni – tratto comune anche a Medea e praticamente a tutte le donne abbandonate – anche Floriana tenta l’atto di uccidersi con l’arma appartenuta all’amante fedifrago: Interiora domus inrumpit limina et altos Conscendit furibunda rogos ensemque recludit Dardanium, […] Così detto un pugnale in furia prende, ch’al gran figlio d’Amon già tolto avea, e ‘n lui lo sguardo fissamente intende, in lui che nudo ne la man tenea. Eneide, IV, 645-647 Rinaldo, X, XXIII, 1-4 abbandonandosi ad un ultimo, estremo sfogo modellato ancora una volta sulle parole di Didone72: Dulces exuviae, dum fata deusque sinebat, Accipite hanc animam meque his exsolvite curis. Vixi et quem dederat cursum Fortuna peregi: Et nunc magna mei sub terras ibit imago. Urbem praeclaram statui, mea moenia vidi, Ulta virum poenas inimico a fratre coepi: Felix, heu nimium felix, si litora tantum Numquam dardaniae tetigissent nostra carinae. Dixit et os impressa toro: Moriemur inultae! Sed moriamur, ait. Sic sic iuvat ire sub umbras. Hauriat hunc oculis ignem crudelis ab alto Dardanus et nostrae secum ferat omnina mortis – O di crudo signor ferro pietoso, il mal ch’ei femmi, a te sanar conviene: ei mi trafisse col partir ascoso il cor ch’aspro martir per ciò sostiene; tu con aperta forza il doloroso uccidi, com’uccisa è già sua spene; ché quanto il primo colpo a lui fu grave, tanto il secondo, e più, gli fia soave Quegli già lo privò d’ogni dolzore. ch’il ciel con larga man versava in lui, ma questi gli torrà tutto il dolore che lo fanno invidiar le pene altrui. Tu, caro letto, che d’un dolce amore testimon fusti mentre lieta io fui, or ch’è cangiata in ria la destra sorte, testimonio ancor sii de la mia morte. E come nel tuo sen prima accogliesti le mie gioie, i diletti e i gaudii tutti, 72 Cfr. Capitolo II pp. 78-80. 182 ed or non meno accolti insieme hai questi sospir dolenti e questi estremi lutti, così accogli il mio sangue, e in te ne resti eterno segno. – E qui con gli occhi asciutti alzò la man per far l’indegno effetto, e trapassarsi, oimè! l’audace petto. Eneide, IV, 651-662 Rinaldo, X, XXIV-XXVI L’esito delle due vicende è tuttavia ben diverso: se l’epilogo di Didone è tragico, Floriana viene tratta in salvo dalla sorella al genitor de la regina (Rinaldo, X, XXVIII, 2) il cui nome, non troppo casualmente, è Medea. Una zia maga aveva già del resto tratto in salvo una nipote donna innamorata e abbandonata (Drusilla) nell’Amadigi (LXXXI, LXVI) 73 . 2. Nel Torrismondo è invece possibile trovare un’eco dell’incontro nella grotta, tra Enea e la regina cartaginese (Eneide, IV, 165-172) in quello tra il protagonista e la sorella Alvida: Ma co 'l flutto maggior nubilo spirto il nostro batte, e 'l risospinge a forza, sì ch'a gran pena il buon nocchiero accorto lui salvò, sé ritrasse e noi raccolse d'uno altissimo monte a' curvi fianchi, dove mastra natura in guisa d'elmo forma scolpito a meraviglia un porto, che tutti scaccia i venti e le tempeste, ma pur di sangue è crudelmente asperso, fiero principio e fin d'acerba guerra. Qui ricovrammo sbigotiti e mesti, ponendo il piè nel solitario lido. Mentre l'umide vesti altri rasciuga, ed altri accende le fumanti selve, con Alvida io restai de l'ampia tenda ne la più interna parte. E già sorgea la notte amica de' furtivi amori, ed ella a me si ristringea tremante ancor per la paura e per l'affanno. Questo quel punto fu che sol mi vinse. (Il re Torrismondo, I, 3, 312-331), mentre, se Alvida morente anticipa non pochi tratti dell’agonia di Ermengarda, lo stato d’animo di Torrismondo è descritto secondo un palese calco virgiliano: […] obnixus curam sub corde premebat il suo dolor premea nel cor profondo Eneide, IV, 332 Il re Torrismondo, V, 4, 281 73 Cfr. E. PROTO, op. cit., p. 222. 183 ma è esattamente nel Libro I dei Discorsi del poema eroico74 che Tasso cita l’episodio virgiliano della grotta sia connettendolo ad un passo dell’Amadigi sia citando l’incontro tra Ruggiero e Olimpia del poema ariostesco75 . Una testimonianza matura documenta d’altronde come anche l’altra tradizione relativa a Didone, vedova fedele sino alla fine, fosse nota al Tasso autore dei Dialoghi: ne Il padre di famiglia, scritto nel 1580 durante la detenzione a Sant’Anna, si legge infatti: « […] così parrebbe convenevole che la donna o l’uomo che per morte sono stati disciolti dal primo nodo di matrimonio, non si legassero al secondo; né senza molta lode e molta meraviglia della sua pudicizia sarebbe Didone continovata nel suo proponimento di non volere il secondo marito; la qual cosa così dice: Sed mihi vel tellus optem prius ima dehiscat Vel pater omnipotens adigat me fulmine ad umbras [Eneide, IV, 24-25] Ante, pudor, quam te violem [violo] aut tua iura resolvam [resolvo] Ille meos primus me sibi iunxit amores Abstulit: ille habeat secum servetque sepulchro. [Eneide, IV, 27-29]»76 . È comunque su un passo di un altro dialogo77 , Il Porzio overo de le virtù, che – anche in riferimento a quanto osservato da Cristoforo Landino a proposito della «incontinenza»78 ‒ è utile soffermare l’attenzione: ancora una volta Didone è esempio in causa: «E particolarmente nelle cose appartenenti a’ piaceri si deve in questa guisa sillogizzare congiungendo gli universali co’ particolari, perché il continente, e l’incontinente di dimostra ne’ piaceri, come il costante e l’effemminato ne’ dolori; laonde propriamente continente è colui, che supera i piaceri, propriamente costante, che resiste a’ dolori: ma il molle e l’effemminato cede al dolore, siccome l’incontinente al piacere, ed a quello particolarmente, che è obbietto de’ due sentimenti del corpo più materiali de’ quali si trovano in somma due maniere, siccome due spezie d’incontinenza, l’una delle quali è temerità, l’altra infermità, 74 Cfr. C. GIGANTE, op. cit, p.p. 336-338. 75 «De’ due fini dunque, i quali si propone il poeta l’uno è proprio dell’arte sua, l’altro dell’arte superiore: ma ruguardando in quel che è suo proprio, dee guardarsi di non traboccare nel contrario, perché gli onesti piaceri sono contrarj a’ disonesti. Laonde non meritano lode alcuna coloro , che hanno descritti gli abbracciamenti amorosi in quella guisa, che l’Ariosto descrisse quel di Ruggiero con Alcina, o di Ricciardetto con Fiordispina: e per avventura ancora il Trissino avrebbe potuto tacere molte cose, quando ci pone innanzi agli occhi l’amoroso diletto, che prese l’imperator Giustiniano della moglie; ma egli volle imitare Omero, il quale finge che Giunone e Giove in cima del monte Ida fossero coperti da una nuvola; invenzione leggiadramente trasportata dal Tasso nell’Amadigi, quand’elgi descrive l’abbracciamento di Mirinda e di Alidoro, quasi volendoci accennare che l’altre cose deono essere ricoperte sotto le tenebre del silenzio, oltre tutte l’altre. Ma Virgilio negli amori di Enea con Didone fu modestissimo, e accenna con brevi parole quel che seguisse dopo la pioggia mandata da Giunone: Speluncam Dido, Dux et Trojanus eundem Deveniunt …». 76 Un accenno alla castità di Didone – seppur precedente l’incontro con Enea – è contenuto nelle Rime: in Loda un picciol cane de la Signora Lucrezia d’Este, duchessa d’Urbino Tasso scrive: Forse ne le tue forme Amor converso / scherza teco così, come già face / quand’oppresse a Didone il casto sello (9-11). 77 Cfr. M. ROSSI, Io come filosofo era stato dubbio: la retorica dei “Dialoghi” di Tasso, Bologna, Il Mulino, 2007, pp. 40 e passim. 78 Cfr. infra pp. 157 e passim. 184 perché alcuni avendo fatta deliberazione, non si fermano nelle cose deliberate, vinti dalla perturbazione, come avvenne di Didone la quale prima aveva detto: Sed mihi vel tellus optem prius ima dehiscat Vel pater omnipotens abigat me fulmine ad umbras, Pallentes umbras Erebi noctemque profundam, Ante, pudor, quam te violem [violo] aut tua iura resolvam [resolvo] Ille meos primus qui me sibi iunxit, amores Abstulit; ille habeat secum servetque sepulcro. [Eneide, IV, 24-29] Nondimeno poco stante: Uritur infelix Dido, totaque vagatur Urbe furens, qualis conjecta cerva sagitta [Eneide, IV, 68-69]». 3. È ad ogni modo nel personaggio di Armida della Gerusalemme liberata che è possibile notare il calco più palese della vicenda di Didone ed Enea79: «il testo citante si presentava vistosamente marcato dai segni del testo citato: tanto vistosamente da manifestarsi come atto consapevole di riscrittura e da dichiararsi come bisognoso di una lettura lucidamente attenta a quella presenza laterale, a quella filigrana visibile»80. Questo è evidente sia da un punto di vista strutturale che semantico: l’interazione, a livello di macrostrutture sintattiche e microstrutture lessicali, è da mettere comunque in relazione con le differenze che regolano il rapporto tra il testo virgiliano e quello tassiano81. Inoltre in Armida - che pur come Didone presenta lati austeramente mascolini secondo l’indiano Adrasto ([ …] Donna gentile, / ben hai tu cor magnanimo e virile, XVII, LI, 7-8) - sembrano compenetrarsi al meglio, rispetto alle altre donne abbandonate, le due nature della donna terribilmente ferita dalla passione amorosa e della sorcière ammaliatrice82: 79 Come già notato da S. MULTINEDDU, Le fonti della «Gerusalemme liberata», Torino, Clausen, 1895, pp. 178-182, V. VIVALDI, La «Gerusalemme liberata» nelle sue fonti, Volume II (Episodi), Trani, Vecchi e C., 1901, pp. 211-214, V. ZABUGHIN, Vergilio nel Rinascimento italiano da Dante a Torquato Tasso, Bologna, Zanichelli, Volume II, 1923, pp. 293-306,e più recentemente da F. CHIAPPELLI, Studi sul linguaggio del Tasso epico, Firenze, Le Monnier, 1957, pp. 25-32, C. SCARPATI, Enea e Didone, Rinaldo e Armida, in «Studia classica Iohanni Tarditi oblata» (a cura di L. BELLONI, G. MILANESE e A. PORRO), Milano, Vita e Pensiero, 1995, Volume II, pp. 1327-1343 e Id., Tasso, gli antichi e i moderni, Pavoda, Antenore, 1995, pp. 48-61, G. COLESANTI, Armida e l’ingiustizia degli dèi – Per l’esegesi e i modelli classici in Gerusalemme liberata XVI 58, in «Materiali e discussioni per l’analisi dei testi classici», n° 57, 2006, pp. 137-181. 80 C. SCARPATI, Tasso, gli antichi e i moderni, op. cit., p. 51. 81 «Il libro IV dell’Eneide è l’esito dell’inserimento di un nucleo tragico nel tessuto epico. Sul piano del genere una distanza sostanziale separa i due testi. Il Tasso si spinge nel XVI in prossimità del tragico, ma ha in mente un disegno che non comporta esiti letali; così il terreno che al tragico è previamente sottratto può essere coltivato a vantaggio del suo interesse prioritario, l’indagine intorno alla contraddittorietà del vissuto, la coesistenza di spinte opposte, l’intreccio della perfidia e di redimibilità, il carattere ambivalente dei movimenti umani», ivi, p. 58. 82 Ancora C. SCARPATI (Dire la verità al principe: ricerche sulla letteratura del Rinascimento, Milano, Vita e Pensiero, 1987, p. 149) scrive a tale proposito: «il grande personaggio di Armida, in particolare, era nata dall’intersezione tra Omero e Virgilio, al punto di congiunzione tra il mito di Circe e la storia di Didon, con un vigoroso spostamento laterale di quest’ultima, poiché Didone si uccide, ma Armida sarà raccolta quando, conseguita la meta ed effettuato l’acquisto di Gerusalemme, il codice cavalleresco sospeso potrà riprendere la sua efficacia […]»; «la maga Armida è l’ultima maga della poesia e la più interessante, nella chiarezza e verità della sua vita femminile. Vive oggi nel popolo, più che Alcina, Angelica, Olimpia e Didone, perché unisce tutti gli splendori della magia con tutta al realtà di un povero cuore di donna…ed è l’amore che uccide in lei la maga e la fa donna», B. CROCE, Storia della letteratura italiana, Bari, Laterza, 1964, Volume II, p. 169). 185 Così (chi ‘l crederia?) sopiti ardori D’occhi nascosi distempràr quel gelo Che s’indurava al cor più che diamante, e di nemica ella divenne amante. (Gerusalemme liberata, XIV, LXVII, 5-8). L’attenzione è stata giustamente puntata sulle invettive delle due donne rivolte rispettivamente ad Enea e Rinaldo, dove la prima (Eneide, IV, 362-392) funge senza dubbio da modello, pur «con gli opportuni e indispensabili adattamenti»83, alla seconda (Gerusalemme liberata, XVI, LVI, 5-LX, 8). Già gli incipit mostrano infatti una chiara somiglianza84: Talia dicentem iamdudum aversa tuetur, Huc illuc volvens oculos totumque pererrat Luminibus tacitis et sic accensa profatur Ella, mentre il guerrier così le dice, non trova loco, torbida, inquieta; già buona pezza in dispettosa fronte torva riguarda, al fin prorompe a l’onte Eneide, IV, 362-364 Gerusalemme liberata, XVI, LVI, 5-8 Et così ripondente Enea con doglia, con torva faccia andava rimirando Didon, tremula più ch’al vento una foglia. E lui, dal capo al piede per errando, con taciti occhi aversi e spirto exangue, irata, accesa, disse lachrymando. Unici ex quarto Aeneidos Tentuto conto dell’importanza che lo sguardo riveste per Tasso nella descrizione di fenomeni amorosi (nelle Conclusioni amorose si legge infatti «XXVIII: gli occhi esser quelli che più godono e quelli di che più si gode nell’amore. XXIX: Gli occhi esseer principio e fine d’amore»85), tanto nell’esametro virgiliano quanto nell’endecasillabo tassiano l’aggettivo caratterizzante lo sguardo ferito e carico d’odio (aversa/torbida) è in penultima sede, ed in entrambi i casi viene ribadito e variato in climax (volvens oculos/torva riguarda) mentre una forte analogia lega i verbi fatici (profatur/prorompe), uniti da medesimo prefisso e in ambedue i casi posti alla fine del costrutto fraseologico con chiara funzione di amplificare l’imminente sfogo; infine, un’eco del Luminibus tacitis virgiliano si può cogliere nell’incipit dell’ottava LXI Chiudesti i lumi, Armida;. E se per i primi versi dell’ottava seguente ( ‒ Né te Sofia produsse e non sei nato / de l’azio sangue tu; te l’onda insana / del mar produsse e ‘l Caucaso gelato, / e le mamme allattàr di tigre ircana) si è già avuto modo di segnalare le connessioni con un particolare passaggio del IV libro dell’Eneide86 , 83 G. COLESANTI, op. cit., p. 150. Cfr. anche F. CHIAPPELLI, op. cit., pp. 25-32 e G. PETROCCHI, Introduzione alla lettura di Tasso, in I fantasmi di Tancredi, Caltanissetta-Roma, Sciascia, 1972, p. 34. 84 Ivi, p. 151. Analogamente alla scelta fatta per il II capitolo, per un quadro diacronico più completo dell’evoluzione e dell’eredità del IV libro dell’Eneide, si forniscono, laddove ritenuto necessario, i passi del rifacimento dell’episodio eneadico in questione contenuti nel Codice Vaticano Rossiano 680 presi in esame da Stefania Signorini (cfr. nota 32). 85 L’occhio è «il simbolo che, sin dal Medioevo, in concorrenza semantica con lo specchio, aveva rappresentato il veicolo del processo fantasmagorico della creazione poetica e dell’innamoramento, e che nel secondo Cinquecento conosce uno straordinario arricchimento di suggestioni, cui può essere posto come emblema il gioco illusionistico del giardino di Armida», S. PRANDI, Il «Cortigiano» ferrarese, Firenze, Olschki, 1990, p. 137. 86 Cfr. Capitolo II p. 66. 186 tuttavia l’archetipo di questo tipo di costrutto – come peraltro già notato da Giulio Guastavini87 ‒ si può trovare nei versi omerici di rimprovero ad Achille da parte di Patroclo: νηλεές, οὐκ ἄρα σοί γε πατὴρ ἦν ἱππότα Πηλεύς, οὐδὲ Θέτις µήτηρ: γλαυκὴ δέ σε τίκτε θάλασσα πέτραι τ᾽ ἠλίβατοι, ὅτι τοι νόος ἐστὶν ἀπηνής (Iliade, XVI, 33-35) e proprio il collegamento tra l’onda insana / del mar e il testo iliadico autorizza a parlare, in questo caso, in «contaminazione del modello principale virgiliano con una fonte secondaria» 88 . Analogamente, lo stesso schema retorico dell’incalzare di quesiti nei confronti del fuggitivo informa i due testi89: Nam quid dissimulo aut quae me ad maiora reservo? Num fletu ingemuit nostro? Num lumina flexit? Num lacrimas victus dedit, aut miseratus amantem est? Quae quibus anteferam? […] Che dissimulo io più? L’uomo spietato Pur un segno non diè di mente umana Forse cambiò color? Forse al mio duolo Bagnò almen gli occhi o sparse un sospir solo? Quali cose tralascio o quai ridico? S’offre per mio, mi fugge e m’abbandona; quasi buon vincitor, di reo nemico oblia le offese, i falli aspri perdona. Odi come consiglia! Odi il pudico Senocrate d’amor come ragiona! O cielo, o dèi, perché soffrir questi empi Fulminar poi le torri e i vostri tèmpi? Eneide, IV, 368-371 Gerusalemme liberata, XVI, LVII, 5-LVIII, 1-8 dove i riferimenti più palesi, per evidenti somiglianze lessicali, possono così riassumersi: quid dissimulo90 (368) che dissimulo io (LVII, 5) Num lacrimas victus dedit, (370) bagnò almen gli occhi (LVII, 8) Quae quibus anteferam? (371) Quali cose tralascio […]? (LVIII, 1) 87 Cfr. La Gierusalemme liberata di Torquato Tasso con le figure di Bernardo Castello, e le Annotazioni di Scipio Gentili e Giulio Guastavini, Genova, Girolamo Bartoli, 1590, edizione moderna a cura di G. PIERSANTELLI, Roma, stabilimento tipografico Julia, pp. 32 e passim. 88 G. COLESANTI, op. cit., p. 151. 89 Cfr. W. MORETTI, Tre maestri della tecnica epica tassiana, in «Annali della Scuola normale superiore di Pisa: Lettere, storia e filosofia», 1961, p. 22. 90 Il verbo dissimulo, ora rivolto a sé stessa, era stato in precendeza usato nella prima invettiva nei confronti del pavido Enea: Dissimulare etiam sperasti, perfide, tantum Posse nefas? Tacitusque mea decedere terra? Nec te noster amor nec te data dextera quondam Nec moritura tenet crudeli funere Dido? Perfido, Ænea, come sperasti mai Posser dissimulare tanto delicto, del tacito fugir che pensi e fai? Né ti tien l’amor nostro e ‘l regno afflicto, el pianto, e preghi, el coniugio sincero, e ‘l morir mio, ne’ languenti occhi scripto? Eneide, IV, 305-308 Unici ex quarto Aeneidos 187 Il particolare riferimento a Senocrate condurrebbe invece ad una altra fonte latina, Valerio Massimo91: « Aeque abstinentis senectae Xenocratem fuisse accepimus. cuius opinionis non parua fides erit narratio, quae sequitur. In pervigilio Phryne nobile Athenis scortum iuxta eum vino gravem accubuit pignore cum quibusdam iuvenibus posito, an temperantiam eius corrumpere posset. quam nec tactu nec sermone aspernatus, quoad voluerat in sinu suo moratam, propositi inritam dimisit. factum sapientia inbuti animi abstinens, sed meretriculae quoque dictum perquam facetum: deridentibus enim se adulescentibus, quod tam formosa tamque elegans poti senis animum inlecebris pellicere non potuisset, pactumque victoriae pretium flagitantibus de homine se cum iis, non de statua pignus posuisse respondit. Potestne haec Xenocratis continentia a quoquam magis vere magisque proprie demonstrari quam ab ipsa meretricula expressa est?» (Facta et dicta memorabilia libri, IV.3.3), Questo episodio fu certamente un topos letterario che godette di una certa fortuna, dal momento che si trova citato non solo nel Chronicon di Benzo di Alessandria 92 , bensì anche da Petrarca, Boccaccio, Castiglione e Marino93, né fu ignoto ad Ariosto, che nell’Orlando furioso (XI, III, 1-2), parlando di Ruggiero, seduttore mancato di Angelica,scrive: con la quale [Angelica] non saria stato quel crudo Zenocrate più continente. Ancora, il verso virgiliano I, sequere Italiam ventis, pete regna per undas (Eneide, IV, 381) funge da riferimento per i tassiani Vattene, pur, crudel, con quella pace / che lasci a me; vattene, iniquo omai94, mentre gli i seguenti versi eneadici sono la base di partenza per tre passaggi fondamentali delle ottave LX e LXI: 91 L. BORSETTO, Microspie tassiane, in «Studi tassiani», 34, 1986, pp. 23-35. 92 Cfr. Cfr. M. PETOLETTI, Il «Chronicon» di Benzo d’Alessandria e i classici latini all’inizio del XIV secolo – Edizione critica del libro XXIV: «de morbus et vita philosophorum», p. 341. 93 Nel Triumphus Fame (III, 75) del primo si legge e Senocrate più saldo ch’un sasso / che nulla forza valse ad atto vile;, mentre nel Filocolo (IV, 32) del secondo c’è il seguente passaggio: «Il secondo [volere] è da fuggire, cioè il libidinoso congiungnimento, secondo la sentenza di Sofoldeo e di Senocrate, dicenti che così è la lussuria da fuggire come furioso signore»; se nel Cortegiano (III, 39) Castiglione scrive: «Potrei dirvi di Senocrate, il quale fu tanto contingente, che una bellissima donna, essendosegli colcata accanto ignuda e facendogli tutte le carezze ed usando tutti i modi che sapea, delle quai cose era bonissima maestra, non ebbe forza mai di far che mostrasse pur un minimo segno d’impudicizia, avvenga che ella in questo dispensasse tutta una notte», nell’Adone (XIII, LVI, 3-6) si legge: Che se fusse qual crede e qual desia / nonché le voglie infervorar d’Adone, / far vaneggiar Senocrate poria / e d’illecite fiamme arder Catone. Il passo di Petrarca, inoltre, è citato (in maniera inesatta) dallo stesso Tasso: in Il Costante overo de la Clemenza l’autore scrive infatti: «ma si dee biasimar questa durezza fra’ giudici o ne’ tribunali, benché sia laudevole ne le morbide piume degli amplissimi letti, dove la dimostrò uno di questi filosofi a Frine cortigiana; e di lui disse il Petrarca: E Senocrate via più duro ch’un sasso»; e anche nel già citato Porzio overo de le virtù è possibile infine trovare un ulteriore riferimento al filosofo greco: «Da l’altra parte il difetto ne’ piaceri è celebrato alcuna volta ocn grandissime lodi e quasi con maraviglia, come fu in Zenocrate, il quale a guisa d’immobile statua si giacque con Frine meretrice». Per il rapporto tra queste citazioni e Tasso cfr. G. COLESANTI, op. cit., p. 160. 94 Alla giusta osservazione di G. COLESANTI (op. cit., p. 153), secondo cui «Tasso utilizza solo il primo dei tre verbi, ma lo raddoppia («vattene…vattene»), si potrebbe aggiungere che Rosa Calzecchi Onesti, nella sua traduzione del passo virgiliano, opta per un costrutto anaforico (Vattene, non ti trattengo, le tue parole non confuto: / vattene, cerca nel vento l’Italia, cercati il regno sul mare) identico alla soluzione poetica adottata nella Gerusalemme liberata modellata sui versi virgiliani. 188 Supplicia hausurum scopulis et nomine Dido Saepe vocaturum. […] Per nome Armida chiamerai sovente Ne gli ultimi singulti: udir ciò spero. - Eneide, IV, 383-384 Gerusalemme liberata, LX, 3-4 Et, cum frigida mors anima seduxerit artus, Omnibus umbr locis adero. […] Me tosto ignudo spirto, ombra seguace Indivisibilmente a tergo avrai Eneide, IV, 385-386 Gerusalemme liberata, LIX, 3-4 […] Dabis, improbe, poenas. mi pagherai le pene, empio guerriero. Eneide, IV, 386 Gerusalemme liberata, LX, 2 La forte somiglianza tra i due testi continua se si raffrontano le due invettive di Didone95 – in particolare la seconda – e di Armida: […] Si tangere portus Infandum caput ac terris adnare necesse est Et sic fata Iovis poscunt, hic terminus haeret: At bello audacis populi vexatus et armis, Finibus extorris, complexu avolsus Iuli, Auxilium imploret videatque indigna suorum Funera; nec, cum se sub leges pacis iniquae Tradiderit, regno aut optata luce fruatur; Sed cadat ante diem mediaque inhumatus harena E se è destin ch’esca del mar, che schivi gli scogli e l’onde e che a la pugna arrivi, là tra ‘l sangue e le morti egro giacente mi pagherai le pene, empio guerriero. Per nome Armida chiamerai sovente Ne gli ultimi singulti; udir ciò spero. – Or qui mancò lo spirto alla dolente, né quest’ultimo suono espresse intero; e cadde tramortita e si diffuse di gelato sudore, e i lumi chiuse. Eneide, IV, 612-620 Gerusalemme liberata, XVI, LIX, 7-LX, 1-8 In questo caso Tasso contamina le due maledizioni di Didone, come dimostrano il riferimento – con elementi invertiti rispetto all’ipotesto virgiliano – al mare e agli scogli (undas/scopulis, Eneide, IV, 381 e 383 > gli scogli e l’onde, Gerusalemme liberata, LIX, 7) e soprattutto lo svenimento (conlapsaque membra, Eneide, IV, 391 > e cadde tramortita, Gerusalemme liberata, LX, 7), cui non è estraneo un richiamo alla lezione dantesca (e caddi come corpo morto cade, Inferno, V, 142). Ma è il concetto di ‘empietà’ – in tutta la sua pregnanza etimologica di mancanza di pietas – a risaltare, tanto in Enea quanto in Rinaldo. Se sul primo aspetto si è già detto nel II capitolo, nel caso di Tasso è la chiusa dell’ottava LVIII a ribadire, anche grazie alla rima baciata, il concetto: O cielo, o dèi, perché soffrir questi empi Fulminar poi le torri e vostri tèmpi? (Gerusalemme liberata, XVI, LVIII, 7-8) cui fungeva da probabile modello, oltre che la traduzione del locus virgiliano ad esso direttamente collegato da parte di Bernardo Tasso96, anche il seguente passo dell’Amadigi (XXXV, LX, 1-3) relativo all’invettiva di Corisanda a Floristano97: 95 Cfr. G. COLESANTI, op. cit., 153-155. 189 Crudel, se quella inviolabil fede, che ‘n presenza d’Amor mi promettesti, non ti ritien in questa lieta sede in cui grande importanza ha il nesso inviolabil fede ripreso da Torquato Tasso nella chiusura del discorso di Armida ad Adrasto Così ne faccio qui stabil promessa, così ne giuro inviolabil fede. (Gerusalemme liberata, XVII, XLVIII, 5-6), ma il costrutto era già stato utilizzato da Ariosto a proposito di Ruggiero Perché, Ruggier, come di te non vive cavallier di più ardir, di più bellezza, né che a gran pezzo al tuo valore arrive, né a’ tuoi costumi, né a tua gentilezza; perché non fai che fra tue illustri e dive virtù, si dica ancor ch’abbi fermezza? si dica ch’abbi inviolabil fede? a chi ogn’altra virtù s’inchina e cede. (Orlando furioso, XXXII, XXXVIII) Mentre la Didone accoltiana si lascia andare al seguente sfogo: Misera chi si fida. In parte addussi te del mio regno; tue navi languenti salvai da morte; a vita e tuoi redussi; a tanti regi et amator potenti te proposi, et apersi a’ membri indegni el letto mio e le mie braccia ardenti. Et hora, hor sempre, hor fati, hor d’alti regni Dei scesi accusi, con cagione estinta. Come curasse el ciel nostri disegni! Meraviglia non è s’arsa et extincta Fu vostra stirpe e Troya in cener tolta, ch’ogni pietà da vostre colpe è vinta. Contra a l’argive genti esser racolta Doveva l’ira tua. Che t’ho facto io, donna innocente, incauta, accesa e stolta? 96 Cfr. Capitolo II p. 64. 97 il lamento della prima, in seguito alla partenza del secondo, in compagnia del fratello Galaor, è il caso più vistoso d’imitazione dell’episodio virgiliano relativo a Didone presente nel poema di Bernardo Tasso, che comunque tenne presente il IV libro dell’Eneide, contaminandolo con motivi ovidiani, anche per quel che riguarda i lamenti di Licasta (LVIII, 3-7) e Lucilla (LXVII, 3-9). Cfr. M. MASTROTOTARO, Per l’orme impresse dall’Ariosto: tecniche compositive e tipologie narrative nell’Amadigi di Bernardo Tasso, prefazione di G. DISTASO, Roma, Aracne, 2006, pp. 166-169. Per la citazione completa del lamento di Corisanda cfr. Appendice XIV. 190 L’empietà di Rinaldo98 era d’altronde già stata messa in risalto in precedenza nel discorso diretto di Armida: […] Che temi, empio, se resti? Potrai negar, poi che fuggir potesti.- (XVI, XL, 7-8) e il concetto ritorna in seguito, sempre negli insulti della donna abbandonata mi pagherai le pene, empio guerriero (XVI, LX, 2) e poco oltre […] Ahi! Seguirò pur l’empio, né l’abisso per lui riposta parte, né il ciel sarà per lui securo tempio. (XVI, LXIV, 2-4). Tanto Ubaldo quanto Mercurio usano lo stesso verbo per riportare gli eroi al senso del dovere, in cui tuttavia Tasso inserisce una sfumatura ironica assente nel testo di riferimento: Si te nulla movet tantarum gloria rerum te sol de l’universo il moto nulla move, egregio campion d’una fanciulla Eneide, IV, 272 Gerusalemme liberata, XVI, XXXII, 7-8 Il verbo-cardine (movet/move) viene impiegato inoltre da Virgilio dopo la coppia di quesiti che incalzano l’eroe, mentre da Tasso prima: Quid struis? Aut qua spe libycis teris otia terris? Qual sonno o qual letargo ha sì sopita la tua virtute? O qual viltà l’alletta? Eneide, IV, 271 Gerusalemme liberata, XVI, XXXIII, 1-2 A queste parole sia Enea che Rinaldo restano sconcertati: At vero Aeneas aspect obmutuit amens, Arrectaque horror comae et vox faucibus haesit. Ardet abire fuga monitu imperioque deorum Tacque, e ‘l nobil garzon restò per poco Spazio confuso e senza moto e voce. Ma poi che diè vergogna a sdegno loco, sdegno guerrier de la ragion feroce, e ch’al rossor del volto un nuovo foco successe, che più avampa e più coce […] Eneide, IV, 279-281 Gerusalemme liberata, XVI, XXXIII, 1-6 Virgilio «reduplica la designazione del mutismo impaurito»99, e la seconda espressione sembra riecheggiare – con una completo stravolgimento di significato ‒ l’Incipit effari mediaque in voce resistit (IV, 76) con cui Virgilio si esprimeva l’affiorare della prima emozione d’amore della regina 98 Cfr. G. BARBERI SQUAROTTI, Le cortesie e le audaci imprese: moda, maghe e magie nei poemi cavallereschi, Lecce, Manni, 2006, pp. 149 e passim. 99 C. SCARPATI, op. cit., p. 49. 191 fenicia nei confronti di Enea. Ma anche la soluzione di Tasso rappresenta una variazione, in questo caso chiastica, di quanto detto, nel combattimento di Tancredi e Clorinda, a proposito della morte di quest’ultima (La vide e la conobbe e restò senza / e voce e moto. Ahi vista! Ahi conoscenza!, XII, LXVII, 7-8). Lo sconcerto – evidenziato da Virgilio fonicamente con il perfetto di obmutesco carico di suoni cupi (o/u/u) e da Tasso prosodicamente con la posizione del passato remoto in apertura di verso – genera sdegno e vergnogna: l’ardet di Enea è reso infatti perifrasticamente con un costrutto ricco di termini afferenti alla sfera del fuoco (rossor, foco, avampa, coce). Tale sentimento risalta ancor più nel dubbio (esemplificato dai due angosciosi quesiti che Enea e Rinaldo pongono a loro stessi in apertura di verso) che assale entrambi i protagonisti delle vicende, com dimostra il raffronto dei passi: Heu quid agat? Quo nunc reginam ambire furentem Aurea adfatu? Quae prima exordia sumat? Atque animum nunc huc celerem, nunc dividit illuc In partisque rapit varias perque omnia versat. Or che farà? Dée su l’ignuda arena Costei lasciar così tra viva e morta? Cortesia lo ritien, pietà l’affrena, dura necessità seco ne ‘l porta parte, e di lievi zefiri è ripiena la chioma di colei che gli fa scorta. Vola per l’alto mar l’aurata vela: ei guarda il lido, e ‘l lido ecco si cela Eneide, IV, 283-286 Gerusalemme liberata, XVI, LXII Che più dirò? Con più parole aspre e nove perch’io mi parta, pien d’ira e terrore, suo figlio m’ha mandato el Sommo Giove. Fraudar per te potrei mio genitore? Fraudar l’unico mio figliol dilecto? Fraudar me stesso, tanto sforza Amore? Ma come frauderò laltro precepto Del Re de’ Cieli? A solcar l’onda infida, se ben repugno, al fin sarò costretto. Temo anchor che me te rebbelle uccida E, posto, io sol perissi, è miglior fructo Che da te Mar, non Morte, mi divida. Unici ex quarto Aeneidos Sempre all’universo semantico del fuoco appartiene anche il lemma fiamma: Non entra Amor a rinovar nel seno, che ragion congedò, la fiamma antica (XVI, LII, 1-2): in questo incipit (da mettere in relazione con il verso Ove ragione impera, amore è un niente, Rinaldo, II, III, 49), Tasso raccoglie il testimone che si era tramandato, proprio a proposito di Didone, da Virgilio a Dante100. Ma l’eco di questa iunctura virgiliana era stata colta, prima di Tasso, anche da Bernardo Accolti nella sua rilettura dell’episodio di Didone, come dimostra «il petrarchesco appello ai fedeli d’amore» 100 Cfr. Capitolo III, pp. 119-120. 192 Spiriti in mar di lacrime conversi, se ‘n voi l’antiqua fiamma arde o respira, udite el suon de’ lamentabil versi.101 Nel passaggio dalla Gerusalemme liberata alla Gerusalemme conquistata il personaggio di Armida viene sottoposto a profonda revisione, specie dopo la partenza di Rinaldo102. In relazione a Didone, interessa rilevare come il nesso spargitur / sparse / sparsa relativo al motivo della donna abbandonata, che da Virgilio conduce a Manzoni, riceve nella versione matura del poema tassiano ulteriore conferma nella chiusa Sparsa il crin, bieca gli occhi, accesa il volto (Gerusalemme conquistata, XIII, LIX, 8) dove la concatenazione asindetica contiene un anticipo dell’attacco del coro dell’Adelchi, e al contempo riprende il motivo poc’anzi discusso, che Tasso media da Virgilio, dello sguardo carico d’odio rivolto all’uomo in fuga103 . 101 Cfr. S. SIGNORINI, op. cit., p. 175. 102 Cfr. G. PICCO, «Idol si faccai un dolce sguardo e un riso»: Armida, in «Studi tassiani», XL-XLI, 19921993, pp. 76 e passim. Cfr. anche D. DELLA TERZA, Armida dalla “liberata” alla “conquistata”. Genesi ed evoluzione del personaggio, in «Torquato Tasso quattrocento anni dopo. Atti del convegno di Rende, 24-25 maggio 1996», a cura di A. DANIELE, F. W. LUPI, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1997, pp. 47-60. 103 Un’altra connessione si potrebbe evidenziare nel palese calco che Tasso opera su un passaggio del Triumphus Pudicitie di Petrarca. Mentre nella Gerusalemme liberata Armida parte per il campo egiziano, riapparendo in seguito, nella Gerusalemme conquistata non comparirà più: nell’ottava LXX, in cui si descrive la sua umiliazione, si dice di lei: E con quel laccio sì tenace e saldo / legò le braccia, e i piè fugaci e snelli / co’ nodi d’adamante e di topazio (5-7); nel Triumphus Pudicitie Amore viene per l’appunto legato con una catena di diamante e di topazio (122): «significativo il valore delle pietre con cui la maga viene legata alla roccia: il diamante è figura della Fortitudo, il topazio significa il possesso di tutte le virtù, ed è specificamente usato contro la lussuria», G. PICA, op. cit., p. 79 nota 37. 198 Capitolo V DIDONE A CORTE E A TEATRO 199 §1 Roma “cauda mundi” nel Dialogo in cui la Nanna insegna a la Pippa di Pietro Aretino Nella seconda giornata del Dialogo di Messer Pietro Aretino1 (1536) l’episodio virgiliano di Didone viene fatto oggetto di una riscrittura che, se in alcuni momenti si accosta ad una libera traduzione, ne fornisce in ultima istanza una parodica versione/rielaborazione in prosa – con le dovute differenze tra i rispettivi contesti – volta ad assecondare la verve polemica dello scrittore toscano. Proprio la capacità di decostruire e transcodificare il testo dell’Eneide costituisce infatti l’aspetto più interessante dell’opera di Aretino2 : mediante la messa in crisi della stessa struttura narrativa, questa moderna pratica di «Kreuzung der Gattungen»3 , o per meglio dire, di «accavallamento reciproco» o «aggressione ai “generi”»4 , comporta una indubbia anticipazione di alcuni stilemi barocchi5 . Solo di recente, comunque, il rapporto Virgilio-Aretino è stato inquadrato correttamente, 1 Il titolo completo è In questa seconda giornata del dialogo di Messer Pietro Aretino la Nanna racconta a Pippa sua le poltronerie degli uomini inverso de le donne. Per quel che concerne il titolo generale dell’opera, spiega P. PROCACCIOLI (Nota al testo, in P. ARETINO Ragionamento – Dialogo, Introduzione di N. BORSELLINO, Milano, Garzanti, 1984, p. XXXIX): «non fissato dall’autore (che pubblicò separatamente il Ragionamento della Nanna e della Pippa [1534] e il Dialogo di Messer Aretino nel quale la Nanna…insegna a al Pippa…[1536]), fin dalle prime edizioni complessive è stato adattato, nell’una o nell’altra delle forme più volgate, sulla base di ricostruzioni e ipotesi più o meno probanti». Una dettagliata analisi del brano aretiniano è quella di G. MARCONI, Un aemulatio…a degrado (P. Aretino, “Giornata 2,2: del barone e della signora), «Quaderni della “Rivista di cultura classica e medievale”», PisaRoma, Istituti editoriali e poligrafici internazionali, 2001. 2 Cfr. R. SALINA BORELLO, D’amoroso strale – per una tipologia delle riscritture, Roma, Edizioni Nuova Cultura, 1994, p. 120. 3 «L’opera è un incontro di commedia e novella, di recitato e narrato, di discorso e di descritto. Con questa impostazione, che meglio risponde alle sue attitudini, l’Aretino soddisfa il suo gusto di contaminare i generi letterari, di rompere gli schemi classici, di trasgredire regole e ordini prefissi, affidandosi alla poetica dell’arbitrio naturalistico», A. PICCONE STELLA, L’arte dell’Aretino, in P. ARETINO, Piacevoli e capricciosi ragionamenti, a cura di A. PICCONE STELLA, Milano, Bompiani, 1944, p. XXXVI. Cfr. anche G. DAVICO BONINO, Aretino e Virgilio: un’ipotesi di lavoro, in «Sigma», n°9, 1966, pp. 41-51. Per una completa e approfondita discussione dell’espressione di Wilhelm Kroll, cfr. «Matrices of Genre: Authors, Canons, and Society», ed. by M. DEPEW and D. OBBINK, Cambridge: Harvard University Press, 2000. A proposito del polimorfismo dello stile di Aretino scrive E. PARATORE: «l’indifferenza ai valori etici superiori, la spregiudicatezza nel volteggiare fra I più diversi contenuti, l’attenzione rivolta sempre di preferenza all’impsto linguistic in quanto carico di familiar e aggressive discorsività e icasticità e sentito quindi come unico mezzo per comunicare simpateticamente col lettore e creare nel suo spirit la suggestion trascinatrice dell’autore, tutto questo è stato interpretato come volute e decisa contrapposizione alla letteratura dei Bembo, dei Castiglione, dei Trissino, come tappa capital di quell moto sotterraneo che avrebbe spinto a poco a poco anche lo stilizzato mondo letterario cinquecentesco, prigioniero della retorica classica, a far erompere dal suo genio i medesimi fermenti che nel mondo della musica, attraverso il Vecchi e il Banchieri, avrebbero liquidato la polifonia vocale di tipo palestriniano legata agli uffici liturgici e aperto la strada alla rivoluzione del Monteverdi […]», Aretino rielaboratore di Virgilio, in Spigolature romane e romanesche, Roma, Bulzoni, 1967, p. 115. 4 G. FERRONI, IL teatro della Nanna, in Le voci dell’istrione. Pietro Aretino e la dissoluzione del teatro, Napoli, Liguori, 1977, pp. 145-146. 5 Come già notato da G. WEISE, Manieristische und frühbrarocke Elemente in den religiösen Schriften des Pietro Aretino, in «Bibliothèque d'Humanisme et Renaissance», T. 19, No. 2 (1957), pp. 170-207. A tale proposito aveva prima osservato A. PICCONE STELLA (op. cit., p. XXI): «L’elemento che per intenderci chiameremo barocco, ha all’esterno, in considerazione della stessa novità ed eccessività, uno spicco rilevantissimo, gli appartengono le frequenti 200 con l’individuazione di un passaggio intermedio sfuggito ai precedenti esegeti. Quello che lo stesso Aretino, indirettamente, sembra adombrare come plagio («Mi pareva che tutta Roma gridasse a la strangolata: Pippa, o Pippa, tua madre latroncella ha furato il Quarto di Virgilio, e vassene facendo bella», esclama alla fine la Pippa), e che tale è stato in parte semplicemente reputato, è in realtà un’attenta operazione cui compartecipano varie categorie letterarie (parafrasi, adattamento, rielaborazione, traduzione) compiuta da un «raffinato esegeta, se non proprio […] traduttorefilologo» attraverso il filtro dell’ «Eneide in terza rima di Tommaso Cambiatore da Reggio, composta intorno al 1430, ma pubblicata postuma a Venezia, presso Bernardino de Vitali, nel 1532»6 . L’occasione narrativa in cui s’inserisce l’ardita parafrasi del testo latino è costituita dal racconto del sacco di Roma da parte della Nanna, una cortigiana il cui compito è quello di insegnare il mestiere alla figlia Pippa7 . Dopo l’introduzione – invenzione dell’Aretino rispetto all’ipotesto8 virgiliano – del sogno di quest’ultima in cui l’autore ha subito modo di dare dimostrazione del suo debordante e colorato stile9 , il racconto della Nanna si accosta subito ai versi dell’Eneide: Conticuere omnes intentique ora tenebant Inde toro pater Aeneas sic orsus ab alto: «Infandum, regina, iubes renovare dolorem, Troianas ut opes et lamentabile regnum Eruerint Danai, qua eque ipse miserrima vidi Et quorum pars magna fui. Quis talia fando Myrmidonum Dolopumve aut duri miles Ulixi Temperet a lacrimis? Et iam nox umida caelo Praecipitat suadentque cadentia sidera somnos. Sed si tantus amor casus cognoscere nostros Et breviter Troiae supremum audire laborem, quamquam animus meminisse horret luctuque refugit, Incipiam. […] «Allora il barone, volendo ubidire ai comandamenti de la sua supplica, traendo uno di quei sospiri che malandrinamente escano dal fegato d’una puttana che vede una borsa piena, disse: «Da che la tua Altezza, signora, vuole che io rammenti quello che mi fa portare odio a la mia memoria che se ne ricorda, io ti narrarò come la imperatrice del mondo diventò serva di gli Spagnuoli, e dirotti anco quel che io viddi di miseria: ma qual marrano, qual todesco, qual giudeo sarà sì crudele che racconti cotal cosa ad altrui senza scoppiar di pianto?» Eneide, II, 1-13 Tra i calchi più evidenti, praticamente una traduzione letterale, c’ è subito quello dei versi 10-11 del testo virgiliano che – mediante il passaggio dantesco ([…] Tu vuo’ ch’io rinnovelli / disperato dolor personificazioni degli astratti, il vuoto e lambiccato concettismo, le agudezas, lo spreco dei tropoi, l’abuso delle antitesi, il falso rigoglio ornamentale, l’impiego dell’aggettivo come sostantivo, la disposizione multipla, al plurale, e speso al superlativo, degli aggettivi e dei verbi». 6 L. BORSETTO, Traduzione e furto nel Cinquecento: in margine ai volgarizzamenti dell’”Eneide”, in Riscrivere gli Antichi, riscrivere i Moderni e altri studi di letteratura italiana e comparata tra Quattrocento e Ottocento, Alerssandria, Edizioni dell’Orso, 2002, p. 25. 7 Per la presenza delle prostitute nella Roma rinascimentale cfr. G. MARCONI, 48-51. 8 Anche in questo caso, come nei precedenti capitoli, si usa il termine «ipotesto» seguendo l’accezione fornita per tale lemma da G. GENETTE, Palimpsestes. La littérature au second degré, Paris, Seuil, 1982, p. 11. 9 Cfr. la descrizione degli animali che Pippa vede intorno al suo letto«di broccato riccio»: «intorno a me si raggiravano buoi, asini, pecore, bufalacci, volpi, pavoni, barbagianni e merloni, i quali né per iscorticargli, né per iscardassargli il pelo, né per trargli le penne e maestre e de la coda, né per berteggiarli, non si movevano; anzi mi leccavano da capo a piei». 201 che ‘l cor mi preme, Inferno, XXXIII, 4-5) – diventano «se la tua volontà è di sapere i nostri casi (casus cognoscere nostros, v. 10), se bene mi rinovano i dolori (quamquam animus meminisse horret luctuque refugit, v. 12), a dirgli cominciarò (incipiam, v. 13). La medesima contestualizzazione temporale, in entrambi i casi notturna, […] Et iam nox umida caelo Praecipitat suadentque cadentia sidera somnos «Signora, egli è ora di dormire, e già le stelle spariscano via; […]» Eneide, II, 8-9 subisce però in Aretino, che ancora una volta traduce il secondo elemento della frase quasi alla lettera, un sensibile «slittamento nel quotidiano e nel banale»10. Il primo segnale forte dell’intento, al contempo polemico nei confronti dell’eroe eponimo virgiliano e rivoluzionario rispetto al testo di riferimento, consiste nella descrizione del narratore Enea/«barone»: dall’incanto epico che avvolge l’uditorio cartaginese, su cui si gioca il passaggio dal I al II libro, si passa infatti ad «uno di quei sospiri che malandrinamente escano del fegato d’una puttana che vede una borsa piena». Con maggior precisione, Nanna presenta nei seguenti termini, eloquentemente spregevoli 11 , il protagonista della sua narrazione: «Un barone romanesco, non romano, uscito per un buco del sacco di Roma, come escano i topi, essendo in non so che nave, fu gittato con molti suoi compagni da la bestialità dei venti pazzi al lito di una gran cittade de la quale era padrona una signora che non si può dire il nome». Se quindi il barone (appellativo portatore di un doppio significato: in senso ironicamente positivo in quanto titolo d’alto rango, ma anche accrescitivo di baro12) viene subito assimilato ad un topo (un’altra anfibolia è contenuta nell’espressione «uscito per un buco del sacco di Roma») che “esce”, cioè senza opporre alcuna resistenza attiva, dalla città13, la protagonista femminile viene subito designata quale «signora», e un indubbio tono positivo viene ancora usato nei confronti di quest’ultima, allorquando vengono narrati i primi soccorsi prestati al naufrago: «Ma la signora, cacciategli a le forche con uno alzar di testa, se gli fece incontra: e con aspetto grazioso e con atto benigno, lo confortò; e adagiatolo nel suo palagio, fece ristorar la nave e i navicanti più che signorilmente; e visitato il barone, il quale s’era tutto riavuto, stette a udire il proemio, la diceria, il sermone e la predica che le fece, dicendo che egli si scorderia de la sua gentilezza quando i fiumi correranno all’insù (uomini traditori, uomini bugiardi, uomini falsi); […]». 10 R. SALINA BORELLO, op. cit., p. 81. 11 Sulla valenza dell’espressione offensiva «romanesco, non romano» cfr. G. MARCONI, op. cit., p. 63. 12 Per l’etimologia del lemma e le connessioni lessicali con i termini “bareria” e “barreria” presenti in Leonardo da Vinci e Ariosto cfr. G. MARCONI, op. cit., 62 nota 119. 13 Sottile, ma significativo, è il capovolgimento operato da Aretino rispetto agli avvenimenti della storia romana: «Cartagine nel mito subiva un brutto contraccolpo dall’affare Enea-Didone e nella realtà la piena distruzione ad opera di Roma, nella storia moderna invece Roma è a sacco e la salvezza del barone ha luogo a Venezia = Cartagine», G. MARCONI, op. cit., p. 65. 202 La scrittura dell’Aretino è tutta volta ad inserire in un contesto prosastico di cruda cronaca cortigiana i vari artifici retorici presenti nella poesia dell’ipotesto, come dimostrano ad esempio l’adunaton dei fiumi che «correranno all’insù» e la doppia anafora («uomini traditori, uomini bugiardi, uomini falsi») in cui si condensa tutto l’astioso livore polemico che la narratrice nutre nei confronti del genere maschile. E proprio a questo riferimento non è casuale che il barone, icasticamente dipinto come un anti-eroe: «povero uomo sceso in terra molle, rotto, smorto, rabuffato, e più simile a la paura che non è a la furfanteria le corte d’oggidì»14 provenga proprio da Roma, di cui Enea, designato dal Fato fondatore e in virtù di ciò “assassino” di Didone, è simbolo. Analogamente, proprio di Roma viene dato un quadro non troppo dignitoso: «ecco le botti guardiane di ponte Sisto che si sbarrattano; ecco lo essercito che di Trastevere si sparpaglia per Roma: già i gridi si odano, le porte vanno per terra, ognun fugge, ognun si asconde, ognun piange. Intanto il sangue bagna lo spazzo, la gente si ammazza, i tormentati raitano, i prigionieri pregano, le donne si scapigliano, i vecchi tremano: e volta la città coi piedi in suso, beato è quello che muor tosto o, indugiando, trova chi lo spaccia». Ancora una doppia anafora è utilizzata per ribadire un dilagante comportamento pavido e fedifrago (fuga, occultamento, pianto), diametralmente opposto alla rabbiosa e disperata resistenza dei Troiani incitati da Enea: Quos ubi confertos audere in proelia vidi, Incipio super his: “iuvenes, fortissima frustra Pectora, si vobis audentem extrema cupido Certa sequi, quae sit rebus fortuna videtis. Excessere omnes adytis arisque relictis Di quibus imperium hoc steterat; succurritis urbi Incensae: moriamur et in media arma ruamus. Una salus victis nullam sperare salutem”. (Eneide, II, 347-354) o al valore grazie a cui proprio il figlio di Anchise si distingue su tutti, nel testo virgiliano: Extemplo Aeneae solvuntur frigore membra: ingemit et duplicis tendens ad sidera palmas talia voce refert: O terque quaterque beati, quis ante ora patrum Troiae sub moenibus altis contigit oppetere, o Danaum fortissime gentis Tydide, mene Iliacis occumbere campis 14 «assumendo il mito classico, senza assumerne l’ideologia, la narratrice ribalta gli schemi consueti, per cui risulta positiva la figura femminile, generosa e appassionata, capace di slanci e di abbandoni, mentre su quella maschile viene addossata quella falsità e calcolo, che un certo tipo di cultura attribuisce tradizionalmente, siano esser “oneste” o, come si usava dire, “disoneste”», ivi, p. 85. 203 non potuisse tuaque animam hanc effundere dextra, saevus ubi Aecidae telo iacet Hector, ubi ingens Sarpedon, ubi tot Simois correpta sub undis scuta virum galeasque et forti a corpora volvit? (Eneide, II, 92-101). E il virtuosismo dello scrittore cortigiano dilata – traducendo comunque alla lettera il verbo principale obstipuit/«stupiva», fatta salva però la differenza tra la secca puntualità del perfetto e la continuità d’azione dell’imperfetto ‒ l’icasticità virgiliana nella descrizione della profondità dell’emozione che Enea/«barone» suscita nella persona di Didone e della «signora»: Obstipuit primo aspectu sidonia Dido « e rimirandogli il petto e le spalle, stupiva, fornendosi di traboccar di meraviglia nel contemplare l’alterezza de la sua faccia; i suo occhi pieni di onore la facevano sospirare, e i capegli di niello anellato, perdersi fatto a fatto» Eneide, I, 612 per la quale ricore il medesimo uso verbo bibebat/«beeva»: in questo caso Aretino mantiene l’imperfetto al fine di rendere meglio il senso durativo della funesta dilatazione del formarsi del sentimento : Infelix Dido longumque bibebat amorem, « e mentre frappava romanzescamente, la meschina, la poveretta, la sempliciotta se lo beeva con gli sguardi» Eneide, I, 749 Se il verbo è usato, benché in accezione differente, in entrambi i casi in senso traslato/sinestetico, Aretino opera però, ancora una volta, un brusco cambio di registro sviluppando il cruciale aggettivo posto in principio d’esametro Infelix con un costrutto anaforico basato su una climax discendente di termini volutamente non solo anti-epici, ma anche afferenti al gergo popolare. La polemica dello scrittore toscano sembra cristallizzarsi anche nella descrizione dell’offerta dei doni in occasione del banchetto – con un altro voluto scarto che dalla magnificenza epica del contesto virgiliano cade nel caricaturale – in cui la caustica attenzione descrittiva si sofferma sulle suppellettili papali15, non più regali: Munera praeterea Iliacis erepta ruinis Ferre iubet, pallam signis auroque rigentem Et circumtextum croceo velamen acantho, Ornatus Argivae Helenae, quos illa Mycenis, Pergama cum peteret inconcessosque hymenaeos, Extulerat, matris Ledae mirabile donum; Praeterea sceptrum, Ilione quod gesserat olim, Maxima natarum Priami, colloque monile Bacatum, et duplicem gemmis auroque coronam. «Una mitrea di brocciatello che Sua Santità portava a capo il dì de la Cenere; un paio di scarpe con lavori di nastro d’oro, le quali teneva in piedi quando Gian Matteo gliene basciuccava; il pastorale di papa Stoppa, volsi dir Lino; la palla de la guglia, una chiave strappata di mano al sampietro guardiano de le sue scale; una santa santo rum, le quali la sua prosopopea, secondo lo sbaiaffar tovaglia del tinello secreto di Palazzo e non so quante reliquie di suo, aveva scampate di mano dei nimici. In questo compare un valente ribichista: e accordato lo stromento cantò di strane chiacchiere» 15 Cfr. a questo proposito G. MARCONI, Atteggiamento antireligioso e antipapalino, op. cit., pp. 19-21. 204 Eneide, I, 647-655 Un altro confronto tra i versi virgiliani di chiusa del I libro dell’Eneide, relativi alla performance di Iopa, e la parte in cui viene descritto il contenuto dei canti del suonatore di ribeca16 può esser utile per capire in quale direzione operi lo stravolgimento di stile e carattere operato dall’Aretino: Hic canit errantem lunam solisque labores, Unde hominum genus et pecudes, unde imber et ignes, Arcturum pluviasque Hyadas geminosque Triones, Quid tantum Oceano properent se tingere soles Hiberni, uel quae tardis mora noctibus obstet; «De la nimicizia che ha il caldo col freddo e il freddo col caldo; cantò perché la state ha i dì lunghi e il verno corti; cantò il parentado che ha la saetta col tuono e il tuono col baleno, il baleno col nuvolo e il nuvolo col sereno; e cantò dove sta la pioggia quando è il buon tempo e il buon tempo quando è la pioggia; e cantò de la gragnuola, de la brina, de la neve, de la nebbia; cantò, secondo me, de la camera locanda che tiene il riso quando si piagne, e di quella ch tiene il pianto quando si ride; e in ultimo cantò ch fuoco è quello che arde il culo de la lucciola, e se la cicala stride col corpo o con la bocca» Eneide, I, 742-746 Se il registro dell’ipotesto non perde mai il riferimento mitico-cosmogonico, quello del travestimento cinquecentesco assume infatti sfumature cangianti: mediante una serrata e incalzante struttura paratattica, volutamente ripetitiva, si parte da una tematica ‘alta’ (metereologia) per terminare nella facezia scurrile. Per un’analisi diacronica dell’evoluzione e degli sviluppi che Didone subisce nel corso del progredire delle stagioni letterarie, è importante notare come, nel caso del Dialogo dell’Aretino, si assista ad un nuovo tipo di riabilitazione della regina cartaginese, che per certi versi si riallaccia a quella operata dai Padri della Chiesa e successivamente approfondita da Boccaccio e poi – in velata polemica antidantesca – da Petrarca17. Anche in relazione con quanto detto nei capitoli precedenti circa il tradimento della fides18è inoltre importante riportare il passo in cui la Nanna sembra tradurre fedelmente lo sfogo di Didone: Dissimulare etiam sperasti, perfide, tantum «Credesti, disleale, trafurarti di qui senza mia saputa, ah? E ti basta la vista, che l’amor nostro, la fede 16 Strumento cordofono di origine araba e medievale, dal timbro acuto, che insieme alla viella e al liuto serviva ad accompagnare solitamente le performances di menestrelli e cantori. 17 «Lavorando su un palinsesto che ben si prestava a una reinterpretazione moderna della vicenda narrata nell’Eneide, lo scrittore fiorentino ha voluto restituire alla regina cartaginese quella dignità eroica che i padri della Chiesa e, sulla loro scorta, il Petrarca dei Trionfi e il Boccaccio del De mulieribus claris avevano ribadito con forza, insistendo sulla castità e sulla fedeltà alla memoria del marito scomparso: la storia d’amore con il principe esule non viene cancellata, ma anzi fornisce il pretesto per sottolineare l’importanza di un gesto suicida che avvicina Didone agli eroi del passato e che la riscatta agli occhi del suo popolo. Esprimendo una decisa condanna della furia emotiva che ha guidato le sue azioni, la sovrana cartaginese acquisisce una straordinaria coscienza di sé: il Pazzi riesce così a creare un personaggio drammatico dal forte spessore psicologico, da cui altri partiranno per dare vita alle figure femminili che animeranno la scena cortigiana del secondo Rinascimento», P. COSENTINO, Tragiche eroine. Virtú femminili fra poesia drammatica e trattati sul comportamento, in «Italique», IX, 2006, p. 76. 18 Capitolo II paragrafo 1 e Capitolo IV pp. 188-189. 205 Posse nefas tacitusque mea decedere terra? Nec te noster amor nec te data dextera quondam Nec moritura tenet crudeli funere Dido? Quin etiam hiberno moliri sidere classem Et mediis properas Aquilonibus ire per altum, Crudelis? Quid, si non arva aliena domosque Ignotas peteres, et Troia antiqua maneret, Troia per undosum peteretur classibus aequor? Mene fugis? Per ego has lacrimas dextramque tuam te (Quando aliud mihi iam miserae nihil ipsa reliqui), Per conubia nostra, per inceptos hymenaeos, Si bene quid de te merui, fuit aut tibi quicquam Dulce meum, miserere domus labentis et istam, Oro, si quis adhuc precibus locus, exve mentem. Te propter Libycae gentes Nomadumque tyranni Odere, infensi Tyrii; te propter eundem Exstinctus pudor et, qua sola sidera adibam, Fama prior. Cui me moribundam deseris hospes (Hoc solum nomen quoniam de coniuge restat)? Quid moror? An mea Pygmalion dum moenia frater Destruat aut captam ducat Gaetulus Iarbas? Saltem si qua mihi de te suscepta fuisset Ante fugam suboles, si quis mihi parvolus aula Luderet Aeneas, qui te tamen ore referret, Non equidem omnino capta ac deserta viderer. promessa e la morte a la qual son disposta non possa ritenerti del partir deliberato? Ma tu sei pur crudele ancor in ver te stesso, da che vuoi navicare or che il vento è ne la maggior furia de l’anno; dispietato, che non solamente non doveresti cercare i paesi strani, ma non ritornare a Roma per tali tempi, se bene ella fosse più in fiore che mai: tu fuggi me, crudo; me fuggi, empio. Deh! Per queste lagrime che mi si movano dagli occhi, e per questa destra che dee por fine al mio martire, e per le nozze cominciate da te, e se per le dolcezze in me gustate merito nulla, abbi pietà del mio stato e de la mia casa che, tu partendo, cade; e se i preghi che piegano fino Iddio hanno luogo nel tuo petto, spogliati questa volontà di partire: già per essermiti data in preda son venuta in odio non solo ai duchi, ai marchesi e ai signori dei quali refutai il matrimonio, ma mi hanno a noia i propi miei concittadini e vassalli; e mi par tuttavia esser prigiona di questo o di quello. Ma ogni cosa si potria sopportare se io avessi un figliol di te, il qual giocando mostrasse ad altrui le tue fattezze e la tua faccia propia»- Così ella gli disse singhiozzando e piengendo. Eneide, IV, 305-330 In sottile variatio rispetto all’ipotesto, l’accorata interrogativa Mene fugis? (v.314) viene resa con la rabbiosa e disincantata asseverativa «tu fuggi me, crudo; me fuggi, empio», dove il doppio insulto in ultima posizione chiude due rapide constatazioni in cui verbo e oggetto sono volutamente poste in posizione chiastica; come Enea chiama poi a raccolta i compagni dopo l’apparizione di Mercurio, così il «barone» ‒ non a caso denominato «gaino», storpiatura diminutiva del nome Gano di Maganza, traditore per antonomasia secondo la tradizione cavalleresca – si appella ai propri accoliti: questo, ovviamente, solo dopo essere stato adeguatamente «sfamato, rivestito e rifatto a suo modo». L’accenno al «figliol» contenuto nella chiusa dello sfogo costituisce inoltre la dilatazione di un motivo solo abbozzato da Virgilio e sviluppato da Ovidio19 . Con una attenta e sensibile differenziazione dei registri, se il comico-grottesco (con punte di grevità popolana) domina in 19 Saltem si qua mihi de te suscepta fuisset Ante fugam suboles; si quis mihi parvulus aula Luderet aeneas, qui te tamen ore referret, Non equidem omnino capta ac deserta viderer. Accedet fatis matris miserabilis infans, Et non dum nati funeris auctor eris, Cumque parente sua frater morietur Iuli, Poenaque conexos bufere una duos. Eneide, IV, 327-330 Heroides, VII, 135-138 206 relazione al barone, per quanto concerne la protagonista femminile, soprattutto in questo caso, non si registra alcuno «scadimento rispetto al livello sublime e tragico del modello»20; un’eccezione è però costituita dalla resa aretiniana del passaggio virgiliano relativo ai riti magici operati da Didone (non a caso si è parlato di metamorfosi Da ‘sacerdos’ a uccello del malaugurio21): Nox erat et placidum carpebant fessa soporem corpora per terras, silvaeque et saeva quierant aequora, cum medio volvuntur sidera lapsu, cum tacet omnis ager, pecudes pictaeque volucres, quaeque lacus late liquidos quaeque aspera dumis rura tenent, somno positae sub nocte silenti. [lenibant curas et corda oblita laborum] at non infelix animi Phoenissa, neque umquam solvitur in somnos oculisve aut pectore noctem accipit: ingeminant curae rursusque resurgens saevit amor magnoque irarum fluctuat aestu «Ella chiamò streghe, fantasime, demoni, versiere, fate, spiriti, sibille, lune, sole, stelle, arpie, cieli, mari, inferni, e altri diavola menti; sparse acque nere, polvere di defunti, erbe secche a l’ombra; disse parole intrigate, fece segni, caratteri, visi strani, bisbigliò con seco medesima: e non fu mai santo che mostrasse di avere cura degli amanti falsi. Era mezzanotte quando incantava a credenza: e i gufi, gli allocchi, e le nottole dormivano sonnecchiando; solo ella non poteva carpire il sonno con gli occhi, anzi amore tuttavia la tormenta di più». Eneide, IV, 522-532 Analogamente, una sensibile differenza emerge confrontando i versi virgiliani […] haerent infixi pectore voltus / Verbaque (Eneide, IV, 4-5) e Quem sese ore ferens, quam forti pectore et armis (ivi, v. 11) con il corrispondente passo aretiniano « rimirandogli il petto e le spalle», con cui «all’impianto ingegnosamente e coerentemente psicologico dell’episodio virgiliano si sostituisce la brusca e bruta attrazione fisica della mentalità popolare»22 . La componente magica che nutre di sé il tratto misterico di Circe e Medea, per manifestarsi in maniera meno caratterizzante anche in Didone, subisce nel Ragionamento un radicale cambio di registro, tra il popolano e il comico, finendo quasi per dare della «signora» un ritratto orientato sul grottesco, per certi versi anticipatore di quella Zia Sidòra Pentagora che aprirà la prima versione de L’esclusa di Luigi Pirandello. É inoltre interessante notare come Aretino intenda in maniera diversa, rispetto al testo virgiliano,, il riferimento che la donna ferita fa alla mano destra: se infatti Didone (Nec te noster amor nec te data dextera quondam, IV, 307) ha in mente la mano di Enea, la cui proditoria stretta le torna dolorosamente in mente in tutta la sua fallacia, nel testo in prosa la protagonista allude alla propria mano destra («e per questa destra che dee por fine al mio martire»), che a breve si rivelerà diretto mezzo di morte. Questo è anche coerente con una indubbia volontà di screditare ulteriormente il fuggitivo e il suo ben poco eroico comportamento, e ciò emerge bene anche dalla parafrasi dell’incipit del ‘secondo atto’23, con una fedele traduzione della preposizione avversativa At: 20 R. SALINA BORELLO, op. cit., p. 97. 21 Ivi, p. 108. 22 E. PARATORE, op. cit., p. 125. Vale la pena di notare come Paratore richiami il suo stesso commento (ivi, p. 124 nota 6) al verso 11 dell’Eneide in connessione con questo scarto aretiniano: «Didone, anche quando confida il suo turbamento alla sorella, mette in primo piano la suggestione morale che promana dalla figura di Enea». 23 Cfr. Capitolo II p. 63. 207 At regina dolos (quis fallere possit amantem?) Praesensit motusque exepit prima futuros, Omnia tuta timens. Eadem impia Fama furenti Detulit, armari classem cursumque parari. Saevit inops animi totamque incensa per urbem Bacchatur, qualis commotis excita sacris Thias, ubi audito stimulant trieterica Baccho Orgia nocturnusque vocat clamore Cithaeron. «Ma chi po’ gittar la cenere negli occhi degli innamorati, i quali veggano quello che non si vede e odano quello che non si sente? Prima ella vide le cose sottosopra, onde si accorse che la buona limosina voleva fare con la sua nave il leva eius: e posta in furor per ciò, senza lume e senza animo correva per la terra come insensata; e giunta inanzi al barone col viso smorto, con gli occhi molli e con le labbra asciutte, snodò la lingua in groppata nei lacci de la passione […]» Eneide, IV, 296-303 come d’altronde fondamentalmente vicino all’originale è anche il passo che narra la confessione dell’innamoramento alla sorella: Anna soror, quae me suspensam insomnia terrent! Quis novos hic nostris successit sedibus hospes, Quem sese ore ferens, quam forti pectore et armis! Credo equidem, nec vana fides, genus esse deorum. Degeneres animos timor arguit. Heu, quibus ille Iactatus fatis! Quae bella exhausta canebat! Si mihi non animo fixum immotumque sederet Ne cui me vinclo vellem sociare iugali, Postquam primus amor deceptam morte fefellit; Si non pertaesum thalami taedaeque fuisset, Huic uni forsan potui succumbere culpae. Anna (fatebor enim) miseri post fata Sychaei Coniugis et sparsos fraterna caede penatis Solus hic inflexit sensus animumque labantem Impulit. Agnosco veteris vestigia flammae. Sed mihi vel tellus optem prius ima dehiscat Vel pater omnipotens adigat me fulmine ad umbras, Pallentis umbras Erebo noctemque profundam, Ante, pudor, quam te violo aut tua iura resolvo. Ille meos, primus qui me sibi iunxit, amores Abstulit; ille habeat secum servetque sepulcro". «che ti pare del peregrino giunto a noi? Vedestù mai il più bello aspetto del suo? Che miracoli devé fare con l’arme in mano mentre si combatteva Roma! Non po’ essere che non sia nato di gran seme: certamente se io, da poi che la morte mi furò il primo consorte, non avessi fatto boto di vedovanza, forse forse che io mi sarei volta a questa colpa e a costui solo; e certo, sorella, io non mi ti nascondo, anzi ti giuro per la nuova affezione che io porto a la nobiltà del forestiero, che poi che egli morì, il mio core è stato scarsissimo d’amare; e ciò mi avviene per conoscere i segni de la fiamma antica, la quale mi consumò tutta in un tratto e non a poco a poco. Ma prima che io faccia disonestade alcuna, aprisi la terra e inghiottiscami viva viva, o saetta dal cielo mi subissi nel profondo; io non son per istracciar le leggi de l’onore; colui che ebbe l’amor mio se lo portò seco ne l’altro mondo, e là ne godrà in seculorum secula» Eneide, IV, 9-29 Oltre a dare il proprio contributo ad alcuni topoi, come quello iniziato con l’espressione virgiliana adgnosco veteris vestigia flammae (Eneide, IV, 22) e il cui testimone è stato raccolto, come visto, da Dante sino a Tasso, o anche quello che da Virgilio (haerent infixi pectore voltus / Verbaque, Eneide, IV, 4-5) passa in Petrarca (e ‘l volto, et le parole che mi stanno / altamente confitte in mezzo al core, RVF, C, 12-13)24 per diventare infine, in Aretino, ancora una volta con brusco cambio di 24 Cfr. Capitolo III, p. 152. 208 registro, «standole fisse nel pensiero la faccia e le parole del cicalone, faceva poco guasto del sonno»25, particolare attenzione meritano alcune scelte terminologiche operate dalla narratrice: è infatti oltremodo significativo, per Aretino, che proprio una prostituta possa porre una particolare enfasi sul «boto di vedovanza», sul concetto cristiano di «colpa» e sulla «disonestade», e particolare sfumatura polemica assume la conclusione della confessione della Nanna, con l’ uso di un’espressione ecclesiastica del tutto distorto26 . In relazione poi a quanto osservato circa il comune denominatore che, da Medea, Arianna e ovviamente Didone, sino ad Olimpia e Armida, unisce nel medesimo dolore i rabbiosi sfoghi delle donne, anche nel caso del Ragionamento aretiniano si registra l’invettiva in cui la «signora» mette in dubbio i nobili natali dell’uomo che si è macchiato di sì poco nobile azione: ‘Nec tibi diva parens, generis nec Dardanus auctor, perfide; sed duris genuit te cautibus horrens Caucasus, Hyrcanaeque admorunt ubera tigres. Nam quid dissimulo, aut quae me ad maiora reservo? Num fletu ingemuit nostro? Num lumina flexit? Num lacrimas victus dedit, aut miseratus amantem est? Quae quibus anteferam? Iam iam nec maxuma Iuno, nec Saturnius haec oculis pater aspicit aequis. Nusquam tuta fides. Eiectum litore, egentem excepi, et regni demens in parte locavi; amissam classem, socios a morte reduxi. Heu furiis incensa feror! Nunc augur Apollo, nunc Lyciae sortes, nunc et Iove missus ab ipso interpres divom fert horrida iussa per auras. Scilicet is Superis labor est, ea cura quietos sollicitat. Neque te teneo, neque dicta refello. I, sequere Italiam ventis, pete regna per undas. Spero equidem mediis, si quid pia numina possunt, supplicia hausurum scopulis, et nomine Dido saepe vocaturum. Sequar atris ignibus absens, et, cum frigida mors anima seduxerit artus, omnibus umbra locis adero. Dabis, improbe, poenas. Audiam et haec Manis veniet mihi fama sub imos.' «Tu non fosti giamai romano, e menti per la gola di esser di cotal sangue; Testaccio, uomo senza fede, ti ha creato di quei cocci di che si ha fatto il monte, e le cagne di quel luogo te han dato il latte; perciò non hai fatto niuno atto compassionevole mentre ho pregato e pianto. Ma dinanzi a chi contarò io i miei casi, poiché lassuso non par che ci sia niuno che risguardi i torti con dritta ragione? Certamente oggi non è più fede alcuna; e che sia il vero, io ricolgo costui sconquassato dal mare27, io gli faccio parte d’ogni cosa, io me gli do e dono: e non basta a far sì che egli non mi abandoni tradita e vituperata; e per più strazio mi vuol far credere che il messo gli sia venuto dal Cielo riferendogli i secreti di Domenedio, il quale non ha a far altro che pigliare i tuoi impacci. Ma io non ti tengo: và pur via e seguita le pedate dei sogni e de le visioni, che certo certo tu rifarai il popolo d’Israelle; ma ho speranza, se vai, che ne patirai le pene tra gli scogli, onde chiamerai il mio nome, augurando la gentilezza e la bontà mia più di sette volte; e io ti seguirò come nimica, e con fuoco e con ferro farò le mie vendette, e quando sarò morta ti perseguitarò con l’ombra, con l’anima e con lo spirito…» Eneide, IV, 365-387 25 Anche per questa donna alle prese con le pene d’amore l’insonnia è un passaggio obbligato della narrazione. 26 Cfr. G. MARCONI, op. cit., pp. 38-40. 27 Nota a questa specifica corrispondenza (eiectum litore/«sconquassato dal mare») ancora Paratore (op. cit., p. 159): «eiectum litore ha fatto difficoltà agli antichi scoliasti e a molti moderni esegeti, per l’uso dell’ablativo semplice litore, sì che Servio e Tiberio Claudio Donato hanno staccato litore da eiectum e lo hanno collegato col successivo egentem. Nello «sconquassato dal mare» che nell’Aretino corrisponde alla frase del testo virgiliano mi sembra d’avvertire un’ardita soluzione che, conservando contro gli scoliasti il collegamento di litore con eiectum, tenda tuttavia a interpretare litus come sinonimo di mare e a far di litore un ablativo di causa efficiente». 209 Il tono sanguigno della reprimenda, lungi dall’essere semplicemente un moderno travestimento plebeo28 del testo virgiliano, è ben diverso dalle sfumature tragico-elegiache proprie del lamento di Didone, che pur in tutta la sua disperazione non perde mai di liricità: ugualmente colorite sono le espressioni della donna allorquando vede che il «barone» ha ormai preso il largo: «Ma perché, tosto che io seppi la sua fellonia, non lo avelenai? O vero, facendolo minuzzare, non mi mangiar la sua carne tremolante e calda? Forse che il farlo era dubbioso o con pericolo: e quando pur ci fosse suto, poteva io venire a peggio di quel che son venuta? E avendo a morire, era pur meglio affogargli prima o ardergli insieme con la lor nave». Ulteriore dimostrazione del radicale cambio di registro rispetto all’ipotesto è ancora il I, sequere Italiam (v. 381) reso – con medesima dittologia verbale ‒ con «và pur via e seguita le pedate», mentre l’iteratio «certo certo» getta un velo di sarcastica sfiducia sui veri motivi della fuga di colui che si dimostra totalmente insensibile («non hai fatto niuno atto compassionevole mentre ho pregato e pianto») di fronte al dolore della donna. D’altronde, l’archetipo virgiliano di Enea non sembra aver mostrato maggior tatto, limitandosi – paradossalmente – ad invitare Didone a non torturarlo con inutili lamenti, dal momento che egli era stato designato quale semplice, quindi sostanzialmente incolpevole, esecutore di un progetto divino: Desine meque tuis incedere teque querellis; Italiam non sponte sequor. (Eneide, IV, 360-361). L’ideale di mascolinità coincidente con il tripudio della (sancta) Romanitas29 è nel testo aretiniano attaccato al cuore, dal momento che l’eroico comportamento del «barone», moderno pius Enea, si adombra sempre di più di triste meschinità: questo viene antifrasticamente evidenziato ancor più dall’affermazione allitterante e rafforzativa «do e dono» pronunciata dalla «signora»; analogamente, dopo l’ultima cruciale esecrazione da parte della donna innamorata, la cui prima frase «Noi non perdaremo perciò la vita senza vendetta» risulta essere l’unico palese stravolgimento dei versi di riferimento Moriemur inultae! / Sed moriamur (Eneide, IV, 659-660), la pochezza del personaggio maschile della vicenda riceve definitiva conferma nella conclusione: Pippa «Che disse il barone quando lo seppe?» Nanna «Che era stata una mattacciuola. […]»; 28 Cfr. G. G. FERRERO, Introduzione a P. ARETINO e A. F. DONI, Scritti scelti, Torino, UTET, 1962. 29 Specie in riferimento alla burlesca descrizione delle suppellettili papali che animano il banchetto della storia, è bene ricordare le circostanze storiche che fanno da sfondo alla vicenda: il sacco di Roma (che si protrasse dal maggio 1827 al febbraio dell’anno seguente) fu compiuto ad opera delle milizie spagnole e di un nutrito contingente di mercenari lanzichenecchi (dodicimila o forse ventimila) di Carlo V, che in tal modo volle punire il papa Clemente VII per aver aderito alla Lega di Cognac. Fu quindi a causa di una scelta del papa ‒ salvo a Castel Sant’Angelo solo grazie al sacrificio della Guardia Svizzera – che Roma conobbe una delle pagine più atroci della modernità. E. PARATORE (op. cit., p. 129 nota 17), trovando conferma in alcuni passaggi della Storia d’Italia di Guicciardini, , pone l’accento sull’ «aggravio del fiscalismo delle finanze pontificie» 210 il «barone», infatti, liquida e banalizza un suicidio mediante un solo lemma con doppio suffisso, di cui il primo peggiorativo (“mattaccia”), e il cui grado positivo («Matta, non fare, perché ne andarai col capo rotto») era stato usato dalla sorella appena messa al corrente dell’infatuazione dalle «signora». Questa polemica aretiniana contro l’archetipo maschile mostra d’altronde già un’importante traccia anche nell’Orlando furioso: Perché le donne più facili e prone A creder son, di più supplicio è degno Chi lor fa inganno. Il sa Teseo e Iasone E chi turbò a Latin l’antiquo regno (XXXIV, XIV, 1-4). In questo piccolo elenco a contrario di eroine abbandonate sono infatti polemicamente nominati non i nomi di queste, bensì quelli degli uomini che, con analogo ed esecrabile comportamento, le hanno lasciate: Enea poi, posto in chiusura e sul quale pesa per di più una sorta di damnatio memoriae, viene ritenuto responsabile (non solo) per la sua fuga da Cartagine, ma anche per l’aver turbato il consolidato equilibrio del re Latino. §2 Una nuova esigenza di «universale utilitate» «amorem inter πάθη, qua voce putat declarari vehementem affectum, qui nos discruciet ac iudicium mentisque tranquillitatem eripiat, qualem fingunt Phaedrae in Hippolitum, Medeae in Iasonem, Didonis in Aeneam»30 «[…] finge Enea appo Didone, ma con falsità intollerabile, i vituperare donna tanto eccellente»31 Queste due citazioni dimostrano bene come, in vari ambiti, la storia di Didone possa venire valutata, a distanza di anni, in mutati contesti storici e culturali, ancora in maniera diametralmente opposta. Ciò è particolarmente interessante ai fini della legittimazione della figura della regina cartaginese quale archetipo tragico. Per un’adeguata contestualizzazione delle tragedie che, nell’arco di ventitre anni (Alessandro Pazzi de’ Medici, 1524 / Giovanbattista Giraldi Cinzio, 1541 / Lodovico Dolce, 1547), vengono composte sul soggetto di Didone32, è necessario inquadrare il nuovo clima in cui questa produzione nasce. La Sofonisba di Trissino, pubblicata nello stesso anno della Didone di 30 E. DESIDERIUS, De ratione concionandi libri quatuor, in Desideri Erasmi Roterodami Opera omnia emendati ora et auctiora ad optimas editiones […], Lugduni Batavorum, Petrus Vander, Band 5 («Quae ad pietatem instituunt»), 1704, p. 978. 31 T. CAMPANELLA, Lettera a Cristoforo Pflug «a’ primi di Luglio 1606», in T. CAMPANELLA, Lettere, a cura di V. SPAMPANATO, Bari, Laterza, 1927, p. 120. 32 Cfr. M. SCHUCHARD, der theatralische Aeneas: Transformationen einer klassischen Gestalt, in «Antike Tradition und neuere Philologien – Symposium zu Ehren des 75. Geburtstages von Rudolf Suhnel», herausgegeben von H.J. ZIMMERMANN, Heidelberg, Winter, 1984, pp. 57-70. Per un inquadramento generale, politico e cultural, dell’operazione di trasposizione in veste teatrale, cfr. J. SEZNEC, La sopravvivenza degli antichi dei. Saggio sul ruolo della tradizione mitologica nella cultura e nelle arti rinascimentali, Torino, Bollati Boringhieri, 1981 e I. TOPPANI, Fortuna e ri-creazione. Temi classici e letterature moderne, Bologna, Pitagora, 1984, pp. 12-17. 211 Alessandro Pazzi, svetta, per innovazioni ed intrinseche qualità stilistiche e poetologiche33, sullo sfondo di una produzione alquanto mediocre34: ma il dato più importante risiede nella difesa della scelta della lingua e nelle connessioni con la Poetica aristotelica. Se per il primo aspetto, relativo ad una nuova idea di lingua quale «traduzione spontanea del rapporto fondamentale dell’uomo col mondo»35, si può trovar conferma nella Dedicatoria a Leone X dello stesso Trissino36 (scritta nel 1515), nonché nell’Epistola delle lettere nuovamente aggiunte nella lingua italiana a Papa Clemente VII (scritta nel 1523 e pubblicata l’anno seguente): «essendo quasi universale opinione che sotto il Pontificato di Vostra Santità, non solamente la Chiesa Romana, ma tutta la Repubblica Cristiana debba ricevere lume, ordine ed augumento; così parimente convenevole cosa mi pare, che sotto il felice nome di quella la pronunzia Italiana sia in qualche parte illuminata ed aiutata»37 per quanto riguarda la ricezione del messaggio dello Stagirita, è utile rifarsi ancora alle parole del letterato veneto che, nella Quinta de Le Sei Divisioni della Poetica (pubblicata postuma nel 1562, ma composta con ogni probabilità tredici anni prima) 38, parla di: «quattro spezie di Tragedie, che tante sono […] le parti di essa, cioè la favola, i costumi, il discorso e le parole […]. L’una dunque […] sarò la complicata, cioè che tutta consista 33 Cfr. M. ARIANI, Utopia e storia nella “Sofonisba” di Trissino e Alla ricerca di uno stile tragico: dalla “Sofonisba” alla “Tullia”, in Tra Classicismo e Manierismo – Il teatro tragico del Cinquecento, Firenze, Olschki, 1974, pp. 9-178 e G. PADOAN, L’avventura della commedia rinascimentale, Padova, Piccin, 1996, p. 42-43 e bibliografia in entrambi i casi indicata. 34 Esempio ne siano la Tragedia di Eustachio romano di Antonio Segni (Firenze, 1511), la tragicommedia Sosanna del frate Tiburzio Sacco (due edizioni del 1524 e 1537), la Tragedia dil maximo et damnoso errore del Notturno Napoletano e i Despecti d’amore di Francesco Fonsi (Siena, 1520). Per un quadro generale della produzione tragica precedente la Sofonisba trissiniana cfr. il datato F. NERI, La tragedia italiana nel Cinquecento, Firenze, Galletti e Cocci, 1904, M. T. HERRICK, Italian Tragedy in the Renaissance, Urbana, University of Illinois Press, 1965, 1-65 e S. DI MARIA, The Italian Tragedy in the Renaissance – Cultural Realities and Theatrical Innovations, Lewisburg, Bucknell University Press/London, Associated University Presses, 2002. 35 E. GARIN, L’Umanesimo italiano, Bari, Laterza, 1965, p. 177. 36 «A la quale [Sofonisba] non credo già che si possa giustamente attribuire il vizio l’essere scritta in lingua italiana, e il non avere ancora secondo l’uso comune accordate le rime, ma lasciatele libere in molti luoghi. Perciò che la cagione la quale mi ha indotto a farla in questa lingua si è […] che avendosi a rappresentare in Italia, non potrebbe essere intesa da tutto il Popolo, s’ella fosse in altra lingua, che italiana, composta; e appresso i costumi, le sentenzie, e il discorso non arrecherebbero universale utilitate e diletto se non fossero intese dagli ascoltanti», cit. in G. TRISSINO, Opere, a cura di S. MAFFEI, Verona, Vallarsi, 1724, tomo I, p. 300. Cfr. B. WEINBERG, A History of Literary Criticism in the Italian Renaissance, University of Chicago Press, vol. I, pp. 369-370. 37 Cfr. “Il castellano” di Giangiorgio Trissino e “Il Cesano” di Claudio Tolomei, Milano, Daelli e comp. Editori, 1864, p. X. 38 Cfr. M. ARIANI, Introduzione a Il teatro italiano – La tragedia del Cinquecento, Torino, Einaudi, 1977, tomo primo, p. XV. La pubblicazione dello scritto aristotelico da parte di Trissino segue il primo grande commento all’opera dello Stagirita che è quello pubblicato a Firenze nel 1548 che sono le Francisci Robortelli Uticensis In librum Aristotelis de arte poetica explicationes e la versione in lingua volgare della Rettorica e Poetica di Aristotele pubblicate nella stessa città, l’anno seguente, da Bernardo Segni. Cfr. E. BONORA, La teoria del teatro negli scrittori del ‘500, in «Il teatro classico italiano nel ‘500 ‒ Atti del convegno dell’Accademia dei Lincei, 9-12 febbraio 1969», Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 1971, pp. 235-236. 212 ne la rivoluzione e ne la ricognizione, e questa arà il suo stato principale nella favola, come è la Ifigenia in Tauris, lo Edipo […], l’altra sarà la passionale, come è lo Aiace, la Sofonisba […] e questa arà il suo stato di discorso, perciò che da esso si preparano le passioni, cioè la misericordia e la tema […] le quali però ancora da le azioni si fanno, ma principalmente sono preparate da li concetti e dal sermone e da l’artificio di quello. La terza […] morale, penso che sia quella che ha la sua principal sede nel costume […] e la quarta […] ne la quale le parole denno avere il luogo precipuo»39 . In Pazzi, contrariamente a quanto operato da Trissino, la lezione aristotelica s’innesta su un terreno forte della metabolizzazione del messaggio proprio del Seneca tragico40. E se già nell’Ecerinis di Albertino da Mussato (fatta salva la trama incentrata sulle vicende di Ezzelino III da Romano) gli elementi di maggior interesse, tutti legati all’ideale classico che permea l’opera, sono legati all’aspetto linguistico e non a particolari aspetti della drammaturgia, lo stesso Alessandro de’ Pazzi, parlando della propria Didone, si esprime nei seguenti termini: «La ove comprender si può tal poema quantunque festino ritener il nome di Tragedia, et non di Comedia, o Tragicomedia, o Dityrambo, o altro tale»41 39 Ivi, tomo II, p. 103. Per l’importanza del lascito aristotelico sul genere del poema epico trissiniano, cfr. E. MUSACCHIO, Il poema epico ad una svolta: Trissino tra modello omerico e modello virgiliano, in «Italica», Vol. 80, No. 3 (Autumn, 2003), pp. 334-352. Per tutte le citazioni di Trissino si è modernizzata la grafia. 40A Ferrara, ad esmepio, i manoscritti sopravvissuti dalle biblioteche di Borso e Ercole I d’Este testimoniano una forte diffusione delle tragedie senecane, cfr. M. T. HERRICK, op. cit., p. 3 nota 4. Per un quadro completo dell’importanza delle tragedie di Seneca in epoca rinascimentale, c G. Billanovich, Appunti per la diffusione di Seneca tragico e di Catullo, in «Medioevo e Umanesimo», XVII, 1964, PP. 147-166 «Les tragédies de Sénèque et le théâtre de la « Renaissance», a cura di J. JACQUOT, Parigi, Edition du Centre Nationale de la Recherche Scientifique, 1964, A. TRAINA,Lo stile “drammatico” del filosofo Seneca, Bologna, Patron, 1974, M. PAGNINI, Seneca e il teatro elisabettiano, in «Dioniso. Rivista di studi sul teatro antico», LII, 1981, pp. 391-413, P. MANTOVANELLI, La metafora del Tieste. Il nodo sadomasochistico nella tragedia senecana del potere tirannico, Verona, Libreria Universitaria Editrice, 1984, G. BRADEN, Renaissance Tragedy and the Senecan tradition. Anger’s Privilege, New Haven-London, Yale University Press, 1985, R. TROMBINO, Seneca e la semiotica del lutto, in «Dioniso. Rivista di studi sul teatro antico», LVIII, 1988, pp. 75-111, M. TREBBI, La struttura dei prologhi senecani, in «Quaderni di Cultura e di Tradizione Classica», nn. 6-7, 1988-1989, pp. 75-83, G. CAJANI, Solitudine e logorio del potere: note su un topos della tragedia senecana, in «Quaderni di Cultura e di Tradizione Classica», nn. 6-7, 1988-1989, pp. 179-184, E. ROSSI, Una metafora presa alla lettera: le membra lacerate della famiglia. ‘Tieste’ di Seneca e i rifacimenti moderni, Pisa, ETS Editrice, 1989, G. MAZZOLI, Il cibo del potere: il mito dei Pelopidi e il Tieste di Seneca, in «Home Edens. Regimi, miti e pratiche dell’alimentazione nella civiltà del Mediterraneo», a cura di O. LONGO e P. SCARPI, Verona, 1989, pp. 335-342, R. DEGL’INNOCENTI PIERINI, ‘Aurea Mediocritas’. La morale oraziana nei cori delle tragedie di Seneca, in «Quaderni di Cultura e di Tradizione Classica», 10, 1992, pp. 155-169; A. BORGO, Lessico parentale in Seneca tragico, Napoli, Loffredo Editore, 1993, «Seneca nella coscienza dell’Europa», a cura di I. Dionigi, Milano, Bruno Mondatori, 1999, P. MANTOVANELLI, La mano levata dei Tantalidi. (Una tradizione di famiglia), in «Colloquio su Seneca», a cura di L. DE FINIS, Trento, Litografica Editrice Saturnia, 2004, pp. 89-105. 41 Per la Didone di Alessandro de’ Pazzi si cita dall’unica edizione disponibile (A. PAZZI DE’ MEDICI, Le tragedie metriche, a cura di A. SOLERTI, Bologna, presso Romagnoli Dall’Acqua, 1887, ristampa anastatica Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1969, p. 140), indicando di volta in volta la pagina. Come osservato già da V. GALLO (Da Trissino a Giraldi ‒ Miti e topica tragica, Manziana, Vecchiarelli, 2005, p. 158 nota 2), quest’unica edizione della tragedia di Pazzi non è purtroppo esente da refusi. 213 e in termini analoghi si esprime Dell’Anguillara nel presentare l’Edippo 42 . E se Francesco Robortello, in riferimento all’idea aristotelica del «διὰ τοῦ ἀναγιγνώσκειν» (Poetica 1462a), scrive: «Nam aliquis vel legens tacitum, vel audiens ad alio recitari sine gesticulatione ulla, aut imitatione, ut utuntur histriones in scena, inhorrescet et sentiet animum suum magna commoveri commiserazione […]»43 ad ulteriore conferma della maggiore importanza accordata alla parola, piuttosto che all’azione in scena, valga proprio l’esordio (vv. 1-7 ) della Sofonisba, dove la protagonista dice: Lassa, dove poss’io voltar la lingua, se non là ‘vela spinge il mio pensiero? Che giorno e notte sempre mi molesta. E come posso disfogare alquanto Questo grave dolor, che ‘l cuor m’ingombra, se non manifestando i miei martiri? I quali ad un ad un voglio narrarti. Proprio grazie a Sofonisba, e ai sensibili punti di contatto che questa ha con Antigone (figura fondamentale per comprendere, pur con alcune importanti differenze, anche certi tratti caratteriali della Rosmunda di Rucellai 44 ), è inoltre possibile trovare un trait d’union – aldilà della corrispondenza tra le tre coppie di donne Antigone/Ismene (sorella) – Didone/Anna (sorella) – Sofonisba/Erminia (cognata, in quanto […] moglie di mio fratello, [v. 1820], ma con funzione sororale) – tra la figlia di Edipo e la regina cartaginese: entrambe, infatti, aprono il loro ultimo sfogo con un’invocazione al sole che dalla parodo dell’Antigone passa – via Eneide – al coro della Sofonisba ἀκτὶς ἀελίου, τὸ κάλλιστον ἑπταπύλῳ φανὲν Θήβᾳ τῶν προτέρων φάος, ἐφάνθης ποτ᾽, ὦ χρυσέας ἁµέρας βλέφαρον, ∆ιρκαίων ὑπὲρ ῥεέθρων µολοῦσα, τὸν λεύκασπιν Ἀργόθεν ἐκβάντα φῶτα πανσαγίᾳ Sol, qui terrarum flambi opera omnia lustras, Tuque harum interpres curarum et conscia Iuno Nocturnisque Hecate triviis ululata per urbes, Et Dirae ultricesset di morientis Elissae, Accipite haec meritumque malis advertite numen Et nostras audite preces. Si tangere portus 42 Nella dedica «All’illustrissimo S. Hieronimo Foccari» si legge: «[…] essendomi hora nata l’occasione di stampar la presente poesia, ho voluto con questo mezzo debile farle conoscere la detta mia deuozione. Laqual poesia se fosse così alta di stile, come richiede il nome, che ella tiene: sarei sicuro di dedicarle opera degna de l’altezza del suo bellissimo animo, poi che non è dubbio, che la Tragedia, fra i poemi alti, e lodati tiene il primo luogo», G. ANDREA DELL’ANGUILLARA, Edippo – Tragedia, in Padova, per Lorenzo Pasquatto, 1565, [p. 2]. 43 Francisci Robortelli Uticensis In librum Aristotelis de arte poetica explicationes, Firenze, Torrentino, 1548, p. 148. 44 «Rucellai rilegge la storia attraverso l’archetipo classico dell’Antigone di Sofocle. Così la fanciulla diviene la custode dei doveri inviolabili della stirpe cui si contrappone la ὕβρις tirannica di Alboino-Creonte. Ricalcata sul personaggio di Antigone, Rosmunda dà però vita a un nuovo modello di eroicità femminile, come dimostra il prudente assenso dato alle nozze con il re longobardo, sofferta attestazione di un coraggio che non ha niente in comune con la rigidità della protagonista sofoclea, da cui si differenzia anche per il lieto fine che conclude la sua vicenda», P. COSENTINO, op. cit., p. 74. 214 φυγάδα πρόδροµον ὀξυτέρῳ κινήσασα χαλινῷ: […] Infandum caput ac terris adnare necesse est Et sic fata Iovis poscunt, hic terminus haeret: At bello audacis populi vexatus et armis, Finibus extorris, complexu avolsus Iuli, Auxilium imploret videatque indigna suorum Funera; nec, cum se sub leges pacis iniquae Tradiderit, regno aut optata luce fruatur; Sed cadat ante diem mediaque inhumatus harena. Antigone, 100-109 Eneide, IV, 607-620 Almo celeste raggio, de la cui santa luce s'adorna il cielo, e si ristora il mondo, il cui certo vïiaggio sì belle cose adduce, che ‘1 viver di qua giù si fa giocondo, perchè sendo ritondo, infinito ed eterno, il dì dopo la sera, e dopo primavera. mena la state, e poi, 1’ autunno, e ‘1 verno. onde la terra, e ‘1 mare s'empie di cose prezïose e rare; menaci un giorno fuore, che non sia tanto carco. come son questi, dì soverchi affanni. Tu sai con qual dolore d’ un mal ne l’ altro varco, e già comincio a trapassarvi gli anni. O sole alla cui luce nulla è ascoso, o Inno che scorgi i miei pensier afllicti, o nocturna Proserpina invocata con le urla dolorose a i mesti trivii, voi furie ultrici e tu mal genio mio eh' a '1 fin letal mi guidi, li or mai ascultate l'ultime mie parole e i preghi extremi; se per 1' ordin fatale, questo execrabile vol si conduca saluo a '1 litto italico, et cosi il sommo Ione ha stabilito, almen non possi mai quietar, ma sempre da feroci armi exagitato sia et dal suo corpo il caro figl[i]o Ascanio svelto; mercè domandi, et veder possa de' suoi miseri morti, né concessa pace li sia, se non con dure leggi, né poi per questo goda 1' alma vita, ma innanzi al tempo manchi, et sia buttato senza tumul alcuno nel marin litto. Questa ultima mia voce a voi col fiato extremo data, supplico exaudiate, tu popul Tyrio, et chiunque di te nasca ritenendo il fero odio in sempiterno porgete a l' ossa mie per premio questo: 'Mai non sia pace alcuna, tregua o pacto infra il suo seme e il uostro, inimicizia eterna sia […]’. Sofonisba, 606-631 Didone in Cartagine45 Sensibile è infatti la riscoperta del repertorio tragico greco, in particolar modo di Euripide46, i cui influssi sono fondamentali – come si vedrà a breve – sulla Didone di Alessandro de’ Pazzi. Nella Prefatione alla Didone in Cartagine quest’ultimo allude infatti alla particolare frequentazione 45 A. PAZZI DE’ MEDICI, op. cit., pp. 118-119. 46 Punto di partenza sono l’edizione di alcune tragedie di Euripide tradotte in latino da Leonzio Pilato, alla fine del XV secolo e ben note a Boccaccio, e edizioni, ad opera di Giano Lascaris, dell’Ippolito, dell’Alcesti e dell’Andromaca. 215 euripidea47 . Da un punto di vista metrico, invece, importante è l’influsso di Pindaro per quanto riguarda l’impianto metrico dei cori della Sofonisba: come già notato, più di un secolo fa, da Giosué Carducci48, è infatti sull’onda delle edizioni del 1511 (Venezia, Manuzio) e del 1513 (Roma, Caliergi) che Trissino ampliò nei cori della propria tragedia l’ode pindarica, con una moltiplicazione per tre della stanza petrarchesca49. Ma sensibili sono anche le analogie “storiche”: se infatti ad entrambe le regine viene recato aiuto da parte di un sovrano africano innamorato, è soprattutto nelle scelte drammaturgiche che Trissino e Pazzi sembrano optare per le medesime scelte: in ambedue le tragedie, infatti, in totale contrasto con quanto operato da Virgilio per Didone, il conflitto tra “ratio” e “passio”, tra dovere e amore, è ridotto al minimo, e alla riduzione di quello che avrebbe potuto costituire un evidente problema per lo svolgimento della tragedia è connessa una “moralizzazione” del mito classico50. In diretta connessione con Didone – tenendo presente quanto detto circa l’Africa di Petrarca e i rapporti tra la regina cartaginese e la figura di Sofonisba51, fatta salva però la fondamentale differenza del mancato suicidio della seconda, criticato da Torquato Tasso52 ‒ è interessante notare come, in apertura (vv. 8-39) della tragedia trissiniana, sia proprio la protagonista a rievocare, in termini positivi, la storia della regina cartaginese: ERMINIA: Regina Sofonisba, a me regina per dignità, ma per amor sorella, sfogate meco pur il cuor, che certo non possete parlar con chi più v’ami, né che si doglia più dei vostri mali. SOFONISBA: Questo conobbi infin da’ miei prim’anni, 47 « […] mi uenne uoglia di consumare tale ocioso tempo non solo nella lectione d'epso Euripide, il quale assiduamente haueua alle mani». A. PAZZI DE’ MEDICI, op. cit., p. 45. 48 G. CARDUCCI, Dello svolgimento dell’ode in Italia, in Opere, Bologna, Zanichelli, volume XV dell’Edizione Nazionale, 1944, pp. 14-15. 49 P. BELTRAMI, La metrica italiana, Bologna, Il Mulino, 1991, pp. 114 e 337-338. 50 Cfr. G. FERRONI, Classicismo e riduzione del conflitto, in Il testo e la scena, Roma, 1980, Bulzoni, pp. 163-199. 51 Cfr. Capitolo III pp. 148-151. Osserva P. COSENTINO (op. cit., p. 75) a proposito delle analogie tra le due tragedie: «Con la Didone di Alessandro Pazzi de’ Medici, il percorso che qui stiamo delineando si arricchisce di nuove sfumature. In primo luogo, si rafforza la somiglianza con la protagonista della tragedia trissiniana: sacrificate all’arroganza del potere romano, le protagoniste delle due omonime tragedie sono entrambe abbandonate al loro comune destino di vittime. Se, a una prima lettura, la tragica fine della regina cartaginese non sembra affatto paragonabile alla composta morte di Sofonisba che, in procinto di togliersi la vita, trovava serenamente il modo di congedarsi dal mondo, in realtà sono facilmente riconoscibili tutta una serie di motivi che mostrano la straordinaria vicinanza delle due figure tragiche». 52 «il poeta, a mio giuditio, avrebbe colpito nel segno se colla morte di Sofonisba avesse terminata la tragedia. Dopo uno scioglimento tanto terribile, qualunque aggiunta non può a meno di non riuscir languida, fredda et infievolire l’impressione della scena», G. TRISSINO, La Sofonisba con note di T. TASSO, edite a cura di F. PAGLIERANI, Bologna, Romagnoli, 1884, p. 36. 216 Erminia mia, che sian nutrite insieme; e so che ‘l grande amor che tu mi porti, più che null’altra affinità, ti spinse a venir meco a la città di Cirta. Però vo’ ragionar più lungamente, e cominciar da largo le parole. Né starò di ridir cosa che sai, perché si sfuoga ragionando il cuore. Quando la bella moglie di Sicheo, dopo l’indegna morte del marito, in Africa passò con certe navi, comprando ivi terren vicino al mare, fermossi, e fabricovvi una cittate, la qual chiamò Cartagine per nome. Questa città, poi che s’uccise Dido (che così nome avea quella regina), visse continuamente in libertade; e di tal pondo fu la sua virtute, che non sol dai nimici si difese, ma sopra ogni città divenne grande. Or (come accade) ebbe una orribil guerra (ben dopo molto tempo) coi Romani, che discesero già da quell’Enea, il qual venne da Troia in queste parti, e ingannando la infelice Dido, partissi, e fu cagion de la sua morte. Segue la narrazione delle vittorie di Annibale e relativo intervento di Scipione: dimostrazione concreta di come la vicenda di Didone venga da Trissino inserita in un contesto storico reale: non rinnegando un sostrato fortemente classicista proprio della tragedia tre-quattrocentesca53, il letterato veneto rivendica per la tragedia una nuova e decisa natura storica e politica, resa e contestualizzata con ben maggior precisione e convinzione rispetto alle esperienze drammaturgiche precedenti54 . Ma, ai fini di un adeguato inquadramento culturale del clima in cui nascono queste tragedie ispirate alla storia di Didone, è doveroso anche notare come nel XVI secolo si sviluppi, a vari livelli e in 53 «Da uno stacco critico nasce la tragedia classicista italiana, nei confronti di tutti i tentativi teatrali precedenti che, fra ‘300 e ‘400, proseguono la lezione dell’Ecerinis di Albertino Mussato, in cui il latino, privilegiato come medium linguistico della rappresentazione drammatica, non significava solamente adesione ad una scelta ormai obbligata di cultura, ma sanciva un allontanamento dal pubblico, dalle sue esigenze di partecipazione e coinvolgimento nell’azione agita», M. ARIANI, Tra Classicismo e manierismo, op. cit., p. 11. 54 Cfr. E. PARATORE, Nuove prospettive sull’influsso del teatro classico nel ‘500, estratto da «Il teatro classico italiano nel ‘500 ‒ Atti del convegno dell’Accademia dei Lincei, 9-12 febbraio 1969», op. cit., p. 2. 217 differenti generi letterari, un rinnovato dibattito intorno alla figura e al ruolo della donna55. In ambito teatrale, la Sofonisba trissiniana viene guardata proprio come modello di virtù muliebre esemplificante l’ideale di una nuova protagonista tragica, la cui natura si contraddistingue – come una certa tradizione, specie patristica, si è visto, riconosceva alla stessa Didone – per alto lignaggio e comportamento indubitabilmente saldo e onesto. In ambito teatrale si colgono quindi i frutti di un dibattito letterario che, dai Trionfi di Petrarca, per passare poi alle opere latine di Boccaccio, prosegue e si approfondisce, all’interno del nuovo contesto storico-culturale post-tridentino56, anche in sede trattatistica: il Cortegiano di Castiglione non è che il più famoso esempio57. Proprio a proposito di quest’opera è interessante notare come una rielaborazione in chiave tragica del mito della regina cartaginese - in realtà non troppo felice - la Didone di Giraldi Cinzio, contamini una fonte classica con un precetto contemporaneo, cioè cortigiano. Se proprio con «il desiderio di far godere al pubblico lo spettacolo della corte rinascimentale»58 è infatti spiegabile l’ ideale di magnificenza e grandeur che fa da sfondo alla tragedia del Ferrarese, scritta per Ercole II d’Este, questa prevede per la protagonista la contaminazione tra il modello trissiniano, oltre che classico, della regina con quello, proprio di Castiglione, della «cortegiana»59: analogamente, anche la figura 55 «Due sono i filoni principali cui è possibile ricondurre la produzione teorica sull’argomento, che del resto affianca la produzione misogina ben presente nella tradizione umanistica: da una parte, i cosiddetti trattati di institutio della donna, generalmente orientati a fornire norme e regole che definiscono una vera e propria grammatica del comportamento, dall’altra, quegli scritti che ne predicano la nobiltà e l’eccellenza, allo scopo di ribaltare il topos tradizionale dell’inferiorità della donna rispetto all’uomo. Proprio dopo il 1530 saranno dati alle stampe numerosi libelli nati sulla falsariga del celebre trattato di Agrippa, quel De nobilitate et praecellentia foeminei sexus divenuto capostipite di una generazione di scritti volti a ribadire la dignità della donna.4 L’aumento progressivo degli interventi contribuisce, dunque, a una trasformazione dell’immagine muliebre che conosce, durante il secolo, una relativa e stimolante mobilità. Inoltre, la definizione degli spazi e delle funzioni di pertinenza femminile si lega necessariamente alla riflessione sull’istituzione del matrimonio, all’interno della quale la donna acquista importanza come moglie e come madre. La nobilitazione delle nozze è infatti inseparabile dalla riabilitazione dell’immagine della donna, come dimostra il trattato dello spagnolo J. L. Vives, quell’Institutio foeminae cristianae pubblicato nel 1523 e anch’esso più volte ripreso proprio nel tentativo di sottolineare l’importanza del ruolo muliebre all’interno della famiglia. Tuttavia, nonostante la laicizzazione del pensiero favorisca l’espressione delle rivendicazioni femminili, permane un evidente décalage fra la realtà della donna nella società e le rappresentazioni che ne dà la letteratura», P. COSENTINO, Tragiche eroine. Virtù femminili tra poesia drammatica e trattati sul comportamento, in «Italique», n° IX (2006), p. 69. 56 Cfr. F. SBERLATI, Precetti di rinuncia: l’estetica dottrinale della Controriforma, in Castissima donzella – Figure di donna tra letteratura e norma sociale (secoli XV - XVII), Peter Lang, Bern, 2007, pp. 123-130. 57 Oltre che il tassiano Discorso della virtù femminile e donnesca (cfr. D. J. DUTSCHKE, Il discorso tassiano ‘‘de la virtù feminile e donnesca’’, in «Bergomum», n. 3-4, 1984, pp. 5-28), è possibile citare il Del modo di regere e di regnare (composto fra il 1478 e il 1479, cfr. A. MUSSO, “Del modo di regere e di regnare” di Antonio Cornazzano: per il testo e la datazione, in «Bollettino storico piacentino», n° 92, 1997, pp. 73-87 e D. ZANCANI, Writing for Women Rulers: The Case of Antonio Cornazzano, in «Culture, Women and Society in Renaissance Italy», ed. L. PANIZZA, Oxford, Legenda, 2000, pp. 57-74), la Gynevera de le clare donne di Sabatino degli Arienti, il De claris mulieribus di Filippo Foresti, il De laudibus mulierum di Bartolomeo Cogio. 58 G. SOLIMANO, Una lettura rinascimentale dell’Eneide”: la “Didone” di G.B. Giraldi Cinzio, in «Tradizione dell’antico nelle letterature e nelle arti d’occidente – Studi in memoria di Maria Bellincioni Scarpat», Roma, Bulzoni, 1990, p. 285 nota 50. 59 «Allor il signor Magnifico, voltatosi alla signora Duchessa, - Signora, ‒ disse, ‒ poiché pur così a voi piace, io dirò quello che m’occorre, ma con grandissimo dubbio di non satisfare; e certo molto minor fatica mi saria formar una 218 di Enea viene caricata da Giraldi Cinzio di caratteristiche moderne assolutamente estranee al personaggio virgiliano. Anche nel caso delle protagoniste delle tragedie cinquecentesche, inoltre, come già notato per la lettura della vicenda “storica” di Didone da parte di Boccaccio60, in cui l’idea globalmente positiva deriva dalla eccezionalità del personaggio, in un contesto socioculturale in cui l’”inferiorità” della donna era un dato scontato, «l’ammirazione per la forza d’animo femminile porta con sé stupore, malessere, paura; anzi il confine fra bene e male rimane, in definitiva, difficile da tracciare con chiarezza»61 . §3 La Didone di Alessandro de’ Pazzi (1524) Dopo la prima edizione romana delle opere virgiliane del 1469 (per Conradum Pannartz – Arnoldum Sweynheym Teutonicos)62, all’eredità delle opere aristoteliche volgarizzate e del lascito del Seneca tragico si deve aggiungere, per dare maggior completezza al quadro di partenza in cui nascono le rielaborazioni in chiave tragica delle vicende di Didone, l’importanza che ebbe appunto Virgilio: dimostrazione ne sia l’influsso della poesia bucolica su Sannazaro63. Ma nel Cinquecento si discute, come dimostra l’operato di Sebastiano Regolo (In primum Aeneidos Virgilii librum ex Aristotelis ex arte poetica, pubblicato a Bologna nel 1563) anche delle possibili concordanze e tangenze che si possono ipotizzare tra le argomentazioni di Aristotele e la poesia virgiliana64, e a proposito del primo è utile ricordare come, dopo una prima traduzione della Poetica in latino ad opera di Lorenzo Valla (1498), sia proprio Alessandro de’ Pazzi ad approntarne un’edizione completa, sempre in latino ma con testo greco a fronte (Aristotelis Poetica per Alexandrum Paccium, Patricium Florentinum, in latinum conversa), uscita postuma nel 153665 . La Didone di quest’ultimo, membro attivo del gruppo di “ellenisti” che facevano capo agli Orti Oricellari, risulta essere la sola tragedia in quanto autonoma versione di una figura del mito classico e non traduzione di qualche tragico greco. Esattamente come Trissino, Pazzi 66 dedica molta signora che meritasse esser regina del mondo, che una perfetta cortegiana, perché di questa non so io da chi pigliarne lo esempio», B. CASTIGLIONE, Il libro del Cortegiano, a cura di W. BARBERIS, Torino, Einaudi, 1998, p. 260. 60 Cfr. Capitolo III paragrafo 4. 61 P. COSENTINO, op. cit., p. 73. 62 Cfr. R. GIOMINI, Appendix virgiliana, Firenze, la Nuova Italia, 1962, p. LVII. Per un’idea della diffusione in Italia dell’opera del Mantovano cfr. G. MAMBELLI, Gli annali delle edizioni virgiliane, Firenze, Olschki, 1954. Rapporti tra la diffusione delle opere di Dante e quelle di Virgilio sono stati tracciati da L. FEBVRE, L’apparition du livre, Paris, Michel, 1971, pp. 372 e 379. 63 Cfr. G. TOFFANIN, Il Cinquecento, Bari, Laterza, 1971, pp. 40-47. In riferimento al De partu Virginis, è stato osservato come l’incipit del II libro (Regina ut subitos imo sub pectore motus/ Sensit […], 1-2) possa essere stato modellato sul’inizio del IV libro virgiliano At regina gravi iamdudum saucia cura / Volnus alit veni set caeco carpitur igni, 1-2), cfr. G. A: NAZZARO, Il “De partu Virginis” come poema parafrastico, in «Iacopo Sannazaro, - la cultura napoletana nell’Europa del Rinascimento», a cura di P. SABBATINO, Firenze, Olschki, 2009, p. 196. 64 Cfr. V. ZABUGHIN, Virgilio nel Rinascimento da Dante a Tasso, Bologna, Zanichelli, 1924, tomo II, p. 15 e passim. 65 Venetiis, in aedibus haeredum Aldi, et Andreae Asulani soceri, 1536. A quest’edizione ne seguì un’altra, l’anno seguente (Basileae, per Balthasarem Lasium et Thomam Platterum, mense Martio 1537). 66 B. VARCHI (cit. in M. POZZI, Critici e poeti: appunti sulla storia delle poetiche e della critica, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2007, p. 89), connettendo cronologicamente la produzione di Pazzi a quella di Trissino, non sembra 219 attenzione alla questione linguistica, e di ciò prova ne siano anche le traduzioni in latino della Ifigenia in Tauride e dell’Elettra come gli adattamenti in volgare del Ciclope euripideo e dell’Edipo re sofocleo. Per quanto riguarda la metrica della Didone (che probabilmente non fu mai rappresentata67), Alessandro De’ Pazzi usa il dodecasillabo (con 11 a tonica) libero come erede del trimetro giambico catalettico ׀ ˉ ˇ ˉ ˇ׀ ˉ ˇ ˉ ׀ ˇ ˉ ˇ ˉ ˇ Il dodecasillabo è libero, dal momento che non sempre è possibile la divisione del verso in emistichi, mentre ovviamente diversa è la soluzione adottata per le parti corali68. Scrive a tale proposito l’autore: «Similmente havendo visto per experientia che li spectacoli che si recitano hoggi composti in quella specie di versi tanto sonori, sono manco grati, che quelli, che si recitano composti in prosa: la qual mera prosa, perchè non è da approvare maxime in tragedie, mi pare necessariamente si debba ricorrere ad una specie di metro non molto dissimile alla prosa, nel quale sia non dimeno occultamento numero, et symmetria poetica: il che dico essere in questa specie di versi, et in ogni altra più et meno, nella quale sia observatione et legge determinata; purché la quantità delle sillabe non exceda la forma del verso, perchè tal numero et symmetria si causano da quella uniformità observata continuamente. In modo che concludo haver questa specie di metro tanto suono, che basta al fuggire la licentiosa bassezza della prosa, essendosi observatione non poca, come apparisce a chi bene lo considera et exanima, et d' altra banda non tanto suono, che possa interrompere la gravità del colloquio necessario, et proprio del poema tragico» 69 . esprimersi sulla Didone in termini estremamente positivi: «In questo tempo medesimo [del Trissino] o poco dopo, fece Alessandro de' Pazzi la sua Didone, la quale uon havendo potuto vedere, non sapemo che dirne, eccetto, che quando nel tempo che fu da lui fatta, e a noi mostrata, oltre la misura de' versi di dodici sillabe , e ancora di tredici, che a pochissimi piaceva, vi notammo infino in quel tempo molti errori d' intorno alla lingua, crediamo bene, che havendo egli la poetica d' Aristotele latinamente tradotta, et essendo si può dire suo proprio far professione di poesia e particolarmente della Tragica, perchè tradusse ancora latinamente 1' Edipo tiranno, crediamo dico, che quanto all'arte meriti commendatione». 67 Cfr. M. T. HERRICK, op. cit., p. 62. 68 Riferendosi a tutte le tragedie metriche scrive Angelo Solerti (op. cit., p. 33): «I metri lirici de' cori sono resi con settenari e ottonari più spesso, ed anche con quinari e senari : questi ultimi più specialmente in formazione epodica con un dodecasillabo». Osserva P. COSENTINO (Fra verso sciolto e sperimentalismo volgare: la rinascita tragica fiorentina, in «Il verso tragico dal Cinquecento al Settecento», op. cit., pp. 57-58) a tale proposito: «Del pazzi de’ Medici, oltre al rivoluzionario dodecasillabo sciolto, dobbiamo ricordare un ulteriore espdiente prosodico, ovvero quella struttura composta da tre settenari e un endecasillabo finale che il poeta utilizza nei dialoghi lirici della Dido in Cartagine. L’impiego di questi metri è ovviamente esteso alle traduzioni dell’Ifigenia in Tauride e dell’Edipo re, anche se […] si potevano facilmente trovare, nelle composizioni del Pazzi, versi senari, quinari o ancora quaternari, atti a rendere, soprattutto nelle traduzioni dal greco, le stretture antiche». 69 A. PAZZI DE’ MEDICI, Prefatione, op. cit., pp. 50-51. 220 È inoltre lo stesso autore a fornire, nella Prefatione a Clemente VII, precisazioni circa le fonti della sua tragedia, che sono in prima battuta Virgilio, del quale è colto – secondo le osservazioni di Macrobio70 – il debito nei confronti di Apollonio Rodio: «Et però, come vedrà la S. V. in gran parte in epsa Tragedia ho imitato Vergilio adiungendo molte cose pertinenti alla exorrnatione, et dispositione del poema. Dal qual confesso ingenuamente haver tolto il più che ho potuto, et tutto quello che ho giudicato dovere haver gratia in tal contexto sicome apparisce manifestamente epso haver facto con somma electione non solo con Homero, Hesiodo et Theocrito de i Greci, Ennio et Lucretio de i Latini, ma ancora più particolarmente nello affecto amoroso della sua Didone con Appollonio nel quarto della Argonautica, quando descrive il furioso amore di Medea. La qual Tragedia poiché io hebbi absoluta secondo le tenui forze dell'ingegno mio, et secondo che patina all'hora il tempo, et il solitario loco, mi parse ancora da tentare più oltre»71 . Ma, benché alcuni passi, come ad esempio i preparativi della partenza da parte di Enea e compagni, siano modellati fedelmente sull’ipotesto virgiliano, tum vero Teucri incumbunt et litore celsas deducunt toto navis. natat uncta carina, frondentisque ferunt remos et robora silvis infabricata fugae studio. migrantis cernas totaque ex urbe ruentis: ac velut ingentem formicae farris acervum cum populant hiemis memores tectoque reponunt, it nigrum campis agmen praedamque per herbas convectant calle angusto; pars grandia trudunt obnixae frumenta umeris, pars agmina cogunt castigantque moras, opere omnis semita fervet ENEA: Non credo in la fucina de' Ciclopi Uulcanij battin tante martella quante hor le phrigie mani percotendo risonano. Chi dalle selve tira i remi anchor frondosi, chi vele, et torte funi, chi sarte et scale adapta; chi per l'altere gaggie si vede arme ordinare, ohi le turrite prore dipinger, chi da poppa disporre i timon fidi. Ciascun arder di studio per dar le vele a i venti del popul numeroso quale aguagliar si potè di formiche a un gregge,72 Eneide, IV, 397-406 70 Cfr. Capitolo I p. 13. 71 A. PAZZI DE’ MEDICI, op. cit., p. 47. 72 Ivi, p. 83. 221 le differenze con questo sono tuttavia sensibili, a partire dall’esordio: Alessandro Pazzi non inizia infatti la storia seguendo lo svolgimento di Virgilio, bensì già in medias res, al momento in cui Enea ha già deciso di abbandonare Cartagine poco dopo l’apparizione di Mercurio: ACHATE Tutto sto intento a questo, parla ti prego re de i Troiani in cui non può alcun consigl[i]o cader senza cagion et misterio grane. ENEA Hier sera avanti alquanto che ‘1 Phoebeo lume s'ascondesse a i mortali del nostro hemisperio sendo i' serrato in camera, et solo ove era intento con la mente agli hostili exerciti che turban questo regno, pensando al modo del terminar la guerra, a un tracio gl' occhi alzando, grane horror mi prese, i capelli risorti in testa, dentro a '1 pecto la noce rinchiusa a me senti mancare, perch' i' scorsi il figl[i]uol del gran Jove Mercurio, in propria effigie penetrato pe' chiusi muri; a cui viddi il caduceo manifesto in man le penne d'oro alli homeri e a' piedi, la bionda et crespa chioma, i lumi diaini lampeggiar, siami lecito referire a te sol quel che '1 cel voluto ha monstrarmi: et tu il sancto parlar ascolta con fede perochè apparso dixe: tu adunque, Enea, hor pensi alla città d' altrui ? adormentato nel grembo feminil della bella Dido, miser a te, scordato del proprio regno73 . Questo comporta, sul piano drammaturgico, un’innovazione fondamentale rispetto all’archetipo virgiliano, indirettamente significativa anche per gli sviluppi che la storia di Didone avrà nell’opera del ‘600 e ‘700 con Busenello e Metastasio. Il condottiero troiano lascia infatti le scene appena dopo un terzo della tragedia74: il suo posto viene praticamente preso da Iarba, al quale Virgilio 73 Ivi, p. 72. 74 Cfr. C. LUCAS, “Didon”. Trois réécritures tragiques du IV de l’”Eneide” dans le theater italien du XVIe siècle, in «Scritture di scritture – testi, generi, modelli nel Rinascimento», a cura di G. MAZZACURATI e M. PLAISANCE, Roma, Bulzoni, 1987, pp. 562-563. 222 dedica fondamentalmente poca importanza75, mentre invece in questo caso diventa figlio di Giove, quindi congiunto di Mercurio. L’espediente classico dell’occultamento nella nube è utilizzato proprio per il re dei Getuli (grazie al quale Didone muore vendicata, e al contempo, avendo resistito alle sue lusinghe, innocente): Iarba, infatti, così nascosto può vedere tutto quello che accade nella reggia di Didone, alla quale si presenta poi grazie alla verga miracolosa del fratellastro. La regina cartaginese, dopo una prima reazione spaventata, accetta la proposta di matrimonio da parte del capo getulo, ma solo a condizione che questo le consegni la testa del fratello, uccisore di Sicheo. Se gli avvenimenti principali – da un punto di vista propriamente di fatti ed azioni – dell’avventura di Enea si svolgevano, nell’Eneide, fuori dal IV libro, proprio la sua natura eroica e semi-divina suona, nella tragedia di Pazzi, quasi come una condanna di inutilità all’interno di un contesto dove dominano le passioni umane, mentre il re dei Getuli, sciolto da doveri extra-umani, è drammaturgicamente più funzionale al dramma di Didone. Questo comporta anche un altro cruciale stacco rispetto al testo virgiliano: Iarba, infatti, esce dall’aura negativa in cui è fugacemente adombrato nell’Eneide per acquisire uno status eroico del tutto inedito: questo è ben confermato dal trattamento semantico che Pazzi gli riserva: Iarba accetta infatti, addirittura, di configurarsi consapevolmente come strumento della vendetta di Didone nei confronti del crudele Pigmalione76: JARBA Regina amar mi ha spinto nelle tue forze. DlDO Misera a me che novo dolore è questo? Che caso che ruina? perchè finire non son lasciata in pace l'afflicta vita? Sei defuncta ombra? o pur sei spirito vivente nel corpo del feroce Re di Getulia che habbi la mia Carthagine cosi expugnata? JARBA Jarba vivo sono a te solo venuto non senza di mio padre Iove il volere a domandar per dono [sic] et portarti pace. DlDO Pace non mi può dar chi non mi dà morte; dove è il crudel Pygmalion, che del sangue mio hor si satij?et con sua empia mano 75 Per la precisione, ventuno versi (Eneide, IV, 198-216). 76 C. LUCAS, op. cit., pp. 564-565. 223 facci di me quel che del miser Sicheo! JARBA Sì scelerato facto chiama vendecta per le mie man, Regina. Onde io a te vengo per offerirti questo eh' è in poter mio et far del corpo suo quel hor' che a te piace. Però quando mi vogl[i]a delle tue noze far degno, come sai che sempre ho bramato la pace stabilita sia infra noi bora per la insta vendecta del tuo Sicbeo col sangue del Tyranno Pygmalione , al quale, quando ti piaccia in ciò fede darmi, spicherò dalle spalle la fera testa di sangue nudante con le mie proprie mani.77 Anche alla luce di questo atto di giustizia da parte di Iarba nei confronti del crudele fratello della regina, dopo il racconto, da parte del nunzio, dell’omicidio avvenuto: NUNCIO Subito ch' e' ebbe il primo colpo nel pecto sentimo Jarba dir tal parole forte: Dido per le mie mani la iusta vendecta dell' innocente sangue fa del suo sposo.78 È Didone stessa a designare in termini eroici il re dei Getuli, quasi a far sperare di essersi convinta ad accettare il suo amore: DIDO Jarba ha facto quel che di lui è degno Come de’ far ciascun che è nobil di core79 . Questo comporta una spostamento assiale delle responsabilità di ogni personaggio della storia80 , fornendo quasi un’interpretazione in chiave cattolica della vicenda del IV libro dell’Eneide, anche 77 A. PAZZI DE’ MEDICI, op. cit., pp. 109-110. 78 Ivi, p. 123. 79 Ibidem. 80 «La présence de Iarbas comme protagoniste a une conséquence iportante: elle modifie la morale du livre IV, car la reine en acceptant passivement le marché proposé par le Gétule délivre indirectement son pays de l’ennemi dangereux qu’était Pygmalion. Ainsi, à la différence de ce qui se passe dans le chant IV, Didon dans la tragédie meurt quelque peu innocente, elle se suicide après avoir rétabli le calme dans son Etat, grâce au geste de Iarbas», C. LUCAS, op. cit., p. 565. 224 in linea di coerenza con un clima letterario in cui si trovava ad operare Jacopo Sannazaro autore del De partu Virginis, in cui il modello virgiliano è per altro significativo81. Contrariamente a quanto sostenuto dall’Ariosto, ma fondamentalmente in linea con l’operato tassiano82, il pius Aeneas viene riabilitato quale eroe, con la sua missione di fondatore della Urbs Aeterna, da celebrarsi in pieno clima controriformistico anche mediante la tragedia, come dimostra il passaggio del De cardinalatu di Paolo Cortese: «Tragoedia autem est in qua consuescunt hi hominum significari casus, qui sint flebilem exitum habituri. Quod quidem poetati genus cum maxime appositum videatur ad Christianorum casus exprimendos, non desino sane mirari, quae causa sit, cur minus nostri se ad haec Tragoediarum genera transferenda conferant, cum haud sit eiusmodi carminum ignotum genus et hominum ingenia videantur praestare florentius quam abhinc annos octingentos sit floruisse iudicandum»83 . Proprio questa sua superiore identità di personaggio semi-divino sembra condannare nella tragedia Enea ad una staticità, quindi ad una debolezza drammaturgica evidente. Esattamente come Trissino riduce al minimo ogni particolare erotico nella relazione Sofonisba/Massinissa, limitandosi ad un racconto delle nozze da parte del messo (vv. 826-866), oggetto dell’ironia tassiana84, anche l’unione tra Enea e Didone è data come un fatto avvenuto. La regina stessa appare come un personaggio fondamentalmente statico, che non viene del tutto condannata per la sua deleteria passione: ella appare semmai come vittima di un infelice destino: CHORO «O beati coloro «a i quali non sommo grado « né sorte troppo vile « è tocco ma fortuna mediocre.85 81 Cfr. A. TRAINA, ‘Imitatio’ virgiliana e clausole anomale nel “De Partu Virginis” del Sannazaro, in «Filologia umanistica. Per Gianvito Resta», a cura di V. FERA e G. FERRAÚ, Padova, Antenore, 1997, volume III, pp. 1793- 1799. 82 Per l’importanza della figura di Enea in Tasso cfr. G. BALDASSARRI, Il sonno di Zeus - Sperimentazione narrativa del poema rinascimentale, Roma, Bulzoni, 1982, p. 64. 83 De cardinalatu libri tres, in Castro Cortesio, Symeon Nicolai Nardi [alias Rufus calchographus imprimebat, die decimaquinta Nouembris], 1510, 166r. Per questo passo di Cortese cfr. C. DIONISOTTI, Gli umanisti e il volgare fra Quattro e Cinquecento, Firenze, Le Monnier, 1968, p. 73 e G. FERRONI, op. cit., p. 165. 84 «l’autore fa le nozze con tutte le formole de la S. Romana Chiesa, et il rito non è né punico né greco ma latino, et il Sacerote è il nostro m.r Curato», G. TRISSINO, La Sofonisba con note di T. TASSO, op. cit., p. 17. Osserva a proposito di questo rito P. COSENTINO (op. cit., p. 96): « Nella valutazione del rito matrimoniale, bisogna tuttavia tener presente che, almeno fino al Concilio di Trento, le unioni erano sancite da semplici atti notarili, all’occorrenza benedetti da un celebrante. Si trattava infatti di unacerimonia privata che solo più avanti sarebbe stata sottoposta al rigido controllo dellaChiesa». 85 A. PAZZI DE’ MEDICI, op. cit., p. 116. 225 Alla luce di tutte le osservazioni fatte nei precedenti capitoli circa la duplice tradizione lungo cui si snoda e sviluppa la storia di Didone, e l’importanza della versione fornita dall’Epitome di Giustino, è fondamentale notare che Alessandro de’ Pazzi pubblicò, di questa silloge, ben quattro edizioni tra il 1520 e il 152586. In virtù di questa conoscenza, la protagonista della tragedia metrica viene a trovarsi in una posizione mediana tra la radicale condanna dantesca e la completa riabilitazione giustinianea e boccacciana. Se non è da sottovalutare la contiguità cronologica tra la pubblicazione della Sofonisba di Trissino e il concepimento della Didone di Pazzi87, in riferimento all’Orbecche (1541), tragedia incentrata sulla novella decameroniana di Ghismonda (IV.1) metabolizzata attraverso la crudeltà del Seneca tragico, è da mettere in rilievo l’importanza che nell’opera del Fiorentino gioca il macabro. L’omicidio di Pigmalione è infatti annunciato con una certa insistenza sui particolari truculenti: NUNTIO Regina ecco la testa et le fere mani del tuo crudel fratello. Il Re di Getulia manda a te questo dono. Adunque ti turba veder justa vendecta del tuo Sicheo? A cui meritamente succeder debbe quel eh' ha il suo sangue con sue man vendicato88 e poco dopo, in climax - sempre per bocca del messaggero – si coglie la particolare dovizia di quei dettagli atroci che il gusto dell’orrido senecano induce a innestare sul tessuto virgiliano, Ma poi che Jarba vidde da molti colpi il nimico jacere, i crini in man presi segò la grave testa, che anchor lo spirto s'ingegnava col sangue vomitar fore; poi le mani in un tracto tagl[i]ate, a noi tornò di sangue pieno;89 86 «Entre 1470, date de la première édition romaine de l’Histoire universelle de Justin, et 1524, le Manuel du Libraire recense 13 éditions de l’oeuvre de l’historien latin. La première édition fiorentine publiée par Giunti date de 1510. Il est peu probable que Pazzi se soit inspirée des autres historiens latins ayant parlé de l’héroïne greque, car ces auteurs, à l’exception de Tite-Live (qui évoque très rapidement Elissa), ont été publiés pour la première fois bien après 1524: Flavius Joseph en 1544, à Bâle; Appien en 1551, à Paris; Ennius en 1564», C. LUCAS, op. cit., p. 567 nota 33. 87 Il quale, in una lettera del 7 maggio 1524 (cit. in G. FERRONI, op. cit., pp. 167-168), riferendosi alle riunioni ricordate da Trissino nel Castellano, parla di «Achademia tragica, idest di Castello, in qua principalis est Trixinus ille tragicus». 88 A. PAZZI DE’ MEDICI, op. cit., p. 120. 89 Ivi, p. 122. 226 e che costituiscono il sensibile anticipo di una peculiarità stilistica dell’Orbecche. Analogamente, feroci – e filtrati ancora una volta dalla lectio del Tieste senecano – sono i propositi di vendetta da parte di Didone: Ohi me non ho possuto smembrar questo crudele, gittare i pezi in mare, et de i compagni insieme! Squartare Ascanio et cocte le membra dare in cibo al ventre del fer padre.90 Dal prologo, invece, emerge subito l’altra “tinta” che, insieme al macabro, è caratteristica fondamentale dell’opera: il “patetico”. Di matrice euripidea 91 , questo investe infatti nel corso dell’opera non solo Didone, ma anche Iarba, il cui destino finisce per omologarsi sempre di più – paradossalmente rispetto all’archetipo virgiliano – a quello della regina cartaginese. Egli infatti si compromette politicamente assassinando un suo vecchio alleato unicamente in nome dell’amore per Didone: proprio come i sacrifici e gli sforzi di lei nei confronti di Enea sono inutili, così ogni tentativo del re dei Getuli verso Didone risulta in ultima istanza vano92. Se un punto in comune con l’Ecuba euripidea93 può individuarsi nel fatto che in entrambi i casi è l’ombra di un defunto a recitare il prologo (Polidoro, figlio della protagonista, in Euripide / Sicheo, marito di Didone, in Pazzi) in cui viene narrata la storia, una invenzione autonoma dell’autore fiorentino, dilatazione di questa coloritura patetica rispetto all’Eneide e ben diversa da quanto farà Metastasio, è la differenza d’età che la protagonista ha con la vecchia sorella Anna, con la quale, al momento della messa al corrente della partenza delle navi di Enea, intrattiene un serrato dialogo in sticomitia94: ANNA Ohi me che le man supplici imprima porsi. DIDO A i venti tanti preghi gittasti indarno? 90 A. PAZZI DE’ MEDICI, op. cit., p. 117. 91 Cfr. A PERTUSI, Il ritorno alle fonti del teatro greco classico: Euripide nell’Umanesimo e nel Rinascimento, in Venezia e l’oriente tra tardo Medioevo e Rinascimento, Firenze, Olschki, 1966, pp. 205-224. 92 «Tous les deux obtiennent de l’objet de leur amour le même résultat: l’éloignement irremediable, l’un vers un destin d’aventure, l’autre dans la mort», C. LUCAS, op. cit., p. 568. 93 Importanti analogie stilistiche tra le due tragedie furono messe in luce da R. TURNER, Didon dans la tragédie de la Renaissance italienne et française, Paris, Fouillot, 1926. 94 Questo tipo di dialogo fu criticato, come pratica «troppo artificiosa», tanto da Torquato Tasso (G. TRISSINO, La Sofonisba con note di T. TASSO, op. cit., p. 16, quanto da G. B. GIRALDI CINZIO (Scritti contro la Canace, Giudizio ed Epistola latina,a cura di C. ROAF, Bologna, Commissione per i testi di lingua, pp. 149-150). 227 ANNA Il suo tosto fuggire mi fece tacere. DIDO Noi ritenesti al men per sin che t’ udisse? ANNA Le mie man da i ginocchi suoi fur remosse. DIDO Non lo seguisti alquanto se ben fuggiva? ANNA Per sin al porto, ma di lungi da lui. DIDO Perchè non sempre apresso et parlando seco? ANNA Il presto passo suo col mio non giungeva. 95 Un altro punto di forte divergenza con il testo virgiliano consiste nella differenza che vi è tra l’evoluzione/involuzione che il personaggio Didone subisce nell’Eneide (da fondatrice e attiva amministratrice di città a fragile donna condannata alla morte dalla passione amorosa) e la staticità che caratterizza invece la figura della regina fenicia nella tragedia di Alessandro Pazzi. In questo secondo caso, infatti, Didone appare sin dall’inizio rassegnata al proprio destino. Da questo senso di ineluttabilità deriva la particolare struttura dell’opera: l’impossibilità di conflitto tra i vari personaggi rende infatti questi fondamentalmente chiusi in se stessi, e da ciò deriva l’abbondanza di monologhi96. Il momento fatico, spogliato della funzione propriamente comunicativa, diventa solo un mezzo per descrivere i diversi stati d’animo: non a caso si è parlato di questa tragedia in termini di «succession de tableaux vivantes, riches en couleurs, en ombres, en lumière, en formes, qui renforcent l’immobilité hiératique de l’ensemble»97. La carenza d’azione sembra essere sopperita dagli stessi versi, che in sostituzione di questa descrivono i movimenti dei protagonisti: 95 A. PAZZI DE’ MEDICI, op. cit., p. 96. 96 «on compte 10 véritables dialogues et 16 scènes qui sont soit récits descriptifs d’actions situées hors de l’espace tragique (au nombre de 5), soit des commentaries du choeur (5), soit des monologues proprement dits (6)». C. LUCAS, op. cit., p. 570 nota 44. 97 Ivi, p. 571. 228 CHORO Sostenete le membra che epsa più non sostiene. damigelle ministre solite del suo corpo, eh' i' non ardisco a porgerli per reverentia aiuto. Reggete i passi suoi co i franchi omeri nostri, reducendola a '1 solito pretioso suo albergo;... sostenete l'ammanto sospeso in su le braccia acciò non tardi il passo che '1 dolor fa si stanco.98 §4 La Didone di Giovanbattista Giraldi Cinzio (1541) La Didone, insieme alla Cleopatra99 (di due anni successiva, e rappresentata nel 1555) è l’unica tragedia di Giraldi Cinzio a sfondo storico: essa presenta profonde differenze con l’omologa opera Pazzi: per questo testo estremamente lungo (intorno ai 3200 versi), al cui centro vi è l’apparizione di Mercurio ad Enea, l’autore dichiarò nella Lettera in difesa della Didone100 d’aver trovato la materia già «apparecchiata». In verità, questa tragedia non ha mai goduto di grande fortuna, se già il figlio di Giovanbattista, Celso Girardi, nella dedica ad Alessandro d’Este (prefazione all’edizione veneziana del 1583), ebbe a definire la Didone come «un poco languidetta»101. Il rapporto con la fonte virgiliana è stretto102 , con numerosi esempi di traduzione praticamente letterale: questo aspetto linguistico si coniuga però con autonome novità circa l’impianto strutturale della tragedia e l’ideale drammatico proprio di Giraldi Cinzio. La più importante differenza con l’opera di Pazzi – che il Ferrarese cita nel suo Discorso103 ‒ è l’indecisione che caratterizza il personaggio di Enea, il 98 A. PAZZI DE’ MEDICI, op. cit., p. 82. 99 Di queste due tragedie non esistono versioni italiane moderne. Oltre Le tragedie di Messer Giovan Battista Giraldi Cinthio ( in Venetia, appresso Giulio Cesare Calcagnini, 1583) è oggi possibile leggere la Didone di Giraldi Cinzio solo nell’edizione spagnola curata da I. ROMERA PINTOR (Madrid, Editorial Complutense, 2008). 100 G. CINZIO, Discorso ovvero lettera intorno al comporre delle commedie e delle tragedie, in Scritti estetici, a cura di G. ANTIMACO, Milano, Daelli, 1864, tomo II, p. 16. 101 Le tragedie di Messer Giovan Battista Giraldi Cinthio, op. cit., p. 5. Più drastico il parere di M. ARIANI (op. cit., p. 154), che definisce la Didone «senz’altro la cosa più sciatta e stanca scritta dal Giraldi». 102 Cfr. C. GUERRIERI CROCETTI, G. B. Giraldi Cinzio e il pensiero critico del secolo XVI, Milano, Dante Alighieri, 1932, p. 715. 103 G. CINZIO, Discorso ovvero lettera intorno al comporre delle commedie e delle tragedie, op. cit., p. 39. 229 quale infatti è dilaniato dal contrasto tra il desiderio di restare e l’obbligo di partire. Egli infatti, nella seconda scena del II atto, deciso in un primo momento a rimanere a Cartagine, è successivamente convinto da Acate ‒ «qui incarne le bon sens, le courage, la constance et qui souvent joue le rôle de sa bonne conscience»104 ‒ a riprendere il mare, dal momento che ormai Enea è completamente soggiogato dalla reigina fenicia: In tal manier hor vinto è da Didone Ch’egli, come huomo effeminato e molle Tutto è sotto l’arbitrio di costei.105 Dopo un intervento di Anna per distoglierlo, egli sceglie nuovamente di non abbandonare Didone: solo l’intervento di Mercurio (grazie a cui si verifica «l’extérnisation du conflict» 106 ) farà propendere il condottiero troiano per la definita partenza. Questo conflitto interno, forte di una tinta patetico-sentimentale che, da Ovidio, raggiungerà uno dei risultati più alti nell’opera metastasiana, è per certi versi speculare al dissidio interno di Didone, combattuta tra la nuova passione per Enea e la volontà di rimanere fedele a Sicheo. Tale indecisione si riflette sul comportamento della regina fenicia, prima persuasa dalla sorella circa l’utilità di un’unione con Enea (atto I, scena 4), poi, dopo un momento di dubbio (scena successiva), propensa ad abbandonare questo proposito (atto II scena 4); solo successivamente (atto II scena 6) Didone decide di dare libero corso al suo nuovo sentimento d’amore. In questa peculiarità caratteriale, la regina cartaginese si mostra fondamentalmente fedele all’archetipo virgiliano, acquistando, solo in un secondo momento, una fermezza e una decisione – che si riveleranno però solo autodistruttive – caratterizzanti in diversa maniera e sotto altra prospettiva la protagonista della Tullia di Lodovico Martelli, «pervasa da un furore che non ha più nessuna componente sentimentale, ma che invece deriva da una passione tutta politica»107. Proprio una dimensione politica anima le fredde e utilitaristiche elucubrazioni di Enea: Fra le cose ch’al mondo sono, Achate Nulla è, ch’a l’huom più contentezza arrechi, Che cosa egli habbia, da la qual gli avenga Utile, e honor, senza fatica alcuna. Però fra quante contentezze unqua hebbi, Alcuna non ve n’ha, che si avicini A questa ch’ho avuta oggi. Un nobil regno È questo Achate. Io qui fermar la sede Intendo sì, che più non vada errando.108 104 C. LUCAS, op. cit., p. 584. 105 Le tragedie di Messer Giovan Battista Giraldi Cinthio, op. cit., p. 54. 106 Ivi, p. 579. 107 P. COSENTINO, op. cit., p. 76. 108 Le tragedie di Messer Giovan Battista Giraldi Cinthio, op. cit., p. 64. 230 Anzi, Cartagine, nei pensieri del duce troiano, potrebbe rivelarsi ottima base di partenza per ulteriori progetti di conquista, e tale vantaggio deriverebbe proprio dall’unione matrimoniale con Didone. Anche Anna, d’altronde, ragiona in termini analoghi: […] prendendo Enea Per marito, fiorir veggo l’impero Vostro fra quanti mai chiari, e felici Fioriro al mondo.109 Queste riflessioni, contenute nella seconda scena del III atto, donano al figlio di Anchise una sfumatura machiavellica assolutamente estranea al personaggio virgiliano 110 : ciò è d’altronde coerente con il dialettico rapporto che Giraldi Cinzio sostiene esservi tra l’idea di aemulatio e quella di imitatio: «E vuole la imitazione aver sempre compagna l’emulazione; la quale non è altro che un fermo desiderio di avanzare colui che l’uomo imita. E questo desiderio fa che l’uomo non si contenta d’aver agguagliato chi egli segue, ma cerca di tanto avanzarlo che primo rimanga, e dagli altri invece del primo, meriti egli di essere imitato»111 . Ma aldilà di questo aspetto ineditamente pragmatico, Enea appare un eroe, come indicano due aggettivi ricorrenti, stanco e travagliato: egli è infatti sinceramente preoccupato per i propri compagni d’avventura: Non tanto mi è molesto il mio disagio, Achate mio, quanto il commune. Io veggio Ognuno già dal lungo errar sì stanco, Mentre cerchiamo Italia, che ne fugge, E così fuori di speranza, ch’io Pietà ho di lor. (II, 2)112 . 109 Ivi, p. 25. 110 L’importanza dell’aspetto politico contemporaneo nelle opere del Ferrarese è analizzato da C. LUCAS in De l’horreur au«lieto fine» - Le controle du discours tragique dans le théâtre de Giraldi Cinzio, Roma, Bonacci, 1984. 111 G. CINZIO, Discorso ovvero lettera intorno al comporre delle commedie e delle tragedie, op. cit., p. 143. 112 Le tragedie di Messer Giovan Battista Giraldi Cinthio, op. cit., p. 41. Il concetto di «imitatione» è fondamentale per buona parte della trattatistica cinquecentesca: affrotato da Trissino nella Quinta divisione della Poetica aristotelica (cfr. L’età del manierismo e della Controriforma, a cura di R. MERCURI, Firenze, La Nuova Italia, 1974, pp. 89-92); Alessandro Piccolomini, nelle Annotazioni nel libro della “Poetica” di Aristotele, connette direttamente il dato universalmente valido della funzione didattica della poesia con l’imitazione delle azioni che, con fine etico, da ciò scaturisce (ivi, pp. 93-99). Per un completo e approfondito inserimento di questo cruciale concetto estetico-letterario nel contesto storico rinascimentale cfr. H. GROSSER, La sottigliezza del disputare. Teorie degli stili e teorie dei generi in età rinascimentale e nel Tasso, Firenze, La Nuova Italia, 1992, B. GUTHMÜLLER, Letteratura nazionale e traduzione dei classici nel Cinquecento, in «Lettere Italiane», XLV, n° 4, 1993, pp. 501-518, J. BURCKHARDT, La civiltà del 231 Questo caratterizzazione del condottiero troiano è un passaggio fondamentale, dal momento che l’immagine dell’eroe, sempre in riferimento ad Enea in crisi, verrà ulteriormente approfondita nella Didone di Dolce. In maniera diametralmente opposta al vigore ‘ellenista’ che anima la Didone in Cartagine di Pazzi, il Ferrarese divide la sua tragedia in atti e scene, in cui Enea non scompare quasi subito, e solo dopo la sua partita gli eventi precipitano. Ma nell’ottica politica in cui è inquadrata l’opera, la Didone di Giraldi Cinzio non si rende tanto colpevole di tradimento nei confronti del marito defunto quanto, in ultima istanza, di un inconsapevole – particolare aristotelicamente fondamentale, come dimostra il giudizio (originariamente pubblicato in forma anonima) sulla Canace di Speroni113 ‒ errore di valutazione, vista la comune appartenenza ad una stirpe reale. Ma c’è anche un comune denominatore che la Didone giraldiana dimostra avere con le protagoniste di altre tragedie. Oltre essere consapevolmente accostata dalla sorella alle altre amanti abbandonate, seppur nella speranza di un’eccezionalità: […] dubito […] Ch’egli, poi ch’ottenuto ha quel da lei Che cercan di ottenere tutti gli amanti Da le donne, che son da loro amate, non l’abbandoni, come già Giasone abbandonò Medea, Theseo Arianna, Demophon Phille114 Didone – le cui parole al momento dell’abbandono Tu fuggi me? Tu me fuggi? crudele, fedele traduzione del Mene fugis? (Eneide, IV, 314), presentano la medesima soluzione chiastica di quella adottata in prosa da Aretino («tu fuggi me, crudo; me fuggi») ‒ appare manifestamente protagonista di una storia tragica, come rilevato da Anna «nell’unico spunto metateatrale del dramma»115: Rinascimento in Italia, Roma, Newton Compton, 1994, E. RAIMONDI, Rinascimento inquieto, Torino, Einaudi, 1994 [1965]; P. TROVATO, Il primo Cinquecento, in Storia della lingua italiana, a cura di F. BRUNI, Bologna, Il Mulino, 1994, E. L. EISENSTEIN, Le rivoluzioni del libro. L’invenzione della stampa e la nascita dell’età moderna, Bologna, Il Mulino, 1995, G. GALASSO, La crisi della libertà italiana, in «Storia della letteratura italiana», vol. 4, parte I: L’apogeo del Rinascimento, direzione di E. MALATO, Roma, Salerno Editrice, 1996, pp. 5-52; R. FEDI, La fondazione dei modelli. Bembo, Castiglione, Della Casa, in «Storia della letteratura italiana», volume 4, parte I: L’apogeo del Rinascimento, direzione di E. MALATO, Roma, Salerno Editrice, 1996, pp. 507-594; F. TATEO, Classicismo romano e veneto, in «Storia della letteratura italiana», vol. 4, parte I: L’apogeo del Rinascimento, direzione di E. MALATO, Roma, Salerno Editrice, 1996, pp. 457-506, M. FUMAROLI, L’età dell’eloquenza. Retorica e «res literaria» dal Rinascimento alle soglie dell’epoca classica, Milano, Adelphi, 2002. 113 «Come puole esser atto a favola tragica né Macareo né Canace, quanto all’orrore, e alla compassione, fratelli tanto scellerati, che si sono congiunti insieme carnalmente? E la sorella ha disonestamente e scelleratamente conceputo un figliuolo di suo fratello? quale è quell’huomo che non giudichi l’uno e l’altro degno d’ogni male? D’ogni pena? E d’ogni supplitio?», G. B. GIRALDI CINZIO, Scritti contro la Canace, Giudizio ed Epistola latina, op. cit., p.3 e P. MASTROCOLA, L’idea del tragico: teorie della tragedia del Cinquecento, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1998, p. 214. 114Le tragedie di Messer Giovan Battista Giraldi Cinthio, op. cit., p. 77. 115 G. SOLIMANO, op. cit., p. 281. 232 O historia miserabile: qual mai Si udì tragedia di più tristo fine?116 mentre ad una generica condizione di “inferiorità” o “debolezza” femminile sembra alludere l’osservazione Ah! Quanto è agevole ingannare a un reo Semplice donna.117 . Quest’ultimo dato emerge da vari passaggi giraldiani, come dimostrano anche i seguenti esempi118: Ma la fragilità nostra ci lieva Anche l’ingegno Cleopatra, I, 3 Questo nostro infelice e miser sesso Per privilegio antico o per rea sorte Arrenopia, I, 4 Però chi disse, che la donna al mondo Era uno in felicissimo animale, Non errò punto, e chi rendeva gratie A’ Dei, perché non l’havea fatto donna, Non senza gran cagion gliele rendea Selene, I, 3 Sulla medesima linea di pensiero si esprime Celia, la protagonista dell’Orazia di Aretino posteriore di cinque anni alla Didone giraldiana, allorquando viene informata del duello tra Orazi e Curiazi per risolvere il possesso di Albalonga: e così non sarei la più dolente la più infelice isventurata donna che persegua tra noi stella maligna pianeta iniquo e dispietato influsso (Orazia, I, 295-299) e poco dopo Or chi provò giamai fortuna iniqua, che la sorte mia dura in parte aguagli? Perché, lassa! Non nacqui maschio anch’io? (Orazia, I, 325-327). Particolarmente importanti, inoltre, nella tragedia di Giraldi Cinzio, sono alcuni passaggi relativi al rapporto tra colpa/Fato/libero arbitrio: se infatti Enea, ancora una volta in maniera alquanto 116 Le tragedie di Messer Giovan Battista Giraldi Cinthio, op. cit., p. 123. 117 Ivi, p. 104. 118 P. COSENTINO, op. cit., p. 80. 233 indelicata, oltre che poco eroica (comportamento fondamentalmente non troppo dissimile da quello del «barone romanesco, non romano» aretiniano), sembra voler giustificare la propria partenza: Però, reina, essendo questo in cielo Disposto, e non potendosi mutare Il divino voler, lasciate homai Di tormentar me, e voi con questi pianti. E vivete sicura, che a l’Italia Io spiego, contra il mio voler, le vele dando la possibilità al coro di commentare: Non sforza Giove gli animi mortali, Però la colpa è vostra, non di Giove, E l’ahavere adempito il desir vostro, Vi fa fuggir questa reina afflicta119 l’intero universo mitologico classico viene ricondotto da Giraldi Cinzio ad una condizione di interiorità propria di Enea, come lo stesso autore dichiara nella Prefatione: «Enea ci rappresenta un prudentissimo heroe, Giove la parte superiore dell’anima humana, Marcurio la discorsiva e ragionevole e Didone la parte inferiore e sensuale»120 ; ma al contempo, come per inquadrare l’esegesi landiniana non si può prescindere dall’attività intellettuale dell’Accademia Platonica, così per la Didone giraldiana è necessario valutare la portata del neoplatonismo di Lattanzio, Pico e Ficino121. Se inoltre la lettura landiniana di Virgilio è funzionale ad un inquadramento della tragedia di Pazzi, l’osservazione contenuta nella Prefatione del Ferrarese riporta alle letture allegorizzanti medievali di cui si è già parlato122, e mostra, per il forte contenuto moraleggiante che s’inserisce nel solco interpretativo dantesco, un’analogia con quanto osservato – in ambito ben diverso – da Battista Spagnuoli, detto il Mantovano, nella «Sexta» delle Parthenices: 119 Le tragedie di Messer Giovan Battista Giraldi Cinthio, op. cit., pp. 91-92. 120 Ivi, p. 4. 121 «Il risultato è pichianamente un rientramento sull’uomo, pura potenzialità da tradurre in atto attraverso un’etica razionale. Lo stallo esistenziale della fine degli anni trenta inizio quaranta, avvitato intorno al rapporto fra uomo e divino, fra il mondo sublunare e quello celeste – risolto compromissoriamente con una resa fideistica nella provvidenzialità del dio ‒, è ora attraversato e sciolto in una più coraggiosa rivalutazione dell’individuo e della sua capacità di operare nel reale. In tale superamento Giraldi sembra incentivato dall’assimilazione complessiva della lezione platonica sul duplice di un investimento nella razionalità-intellettualità dell’uomo e di riconsiderazione di eros alla luce della sua natura demonica (di nesso dunque e viatico verso la divinità).», V. GALLO, op. cit., p. 261. 122 Cfr. Capitolo II paragrafo 4. 234 Est specus in campis Lybiae […] Hic, ut fama refert, quondam Sidonia Dido Et pius Aeneas declinavere procellam. Haec venus antiquae fraudis memor elegit antra123 Non a caso, l’episodio della fatidica grotta in cui Venere conduce gli antichi dei preoccupati della diffusione del cristianesimo, avrà un significato particolare nella struttura della Didone di Dolce. Rispetto all’immagine fornita da Virgilio, l’Enea di Giraldi Cinzio non sembra aver nulla del prototipo eroico che dal modello classico passa al contesto cavalleresco124: il condottiero troiano dimostra invece, in questa tragedia, come l’immagine dell’eroe in armi possa rivelare anche un risvolto negativo, mentre – specie in un contesto dominato da Papa Paolo III e Ercole II d’Este, ma anche secondo l’idea di utilità, prudenza e moderazione espressa nel Galateo di Della Casa125 – una qualità imprescindibile diventa la diplomazia: «Percioché niuno si può acquistare gloria nelle attioni di gloria, se non con gran danno di persone. Deliberò dunque il duca Ercole d’acquistare gloria per altra via»126 . Aldilà di un palese calco senecano contenuto nel prologo di sapore terenziano, in cui l’autore sembra prendere direttamente posizione su alcune scelte di carattere poetologico127 (sed vetera querimur, Hercules furens, 19, tradotto Ma sono vecchie / homai queste querele128, con cui è resa l’assonanza in fine di verso) nella Didone è quasi del tutto assente quel gusto del macabro e del crudele che invece trionfa nell’Orbecche, in cui peraltro anche è possibile cogliere un’eco del IV libro virgiliano, come dimostra l’atroce fine di Oronte. Questa provoca un lungo ed amaro sfogo nel messo che racconterà al coro, in modo particolareggiato, il terribile inganno preparato da Sulmone ad Oronte e ai suoi nipoti: il lungo discorso in cui «egli si lamenta di dover vivere in un ambiente che si illude di essere altamente civile, mentre i suoi comportamenti sono più crudeli e feroci di quelli delle bestie selvagge»129 sembra esemplificato proprio sul passo virgiliano del IV libro già da 123 Baptistae Mantuani Carmelitae […] Opera omnia in 4 tomos dinstincta, pluriuso libris aucta et restituta, herausgegeben von L. CUPAERUS und T. PULMANNUS, Antwerpen&Frankfurt a. M., Bellerus (Johannes Lützelberger), 1576, Band 2, 132v . 124 Cfr. G. ANGELI, L’”Eneas” e i primi romanzi volgari, Milano-Napoli, Ricciardi, 1971. 125 A. C. FIORATO, L’occultation du savoir et la raison des autres dans le «Galateo» de Della Casa, in « Le pouvoir et la plume: incitation, controle et repression dans l'Italie du 16. siècle: actes du Colloque international organisé par le Centre Interuniversitaire de Recherche sur la Renaissance italienne et l'Institut Culturel Italien de Marseille, Aix-enProvence/Marseille, 14-16 mai 1981, Paris, Université de la Sorbonne Nouvelle, 1982», pp. 135-157. 126 B. B. GIRALDI CINZIO, Commentario delle cose di Ferrara e de’ principi da Este, Venezia, Sessa, 1597, p. 168. Dello stesso tenore anche un altro passo (ivi, p. 182): «essendo tutta Italia, e tutta la Christianità con gran calamità d’ogniuno, per rispetto de gli odii de’ grandissimi principi, e per le loro discordie infiammate di guerra, esso con quella moderazione, e temperamento, tiene discosto tutti gli incommodi della guerra». 127 Cfr. G. SOLIMANO, op. cit., pp. 280-281, nota 37. 128 Le tragedie di Messer Giovan Battista Giraldi Cinthio, op. cit., p. 10. 129 M. MAŚLANKA-SORO, Il tragico nell’”Orbecche” di Giovanbattista Giraldi Cinzio, in «Romanica Cracoviensia», 2010/10, p. 181. 235 Tasso preso a modello130, con la sostanziale differenza per cui il nunzio ritorce qui contro se stesso gli insulti rivolti da Didone e Armida ad Enea e Rinaldo : perché ne' Rifei monti non sono Più tosto nato, o tra le tigri Ircane Ne gli ermi boschi e ne' più alpestri campi, Ove vestigio uman non si vedesse, Che qui dove i' son nato e son nodrito, Qui dove più d'ogn'aspra fiera crudi Gli uomini si ritrovano? Oh, che giova Viver ne le città più che ne' boschi, Se crudi più d'i lupi e più de gli orsi Gli uomini in esse sono? Qual mai fiera Ne' più solinghi luochi ritrovossi, Ch'usasse crudeltà nel proprio sangue? Dunque cosa vist 'ho via più crudele Che 'n parte alcuna unqua veder si possa. (Orbecche, IV, 1, 1-14). §5 La Didone di Lodovico Dolce (1547) 1. È con Ludovico Dolce che il personaggio di Didone subisce la più complessa e approfondita elaborazione in sede tragica131. Il contesto veneziano è ben diverso da quello per cui furono scritte le opere di Pazzi e Giraldi Cinzio, e non è un dato di poco conto il fatto che la Didone di Dolce sia stata l’unica delle tre ad esser pubblicata vivente l’autore. Virgilio e la tragedia erano infatti fenomeni che godevano di una discreta fortuna: il primo da un punto di vista specificamente editoriale (nove edizioni dell’Eneide tra il 1540 e il 1548)132, mentre la seconda – intesa in senso pienamente teatrale, e non solo come testo scritto – era preferita dalle autorità ecclesiastiche, 130 Cfr. Capitolo II pp. 66-67. 131 Queste le edizioni cinquecentesche: L. DOLCE, Didone, tragedia di M. Lodovico Dolce, con privilegio, Venezia, Aldo Manuzio, 1547, Id., Tragedie di M. Lodovico Dolce, cioè Giocasta, Didone, Thieste, Medea, Ifigenia, Hecuba, di nuovo ricorrette e ristampate, Venezia, Gabriele Giolito de’ Ferrari, 1560, Id., Le Tragedie di M. Lodovico Dolce, cioè Giocasta, Didone, Thieste, Medea, Ifigenia, Hecuba, di nuovo ricorrette et ristampate, Venezia, Domenico Farri, 1566. La sola edizione moderna L. DOLCE, Didone, a cura di S. TOMASSINI, Parma, Archivio Barocco, Edizioni Zara, 1996: particolarmente utile il saggio introduttivo del curatore (L’abbaino veneziano di un «operaio» senza fucina, pp. IXXLIV (da cui si cita). Per un quadro completo sulla figura di Lodovico Dolce cfr. R. H. TERPENING, Lodovico Dolce, Renaissance man of Letters, Toronto, University of Toronto Press, 1997. 132 Cfr. C. LUCAS, op. cit., p. 602 e A. QUONDAM, Le letteratura in tipografia, in «La letteratura italiana», 2, Produzione e consumo, Torino, Einaudi, 1983, pp. 555-686. 236 spaventate dal successo degli spettacoli comici133. Questo concetto è ben chiaro anche nella Dedica alla Didone scritta dall’attore Tiberio d’Armano «al Clariss. Senatore M. Stefano Thiepolo»: «[…] essendo all’incontro il veder comparer nelle scene buffoni con gesti sciocchi e ridicoli, grati comunemente alla maggior parte, per esser sempre minore il numero de gli intendenti. Là onde avendo il padre mio questo carnevale passato aperta in Vinegia la strada ad altrui di avezzar le orecchie corrotte per tanti anni da i giuochi inetti di certi moderni Comici e la gravità Tragica […]»134 . Ma fondamentale è anche l’influsso che, su Dolce, hanno i vari volgarizzamenti di alcune opere latine di Boccaccio, come ad esempio quello del De claris mulieribus approntato nel 1545 da Giuseppe Betussi 135 e proprio in merito a Didone, la distinzione tra tradizione virgiliana e giustinianea ‒ Dolce giudica quest’ultima degna di fede ‒ sembra essere chiara all’autore veneziano, che nell’«Argomento della Tragedia» scrive infatti (specificando anche l’intromissione di particolari nuovi): «Il soggetto è tolto secondo la favola finta da Virgilio, e non secondo la verità dell’Historia. Però l’Autore alcune cose muta, et alcune aggiunge, come la morte di Anna» 136 . Analogamente a quanto fatto da Giraldi Cinzio, anche Dolce divide la sua tragedia in atti e scene137: nel prologo di settenari variamente rimati Cupido presenta se stesso sotto le vesti di Ascanio e anticipa, secondo l’uso senecano, alcuni snodi cruciali dello svolgimento della storia, che viene presentata come conseguenza e riflesso della vendetta di Venere nei confronti di Giunone: Io, che dimostro in viso, A la statura, e a i panni, D’esser picciol fanciullo, Sì come voi mortale: Son quel gran Dio, che ‘l mondo chiama Amore. Quel, che pò in cielo, e in terra, E nel bollente Averno; Contra di cui non vale Forza né human consiglio; Né d’ambrosia mi pasco, 133 L. ZORZI, Il teatro e la città, Torino, Einaudi, 1977, pp. 249-250. Per una panoramica delle rappresentazioni teatrali di opere di Lodovico Dolce, cfr. G. PADOAN, op. cit., pp. 194-196. 134 L. DOLCE, Didone, op. cit., p. 3. Cfr. L. RICCOBONI, Histoire du Théâtre Italien, Paris, Cailleau, 1731, volume II, pp. 45-46. 135 «l’exemplum della castità di Didone, modellato dal Boccaccio, viene rilanciato dal Betussi in una vera e propria strategia di promozione editoriale, con la quale si dimostra la sostanziale parità delle virtù delle donne antiche con quelle moderne», S. TOMASSINI, L’abbaino veneziano di un «operaio» senza fucina, op. ct., p. XX. 136 Ivi, p. 5. 137 «le divisioni per scene sono presenti soltanto nella prima edizione della tragedia (Aldo, 1547)», L. DOLCE, op. cit., p. 12 nota 20. 237 Sì come gli altri Dei, Ma di sangue e di pianto. Ne l’una mano io porto Dubbia speme, fallace, e breve gioia; Ne l’altra affanno, e noia, Pene, sospiri e morti. (Prologo, 1-16). Già da un esame di questi versi è possibile mettere in luce tutta la ricchezza di riferimenti letterari ribollente sotto i versi Dolce che, con materiali fraseologici e semantici di marca prettamente virgiliana, ovidiana e petrarchiana costituisce un riferimento per opere potesriori. A tale proposito, infatti, potrebbe già essere significativo un confronto tra i primi tre versi di Dolce e i versi 1-4 del prologo della Canace di Speroni, ma anche quelli 10-12 dell’Aminta tassiana138: Io, che dimostro in viso A la statura, e ai panni, D’esser picciol fanciullo Agli atti, al volto, a’ panni che spiran tutti amore e leggiadria, alle saette, all’arco di questo ignudo fanciulletto In questo aspetto, certo, e in questi panni non riconoscerà sì di leggiero Venere madre me suo figlio Amore DOLCE, 1-3 SPERONI, 1-4 TASSO, 10-12 oltre molteplici richiami ad altre opere dello stesso Dolce, come L’Achille et l’Enea, il Thyeste e i Modi affigurati e voci scelte et eleganti della volgar lingua. I toni di Cupido appaiono inoltre inaspettatamente decisi e volitivi, rivelando una sfumatura estetica (e indirettamente etica, visto il contesto storico-sociale in cui s’inserisce la tragedia di Dolce) assolutamente degna di nota. Dall’incipit appare infatti chiara la dichiarazione della forza del dio Amore, ben consapevole di questa, e fieramente ribadita con ricorrenti figure retoriche della repetitio, come anafora e geminatio del verbo “voglio”: Ch’i’ voglio tosto, i’ voglio. (Prologo, 40) […] Vo’, che la città nova Si bagni del suo sangue. (Prologo, 46-47) […] Vo’ che ‘l suo fine apporti Altri pianti, altre morti. (Prologo, 50-51) […] Vo’ trar la pallid’ombra Del misero Sicheo (Prologo, 63-64) […] E vo’ ch’a Dido ella si mostri innanzi. (Prologo, 67) […] 138 Per gli stretti rapporti tra queste due opere cfr. R. CREMANTE, Appunti sulla presenza della” Canace” di Sperone Speroni nell'”Aminta” di Torquato Tasso, in «Criticon», nn. 87-89, 2003, pp. 201-213. 238 E questa i’ vo’, che tutto l’empia il core. (Prologo, 75). Proprio nel contesto veneziano, quindi, in tempi di concilio tridentino (nel cui ambito anche la discussione circa il valore del matrimonio ha centrale importanza139 , e questo è riflesso nella tragedia di Dolce), un secolare assetto socio-culturale sembra vacillare sotto le provocazioni e le allusioni di quella valvola di sfogo che è la dimensione teatrale. Proprio in virtù di ciò, delle pulsioni antropologiche e psicologiche che possono ravvisarsi dietro tale operazione di transcodificazione che è la Didone, è (anche) spiegabile il furore distruttivo che manifesta, in apertura d’opera, Cupido, vera e propria forza ctonia140. Anche nell’incpit del riepilogo che Didone fa in apertura del primo atto (per la maggior parte endecasillabico), è possibile inserire i versi del Veneziano in una costellazione di riferimenti classici e coevi che da Virgilio spaziano fino a Rucellai e Speroni: Anna, sorella mia, sorella e madre (Ch’a l’infinito amor, che tu mi porti, Certo io non so trovar più degno nome): Se infatti il primo endecasillabo è chiaramente debitore della coppia classica: Anna soror, quae me suspensam insomnia terrent! Anna soror, soror Anna, meae male conscia culpae, Eneide, IV, 9 Heroides, VII, 191 tutta l’invocazione, per scelta terminologica e costruzione fraseologica, mostra evidenti analogie con varie tragedie a Dolce sicuramente ben note141: Anna, sorella et madre, il cui troppo amore Sempre si sprona a observar miei passi E so che ‘l grande amor che tu mi porti PAZZI, Didone in Cartagine142 TRISSINO, Sofonisba, 15 Cara Nutrice mia, nutrice e madre Quell’amore infinito che tu porti Alla figlia in comune RUCELLAI, Rosmunda, 9 SPERONI, Canace, 1011 139 Cfr. P. SARPI, Istoria del concilio tridentino, Torino, Einaudi, 1974, volume I, pp. 389 e 391. 140 V. GALLO, Da Trissino a Giraldi – Miti e topica tragica, Manziana, Vecchiarelli, 2005, op. cit., pp. 162-163: «La centralizzazione di cui gode Didone si spiega non solo alla luce della sua drammaticità, ma anche in quanto fulcro […] di un’antropologia interessata alla messa a fuoco dell’elemento passionale. La consolidata tradizione esegetica […] consegnava infatti al primo Cinquecento l’im-magine della donna punica quale emblema dell’amor-furor, del desiderio erotico che ottenebra la mente, della libidine ferina: Didone, nel suo duplice statuto di regina-amante, assurgeva a exemplum morale della colpevole e autodistruttiva acquiescenza all’eros, nei suoi duplici risvolti politici e individuali». 141 Cfr. L. DOLCE, Didone, op. cit., p 12, note 21 e 22. 142 A. PAZZI DE’ MEDICI, op. cit., p. 63. 239 e particolare importanza sembra rivestire il ricordo dell’episodio cruciale della grotta, su cui – come si è visto – anche il Mantovano si era soffermato. Un’analisi diacronica della narrazione dell’episodio permette la connessione di massima Ovidio-Ariosto-Dolce, ma sono possibili anche altre suggestioni con diversi loci: i versi di Dolce: Me condussero a lui soli in disparte Ne la spelunca, tesimonia eterna De’ primi nostri abbracciamenti cari. Quivi conchiusi il matrimonio: quivi Egli de ‘amor mio raccolse il frutto (Didone, I, 129-133) sono infatti in prima battuti collegabili a Illa dies nocuit, qua nos declive sub antrum Caeruleus subitis compulit imber aquis nel mezzo giorno un antro li copriva, forse non men di quel commodo e grato, ch’ebber, fuggendo l’acque, Enea e Dido, de’ lor secreti testimonio fido Heroides, VII, 93-94 Orlando furioso, XIX, XXXV, 5-8 ma l’episodio della grotta – ad ulteriore conferma di come uno degli snodi cruciali della fabula fosse fondamentalmente di natura erotica, come ben espresso dalla metafora del “frutto colto” – era già stato trattato da Dolce, ne L’Achille et l’Enea, il cui passo risente, in questo, del locus parallelus giraldiano, che a sua volta mostra una palese discendenza dantesca143: Et ivi de l’amor lor colsero il frutto […] E la infelice, e misera, Didone, Rotta la fede al cener di Sicheo, Si crede che sia stato matrimonio, E matrimonio chiama il suo lascivo atto Erano insieme, e andaro unitamente A una spelunca Dido, e ‘l Duca saggio: Ove ambedue d’ogni sospetto furore, Colsero i frutti del comune amore GIRALDI, Didone144 L’Achille e l’Enea, XXXV, XIX, 5-8 Ella furtivo amor questo non chiama, Ma fermo nodo, e matrimonio honesto: E a quel, che si può dir, ordisce e trama Scusa d’honor sotto a cotal pretesto L’Achille e l’Enea, XXXV, XXI, 1-4 Significativi sono la particolare scelta e l’accostamento di alcuni termini, in particolare fermo nodo (evidente la suggestione petrarchiana et più bel nodo ài sciolto, RVF, CCLXXXIII, 4, da Leopardi 143 L. DOLCE, Didone, op. cit., p. 15, nota 47. 144 Le tragedie di Messer Giovan Battista Giraldi Cinthio, op. cit., p. 63. 240 commentato «dal suo legame corporeo») seguito da matrimonio onesto, volti a contrastare la tempesta, sotto cui s’adombra chiaramente una pulsione di tipo sessuale. Raddoppiando lo schema Enea-Acate applicato da Giraldi Cinzio, comunque imitato da Dolce, anche Anna costituisce il richiamo della ratio volta ad arginare gli sbandamenti della regina cartaginese, e proprio a lei Didone racconta il sogno, la cui descrizione, come dimostrano i versi 222-233, ancora una volta appare interamente costruita su svariati riferimenti145: A me parea, ch’io fossi In un bel prato herboso, Ove un fiume correa di puro argento. E presso a me sedea Questo mio core et alma, Coronando i miei crini D’una ghirlanda verde, Ch’egli tessuto avea con le sue mani, E meco compartìa dolci parole Con sì söavi accenti, Ch’acquietavano i venti; Non menò Febo mai più chiaro giorno. Pareva a me ch’io fossi […] [Pippa:] «Stamane in su l’alba mi pareva d’essere […]» Speroni, Canace, 396 Aretino, Dialogo, Seconda giornata Parea ad Orlando, s’una verde riva d’odoriferi fiori tutta dipinta, Orlando furioso, VIII, LXXX, 1-2 Sopra un’erbosa riva Di corrente cristallo Un vago, e bianco Cigno Sorgeea curvando il collo Sopra ‘l candido grembo D’una bella fanciulla, Che tessa d’erbe, e fiori Fresche ghirlande […] Rucellai, Oreste, 2042-2049 Tanto i versi ariosteschi quanto la descrizione della vicenda di Giove e Leda fatta da Oreste risentono chiaramente di un bagaglio semantico petrarchiano, anche in virtù della mediazione bembiana, come dimostrano i söavi/beati accenti: post’ài silentio a’ più soavi accenti che mai s’udiro, […] E quetar tutti i venti Al suon de’ primi suoi beati accenti Con sì söavi accenti146 RVF, CCLXXXIII, 6 Asolani, III, VIII, 44-45 Didone, I, 231 come anche non menò Febo mai più chiaro giorno sembra modellato sull’endecasillabo di RVF, CCCXXV, 69, Il sol mai sì bel giorno non aperse. L’incanto del locus amoenus, in cui la regina si trova in compagnia di Sicheo, è turbato da un’oscura irruzione: Si mosse un nembo oscuro, 145 L. DOLCE, Didone, op. cit., p. 21, note 80 e 81. 146 La dittologia söavi accenti è utilizzata da Dolce anche nelle Stanze nella Favola d’Adone (V, 3-4): […] e di söavi accenti / Fan risonar l’amiche valli ombrose e XXIV, 5: Sciolse la lingua in sì söavi accenti. Ivi, p. 21 nota 82. 241 Che rese il giorno [in] notte Sì tenebrosa, ch’io Non vedeva più luce, Sì come io fossi giù nel cieco Inferno. Dapoi mostrossi un raggio, Che fe’ sereno intorno: Ma per fisar la vista Più non potei vedere Il caro mio consorte. Onde con viso di color di morte Cercando ‘l gìa, ma non sapeva dove; Quando a man destra aprir vidi una fossa, Ch’era piena di sangue: Et una voce udìo Dirmi: «Infelice Donna, Donna mesta e dolente, Entra costà: che ‘l tuo Sicheo t’aspetta». Alhor partissi il sonno; e mi trovai Gli occhi di pianto, e ‘l sen bagnati e molli. (Didone, I, 236-255). Dolce media in questo caso il nembo oscuro da Ariosto e Bembo: Oh sommo Dio, come i giudicii umani spesso offuscati son da un nembo oscuro! «Suole a’ faticosi navicanti esser caro, quando da oscuro e tempestoso nembo assaliti e sospinti né stella scorgono, […]» Orlando furioso, X, XV, 1-2 Asolani, I, 1 mentre l’immagine del sonno improvvisamente perso è desunta da Petrarca e da Trissino: Et dopo questo si parte ella, e ‘l sonno […] così disparve il sonno che m’ha lasciato, ohimé, troppo confusa. RVF, CCCLIX, 71 Sofonisba, 116-117 Anche l’affermazione di Didone: Prima, che questo avenga, Ch’abandonata i’ sia Dal mio novello sposo, Alcun Iddio pietoso Tronchi subitamente Lo stame, a cui s’attien la vita mia. (Didone, I, 1, 262-267), 242 si richiama all’archetipo virgiliano (Eneide, IV, 693-705), ma è filtrata attraverso Petrarca, Ariosto e Speroni: Sì è debile il filo a cui s’attene La gravosa mia vita Se lo sapessi esser Ruggier, da cui de la tua vita pendono gli stami Deh, perché non troncate, Anzi che ciò avegna, Lo stame a cui s’attiene Questa mia vita indegna? RVF, XXXVII, 1-2 Orlando furioso, XLV, LXXX, 3-4 Canace, 797-800 2. Nella prima scena del II atto compare nuovamente Cupido che, invita Sicheo, con toni che ricordano il prologo della Didone di Pazzi, a mostrare a Didone la sua pallida imago: a lui, invece, il compito di iniettare nelle vene della regina cartaginese il furor amoris: è proprio ribadendo questo distruttivo nesso eros/thanatos che Cupido vuole confermare la sua inarrestabile, quindi estremamente pericolosa, potenza distruttrice, propria di una forza ctonia. Anche in questo caso è possibile individuare nel Canzoniere, e ancor prima nell’Inferno dantesco, un’importante fonte d’ispirazione: Che in tanto io le porrò su ‘l bianco petto Questo serpe sanguigno, horrido, e fiero C’ho divelto pur’hora Dal capo di Megera, Il qual il cor di lei roda e consumi. A la vendetta muovi, Acciò che tosto giù nel cieco Regno Venga a trovarti; e poi Teco parta le pene, e i dolor’ suoi. non altrimenti Tideo si rose le tempie a Menalippo per disdegno Inferno, XXXII, 130- 131 Vedi com’arde in prima, e poi si rode, tardi pentito di sua feritate Triumphus cupidinis, III, 70-71 Or ti consuma e piagni RVF, XXXVIII, 8 […] ove ‘l piacer s’accende che dolcemente mi consuma et strugge RVF, LXXII, 39 Didone, II, 1, 373-382 Enea si presenta sulle scene con una riflessione di carattere generale, e di tono gnomico, circa l’imprevedibilità delle umane sorti: Oh quanto son diversi i pensier’ nostri Dal voler di colui, che ‘l tutto regge, Quanti disegni se ne porta il vento. Oh fallaci speranze, oh vita incerta Lieve e mutabil più, ch’al vento foglia: Chi fia, che preveder possa il suo fine? (Didone, II, 2, 392-398). 243 Come si vede, se l’eco di Petrarca è ancora presente (I’ mi fido in Colui che ‘l mondo regge, RVF, CV, 42), è possibile anche cogliere un influsso del Cicerone autore del De oratore (tradotto proprio negli anni della composizione della Didone) 148, mediato inoltre dall’Ecerinis di Mussato e dalla Sofonisba trissiniana 149 . Ma, aldilà dei costanti e variegati richiami letterari, è importante focalizzare l’attenzione sul personaggio di Enea: come ben riassume Corinne Lucas, infatti: «Alors que dans la Dido de Pazzi le héros est déresponsabilisé du drame de manière artificielle puisqu’il est eliminé de la pièce, dans celle de Giraldi, il est représenté dans un moment de faiblesse et dans celle de Dolce il devient un citoyen comme il faut de la République de Venise»150. Ed è proprio Venezia, infatti, ad essere omaggiata da Dolce, nella sermocinatio di Enea che riporta le parole di Mercurio: 147 L. DOLCE, I tre libri dell’Oratore di M. Tullio Cicerone, tradotti in volgare da M. Lodovico Dolce, e in questa nuova edizione illustrati con una prefazione istorico-critica, Venezia, Pietro Bassaglia, 1745, p. 160. 148 L. DOLCE, Il dialogo dell’oratore di Cicerone, tradotto, Venezia, Gabriele Giolito de’ Ferrari, 1547 e Id., Il dialogo dell’oratore di Cicerone, tradotto da M. Lodovico Dolce, e nuovamente da lui ricorretto, e ristampato con una utile espositione di quanto a più piana intelligenza di tale opera s’appartiene, Venezia, Gabriele Giolito de’ Ferrari, 1554. 149 Cfr. L. DOLCE, Didone, op. cit., 31, nota 128. 150 C. LUCAS, op. cit., p. 598. «O fallacem hominum spem fragilemque fortunam et inanis nostras contentiones!» «O fallaci speranze degli uomini! Volubile fortuna, e vani nostri disegni, i quali spesso in mezzo il cammino ci sono interrotti; e prima si sommergono nell’onde di questa vita mortale, che possano vedere il porto!» De oratore, III, 1, 7 DOLCE, I tre libri dell’Oratore di M. Tullio Cicerone147 O fallax hominum premeditatio Eventus dubii sortis et inscia Venture! Instabiles nam variat vices Motus perpetue continuus rote Ecerinis, 432-435 O speranza fallace, o mondo cieco, ahi come ogni pensier tosto rivolgi. Sofonisba, 1663-1664 E ch’ogni mio sperar sen porta il vento Tullia, 644 Oh fallaci speranze, oh vita incerta Lieve e mutabil più, ch’al vento foglia Didone, II, 2, 396-397 244 Enea, infatti, ha il compito di raggiungere l’Italia, se non altro per tutelare la gens che discenderà da Ascanio: E i cui tardi nipoti, dopo molto Girar di cielo, e lungo spazio d’anni, A un’altra gran città daranno inizio, Con più felice augurio, in mezo l’acque. Ove la pace sempre, ove l’amore, Ove virtude, ove ogni bel costume Terranno il pregio in fin che duri il mondo. Quivi la bella Astrea regnerà sempre Coronata i bei crin’ di bianca oliva: Quivi ne’ tempi torbidi et aversi A’ travagliati fia tranquillo porto. (Didone, II, 2, 543-463); In sensibile, benché giudiziosamente sottaciuta, controtendenza rispetto ai reali costumi, la Serenissima viene infatti idealmente descritta da Dolce come un accogliente porto, la cui vita è retta da ferree leggi morali e basata su un rigore etico di comprovata fede. E proprio in reazione a ciò, Enea sembra riscuotersi da una sorta di torpore sentimentale, o forse più specificamente erotico, che lo ha offuscato per quasi un anno: ritorna quindi, seppur peculiarmente adattato da Dolce al contesto storico-culturale in cui la Didone nasce, quel processo di diseroicizzazione del personaggio già presente in Giraldi Cinzio; il teatro dolciano, inoltre, sembra costantemente mostrare un ben più marcato interesse nei confronti delle vicende private – borghesi – dei suoi protagonisti, piuttosto che per la struttura strettamente tragica ed eroica propria del loro background storico. La messa a nudo della natura antieroica di Enea è palese nelle parole che Mercurio gli rivolge, e che il condottiero troiano riporta ad Acate: E in poter d’una donna, onde sei sposo, Anzi più tosto divenuto servo, Edifichi città a strane genti: (Didone, II, 2, 430-432) Se nei primi due versi l’offesa d’esser finito in poter di donna (della quale comunque Enea viene considerato sposo) è ribadita e rafforzata con la constatazione dello stato di servitù in cui si è ridotto il figlio di Anchise, nel terzo ritorna l’idea di una superiorità della gens Romana altrimenti accomunata al popolo greco, come si assembla Enea a Giasone con relativi sprezzanti pareri su Didone e Medea151. É ancora a Petrarca, oltre che a Dante (E con cose nostrali e con istrane, Inferno, XXII, 9), che è utile guardare, per capire l’utilizzo dell’espressione strane genti152: 151 Cfr. Capitolo I pp. 24 e passim. 152 S. TOMASSINI, op. cit., p. 33 nota 138, opportunamente cita ad locum la Tullia, in cui l’espressione genti strane ricorre varie volte, ma soprattutto L. DOLCE, Paraphrasi nella sesta satira di Guivenale [p. 29]: «huomini istrani e 245 O diluvio raccolto Di che deserti strani, per inondar i nostri dolci campi! RVF, CXXVIII, 28-30 Non si pareggi a lei qual più s’apprezza, in qual ch’etade, in quai che strani lidi; RVF, CCLX, 7-8 Che vale a soggiogar gli altrui paësi E tributarie fra le genti strane cogli animi a suo danno sempre accesi? Triumphus mortis, I, 94-96 Ma è l’effeminatezza la peggiore offesa che può essere rivolta ad un soldato: Ei [Mercurio] ti comanda, che veloci sgombri Da questi liti, ove t’hai fatto nido, Pien di lascivia, effeminato, et molle: (Didone, II, 2, 440-442): Se una sensibile variatio, sia rispetto all’ipotesto virgiliano, in cui il termine di paragone negativo è Paride, sia ad un altro locus di Dolce relativo a questo punto, consiste nella provenienza divina (Mercurio) e non umana (Iarba) del rimprovero: Et nunc ille Paris cum semiviro comitatu, Maeonia mentum mitra crinemque madentem Subnixus, […] Al fin con fiamme dishoneste e tòrte D’indegno amor, ch’in lei sue faci s’aventa, S’è data ad huomo effeminato e tale, Che Pari non cred’io gli fosse eguale Eneide, IV, 215-217 L’Enea, IV, LII, 5-8 la dittologia sinonimica effeminato e molle viene prelevata dall’autore veneziano dalla Didone di Giraldi Cinzio: In tal maniera hor vinto è da Didone, Ch’egli, come huomo effeminato, e molle, Tutto è sotto l’arbitrio di costei153 per passare poi, a sua volta, nelle parole di Acate in Marlowe, «This is no life for men-at-arms to live, Where dalliance doth consume a soldier’s strength, And wanton motions of alluring eyes Effeminate our minds, inur’d to war (The tragedy of Dido, Queen of Chartage, IV, 3, 32-36)154 . barberi», Id., Thieste, 10r, L’ho spinto a ricercar strani päesi e Id. L’Enea, IV, LXXXIII, 8, Lecito è di cercar paësi strani. 153 Le tragedie di Messer Giovan Battista Giraldi Cinthio, op. cit., p. 54. 154 Per i problemi di datazione della tragedia di Marlowe, scritta con ogni probabilità prima del 1586, cfr. Introduction a C. MARLOWE, Dido, Queen of Chartage. The Massacre at Paris, ed. by H. J. OLIVER, London, Methuen, 1968, pp. 246 Solo accennato in Virgilio, ma già finemente sviluppato da Dolce ne L’Enea, il dilemma di Enea è ben riassunto da Acate, Atque animum nunc huc celerem, nunc dividit illuc In partisque rapit varias perque omnia versat. Fa pensier’ molti, et hor questo abandona, Hor lo riassume, et hor quell’altro piglia; E ‘n variee guise nel suo cor ragiona, Hora a un modo, hor ad un altro si consiglia. Eneide, IV, 284-285 L’Enea, IV, LXVII, 1-4 E sempre in tutti i fatti e imprese vostre Preponeste l’honesto a quel, che piace (Didone, II, 2 492-493), ed è lo stesso fido consigliere del duce troiano a sforzarsi di fornire una giustificazione di natura teorica all’atto ‒ evidentemente ritenuto poco elegante e ancor meno eroico – della partenza: la cervellotica elucubrazione del Troiano inizia con la riflessione: Non credo, che qua giù si trovi affanno Tanto possente, che conduca donna A darsi morte con la propria mano. (Didone, II, 2 593-595), per chiudersi – dopo aver nominato l’acerba morte di Sicheo (v. 597, modellato evidentemente sull’esempio trissiniano Quando la bella moglie di Sicheo / Dopo l’indegna morte di Sicheo, Sofonisba, 22-23) – con gli endecasillabi 600-601: Ma posto ancor che s’occidesse; questo Homicidio sarà de le sue mani volti a scaricare ogni possibile responsabilità non solo sentimentale, bensì morale, di un imminente suicidio. Questa gretta freddezza sembra contrastare in modo ancor più violento con la descrizione, di marca assolutamente petrarchiana, che Enea fornisce, nel dettaglio, della bellezza di Didone: Appresso, la bellezza, e l’honestate, E la virtù, la gentilezza, e ‘l senno, Ond’ella è ‘l fior de le più chiare donne. (Didone, II, 2, 521-523)155 , dopo aver citato à la lettre un’altra espressione, di carattere generale, dello stesso autore: Gran giustizia a gli amanti è grave offesa Gran giustizia a gli amanti è grave offesa Triumphus Cupidinis, II, 52 Didone, II, 2, 504 IX-XXVI. Cfr. anche E. BUCKLEY, ‘Live false Aeneas!’ Marlowe’s Dido, Queen of Carthage and the limits of translation, in «Classical Reception Journal», 2011, 3(2), 2011, pp. 129-147. 155 Cfr. RVF, CCXLVII, 3-4, faccendo lei sovr’ogni altra gentile, /santa, saggia, leggiadra, honesta et bella. 247 Altrettanto significativo – visto il portato etimologico che il termine fides si è visto avere nel IV libro dell’Eneide156 ‒ che le ultime parole pronunciate da Enea nel II atto inizino ammirando proprio la fede di Acate: Acate mio la tua sincera fede, A me sì chiara, ogni gran merto avanza; (Didone, II, 2, 643) mentre ancora di carattere gnomico è il tono del monologo, corrispondente alla scena terza, di Acate (655-667), come d’ordinanza infarcito di loci similes con la Sofonisba trissiniana, la Rosmunda di Rucellai, oltre che con la Didone di Giraldi Cinzio. 3. Il terzo atto, cuore della tragedia, inizia con uno scambio di battute tra Barce – i cui tratti fisiognomici sono desunti da Petrarca, ma più direttamente da Trissino e Aretino157 – e il coro, con la descrizione della ieroscopia da parte di Barce che risente fortemente di vari passi dell’ Oedipus senecano, specie per i particolari più crudi: […] magna pars fibris abest et felle nigro tabidum spumat iecur. Ben si vide il fegàto a destra parte Tutto di negro fèl spumoso e brutto. Oedipus, 357-358 Didone, III, 1, 753-754 Nella descrizione della «nudrice di Sicheo» si insiste molto sulla caratterizzazione cromatica di vari elementi (negro; ceruleo; verde; sanguigno), ma il nocciolo della turba di Didone è nella contrapposizione tra “rosso” e “bianco”: riprendendo infatti l’incontro/scontro, “vir rubeus” /“foemina alba”, forte di profonde connessioni alchemiche e già presente nella descrizione del sogno del primo atto, l’allusione alla congiunzione carnale avvenuta nella spelunca, con il sangue che macchia una purezza irrimediabilmente perduta, risulta qui alquanto implicita nei versi che raccontano come il sangue della vacca sacrificata abbia insozzato le candide vesti di Didone: Tacito il Sacerdote il bianco collo Trafisse de la vittima più volte Fin ch’ella cadde: e sì lontano il sangue N’andò, che ‘l drappo di candor di neve De la Reïna (e mi sgomento a dirlo) In molte parti di vermiglio tinse. (Didone, III, 1, 741-749). Il gusto per la meraviglia – categoria riconosciuta degna di autonomia da Giraldi Cinzio nel Discorso sulle commedie e le tragedie e come tale applicata a partire da Gli Antivalomeni158 – 156 Capitolo II paragrafo 1 e infra p. 204. 157 Il crin canuto e bianco della Barce (Didone, III, 1, 718) di Dolce sembra infatti esemplificato sul petrarchiano (RVF, XVI, 1) Movesi il vecchierel canuto e biancho, ma tale dittologia sinonimica è utilizzata anche da Trissino (Sofonisba, 1431), Rugosa fronte, o pel canuto e bianco e da Aretino (Orazia, prologo, 49), ne i dì canuti e bianchi. Cfr. L. DOLCE, Didone, op. cit., p. 49 nota 208. 158 Cfr. C. LUCAS, op. cit., p. 599. 248 informa la narrazione di Barce la quale, dopo aver detto dell’apparizione dell’ombra di Sicheo, descrive quella del serpente sul corpo di Didone: questo particolare, invenzione di Dolce, è stilisticamente e lessicalmente costruito su un passo del settimo libro dell’Eneide: Huic dea caeruleis unum de crinibus anguem Conicit, inque sinum praecordia ad intima subdit, Quo furibunda domum monstro permisceat omnem. Ille inter vestis et levia pectora lapsus Volvitur attactu nullo, fallitque furentem Vipeream inspirans animam; fit tortile collo Aurum ingens coluber, fit longae taenia vittae Innectitque comas et membris lubricus errat Fu posto a lei da non veduta mano Un serpe al collo, che con molti nodi Lo cinse errando, e sibillando pose La testa in seno; e la vibrante lingua Quinci e quindi leccò le poppe e ‘l petto Eneide, VII, 346-353 Didone, III, 1, 784-788 con un più marcato gusto per la descriptio erotica del corpo della donna. Essendo ormai Didone ineluttabilmente preda di un furor sempre più incontenibile e disperato, giunge sulla scena un nunzio a comunicare come, durante una battuta di caccia, abbia ascoltato due Troiani che parlavano della prossima partenza. Alla disperazione di Didone, in cui è nuovamente possibile cogliere un’eco del Canzoniere, Misera me, ben apparecchia il cielo Di versar sopra me larga procella. Ma vo’ gir dentro a disfogar il core, Quanto bisogna a disfogare il core (RVF, XCII, 8) Che per nuovo dolor tutto si strugge. (Didone, III, 3, 869-872), segue, nella scena quarta, uno scambio tra nunzio e coro, che espongono rispettivamente ragioni e spiegazioni pro e contra Enea. L’incontro/scontro fatale tra quest’ultimo e la regina cartaginese avviene nella scena settima, in cui il discorso di Didone risente fortemente dei versi virgiliani (Eneide, IV, 305-330), tenuta presente la fondamentale mediazione aretiniana del Dialogo – Seconda giornata159 . A differenza delle omonime tragedie di Pazzi e Giraldi Cinzio, in questo punto di cruciale importanza strutturale e drammaturgica il linguaggio di Dolce contiene vari lemmi di chiaro valore deittico, che avvalorano l’ipotesi di una reale messa in scena della Didone, come dimostra ad esempio il verso 1125 (III, 7): Né la data a me fé con questa mano160 . 159 Cfr. infra, p. 204. 160 S. TOMASSINI (op. cit., p. 72 nota 282) riporta ad locum il passo tratto dalle Imagini delli dei de gl’antichi di Vincenzo Cartari pubblicate a Venezia nel 1556: «Et per esser creduto, che la fede propria della Fede fosse nella destra mano, e che questa perciò le fosse consacrata, come dissi, ella fu anco sovente mostrata con due destre insieme giunte, et alle volte ancora erano fatte due figurette, che si davano la mano l’una all’altra. Onde gli antichi ebbero la destra mano in gran rispetto, come cosa sacra». Notizie circa la rappresentazione della Didone di Dolce le fornisce M. PIERI in Recitare la tragedia, in «Il verso tragico dal Cinquecento al Settecento », Atti del Convegno di Studi, Verona, 14-15 maggio 2003 a cura di G. LONARDI e S. VERDINO, Padova, Esedra, 2005, pp. 20-21. 249 Se le parole di Didone sono dettate da un sentimento sincero (o meglio sinceramente disperato), quelle di Enea (vv. 1184-1239) avvalorano la tesi, prima sostenuta, del definitivo accantonamento dell’eroe classicamente – e monoliticamente – inteso, per far spazio ad un personaggio che, tra dubbi e perpessità, elucubrazioni, discolpe e meschinità, assume sempre più le caratteristiche del prototipo borghese, ed è proprio in questa precisa ottica che va inquadrata la sapienza dissacrante e metamorfica dell’operato aretiniano161. Anche la Didone di Dolce non manca all’appello della topica accusa, nei confronti di Enea, di selvaggia crudeltà, tipica di chi si spaccia per figlio di divinità, essendo in realtà cresciuto tra bestie feroci. Ed è probabilmente sui versi di Dolce che Marlowe fornisce la sua versione del passo162: Caucaso istesso, od altro horrido monte De la nevosa Scithia vi produsse, E vi dieder le Tigri Hircane il latte. Thy mother was no goddess, perjur’d man Nor Dardanus the author of thy stock; But thou art sprung from Scythian Caucasus, And tigers of Hyrcania gave thee suck Didone, III, 7, 1245-1247 V, 1, 156-159 In una climax di tensione, tra gli insulti verso Enea, nimico di pietà, di fé rubello (Didone, III, 7, 1240), la regina fenicia inizia ad essere sconvolta da terribili presentimenti, come la varie anafore del verbo “vedere” indicano163: Oimè, ch’io veggio le Infernal’ sorelle Cingermi intorno, e minacciarmi morte; Veggo le serpi oimè, veggo le faci Ne i fochi accese del bollente Averno. (Didone, III, 7, 1265-1268). Solo dopo una sticomitia, in cui Enea risponde sentenziosamente a vari quesiti posti dal coro164, il condottiero troiano sembra abbandonarsi ad una riflessione interiore, a voce alta, dettata da sincerità: 161 «Se nel testo virgiliano Enea parla e vive con distanza gli eventi, perché abitato coscientemente da un destino superiore, nella versione del Dolce l’insicuro pio troiano, quasi preda del più lucido volere del dogmatico Acate, mente per viltà («vil pensiero») e incapacità di dominare il proprio desiderio («il fren de’ miei desiri»), tra nostalgia e melanconia del proprio milieu domestico («amato mio terreno … dolci campi»). Per Dolce la vocazione eroica del personaggio di Enea è quindi quella di sparire, a basso regime, in un circolo vizioso di preoccupazioni “domestiche”», S. TOMASSINI, op. cit., p. 75 nota 304; questo potrebbe ricevere ulteriore conferma dalle parole del locus parallelus (L. DOLCE, L’Enea, IV, LXXX, 1-4): Al fine, io non avrò giamai negato” / Disse “Regina, come ingrato suole, / Che tu da me non abbi meritato, / Quanto spiegar potrian lunghe parole». 162 Per i loci paralleli nella Tullia di Martelli e nel Thyestes di Dolce, oltre che nelle tragedie ispirate alla regina cartaginese di Pazzi e Giraldi CInzio, cfr. S. TOMASSINI, op. cit., p. 78 nota 317. 163 Cfr. SENECA, Thyestes, 1038-1039 e relativo locus paralleus del Thyestes dolciano. 164 ENEA: Crudel sarò, se i miei nipoti uccido. CORO: Uccider non si pò chi non è nato. ENEA: S’uccide allhor, che si disperde il seme. CORO: Non è questo terren da sperar frutto? ENEA: Non comandan gli Dei, ch’io qui mi fermi. CORO: Dunque sète disposto di partirvi? ENEA: Poi che necessità m’induce a farlo. L. DOLCE, Didone, III, 8, 1316- 1321. 250 Ahi troppo acerba, e troppo dura legge: Poi che debbo voler, quel che m’ancide. Ah misera Didone, et io crudele, S’io potrò senza te restar in vita (Didone, III, 8, 1335-1338). Con procedimento analogo a quanto fatto da Giraldi Cinzio165, nella seconda stanza del coro (in questo caso formato da endecasillabi e settenari su schema abC. abC. cdeeD. eE) conclusivo dell’atto viene nominata Medea: Sàssel Giasone infido, Quando lasciò Medea, E sé crudel d’altri legami avinse; Ch’arse Crëùsa, e ‘l nido, Che la sposa accogliea; Et ella i proprii, e di lui figli estinse. (Didone, III, 8, 1352-1357) Nessuno meglio della figlia di Eeta, infatti, potrebbe raffigurare l’ipostasi della cieca furia amorosa. 4. Nel quarto atto, dopo uno scambio di battute in cui Anna è invitata dalla sorella a convincere Enea a rimandare la partenza: E che tentassi con le tue parole D’impetrar al vïaggio, ch’apparecchia, Tanta dimora che trapassi ‘l verno, Ond’abbia al navigar venti migliori; (Didone, IV, 1, 1392-1395), Didone, seguendo più fedelmente l’esempio di Giraldi Cinzio appena citato per Medea, si colloca metaletterariamente tra coloro che furono sedotte e abbandonate: il modello è chiaramente l’Ovidio delle Heroides166: Oimé, che tra le donne, ch’ingannate Da’ lor mariti fôro, È senza ugual l’alta miseria mia. Paris lasciò la sfortunata Enone, E Demofonte Fille; Tradì Thesèo la figlia di Pasife. Così ingrato Giason fu già di Medea. Ma di queste nessuna Cagione ebbe giamai tanta, e sì giusta 165 Cfr. infra p. 231. 166 Nell’ordine V (Oenone Paridi); II (Phyllis Demophoonti); X (Ariadne Theseo); XII (Medea Iasoni). 251 Da dolersi, quant’io di mia fortuna: Ch’al perfido d’Enea Donai la vita, e poi L’oro, lo stato e la persona mia. (Didone, IV, 1, 1470-1482); ma l’elenco è formulato da Didone per mettere in rilievo come il suo dolore non sia paragonabile agli altri, comunque sfortunati, casi citati: Enea è infatti definito (IV, 1, 1490) Serpe tra’ fiori, con una riuscita immagine di innegabile forza evocativa (oltre che allusivamente erotica), ma al contempo, di solida tradizione poetica, come Virgilio, Petrarca, Pazzi, Poliziano e Marlowe dimostrano: Il dolore della regina è talmente insopportabile che – esattamente come Madonna Fiammetta168 – ella già si prefigura afflitta da tormenti infernali, paradigmaticamente evocati, sulla linea del VI libro dell’Eneide, delle Metamorfosi ovidiane e di varie tragedie senecane169, nelle pene di Sisifo, Titio, Tantalo e Issione: Tra le prive di luce alme dolenti In sempiterne pene, Non è doglia, e martir, ch’in me non sia; Ch’io sento il sasso sopra a le mie spalle Ond’è Sisifo grave, E nel cuor l’Avoltor, che Titio pasce: E con Tantalo posta a la fontana, Veggo, che da me fugge 167 Le tragedie di Messer Giovan Battista Giraldi Cinthio, op. cit., p. 61. 168 «Lo ‘nferno, de’ miseri suppremo supplicio, in qualunque luogo ha in sé più cocente, non ha pena alla mia somigliante. Tizio ci è pòrto per gravissimo essemplo di pena dagli antichi autori, dicenti a lui sempre essere pizzicato dagli avoltoi il ricrescente fegato, e certo io non la stimo piccola, ma non è alla mia simigliante; ché se a colui avvoltoi pizzicano il fegato, a me continuo squarciano il cuore cento milia sollecitudini più forti che alcun rostro d’uccello. Tantalo similmente dicono tra l’acque e li frutti morirsi di fame e di sete; certo e io, posta nel mezzo di tutte le mondane delizie, con affettuoso appetito il mio amante desiderando, né potendolo avere, tal pena sostengo quale egli, anzi maggiore, però che egli con alcuna speranza delle vicine onde e de’ propinqui pomi pure si crede alcuna volta potere saziare, ma io ora del tutto disperata […]», G. BOCACCIO, Elegia di Madonna Fiammetta, VI. Anche in questo caso S. TOMASSINI (op. cit., pp. 93-94 nota 373) punta l’attenzione su varie analogie con diversi passi del Thyestes di Dolce, ma anche de l’Orbecche di Giraldi Cinzio. 169 VIRGILIO, Eneide, VI, 595-617; OVIDIO, Metamorfosi, IV, 457-461 e X, 41-44; SENECA, Hercules, 750-759, Medea, 744-749, Thyestes, 1-12, Octavia, 621-623, Hercules Oetaeus, 940-946 e 1068-1082. […] latet anguis in herba Ecloghe, III, 93 So come sta tra fiori ascoso l’angue Triumphus Cupidinis, III, 157 Come serpe calcata in mezo l’erba Didone167 o ver tra fiori un giovincel serpente Stanze, I, XV, 3 O serpent, that came creeping from the shore Dido, the Queen of Carthage, V, 1, 165 252 Il frutto, e l’acqua, ond’ho più fame e sete. Poi mi volge la ruota d’ogni intorno De’ miei martiri in cima Con Ision: né spero D’uscir vivendo, s’altri nol consente. È ver, che col morire Avrà fine il mio duol, ch’in voi fia eterno. Ma già veggo venir mia sorella: Oimé, che ‘l volto pallido, e’l ritorno Sì presto, è segno d’infelice nuova. (Didone, IV, 1, 1499-1516). E infatti, all’infelice annuncio, da parte di Anna, dell’avvenuta partenza della flotta troiana, Didone si abbandona ad uno sfogo delirante che, sull’onda del Thyestes ma anche della Medea, coerente con il gusto del macabro portato in auge da Giraldi Cinzio, evoca truci pratiche quali lo σπαραγµὸς e il pasto cannibalico: Non potev’io squarciar in molte parti Il corpo suo, e poi gettarlo in mare? Tagliar a pezzi le sue genti; e quello Quell’Ascanio, cagion d’ogni mio male, Svenar con le mie mani; e le sue carni Porre a la mensa, e farne cibo al padre? (Didone, IV, 2, 1549-1554). Dopo un inatesso cambio di registro, in cui Didone, quasi in un monologo interiore170, sembra mostrare un residuo attaccamento alla vita, celando invece «una implicita volontà dissimulatoria del personaggio, che già ha deciso in sé di darsi la morte»171, la regina decide di rivolgersi ad una maga etiope, nella speranza di liberarsi delle pene d’amore: in realtà i preparativi per il rito, con il posizionamento della spada regalatale da Enea e del letto dove con lui è giaciuta, servono solo a nascondere il proposito, ormai irrimediabilmente stabilito, del suicidio: Prima bisogna, ch’apparecchi dentro La più riposta e più secreta parte Del gran palazzo una novella pira, E su vi ponga quella istessa spada, Che quel crudel, e del mio ben nemico, Presso al letto commun lasciò sospesa: E ‘l letto ancora, ove perì ‘l mio honore (Didone, IV, 2, 1678-1684): 170 Viver io voglio, se la vita mia / È, come dite, a beneficio vostro. / Ma impetratemi voi da le mie pene / Tanto di tregua (io non vo’ dir di pace) / Ch’ella sia forte a sostenerle tutte, IV, 2, 1635-1639. 171 S. TOMASSINI, op. cit., p. 100 nota 399. 253 l’ultimo verso, in particolare, conferma ulteriormente che è l’unione carnale vissuta da Didone con Enea ad essere la vera ferita non rimarginabile. Benché dimostri in volto / Dido nuova allegrezza (vv. 1699-1700) è infatti l’esordio del coro, che si conclude con una maledizione verso quell’Amor che in apertura di tragedia aveva sì sprezzantemente mostrato la sua forza distruttiva, accanto all’ammissione della vanità di ogni resistenza nei confronti di questa: Ahi d’Amor fiamma, ben se’ tu cagione D’ogni mal, d’ogni danno, In che cade sovente La meschinella gente; Che senza te saria lieta mai sempre. Ma il lamentar che giova Del mal, quando rimedio non si trova? Quanto è meglio soffrire Quel, che non puoi fuggire. (Didone, IV, coro, 1734-1742). Ma la statura umana, nitidamente eroica rispetto alle reiterate fughe di Enea, e soprattutto tragica della regina cartaginese emerge nel V atto quando, in maniera lucida e ferma, riconosce se stessa come unica responsabile di quanto accaduto. Dopo un amaro sfogo nei confronti dell’amore (vv. 1767-1768), la cui crudeltà è messa enfaticamente in rilievo mediante geminatio e costrutto anaforico: Crudel amor, crudel amor, tu prima Crudel fosti cagion d’ogni mio male e della fortuna (vv. 1789-1790), definita mediante un duplice calco (virgiliano e dantesco): […] volubil Dea, che ‘l mondo giri Calcando i buoni, e sollevando i rei: Didone infatti afferma senza remore: Ma indegnamente la fortuna incolpo, Indegnamente amor: ch’io sola errai; Ch’avea ragione, avea intelletto, e mai Non dovea consentir a le losinghe D’Amor, ché non potea l’empio sforzarmi (Didone, V, 1, 1790-1794), riagganciandosi alle parole poco prima pronunciate: Ahi, c’ho potuto oimè fuggir da l’armi Del mio crudo fratello, anzi nimico; Parcere subiectis et debellare superbos Eneide, VI, 853 Calcando i buoni e sollevando i pravi Inferno, XIX, 105 254 Ho potuto ingannar l’astuto Iarba, E città fabbricar nel suo terreno; Ho potuto frenar genti superbe, E non temer di mille armate squadre: Ma già non ho potuto da’ tuoi colpi Coprirmi, né schermir, né far difesa. (Didone, V, 1 1771-1775), in cui è ancora l’anafora del verbo “potere” – o meglio del participio passato potuto, che fissa nella vita ormai trascorsa un’azione non più correggibile, ma di cui ci si può solo amaramente pentire – ad avere valore fondante: questo acquista ancora maggior importanza in relazione alle osservazioni di Auerbach circa la modernità del dramma elisabettiano172. Tanto da un punto di vista poeticoletterario quanto da una prospettiva tragica, probabilmente meno riuscita è l’invenzione di Dolce di dare alla vicenda, a questo punto, una svolta politica, con un dialogo tra un prefetto e un consigliere che occupa la seconda scena del quinto atto (vv. 1819-1876). Questo scambio di battute, di carattere genericamente moralistico e parenetico173 (il prefetto, in particolare, rappresenta l’istanza politica critica nei confronti della regina cartaginese, incapace di contrastare la passione) è interrotto dall’efficace coup de théâtre del nunzio che porta in scena una spada lorda di sangue. Spinto dal prefetto, il messaggero narra allora la morte della regina (vv. 1908-2013), con toni avernali: in particolare, la chiusa è modellata su versi virgiliani174: Stavan d’intorno i consacrati altari A Proserpian, a Giove, et a Plutone. Quivi co i bianchi crin’ sciolti la Maga, Terribile a guardar, sùbito apparse. La qual tra poco con horribil voce Chiamò quanti son Dei là su nel Cielo, E quanti spirti van per l’aria errando: Gli Dii d’Inferno, l’Herebo, e l’immenso Chaos, Hecate, e seco aprimente De la vergine Dea chiamò i tre volti. Poi si partì la Maga, e andò cercando, Docunque piacque a lei, veneni et herbe. At regina, pyra penetrali in sede sub auras Erecta ingenti, taedis atque ilice secta, Intenditque locum serti se fronde coronat Funerea: super exuvias ensemque relictum Effigiemque toro locat, haud ignara futuri. Stant arae circum et crinis effuse sacerdos Ter centum tonat ore deos Erebumque Chaosque Tergeminamque Hecaten, tria virginis ora Dianae. Sparserat et lattices simulatos fontis averni: Falcibus et messae ad lunam quaerunt aenis Pubentes herbae, nigri cum lacte veneni; Didone, V, 3, 1930-1941 Eneide, IV, 504-514 172 «Per l’antichità gli avvenimenti drammatici della vita umana consistevano prevalentemente nel cambiamento di fortuna che si abbatteva sull’uomo dal di fuori e dall’alto, mentre nella tragedia elisabettiana, la prima caratteristicamente moderna, comincia a prevalere il carattere dell’eroe quale artefice del suo destino», E. AUERBACH, Il principe stanco, in Mimesis – il realismo nella letteratura occidentale, Torino, Einaudi, 1956, vomune secondo, p. 70. 173 Sulla varietà di registri nella trageia cinquecentesca cfr. V. GALLO, Registri retorici, lessico, sermocinatio, gnomica, parenetica: polifonia tragica, in Da Trissino a Giraldi – Miti e topica tragica, op. cit., pp. 52-61. 174 L. DOLCE, Didone, op. cit., p. 116 nota 438. 255 Valore particolarmente evocativo ha la coppia di versi in cui si cristallizza l’immagine dell’agonia di Didone (vv. 1966-1968), desunta da Virgilio ma mediata sicuramente da Aretino: Ciò detto, volse in ogni parte gli occhi, Che ne gli angoli avean macchie di sangue, pallida già per la futura morte. Infine, ulteriore coup de thèâtre, la tragedia si chiude con la comparsa in scena di Bizia, nutrice della famiglia reale, che annuncia il suicidio – a ruota – di Anna (che Marlowe farà morire addirittura in scena); e alla domanda del nunzio: Misere, e che ci resta Altro, che veder la città smarrita Prender, e sacheggiar dal fiero Iarba? E quella crudeltà nel sangue nostro Usar, ch’a raccontar non fia creduta? (Didone, V, 4, 2160-2164) Bizia fornisce catastrofiche risposte, in cui descrive le violenze compiute – ulteriore nemesi per la terribile colpa di cui si è macchiata la regina – da Iarba e dal suo esercito: Indovino ben sei di queste pene: Perché pur hora uno de’ nostri è giunto, Spettacol brutto, e a rimirar pietoso: Tronche le mani avea, le orecchie, e ‘l naso, E tutto rosso del suo stesso sangue, N’avisò che i Getuli ardon per tutto I nostri campi, e occidono qualunque Huomo, donna, fanciullo, o vecchio infermo Trovan per le campagne, o ne le case. E questo detto, dal dolor trafitto, Cadde morto dinanzi a’ nostri piedi. Onde già la röina di Cartago, E ‘l flagello di noi troppo è vicino. (Didone, V, 4, 2165-2177). At trepida et coeptis immanibus effera Dido, sanguineam volvens aciem maculisque trementis interfusa genas et pallida morte futura «Ella tutta smarrita nel viso, con le gote macchiate del livido de la morte, con gli occhi spruzzati di sangue, se ne entra in camara» Eneide, IV, 642-644 Dialogo ‒ Seconda Giornata 256 L’ultimo coro, infine, di forma madrigalistica (schema abCcdDc), caratterizzato da gnomiche riflessioni circa l’inutilità di ogni resistenza nei confronti del volere divino e del Fato, sembra costituire, per cupezza e disillusione, un ulteriore omaggio al coro finale dell’Oedipus senecano175: Fatis agimur: cedite fatis; non sollicitae possunt curae mutare rati stamina fusi. Quidquid patimur mortale genus, quidquid facimus venit ex alto, servatque suae decreta colus Lachesis dura revoluta manu. Omnia certo tramite vadunt primusque dies dedit extremum: non illa deo vertisse licet, quae nexa suis currunt causis. It cuique ratus prece non ulla mobilis ordo: multis ipsum metuisse nocet, multi ad fatum venere suum dum fata timent. Quel dì, che ‘l miser huomo Veste qua giuso l’alma Di questo corporal caduco velo, Là su con lettre salde, e adamantine È discritto il suo fine. Però a i fati cedete Voi, che felici, o sventurati sète: Ch’ogni cosa mortal governa il Cielo. Oedipus, 980-995 Didone, V, coro, 2180-2187 175 Per ulteriori analogie tra la chiusa della Didone di Dolce e la rispettiva tragedia di Marlowe cfr. L. DOLCE, Didone, op. cit., p. 128 nota 470. 257 Capitolo VI VERSO I FASTI DEL MELODRAMMA 258 §1 La Didone di Giovan Francesco Busenello e Francesco Cavalli 1. Se smarrito è l’intermezzo Didone di Monteverdi (su libretto sconosciuto) scritto nel 1628, in onore del matrimonio di Odoardo Farnese con Margherita Medici, nel XVII secolo l’opera più rappresentativa composta sul soggetto della regina cartaginese è senza dubbio la Didone di Giovan Francesco Busenello (già librettista di Monteverdi1 ) e Francesco Cavalli2 . Dopo la ‘prima’ al San Cassiano in occasione del carnevale del 1641, questa «opera in un prologo e tre atti» venne intonata a Napoli nel 1650 da una compagnia di Febiarmonici invitati dal Conte di Oñate, viceré della restaurazione, aprendo la stagione primaverile della futura opera partenopea. Il tratto caratterizzante l’opera, in linea con le idee dell’Accademia degli Incogniti cui Busenello apparteneva, è una fondamentale allergia ad ogni conformismo3 : paradigmatica dimostrazione di ciò è il lieto fine, con Didone capace di passare repentinamente dalle intenzioni di suicidio alle nozze con Iarba. Tale soluzione è d’altronde, almeno parzialmente, in linea con un processo di riabilitazione della figura 1 Cfr. F. DEGRADA, Gian Francesco Busenello e il libretto dell’”Incoronazione di Poppea”, in «Claudio Monteverdi e il suo tempo», a cura di R. MONTEROSSO, Verona, Stamperia Valdonega, 1969, pp. 81-102. In questa sede ci si limita a rinviare a L. BIANCONI, Il Seicento (Volume 5 della Storia della Musica a cura della Società Italiana di Musicologia), Torino, EDT, 1991 e relativa bibliografia, W. B. HELLER, Emblems of eloquence: opera and women’s voice in Seventeenth Century Venice, E. ROSTAND, Opera in Seventeenth Century Venice – The Creation of a Genre, Berkeley-Los Angeles-Oxford, University of California Press, 1991e Id. Monteverdi’s last operas: a Venetian Trilogy, Berkeley-Los Angeles-London, University of California Press, 2007. 2 Altre opere ispirate alla storia della regina fenicia sono la Didone di Paolo Moscardini con musica di Andrea Mattioli (Bologna, 1656) e la Didone delirante di Antonio Franceschi musicata da Carlo Pallavicino (Venezia, 1686). 3 Su Busenello cfr. I. BONOMI, Il codice innovativo dei libretti di Busenello, in I. BONOMI-E. BURONI, Il magnifico parassita – librettisti, libretti e lingua poetica nella storia dell’opera italiana, con i contributi di V. M. GAFFURI e S. SAINO, Milano, Franco Angeli, 2010, pp. 13-46. Su Francesco Cavalli, oltre le ‘voci’ di T. WALKER in «New Grove Dictionary of Music and Musicians, Second Edition» (edited by S. SADIE and J. TYRRELL, London, Macmillan, 2001, V, pp. 302-313), di E. ROSTAND in «New Grove Dictionary of Opera» (edited by S. SADIE, London, Macmillan, 1992, I, pp. 783-789, e di H. SCHULZE, in «Musik in Geschichte und Gegenwart. Allgemeine Enzyklopädie der Musik [MGG]», Zweite, neuarbeitete Ausgabe, begründet von L. FINSCHER, Kassel, Barenreiter, 1999, Personenteil, IV, coll. 471-484, cfr. L. BIANCONI, Caletti (Caletti-Bruni), Pietro Francesco detto Cavalli, ‘voce’ del «Dizionario Biografico degli Italiani», XVI, 1973, pp. 686-696, W. OSTHOFF Cavalli, Francesco, ‘voce’ del «Dizionario enciclopedico universale della musica e dei musicisti [DEUMM]», Torino, UTET, 1983-1990, Le biografie, II, pp. 157-162, N. PIRROTTA. ‘ voce’ Cavalli, Francesco, in «Enciclopedia dello spettacolo», a cura di S. D’AMICO, Roma, Le Maschere, 1954, III volume, coll. 268-271; cfr inoltre T. WEIL, Francesco Cavalli e la sua musica scenica, Venezia, R. Deputazione, 1913, in cui è riportato integralmente il testamento di Cavalli, fondamentale per la ricostruzione della storia della ricezione delle opere del compositore dopo la sua morte, H. PRUNIÈRES, Cavalli et l’opéra vénetien au XVIIIme siècle, Paris, Rieder, 1931, E. WELLESZ, Cavalli und der Stil der venezianischen Oper von 1640-1660, in «Studien zur Musikwissenschaft», I, 1913, pp. 1-103. Imprescindibile riferimento moderno su Cavalli è La circolazione dell'opera veneziana del seicento nel IV centenario della nascita di Francesco Cavalli, a cura di D. FABRIS, Napoli, Turchini Edizioni, 2005. Per uno sguardo sinottico alla bibliografia relativa sia a Francesco Cavalli che all’opera veneziana del Seicento si rinvia infine a M. MARTINO (a cura di), Bibliografia, in «La Didone, opera in un prologo e tre atti, libretto di Gian Francesco Busenello, musica di Francesco Cavalli (revisione critica di F. BIONDI)», programma di sala del Teatro ‘La Fenice’ di Venezia, Teatro Malibran, stagione 2005-2006, pp. 157-164: tutte le citazioni del testo di Busenello vengono fatte su questa unica edizione moderna del libretto. In preparazione, infine, per la Bärenreiter, l’edizione critica della Didone di Cavalli a cura di Dinko Fabris, 259 del re dei Getuli che si è visto già in atto in alcune tragedie cinquecentesche analizzate nel capitolo precedente. Ma questa conclusione necessita anche di altri chiarimenti: in primo luogo, l’«opera in musica», allorquando perde l’eccezionalità che la contraddistingue nei primi anni del XVII secolo per tendere a regolarizzarsi, specie in periodo di carnevale, s’innesta nel solco già tracciato della commedia: «struttura impresariale con ingresso a pagamento, affitto dei palchi, libera concorrenza fra le diverse imprese. A differenziare l’opera in musica dalla commedia, la promessa di principesca fastosità, garantita dalla musica e dalle meraviglie della scenotecnica»4 . Il riscontro di pubblico era, secondo varie testimonianze, sicuramente positivo e non privo di un certo calore 5 , mentre la dignità letteraria e l’autonomia artistica del dramma, aldilà della pubblicazione del libretto dell’opera, costituiva fondamentalmente un’eccezione legata all’ambiente ‘incognito’6 . La spiegazione (almeno un’ipotesi o un tentativo di questa) la si può trovare negli stessi presupposti teorici e programmatici di Busenello. Fondamentale, ancora una volta dopo 4 F. GUALANDRI, Spettacoli, luoghi e interpreti a Venezia all’epoca della “Didone”, in «La Didone di Gian Francesco Busenello, musica di Francesco Cavalli», programma di sala del teatro ‘La Fenice’ di Venezia, op. cit., p. 39. Cfr. anche L. BIANCONI, Scena, musica e pubblico nell’opera del Seicento, in «Illusione e pratica teatrale: proposte per una lettura dello spazio scenico dagli Intermedi fiorentini al’’opera comica veneziana: catalogo della mostra» a cura di F. MANCINI, M. T. MURARO, E. POVOLEDO, presentazione di G. FOLENA, Vicenza, Neri Pozza, 1975, p. 18. Un’adeguata contestualizzazione della produzione drammaturgica di Busenello è fornita da J.-F. LATTARICO (Busenello drammaturgo – Primi appunti per un’edizione critica dei melodrammi, in «Chroniques italiennes», nn. 77/78, II-III, 2006, p. 7): «Il percorso poetico di dell’Incognito Accademico Gian Francesco Busenello (1598-1659) si colloca in un periodo ricco di trasformazioni nel campo del melodramma, in una Venezia ormai aperta al teatro impresariale che presto avrebbe conquistato l’intera penisola e varcato addirittura le frontiere europee. Durante i primi quattro decenni del Seicento, il melodramma svolge quasi esclusivamente una funzione celebrativa tramite l’adozione di soggetti mitologici e favolistici, con un più che ovvio intento allegorico di stampo politico che rimanda alla storia della favola per musica fiorentina. Tale intento fu poi in parte ridimensionato dal melodramma agiografico romano sotto l’impulso del geniale Rospigliosi. L’approdo a Venezia di un teatro per un pubblico pagante sconvolge questi precetti poetici introducendo nel contempo – sostituendola all’encomio principesco – la celebrazione della città lagunare, nonché nuovi soggetti, per lo più storici, romanzeschi o esotici». 5 Basti vedere, a titolo d’esempio, la denuncia agli inquisitori di stato relativa ai disordini intervenuti nel Teatro Zane di S. Moisé [ASV – Inquisitori di Stato, B. 406, 1667, 25 settembre]: «Pervenuta notitia agli Illustrissimi et Eccellentissimi signori Inquisitori di Stato che un tale signor Zuane Cardon mentre che se faceva l’oppera al S. Moisé in tempo de musica con concorso de strepito con le mani et con la bocca e co’ piedi habia fatti li sconci che da tempo se praticano ne li theatri de la città et che fue veduto con altri in quantità gitare su la scena e contro li palchi le careghe et la robba che se vende al boteghin del fora del theatro del mangiar e de bever e lo strepitio fu tanto che li zentilomeni col protestar sortirono de li palchi e vi fu chi se diede ne le mani e fu sparato anco con la pistolla e vi fu fuggi fuggi da per tutto. Il detto Cardon fu visto darsela con la gente plebea che sono delle barberie, Hosterie, Magazeni e Bettole tutti fare fino al pepian e al prim’ordine le indecenze e i gran scandoli che da tempo se repetono ne li theatri, ridotti d’oppera et de comedia», cit. in F. MANCINI, M. T. MURARO, E. POVOLEDO, «I Teatri del Veneto», tomo I, Venezia Teatri effimeri e nobili imprenditori, Venezia, Corbo e Fiore 1995, p. 186. 6 «a Venezia soltanto, due librettisti della prim’ora affermano la propria autorità di drammaturghi promuovendo edizioni letterarie dei propri drammi, e appartengono entrambi all’Accademia degli Incogniti: Busenello, con le Ore ociose e Strozzi con una serie di riedizioni spicciole date fuori tutte nel 1644. Quasi tutti gli altri librettisti lasciano che s’esaurisca nella stampa futile del ‘libretto’ propriamente detto la carriera editoriale dei loro drammi», L. BIANCONI, Il Cinquecento e il Seicento, in «Letteratura italiana», 6. Teatro, musica, tradizione dei classici, Torino, Einaudi, 1986, p. 359. Sull’ambiente e sul contesto ‘incognito’ cfr. M. MIATO, L’Accademia degli Incogniti di Giovan Francesco Loredan. Venezia (1630-1661), Firenze, Olschki, 1998. 260 quanto osservato per la tragedia cinquecentesca, è vedere come venga metabolizzata la lezione aristotelica, tenendo al contempo presente l’allergia per regole troppo rigide che caratterizzava l’operato degli ‘Incogniti’. A questo scopo è utile riportare integralmente l’Argomento apposto in apertura: «Quest’Opera sente delle opinioni moderne. Non è fatta al prescritto delle Antiche regole; mà all’usanza Spagnuola rappresenta gl’anni, et non le hore. Nel Primo Atto arde Troia, et Enea così commandato dalla Madre Venere scampa quegl’incendij, e quelle ruine. Nel Secondo egli naviga il Mediteraneo & arriva ai Lidi Cartaginesi. Nel Terzo ammonito da Giove abbandona Didone. E perche secondo le buone Dottrine è lecito ai Poeti non solo alterare le Favole, mà le Istorie ancora: Didone prende per marito Iarba. E se fù Anacronismo famoso in Virgilio, che Didone non per Sicheo suo Marito, mà per Enea perdesse la vita, potranno tollerare i grandi ingegni, che quì segua un matrimonio diverso e dalle favole, e dalle Istorie. Chi scrive sodisfa al genio, e per schiffare il fine tragico della morte di Didone si è introdotto l’accasamento predetto con Iarba. 

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Quì non occorre rammemorare agl’huomini intendenti come i Poeti migliori habbiano rappresentate le cose à modo loro, sono aperti i Libri, et non è forastiera in questo Mondo la eruditione. Vivete felici.» Le «Antiche regole» aristoteliche necessitano quindi di un ammodernamento, e le migliori indicazioni in merito sembrano provenire da Lope de Vega, il cui trattato Arte nuevo de hacer comedias en este tiempo fu pubblicato a Milano nel 1611 ad opera di Jerónimo Bordón8 . Come già notato da Stefano La Via9 , è infatti nei versi Guárdese de imposibles, porque es máxima / que sólo ha de imitar lo verisímil10, che è possibile trovare la chiave di lettura della personale interpretazione di Aristotele da parte di Busenello. Questa avviene alla luce di una costante elasticità che caratterizza, a distanza di pochi anni, anche l’operato poetico di Giacomo Badoaro allorquando si accinge a scrivere il libretto dell’Ulisse errante: «Per il tempo, che deve misurare il soggetto, vollero alcuni concedere otto hore, e non più, altri un giro di Sole, alcuni due giorni, altri tre, e pure queste incerte regole non sono state sempre osservate da Eschilo, da Euripide, e da Sofocle, mentre in alcuni loro soggetti scorrono i mesi e gli anni; altri dissero, che bastava assai che la 7 G. F. BUSENELLO, La Didone […] Opera rappresentata in musica nel Teatro di San Casciano nell’Anno 1641, Venezia, Andrea Giuliani, 1656, pp. 3-4. Da quest’edizione si cita il testo di Busenello, salva diversa indicazione. 8 Sull’impatto del trattato di Lope de Vega sull’opera italiana cfr. A. TEDESCO, «All'usanza spagnola»: el Arte nuevo de Lope de Vega y la ópera italiana del siglo XVII, in «Criticón» 87-9, 2003, pp. 837-852. Cfr. anche «Norme per lo spettacolo, norme per lo spettatore», a cura di G. POGGI e M. G. PROFETI, Firenze, Alinea, 2011, in particolar modo la sezione II L’ “Arte nuevo” in Europa, pp. 303-378. 9 S. LA VIA, Ai limiti dell’’imposible’. ‘Modernità’ veneziana di una tragicommedia in musica, in «La Didone di Gian Francesco Busenello, musica di Francesco Cavalli», in Programma di sala del teatro ‘La Fenice’ di Venezia, op. cit., p. 13. 10 L. DE VEGA, Arte nuevo de hacer comedias en este tiempo, Madrid, Alonso Martin, 1609, vv. 284-285. 261 favola potesse essere abbracciata da un riflesso di memoria senza fatica, & a quest’opinione potrei appigliarmi» 11 . (immagine 1: frontespizio della prima edizione della Didone di Giovan Francesco Busenello12) Come già notato da Boccaccio nel passo commentato del Geneaologia deorum gentilium13, lo snodo cruciale consiste nel rapporto e nella distinzione dei relativi campi d’azione pertinenti alla verità storica e alla verosimiglianza poetica. Lo stesso matrimonio, bizzarro e quasi inaccettabile agli occhi dello spettatore moderno14, se da un lato può trovare una spiegazione nella volontà di stupire 11 Cfr. S. LA VIA, op. cit., p. 14. Per la prefazione dell’Ulisse errante (Venezia, Pinelli, 1644), cfr. anche E. ROSAND, Opera in Seventeenth-Century Venice. The Creation of a Genre, op. cit., pp. 409-410. 12 In G. SALVIOLI, I teatri musicali di Venezia nel secolo XVII (1637-1700): memorie storiche e bibliografiche raccolte e ordinate da Livio Niso Galvani, Firenze-Roma-Napoli, Ricordi, 1878 (ristampa anastatica Bologna, Forni, 1984), p. 19, si legge: «All’epoca della recita fu dato alle stampe unicamente lo scenario relativo col titolo: Argomento e scenario della Didone, in-12, 1641, di pag. 23 ed una libera». Non è però possibile trovare traccia di tale Argomento non si trova traccia né in C. SARTORI I libretti italiani a stampa dalle origini al 1800: catalogo analitico con 16 indici, Cuneo, Bertola&Locatelli, 1994 né in I. ALM, Catalog of Venetian Librettos at the University of California, Los Angeles, Berkeley-Los Angeles-Oxford, University of California Press, 1992. 13 Cfr. Capitolo III pp. 142 e passim. 14 Non a caso una scelta del tutto discutibile e arbitraria è quella fatta da Thomas Hengelbrock alla guida del BalthasarNeumann-Ensemble, che nell’incisione discografica dell’opera di Cavalli (CD CAVALLI, La Didone, Thomas 262 e meravigliare propria dell’autore veneziano, trova giustificazione nelle stesse parole aristoteliche, laddove lo Stagirita si sofferma sulla differenza tra avvenimenti realmente accaduti (di pertinenza degli storici) e fatti che sarebbero tranquillamente potuti accadere (campo d’indagine dei poeti)15, e proprio a tale proposito Busenello si sofferma a «rammentare agl’huomini intendenti come i Poeti migliori habbiano rappresentate le cose à modo loro». A questa idea di attualizzazione si coniuga l’indagine sui fini della «commedia», spiegata in tali termini da Lope de Vega (il quale ha ben presente quanto scritto dal già citato Robertello, con particolare riferimento al capitolo l’Explicatio eorum omnium quæ ad Comediae artificium pertinent dell’esegesi aristotelica16): Ya tiene la comedia verdadera su fin propuesto, como todo género de poema o ‘poesis’, y este ha sido imitar las acciones de los hombres y pintar de aquel siglo las costumbres. «Finem habet sibi propositum comoedia eum, quem et alia omnia poematum genera, imitari mores, et actiones hominum. Et quotiam omnia imitatio poetica tribus conficitur, sermone, rhytmo et harmonia, tria haec in comoedia adhiberi consuaverant, sed seorsum in singulis partibus, neque simul, ut in nonnullis aliis, quod tamen commune habet cum tragoedia, ut in libro Poetice declarat Aristoteles» Arte nuevo de hacer comedias en este tiempo, 49-53 In librum Aristotelis de arte poetica explicationes17 2. La Didone di Busenello/Cavalli18, secondo un principio di inversione rispetto all’ipotesto latino, inizia con un prologo affidato a Iride, che nel IV libro virgiliano suggella invece tragicamente la conclusione della vicenda della regina troiana: Hengelbrock (dir.), Balthasar-Neumann-Ensemble, Yvonne Kenny (Didone), Laurence Dale (Enea), DHM / BMG classics 405472773542 (05472-77354-2), © 1997) ha deciso di tagliare il lieto finale originale, concludendo l’opera con l’immagine della regina cartaginese priva di sensi. 15 ARISTOTELE, Dell’arte poetica, op. cit., IX.1.1-5: «φανερὸν δὲ ἐκ τῶν εἰρηµένων καὶ ὅτι οὐ τὸ τὰ γενόµενα λέγειν, τοῦτο ποιητοῦ ἔργον ἐστίν, ἀλλ᾽ οἷα ἂν γένοιτο καὶ τὰ δυνατὰ κατὰ τὸ εἰκὸς ἢ τὸ ἀναγκαῖον. ὁ γὰρ ἱστορικὸς καὶ ὁ ποιητὴς οὐ τῷ ἢ ἔµµετρα λέγειν ἢ ἄµετρα διαφέρουσιν· (εἴη γὰρ ἂν τὰ Ἡροδότου εἰς µέτρα τεθῆναι καὶ οὐδὲν ἧττον ἂν εἴη ἱστορία τις µετὰ µέτρου ἢ ἄνευ µέτρων)· ἀλλὰ τούτῳ διαφέρει, τῷ τὸν µὲν τὰ γενόµενα λέγειν, τὸν δὲ οἷα ἂν γένοιτο». 16 Per i legami Robertello/Lope de Vega cfr., anche se ormai datato, A. MOREL-FATIO, L' "Arte nuevo de hazer comedias en este tiempo" de Lope de Vega, in «Bulletin Hispanique», Tome 3, N°4, 1901. pp. 365-405 e J. SOLERVICENS, De l’ampliaciò del sistema aristotèlic de gèneres a l’establiment d’un nou paradigma (1548-1601), in «La poètica renaixentista a Europa – Una recreaciò del llegat classic», Punctum&Mimesi, Barcelona, 2011, p. 105. Cfr. anche L. DE VEGA, “…Questo è amore, lo a chi l’ha provato”, introduzione, edizione e traduzione di M. G. PROFETI, Firenze, Alinea, 2010, p. 146. 17 Francisci Robortelli In librum Aristotelis de arte poetica explicationes, op. cit., p. 517. 18 Le parole riportate tra parentesi quadre [ ] costituiscono le varianti del testo in partitura (solo in parte autografa, redatta in maniera sommaria e non estesa, probabilmente per una ripresa dell’opera) dell’opera consevata alla Marciana (I-Vnm. It. IV, 355) rispetto all’edizione a stampa del 1656. Osservazioni utili circa la redazione delle partiture di Cavalli sono contenute in J. GLOVER, Cavalli, New York, St. Martin’s Press, 1978, pp. 65-72 (Sources). 263 ergo Iris croceis per caelum roscida pennis mille trahens uarios aduerso sole colores deuolat et supra caput astitit. 'hunc ego Diti sacrum iussa fero teque isto corpore soluo': sic ait et dextra crinem secat, omnis et una dilapsus calor atque in uentos uita recessit Caduta è Troia e nelle sue ruine giace sepolto d’Asia il bel [ogni] decoro. Del giudizio fatal del pomo d’oro l’alta Giunon s’è vendicata al fine. Già son precipitati i bronzi e i marmi delle memorie dardane superbe e circondato sta, d’arene e erbe, un monte d’ossa, una miniera d’armi. »Fiumi di sangue son tutte le strade, »a’ sepolcri infiniti il suolo manca, »l’istessa morte si confessa stanca »dell’ira greca a seguitar le spade. »A te ritorna, o moglie del tonante, »Iride, ancella tua con lieti avvisi: »il ferro e ’l foco ha i tuoi nemici uccisi; »disfatto è il regno del troiano amante. O voi mortali, che con legge incerta librate e premi e pene, ai buoni e ai rei, nel giudicar non offendete i dèi, che tosto o tardi la vendetta è certa. Eneide, IV, 700-705 Didone, Prologo Se nel testo virgiliano il compito della messaggera degli dei è quello di “sciogliere” l’anima di Didone dalle pene terrestri, nell’opera veneziana ella riassume i tratti salienti (giudizio di Paride, con conseguente amore di Elena e ira di Giunone, distruttrice di Troia), mentre la chiusa presenta un tono gnomico che si è già notato nelle tragedie cinquecentesche basate sul medesimo soggetto. La tripartizione tra breve ricapitolazione dell’antefatto, descrizione degli orrori della guerra – con particolari toni orridi, che anche si sono visti essere utilizzati da Pazzi de’ Medici e Giraldi Cinzio ‒ e considerazioni finali ha una resa e un corrispettivo musicale mediante la particolare strutturazione della Sinfonia, con un ritornello che funge da collegamento. Il primo atto è interamente dedicato alle vicissitudini del popolo troiano con una sostanziale fedeltà nei confronti del testo virgiliano, con l’eccezione della scena terza, in cui Cassandra viene aggredita dall’efferato Pirro, che uccide poi Corebo (qui innamorato segretamente della figlia di Priamo, mentre in Virgilio l’amore è manifesto): nell’Eneide il guerriero frigio viene invece eliminato da Peneleo ([…] primusque Coroebus / Penelei dextra divae armipotentis ad aram / Procumbit […], II, 424-426)19. Drammaturgicamente e musicalmente questa scena è resa con il passaggio da un 19 «La scelta di Busenello non si rivela però casuale: Pirro, figlio di Achille, che durante l’eccidio di Troia si distingue per la sua particolare ferocia, è più rappresentato nell’Eneide di quanto non lo sia Peneleo, menzionato solo in occasione dell’uccisione di Corebo nel libro secondo. Le ‘qualità’ del personaggio da un lato, che bene si attagliano ad una scena particolarmente efferata e l’intuizione del drammaturgo dall’altro, che avrà considerato Pirro un personaggio più vivo nella memoria collettiva, sembrano aver spinto il librettista a operare questa ‘sintesi’ che, indubbiamente, paga in termini di efficacia drammaturgica», M. MARTINO, La “Didone” - guida all’opera, in in Programma di sala del teatro ‘La Fenice’ di Venezia, op. cit., p. 85 nota 6. 264 recitativo, su versi sciolti di Cassandra (esempio musicale 1), cui segue il combattimento (ritmicamente reso con la cellula caratterizzante quartina di semicrome + semiminima) in cui Corebo muore. (esempio musicale 1) Nella scena successiva, Cassandra intona la prima aria strofica, di struttura prosodica alquanto libera, con settenari tronchi alternati da distici di endecasillabi a rima baciata (schema a. b. a. b. C. C) la cui resa musicale è un passaggio senza soluzione di continuità da recitativo a arioso20: L’alma fiacca svanì, la vita, ohimè, spirò, Corebo, o dio, morì, e sola mi lasciò. Per sposa ei mi voleva e io qui piango: prima che sposa vedova rimango. La vita così va. Anco mio padre il re, nel fin di grave età, regno e vita perdé. Del senso umano o debolezza, o scorno su i secoli dissegna e vive un giorno. Cassandra, e che di te questa notte sarà? […] 20 Cfr. M. MARTINO, op. cit., p. 88-89 nota 8. Il particolare formale interessante è la presenza del tetracordo discendente nel basso continuo d’accompagnamento al canto di Cassandra, che svolge funzione prolettica rispetto al profilo melodico del successivo lamento di Ecuba aria strofica dell’atto (esempio musicale 2): ugualmente basato su un cromatismo discendente detto nel capitolo precedente circa alcune corrispondenze semantiche e lessicali Dolce/Marlowe, come il tetracordo cromatico discendente minore e Sol minore) costituisce l’archetipo formale su cui Pur (When I am laid in earth, esempio musicale 3), ultima aria del III atto del Aeneas21: Da un confronto tra le due versioni Vipera livida, aspide pessimo, mordimi, rodimi. L’intime viscere spruzzano, stillano fervide lacrime. 21 Opera, come quella di Cavalli, in un prologo e tre atti, su libretto di Nahum Tate: la prima messa in scena documentata è del 1689. Come principali riferimenti bibliografici ci si limita in questa sede ad indicare C. PRICE, Henry Purcell and the London stage, Cambridge University Press, 1984, E. T. HARRIS, Aeneas, Oxford University Press, 1990 e H. PURCELL, E. HARRIS, Oxford University Press, 1991. 265 Il particolare formale interessante è la presenza del tetracordo discendente nel basso continuo d’accompagnamento al canto di Cassandra, che svolge funzione prolettica rispetto al profilo del successivo lamento di Ecuba (schema a.b.c.d.e.f.g.h.i.l.m.n.), che costituisce l’ultima (esempio musicale 2): (esempio musicale 2) to su un cromatismo discendente: è fondamentale notare, analogamente a quanto nel capitolo precedente circa alcune corrispondenze semantiche e lessicali Dolce/Marlowe, il tetracordo cromatico discendente, pur utilizzato da Cavalli in differenti ambiti armonici (La costituisce l’archetipo formale su cui Purcell strutturerà il suo , esempio musicale 3), ultima aria del III atto del (esempio musicale 3) un confronto tra le due versioni della Didone, la seconda serie di quinari sdruccioli: Opera, come quella di Cavalli, in un prologo e tre atti, su libretto di Nahum Tate: la prima messa in scena incipali riferimenti bibliografici ci si limita in questa sede ad indicare C. PRICE, , Cambridge University Press, 1984, E. T. HARRIS, , Oxford University Press, 1990 e H. PURCELL, Dido and Aeneas (vocal score), edited by E. DENT Dent and E. HARRIS, Oxford University Press, 1991. Il particolare formale interessante è la presenza del tetracordo discendente nel basso continuo d’accompagnamento al canto di Cassandra, che svolge funzione prolettica rispetto al profilo , che costituisce l’ultima , analogamente a quanto nel capitolo precedente circa alcune corrispondenze semantiche e lessicali Dolce/Marlowe, in differenti ambiti armonici (La cell strutturerà il suo Dido’s lament , esempio musicale 3), ultima aria del III atto dell’opera Dido and la seconda serie di quinari sdruccioli: Opera, come quella di Cavalli, in un prologo e tre atti, su libretto di Nahum Tate: la prima messa in scena incipali riferimenti bibliografici ci si limita in questa sede ad indicare C. PRICE, , Cambridge University Press, 1984, E. T. HARRIS, Henry Purcell's Dido and (vocal score), edited by E. DENT Dent and 266 Crollano, tremano, ardono, cadono portici e templi. Vassene in polvere, restasi in cenere, porpora e imperio. presente nella partitura, è invece assente nell’edizione del 1656. Particolarmente importante, anche in riferimento alle tragedie cinquecentesche discusse, è l’allusione alla Vipera livida / aspide pessimo: se è infatti mediante avvelenamento di serpente che Cleopatra decide di suicidarsi, il venefico rettile compare anche, gravido di significati simbolici, nel IV atto della Didone di Dolce22 . Con voluto effetto di contrasto, e rispondendo inolre ad un criterio di struttura simmetrica23, nella scena seguente compare «SINON greco»: artefice del tradimento nei confronti dei Troiani nel testo virgiliano, in questa sede Sinone è un personaggio comico24: la sua aria, posta alla fine della scena, è formata da due strofe, ognuna basata su due quinari piani a rima alternata seguiti da coppia di endecasillabi a rima baciata: Ogn’un millanta riputazione, e se ne vanta con le persone. Ma se l’argento e l’oro comparisce va la riputazion, l’onor svanisce. »Da quanti s’usa »vestir di seta, »e a man profusa »sparger moneta. »Ma vengon quei danari e quelle spoglie »dal traficar della scaltrita moglie.25 Se la scena IX, con lo scioglimento del nodo aristotelicamente inteso (uccisione di Creusa e partenza di Enea) vede l’apparizione dell’ombra di Creusa mettere al corrente Enea della sua morte durante l’affannosa fuga da Troia (Mentr’io ti seguitavo, / cento spade nemiche / mi colpirono il seno) e raccomandargli Ascanio: 22 Cfr. Capitolo V pp. 248 e passim. 23 Risulta infatti abbastanza chiara l’architettura di questo primo atto dell’opera secondo la successione di blocchi binari, dove Enea e Cassandra risultano essere i centri gravitazionali intorno a cui ruotano alternativamente le scene, secondo lo schema: 1-2 [Enea] / 3-4 [Cassandra] / 5-6 [Enea] / 7-8 [Cassandra] / 9-10 [Enea]. 24 Cfr. P. FABBRI, Il secolo cantante: per una storia del libretto d'opera nel Seicento, Bologna, Il Mulino, 1990, p. 88. 25 Nel manoscritto la seconda strofa non è musicata, ma a pie’ di pagina si avverte di cantare «un’altra strofa», che ogni probabilità è questa seconda, presente nell’edizione a stampa del 1656. La tua memoria pia venga ad accarezzar l’anima mia. A te del nostro caro – ohimè – del nostro – o dio – del nostro – ah concedete ch’io possa dirlo, o tenerezze, o pianti! – del nostro caro figlio raccomando il tesoro: il dolce, il solo, il prezioso pegno a cui destina il ciel d’Italia il regno la scena X non compare nell’edizione del libretto: dopo uno scherzoso e salace scambio di battute tra Ascanio e Acate, Enea informa il padre Anchise dei luttuosi avvenimenti relativi alla defunta moglie (Padre, la nuora tua, figlio tua madre, / caduta nell’insidie de’ nemici, / è giunta al fine de’suoi dì infelici.). Nell’ultima scena (XI) si ha infine la partenza della flotta troiana, protetta dalla Fortuna grazie all’intervento di Venere, mentre l’atto si chiude con una sinfonia, vergata dalla mano di Cavalli26 (esempio musicale 4): (esempio musicale 4) 26 «Il foglio che la contiene riporta la seguente indicazione «passata dell’armata », anch’essa autografa. Questa pagina dev’essere stata aggiunta nel manoscritto probabilmente in fase di realizzazione dello stesso, perché sia questo che quello precedente portano la seguente indicazione «Fine del Primo Atto» (di mano del copista, questo foglio contiene la parte finale dell’ultima scena), «fine dell’Atto Iº» (di mano di Cavalli, questo foglio contiene il pezzo strumentale). Da questo si può dedurre con una certa ragionevolezza, che già per il debutto dell’opera Cavalli aveva pensato ad una sinfonia di chiusura dell’atto iniziale», M. MARTINO, op. cit., p. 96 nota 17. Dalla sostanziale fedeltà al modello virgiliano propria del primo atto all’autonomia inventiva che sin dalle prime scene del secondo atto Busenello manifesta, lo stacco è alquanto netto. Inserendosi in un solco già scavato dalla tragedia cinquecentesca, e passando da un tono propriamente tragico ad un più ibrido genere di tragicommedia, l’autore veneziano inizia infatti, sin dalla prima scena, a dare sempre maggior importanza a quello che diverrà il vero protagonista maschile della vicenda di Didone, il re dei Getuli Iarba. Sensibile, rispetto al primo atto, è anche il cambiamento di luogo (da Troia a Cartagine) ma, in linea con l’elastica lettura del dettato aristotelico fatta propria anche da Badoaro, l’unità della fabula viene preservata dal momento che il viaggio di Enea con la sua flotta s’immagina essere avvenuto nell’intervallo tra un atto e l’altro («bastava assai che la favola potesse essere abbracciata da un riflesso di memoria senza fatica, & a quest’opinione potrei appigliarmi»). La preminenza di Iarba su Enea è chiara sia dal numero che dalla posizione delle scene affidate ai due personaggi: se infatti il primo compare nelle prime e nelle ultime due, il condottiero troiano compare nelle scene 7, 8 e 1027. Nella scena iniziale Iarba si lamenta di aver perso il proprio regno in nome di un non corrisposto amore (sentimento di cui viene sottolineata la feroce crudeltà) per Didone: Per eccesso d’affetto, che imperioso alla ragion sovrasta, la maestà di re con il mio proprio piè calco e deprimo; in arnese privato celo il regal mio stato. Del regno mio, de’ fidi miei vassalli obliato il riguardo, pende l’anima mia da un dolce sguardo. Sola Didon, l’idolo mio, conosce che Iarba io son, re de’ Getuli, a cui degnamente s’appella l’Affrica serva e la fortuna ancella. Ma contro Amor tiranno è impotente il mio scettro: ad un viso divin, che m’imprigiona è sforzata ubbidir la mia corona. Amor, sei stato sempre dio delle violenze, artefice crudel de’ fatti enormi, or, nel mio cor, tu formi laberinti d’angoscie 27 «Ed è proprio al fine di attenuare l’inedita visibilità di un personaggio in apparenza così ‘secondario’ e ‘antitragico’ che il solito Hengelbrock ha scelto di spostare le prime due scene (e la terza) dopo l’episodio della tempesta (scene 4-5), finendo così anche per sconvolgere la mirabile architettura dell’atto», S. LA VIA, op. cit., p. 25. 269 e meandri di pianti, in cui pur troppo, con precipizi orribili e diversi l’alma perdei, la libertà sommersi. […] L’aria di Iarba (schema aa. bb. cc. dD), formata da due strofe di quinari piani a rima baciata con endecasillabo finale, vede ancora la presenza nel basso continuo di un tetracordo discendente. L’aria seguente (tre strofe, ciascuna formata da una coppia di quinari piani seguita da una coppia di endecasillabi, entrambe a rima baciata), in cui Didone respinge sdegnosamente il pretendente appellandosi alla memoria del marito defunto 28 , viene conclusa da uno sticotimia, in cui l’inconciliabilità tra le due posizioni è messa in evidenza dalla lontananza delle aree armoniche in cui si muovono le due voci, entrambe convergenti nella tonalità di Do solo verso la fine della scena: Sol > Do IARBA: Lasciam’ di disputar. Didon, t’adoro! DIDONE: Lasciam’ di contrastar. Iarba, non t’amo! Ma è nella scena successiva che è possibile cogliere un’eco della Didone di Dolce: la regina fenicia racconta il sogno fatto29: Stamane, mentre l’alba perleggiava rugiade e coloria con imperfetta luce il sonnacchioso e taciturno mondo, vidi, cara sorella, un terribile sogno che spaventommi, e mi spaventa ancora; e non voglio e non posso l’anima riaver da un freddo orrore che agghiaccia omai tutti gli uffici al core. In realtà, benché lo spettatore conosca il finale tragico che da Virgilio è presente sino all’opera di Dolce, l’intento di Busenello sarà poi di sorprendere con un inaspettato lieto fine. In risposta ai timori della regina, la sorella Anna si esibisce in un’aria (formata da tre strofe, ognuna di quattro settenari piani non rimati, seguiti da un distico di endecasillabi a rima baciata, schema a. b. c. d. E. E) dal tono sentenzioso, volta a tranquillizzare Didone: Manda i sogni bugiardi 28 Il mio marito, / già sepellito, / seco in sepolcro tien gli affetti miei; / se amarti anco volessi, io non potrei./ Se le tue brame / han solo fame / della bellezza mia, Iarba importuno, /sia con tua pace: morirai digiuno! / Vanne, se vuoi, / a’ regni tuoi, / e se pur pertinaci avrai le voglie, / in sogno, in fantasia, sarò tua moglie. 29 «In cinematografia, questa tecnica è definita flashforward, e consente di anticipare avvenimenti futuri. Quello che invece cerca di ottenere Busenello è esattamente il contrario: ricordare al pubblico la tragica fine di Didone nell’Eneide, gli consente d’imprimere risalto maggiore alla sua scelta di modificare il finale della vicenda narrata da Virgilio», M. MARTINO, op. cit., p. 101 nota 22. 270 a involversi nei fumi; sprezza i vani fantasmi, scaccia l’ombre insolenti Pur troppo il giorno somministra affanni senza che ancor la notte accresca danni. »Indiscreta natura »tutto il dì ci tormenta, »e non assolve il sonno »da chimere scortesi. »Dormono le palpebre illanguidite, »e pazza fantasia con noi fa lite. »Umanità infelice »desta sempre combatti »con altri o con te stessa, »o col caso o col cielo, »e quando avvien che il sonno i sensi ingombre, »sei destinata a contrastar coll’ombre. Dopo la scena IV, in cui viene ripresa la storia di Troia prendendo spunto dall’odio che Giunone dichiara di provare verso questa città, mentre dialoga con Eolo, il quale scatena la tempesta marina30; seguono l’entrata in campo di Venere (scena V), e la conseguente aria di Amore31. Se poi nella scena IX Ilioneo mette al corrente Didone delle peripezie subite dal popolo troiano (Non so se tanto avrà di spirto il core / che possa raccontare, alta regina, / de’ troiani infelici / prodigioso il numero de’ mali), nella successiva avviene il cruciale incontro tra Enea e Didone, punta da Cupido sotto le sembianze di Ascanio. Da ciò derivano le tre scene successive (XI-XIII), in cui Busenello colloca, nella prima, un intermezzo che vede protagoniste tre damigelle di corte, mentre nelle restanti due, che chiudono in climax l’atto centrale, Iarba prima si abbandona ad uno sdegnoso risentimento nei confronti dell’amata regina, quindi impazzisce per amore. La struttura strofica (sei versi, con due coppie di settenari piani e endecasillabi inframezzati da un settenario e un endecasillabo, tutti a rima baciata, schema a. a. B. b. C. C) della scena XI, ha un corrispettivo musicale nei tre ritornelli che Cavalli prevede per ogni strofa: questa particolarità formale non solo 30 Ubbidisco. O miei servi, o turbi, o venti, / armisi d’impeto, / d’orgoglio insolito, / la vostra lena sempre infaticabile, / e gite là, nell’africano gurgite, / e quante navi con troiane insegne / ritrovate varcar gl’umidi campi, / urtate e confondete, / affondate, immergete e sommergete! Musicalmente, l’accompagnamento di questi versi è una – come indicato nel manoscritto ‒ «Sinfonia navale». 31L’aria, ‘sintetica’ (scritto in partitura il solo accompagnamento musicale per la prima strofa) consta di tre strofe, ognua di struttura alquanto particolare: settenario tronco seguito da distico di endecasillabi rimati (schema a. B. B): Da tua sola beltà / nacque mia deità, madre divina, / e però pronto amor a te s’inchina. / Sol mi piace beltà. / Chi bellezza non ha, non cerchi amore: / dove beltà non è, Cupido more. / Or la tua voluntà / mi mandi ov’è beltà, s’ho da ubbidire, / ché fuor d’un viso bel non so ferire. 32 Anche in questo caso la callula formale del tetracordo suggella la struttura del passo, essendo presente in ognuno dei quattro blocchi in cui è suddivisa la scena (a. richiesta d’udienza b. anticipazione dell’epilogo tragico della guerra di Troia c. racconto d. offerta di ospitalità e protezione),   funge da esaustivo commento a ciò che avviene in scena, ma risulta ben coerente il rovesciamento delle regole non solo in topico riferimento alla festività del carnevale, ma anche – e questo è l’aspetto più significativo della drammaturgia busenelliana – rispetto alle «Antiche regole». Nella scena XII Iarba, solo, sfoga tutto il suo dolore d’amore: il tetracordo discendente compare ancora, come dimostra l’accompagnamento ai primi quattro versi (esempio musicale 5) (esempio musicale 5) Mentre il climax del crescente turbamento del re dei Getuli è sottolineato dal refrain poeticomusicale Son gemelle le donne e le bugie, simile al lamento di Orfeo34  È la didascalia «Qui Iarba straccia l’abito» a segnare l’inizio di un’incipiente follia, con «l’immagine del volto di Didone [che] inizia a roteargli vorticosamente in forma ora demoniaca, ora angelicata: Così stracciar e sviscerar potessi / da questo sen, da questo cor, l’imago / di quel viso assassin che m’ha ferito! / E, annullati gli amori / terminar i furori. / Maledetta la fiamma / che incenerì il mio petto! / No – mi ridico, e mento – / la natura creante / nel partorir Didone, / non produsse un bel viso / ma incarnò un paradiso. / Anzi, no, che vaneggio? / È Didone un inferno. 34 A. STRIGGIO / C. MONTEVERDI, La favola d’Orfeo [1607], Atto V, 606-611: Or l'altre donne son superbe e perfide / ver chi le adora, dispietate instabili, / prive di senno e d'ogni pensier nobile, / onde a ragion opra di lor non lodasi; / quinci non fia giamai che per vil femmina / Amor con aureo stral il cor trafiggami. 272 Pur inserendo particolari assolutamente estranei all’immagine dello Iarba virgiliano, Busenello amplifica comunque i versi dell’Eneide: Isque amens animi et rumore accensus amaro / dicitur […] (IV, 203-204): non c’è ad ogni modo traccia, nell’ipotesto latino, di un simile delirio: O bella oltre ogni stima, degna di prosa e rima, e che il bel nome tuo sempre s’imprima d’un bue pugliese in su la spoglia opima! Meritevole sei, che in suon d’f, fa, ut, ti canti in un l’Arcadia e ’l Calicut! ma, ai fini di un’adeguata comprensione dell’idea di drammaturgia nuova, alla base della Didone di Busenello e Cavalli, fondamentale è la quartina conclusiva di questa penultima scena: Non possono i poeti a questi dì rappresentar le favole a lor modo: chi ha fisso questo chiodo del vero studio il bel sentier smarrì. in cui, per bocca di Iarba, è Busenello stesso a ribadire quanto già affermato, in relazione all’elasticità nel distinguere verità storica e verosimiglianza poetica, alla fine della premessa («qui non occorre rammentare agl’huomini intendenti come i Poeti migliori habbiano rappresentate le cose à modo loro»)35 . 4. Nella scena iniziale dell’ultimo atto la regina, a colloquio con Anna, si mostra sempre più incerta e combattuta tra la volontà di mantenersi fedele al cener di Sicheo e la tentazione di cedere ad una nuova, sempre più irrefrenabile passione: questo dissidio (riassunto nei versi io risorgo e festeggio: / l’uno mi spira orror, l’altro diletto) riceve icastica traduzione musicale mediante il contrasto ritmico che si verifica nella successione metrica binario/ternario/binario. L’aria di Anna (sette strofe costituite da quattro ottonari con i centrali a rima baciata seguiti da distico di endecasillabi, schema a. b. b. a. C. C) contiene, conformemente sia al testo virgiliano che alle tragedie cinquecentesche, l’invito ad amare liberamente, senze remore (né tanto 35 Cfr. S. LA VIA, op. cit., p. 28. 36 «Anche nell’aria di Anna abbiamo un cambio di metro, ma significativamente il tempo comune (C) è abbandonato dopo la seconda battuta a vantaggio del tempo ternario (3/2). È evidente che si stabilisce una relazione tra le due soluzioni; la musica sta commentando il suggerimento di Anna a Didone: ascoltare le ragioni del proprio cuore, perché «la vita sol nel goder consiste», M. MARTINO, 

meno calcoli politici, di cui era invece consigliera Anna nella Didone di Giraldi Cinzio): proprio per questo Didone è invitata alla caccia al cinghiale3: […] agghiacciato talor more, non però l’agricoltore la radice viva spianta! Ma con inserti novi apre gl’umori e più odorosi rivagheggia i fiori. 

Così tu, Didon, consenti novo inesto peregrino nel segreto tuo giardino, che i tuoi fior non sian mai spenti! Opra, sorella, tu quel ch’io favello, e apri gl’orti al giardinier novello! Alla caccia andar potrai e, nel sen d’un cavo speco con l’eroe troiano teco, trasformar in gioie i guai. Vanne! Che ’l ciel t’assista, e pro ti faccia se gioverà l’esser andata a caccia! 

Cfr. VIRGILIO, Eneide, IV, 117-172. 274 Come concreta esemplificazione di quanto consigliato da Anna a Didone, la scena seconda costituisce il brano a più forte coloritura comica dell’intera opera, in cui le tre damigelle approfittano di Iarba, incapace di intendere e di volere (pazzarel smemorato): ma il punto di maggior interesse di questo intermezzo a sfondo erotico è l’emergere, all’interno degli sconclusionati versi pronunciati dal re dei Getuli, della vis polemica dell’autore veneziano38: Guardate, deh, guardate con quanta gravità riposato si sta, con piedi pari, il censor del paese! Il gran fiutapopone modenese, che sopra del quantunque, e sopra il cui, fa del censor delle facende altrui! E dice: «questo certo io non lo voglio, quest’altro non mi piace, e questo non l’ametto in alcun modo, ch’io non so poetar, se non al sodo»; e aggiunge, il sputa tondo: «cotesto io nol vorrei, né quest’altro giamai l’apponerei». E non s’accorge, il povero meschino, 

Sempre secondo un criterio di fedeltà nei confronti del testo virgiliano, nella V scena Mercurio, inviato da Giove (scena IV) nell’aria Enea, che fai, che pensi? Enea, tu dormi (undici strofe di quattro endecasillabi ognuna, schema A. B. B. A) richiama al proprio dovere Enea: se quest’ultimo nella tragedia di Dolce appare come effemminato e molle, nell’opera di Busenello Giove si esprime nei seguenti termini: Di bella donna un lusinghiero volto a sepelire i scettri suoi lo guida, e in laberinto femminile involto fa che l’ozio e l’oblio sue glorie ancida. Vanne, e guarisci in lui l’arbitrio stolto, ammonisci l’errante, anzi, lo sgrida!  "Ancora una volta è Busenello che parla direttamente al suo pubblico per prendere le distanze da chi crede ancora che la definizione aristotelica di ‘nodo’ (come quella di ‘scioglimento’) rimandi a uno specifico precetto teorico e non a un generale principio drammaturgico, suscettibile delle più disparate applicazioni pratiche", S. LA VIA, op. cit., p. 29. Per quanto riguarda l’accusa di eccessiva libertà nei confronti dell’ambiente ‘Incognito’, cfr. I. FENLON – P. MILLER, Neostoicism and the Incogniti, in The Song of the Soul: Understanding «Poppea», London, Royal Musical Association, 1992, pp. 32-44. 39 

L’uom che sopra sé stesso non ha forza tutti del suo decoro i lumi ammorza spegne il suo lume e le sue stelle ammorza. 

Nella scena VI Enea, in linea di coerenza non solo con l’evoluzione cui il personaggio è stato sottoposto nelle tragedie di Pazzi, Giraldi Cinzio e Dolce, ma anche con il dettato virgiliano, dopo una crisi e un dissidio interiori, si risolve per la definitiva partenza (aria Acate, Ilioneo, compagni, amici, formata da sette strofe di sei endecasillabi ognuno, con schema ABBACC): 

At vero Aeneas aspectu obmutuit amens, arrectaeque horrore comae et vox faucibus haesit. ardet abire fuga dulcisque relinquere terras, attonitus tanto monitu imperioque deorum. heu quid agat? quo nunc reginam ambire furentem audeat adfatu? quae prima exordia sumat? atque animum nunc huc celerem nunc dividit illuc in partisque rapit varias perque omnia versat. haec alternanti potior sententia visa est: Mnesthea Sergestumque vocat fortemque Serestum, classem aptent taciti sociosque ad litora cogant, arma parent et quae rebus sit causa novandis dissimulent; sese interea, quando optima Dido nesciat et tantos rumpi non speret amores, temptaturum aditus et quae mollissima fandi tempora, quis rebus dexter modus. ocius omnes imperio laeti parent et iussa facessunt. Acate, Ilioneo, compagni, amici! Ohimè, qual vision l’alma m’abbaglia? 

Qual scalpello divin nel cor m’intaglia sentenze eterne e de’ miei falli ultrici? Il ciel, fulminator de’ petti rei, chiama dal core i pentimenti miei. Acceleriam l’andata e, taciturni, lasciam di Libia i minacciati lidi. Ci prometton le stelle alti sussidi. Su via, dal porto usciam, cheti e notturni, siché il rumor non giunga alla magione dell’infelice mia dolce Didone. Fierissimo contrasto, aspro conflitto! Amor, m’induce ai pianti a viva forza, onor, trova le lagrime e le sforza a soffocarsi in mezzo il core afflitto! Son pianta combattuta da due venti e vengon da due inferni i miei tormenti. […] Eneide, IV, 279-295 Didone, III, 6 Più fedele aderenza all’ipotesto virgiliano dimostrano le parole di Didone, allorquando sorprende il fuggitivo (esempio musicale 8): Dissimulare etiam sperasti, perfide, tantum Posse nefas? Tacitusque mea decedere terra? Nec te noster amor nec te data dextera quondam Nec moritura tenet crudeli funere Dido? Quin etiam hiberno moliris sidere classem Et mediis properas aquilonibus ire per altum, Crudelis? Quid si non arva aliena domosque Ignotas peteres, sed Troia antiqua maneret, Troia per undosum peteretur classibus aequor? Perfido, misleale! Così la fuga tenti e ordisci i tradimenti? E perché non lo sappia, empio, volesti sceglier la notte oscura, sepelirne la fama, far muto il mondo, e trar le lingue ai venti? Sai tu, chi me l’ha detto? Me l’ha detto l’inferno, che per empirti di perfidia il petto ha privato sé stesso delle furie e de’ mostri! Tratti così gli abbracciamenti nostri? Abbracciamenti, oh dio! Come volesti, oh cielo di pestilenze influitor maligno, umanare l’aspetto ad una serpe, solo perch’io me la covassi in seno? Eneide, IV, 305-313 Didone, III, 7 

Il passaggio dal recitativo – retto da vari passaggi cadenzanti che fungono da sonori segni di interpunzione – all’arioso avviene senza soluzione di continuità: il punto di massima tensione (Abbracciamenti, oh dio!: il passo potrebbe risentire del De’ primi nostri abbracciamenti cari della Didone, I, 130, di Dolce) è retto ancora una volta da un accompagnamento basato su un tetracordo (in questo caso diatonico) discendente: (esempio musicale 8) 277 come ancora su un tetracordo ostinato si articola il lamento di Didone, allorquando capisce che ormai non c’è più alcuna speranza di trattenere Enea: la cifra prosodica caratterizzante questo passo è la presenza dei settenari sdruccioli, precedentemente utilizzati da Busenello solo in un’analoga situazione drammatica, il lamento di Ecuba: Vanne, ch’io qui delibero chiuder le luci languide, finir l’angoscie e i gemiti. Venga la morte squallida! Segni il punto al periodo di mie giornate flebili e la Parca terribile, con la fatal sua forbice, recida il filo tenue della mia vita debole! 

Qui chiudo gl’occhi miseri della luce vitale ai dolci rai: ingrato Enea, non gli aprirò più mai! (esempio musicale) mentre lo svenimento finale della regina, assente nel quarto libro virgiliano, può costituire una contaminatio con il motivo tassiano dell’abbandono di Armida. 

Dopo la scena VIII, in cui sono protagonisti lo spettro di Iarba (che apriva, à la manière di Euripide, la Didone di Pazzi), la scena IX contiene le riflessioni, volutamente antimoralistiche, di tre dame di corte; critica dell’infedeltà e della inaffidabilità maschile, come paradigmaticamente dimostrato dal comportamento di Enea, lode della spensieratezza e libertà d’amare43 ed infine un inno alla vanità di ogni idea di fedeltà sono i temi su cui si basano le tre strofe, ognuna affidata ad una dama. 

Un’altra invenzione di 40 Cfr. T. TASSO, Gerusalemme liberata, XVI, 60-63 e Capitolo IV paragrafo 3 capo 3. 

Cfr. Capitolo V pp. 226 e passim. 

Enea rivolto ha ’l piede / da queste spiagge apriche. Donna che in uom pon fede perde le sue fatiche, ché son più vani i cor de’ cavalieri che le piume non son de’ lor cimieri. 43 

Però, se ingegno avremo nell’amoroso tresco, consolate vivremo sempre di fresco in fresco. 

Bisogna variar dissegno e volo perché fa troppa nausea un cibo solo. 

Fedeltate e costanza son belle da contarsi, ma per porle in usanza son mostri da scamparsi. 

È ben pazza colei che s’innamora, se in un solo pensier sta più d’un’ora. 

Busenello trova spazio nella scena X, dove Mercurio corre in soccorso di un sempre più stralunato Iarba, come ben dimostrano i suoi versi d’apertura45: il messaggero degli dei fornisce poi al re dei Getuli i primi accenni del lieto fine: Vivi felice, Iarba! L’adorata da te bella regina, così il cielo permette. Fatto ha l’influsso reo l’ultime prove; or il ciel sovra te delizie piove. Iarba, a questo punto, rinsavisce, e canta l’aria d’invocazione (O benedico dio), la cui struttura prosodica appare alquanto articolata: ogni strofa è infatti formata da un settenario piano, seguito da un endecasillabo, un altro settenario piano e due coppie di quinari tronchi e endecasillabi a rima baciata (schema aBcddEE): 

O benefico dio, o dator delle grazie e de’ favori, felicità mi doni, che soprafà l’umanità! Chi più lieto di me nel mondo sia se Didon finalmente sarà mia? O secreti profondi, non arrivati dal pensiero umano, per contemplarli forza non ha l’umanità! Chi più lieto di me nel mondo sia, se Didon finalmente sarà mia? È a questo punto che si incontrano i due nodi relativi a Didone e Iarba: se infatti il lamento finale della regina preludesse ad uno scioglimento classicamente risolto con il suicidio, rimarrebbe irrisolta la questione dell’innamorato Iarba. Nei primi versi della disperata regina viene messa in luce tutta l’intima involuzione – da regina potente e rispettata a donna innamorata, ferita e abbandonata 46 – che, nel testo virgiliano, ne ha decretato la morte: paradigmatica, a questo proposito, la disposizione, simmetrica e chiastica, dei lemmi nella prima coppia di settenari: Io regina, io Didone? Né Didon, né regina 45 O, che vita consolata, / o che mondo ben composto! / Mangiar stelle in insalata / e ’l zodiaco aver arosto. 46 Cfr. Capitolo I pp. 2-3 e Capitolo II pp. 57 e 86. 279 Io son più, ma un portento di sorte disperata e di tormento! (immagine 3 : manoscritto47 della Didone [III, 9] di Francesco Cavalli e Giovan Francesco Busenello, Biblioteca Marciana di Venezia, 325 × 425 mm) Dopo aver pronunciato (quelle che sembrano) le ultime parole: Cartagine, ti lascio! Spada, vanne coll’elsa e ’l pomo in terra, e nel giudizio della morte mia chiama ogn’ombra infernal fuor degli abissi. E tu, punta cortese svena l’angoscie mie, finisci i miei tormenti, manda il mio spirto al tenebroso rio. Empio Enea, cara luce, io moro. A dio! 47 Per la collocazione cfr. nota 18. 280 Didone «vuol ferirsi e vi sopragiunge Iarba che ne la impedisce» (secondo la precisa indicazione di Busenello): il re dei Getuli dapprima conferma la profondità del suo sentimento amoroso nei confronti della regine esanime, ingiuriando gli dei per quella che gli sembra una morte tanto ingiusta (Vesta, Giunon, Diana, [prodighi sì nel dispensar tesori] / la vostra eternitade è certamente [l’anima nel tuo seno] / titolo morto e favola dipinta / se la dèa delle dèe rimane estinta), vuole darsi egli stesso morte, «ma s’arresta vedendo rinvenir Didone», secondo quanto indicato dalla didascalia. Il coronamento finale dell’amore che scaturisce da questa nuova unione è suggellato dall’aria cantata prima dalla protagonista, poi dal suo novello sposo (tre + tre strofe di quattro endecasillabi ognuna, con schema A. B. B. A): 

DIDONE: Iarba preservator della mia vita, Rè, vero amante, e fido amico, e mio, Gl’andati miei rigor mando in oblio, D’haverti offeso è già Didon pentita. Le cortesie dal tuo gran genio uscite Chiaman da me la viva ricompensa; Brama l’anima mia d’esser immensa, Per capir gratitudini infinite. Sorda à lamenti, à preghi tuoi sdegnosa Gradir non volli il tuo verace affetto, Hora disarmo d’ogni asprezza il petto, Eccomi à tuoi voleri ancella, e sposa. 

IARBA: Didon tu preservasti i miei respiri, La vita mia di tua pietade è dono, E dolce ti concedono perdono I miei già disperati aspri sospiri. Alle tue cortesie dilato il core, E l’alma mia negl’obblighi trasformo, E à tuoi pensier, e à tuoi desir conformo La vita, e i sensi in servitù d’amore. E poiché sei de miei martir pietosa, E le morte speranze in me ravivi, qui in presenza degl’uomini e dei divi per mia regina ti ricevo e sposa. L’opera si chiude poi con un’ultima aria (tre strofe – la prima affidata a Iarba, la seconda a Didone e la terza cantata in sticotimia ‒ formate da quattro settenari piani a rima alternata seguiti da una coppia di endecasillabi a rima baciata) dove ‒ proprio in opposizione all’incipit della Didone di Dolce, in cui uno ctonio Cupido metteva fieramente in mostra tutto il suo distruttivo e ineluttabile potere ‒ viene ribadita l’imperscrutabilità dell’amore.

Manoscritto della Didone [III, scena ultima] di Francesco Cavalli e Giovan Francesco Busenello, Biblioteca Marciana di Venezia, 325 × 425 mm) 

IARBA Son le tue leggi, Amore, troppo ignote e profonde, nel tuo martir maggiore la gioia si nasconde. Dalle perdite sai cavar la palma, dalle procelle tue nasce la calma. DIDONE L’àncora della speme, 282 de’ pianti il mare insano, qualor ondeggia e freme, non mai si getta in vano: ch’amor nel mezo ai casi disperati i porti più felici ha fabbricati. TUTTI E DUE Godiam dunque, godiamo sereni i dì e ridenti, né pur pronunciamo il nome de’ tormenti. DIDONE Iarba, son tua! IARBA Iarba, son tua!Didon, t’ho al cor scolpita! DIDONE Ben… IARBA Ben…Gioia… DIDONE Ben…Gioia…Cor… IARBA Ben…Gioia…Cor…Speranza unica e vita! [Speranza, anima e vita] Se la Didone di Busenello48 si chiude quindi con un lieto fine assolutamente rivoluzionario rispetto alla fonte classica, l’omologa opera di Metastasio, pur muovendo da presupposti differenti e in un 48 S. LA VIA (op. cit., pp. 34-35) richiama opportunamente l’attenzione sulle analogie tra il lieto finale dell’opera di Busenello e la conclusione del Pastor fido di Giovanni Battista Guarini in cui, Mirtillo evita la morte e sposa l’amata Amarilli: l’analogiea tra le due opere è ancor più plausibile alla luce delle seguenti osservazioni guariniane (G. B. GUARINI, Il Verrato, ovvero difesa di quanto ha scritto M. Giason Denores contro le tragicomedie e le pastorali in un suo discorso di poesia, 1588, in Il teatro italiano, La tragedia del Cinquecento, a cura di M. ARIANI): 

La tragicommedia anch’essa ha due fini: l’istrumentale, ch’è forma risultante dall’imitazione di cose tragiche e comiche miste insieme, e l’architettonico, ch’è il purgar gli animi dal male affetto della maninconia. contesto storico e sociale ben diverso, segnerà da un lato un ritorno al nucleo tragico-patetico proprio della tradizione virgiliana e ovidiana, ma al contempo conterrà un insieme di segnali formali, stilistici e poetologici che ne sanciranno a tutti gli effetti la modernità. 

La "Didone abbanonata" (1724) di Pietro Metastasio nasce pensando esplicitamente alla prima interprete del ruolo principale, Marianna Benti Bulgarelli, conosciuta come la «Romanina» con la quale, peraltro, Domenico Sarro, primo a musicare l’opera metatasiana, aveva già collaborato anni prima, con l’"Arsace:Amore e maestà" di Antonio Salvi:

Aldilà del puro dato documentario, Percioché gli effetti del purgare di tragicommedia e tragedia son veramente oppositi in fra di loro: l’uno allegra e l’altro contrista, l’uno rilassa e l’altro ristringe. 

Laonde concedendo Aristotile il diletto nella tragedia, […] qual’è il diletto tragico? L’imitare azion grave di persona illustre con accidenti nuovi e non aspettati. Or lievisi il terrore, che v’interviene, e riducasi al pericolo solo delle morti, fingasi favola e nomi nuovi, e sia temperato tutto col riso: resterà il diletto dell’imitazione, che sarà tragico in potenza, ma non in atto, e rimarranno la scorza sola, ma non l’effetto, che è il terribile per purgare, il quale non si può inducere se non con tutte le parti tragiche». 

«Metastasio aveva ventisei anni quando fu rappresentata a Napoli, nel 1724, la sua prima opera, Didone. L’aveva composta su suggerimento della bella Marianna Romanina, che cantò superbamente nel ruolo di Didone perché amava appassionatamente il poeta; pare che questo attaccamento durasse a lungo. Metastasio, amico intimo del marito di Marianna, visse parecchi anni nella loro casa, lasciandosi cullare dalla dolcezza della musica, e studiando senza posa i poeti greci», 

STENDHAL, Lettera su Metastasio, in P. METASTASIO, Melodrammi e canzonette, a cura di G. LAVEZZI, con uno scritto di Stendhal (da cui si cita e a cui si rimanda per una panoramica generale sulla nutrita bibliografia relativa al poeta cesareo) questo precedente ha importanza per alcune soluzioni stilistico-formali che avranno luogo poi nella Didone. 

La fonte è in primo luogo il IV libro dell’Eneide, ma l’autore tenne presente anche l’Ovidio dei Fasti, come dichiarato nell’«Argomento»: «Didone vedova di Sicheo, dopo esserle stato ucciso il marito da Pigmalione, re di Tiro, di lei fratello, fuggì con ampie ricchezze in Africa, dove comperato sufficiente terreno edificò Cartagine. Fu ivi richiesta in moglie da molti, e particolarmente da Iarba re de' Mori, e sempre ricusò dicendo voler serbar fede alla cenere dell'estinto consorte. Intanto Enea troiano, essendo stata distrutta la sua patria da' greci, mentre andava in Italia, fu portato da una tempesta nelle sponde dell'Africa e ricevuto e ristorato da Didone, la quale ardentemente se ne invaghì; ma mentr'egli, compiacendosi dell'affetto della madesima, si tratteneva in Cartagine, fu dagli dèi comandato che abbandonasse quel cielo e proseguisse il suo cammino verso Italia, dove gli promettevano che dovea risorgere una nuova Troia. Egli partì e Didone disperatamente, dopo aver invano tentato di trattenerlo, si uccise. Tutto ciò si ha da Virgilio, il quale con un felice anacronismo unisce il tempo della fondazione di Cartagine agli errori di Enea. Da Ovidio, nel terzo libro de' Fasti si raccoglie che Iarba s'impadronisse di Cartagine dopo la morte di Didone; e che Anna, sorella della medesima, la quale chiameremo Selene fosse occultamente anch'ella invaghita d'Enea». 

Superando quindi l’«anacronismo» storico citato anche da Algarotti, e contrariamente a quanto – scenicamente ben più complesso ‒ fatto da Busenello, la Didone abandonata52 di Metastasio 50 L’Arsace era stato interpretato dalla Bulgarelli (Statira) e da Nicola Grimaldi (Arsace): «già allora Sarro aveva fatto terminare l’opera con un recitativo (un recitativo accompagnato, aperto da un arioso: si tratta di un finale anticonvenzionale, che evita il lieto fine) di Statira-Bulgarelli» che per questo è stato messo in relazione con il finale della Didone abbandonata, cfr. M. F. ROBINSON, L’opera napoletana. Storia e geografia di un’idea musicale settecentesca, a cura di G. MORELLI, Venezia, Marsilio, 1972, p. 99-102 e F. VAZZOLER, Didone e l’impresario, in «Il melodramma di Pietro Metastasio – la poesia, la musica, la messa in scena e l’opera italiana nel Settecento, Atti del convegno internazionale di studi, Roma, 2-5 dicembre 1998», a cura di E. Sala Di Felice e R. Caira Lumetti, Roma, Aracne, 2001, pp. 316-317. 51 

Cfr. F. ALGAROTTI, Discorso sopra la durata de’ regni di Roma, in Opere varie, in Venezia, per Gialbattista Pasquali, 1757, p. 35. 52 La Didone abandonata, primo melodramma metastasiano, rappresentata per la prima volta in occasione il primo febbraio 1724 al teatro S. Bartolomeo con musica di Domenico Sarro (cfr. «Avvisi» cittadini, 8 febbario 1724, n°7: «La sera si diè principio alla recita della nuova Opera in Musica nel Teatro di San Bartolomeo, intitolata Didone abbandonata, quale e per la composizione delle parole, essendo di celebre Autore, e per la Musica del Maestro di Cappella Domenico Sarro, come anche per li Virtuosi, che le rappresentano […]»), fu stampata nel 1724 a Napoli, presso Francesco Ricciardo, con dedica al cardinale Michele Federico d’Althann, viceré del regno: questa edizione (di cui si conservano tre esemplari, uno alla Library of Congress di Washington [segn. ML50.2 D55 S2], per gli altri due, consevati presso la Bibliothèque Nationale Française di Parigi e la Biblioteca Apostolica Vaticana, cfr. C. SARTORI, op. cit., volume II, p. 348, n°7753 e T. M. GIALDRONI, I primi dieci anni della “Didone abbandonata”: il caso di Domenico Sarro, in «Analecta musicologica», XXX, 1998, p. 473) non sembra abbia soddisfatto troppo il poeta cesareo, che scrisse da Vienna (3 ottobre 1733) all’editore veneziano Bettinelli: 

Mi dispiace bene ch’ella abbia stampata la Didone senza ch’io l’abbia fatta rivedere. Non so di quale edizione si serve; ma, se fosse quella di Napoli, che è la prima, vi sono errori considerabili; particolamente in una scena dell’atto secondo fra Didone ed Enea, ch’io non mi ricordo qual sia, vi è un verso che dice Didone: Venghi su gli occhi miei, e deve dire: Vieni sugli occhi miei: se è in rispetta l’unità aristotelica di luogo, svolgendosi interamente su suolo cartaginese. 

Se per un verso il poeta cesareo recupera una maggiore aderenza rispetto alla tradizione tragica di Didone, tuttavia non rinuncia ad inserzioni di autonome invenzioni del tutto estranee alla fonte latina. Rispetto al testo veneziano del 1641, e soprattutto in confronto alle tragedie cinquecentesche, Enea – la cui lacerazione interna tra sentimento d’amore e senso del dovere è ancora tratto caratterizzante ‒ recupera i tratti autenticamente eroici propri del personaggio virgiliano, mentre Iarba assurge, in netta controtendenza rispetto alle ultime opere dei secoli precedenti, a paradigma della negatività. Il dissidio del condottiero troiano è il motivo saliente della scena d’apertura, in cui egli si rivolge a Selene (Anna, sulla quale Metastasio impernia una notevole variazione rispetto all’ipotesto virgiliano) e Osmida (confidente di Didone, altra figura d’invenzione del poeta cesareo): No principessa, amico, sdegno non è, non è timor che move le frigie vele e mi trasporta altrove. So che m'ama Didone; pur troppo il so; né di sua fé pavento. L'adoro e mi rammento quanto fece per me: non sono ingrato. Ma ch'io di nuovo esponga all'arbitrio dell'onde i giorni miei mi prescrive il destin, voglion gli dèi. E son sì sventurato, che sembra colpa mia quella del fato. Enea ha quindi già deciso di partire, e per spiegare le ragioni di questa scelta, egli spiega (con parole ben esemplate sul testo virgiliano) come l’apparizione del defunto padre (che lo guarda con torvo ciglio53) lo privi di riposo e serenità: Me patris Anchisae, quotiens umentibus umbris Osmida, a questi lumi tempo, la priego di correggerlo. In avvenire saremo più regolati nel trasmetterle le composizioni corrette» (P. METASTASIO, Tutte le opere a cura di B. BRUNELLI, Milano, Mondadori, 1943-1954, volume III, p. 93). 

Per le differenze tra le due versioni, cfr. P. METASTASIO, Melodrammi e canzonette, op. cit., pp. 118-209 (testo Didone abbandonata) e pp. 210-230 (Appendici alla prima edizione a stampa). Per Domenico Sarro (o Sarri) cfr. H. HUCKE, La ‘Didone abbandonata’ di Domenico Sarri nella stesura del 1724 e nella revisione del 1730, in «Gazzetta musicale di Napoli», II, A proposito dei rifacimenti cui fu sottoposta l’opera, lo stesso poeta cesareo scrisse, nella lettera a Carlo Broschi («Farinello») del 30 gennaio 1751: 

Eccovi la Didone abbreviata quanto si può senza farle troppo danno, e corretta ancora in qualche luogo. Nel primo atto non ha potuto operar la mia forbice quasi affatto, nel secondo un poco e nel terzo molto. Il numero delle arie è quello da voi prescritto; ma perché nel terzo atto Jarba dopo il combattimento avrebbe dovuto entrar senz’aria, e vi è mutazione di scena, ho fatto due versetti che attaccano di rima e di senso con il recitativo; onde, cantati a guisa di cavata arcibrevissima, daranno vivacità all’entrata del personaggio ed occasione agli strumenti di secondare la mutazione, e non allungheranno l’opera d’un minuto», cfr. P. METASTASIO, Tutte le opere, op. cit. volume III, pp. 619-620. 53 Per la mediazione mariniana di questa espressione virgiliana (volvens oculos, Eneide, IV, 362, ben presente a Tasso, cfr. capitolo IV p. 189) cfr. P. METASTASIO, Didone abbandonata, op. cit., p. 121 nota ai versi 21-22. 286 Nox operit terras, quotiens astra ignea surgunt, Admonet in somnis et turbid terret imago, […] Non porta il sonno mai suo dolce obblio Che il rigido sembiante Del genitor non mi dipinga innante. Eneide, IV, 351-353 Didone abbandonata, I, 1, 19-22 Nella scena successiva, ancora in ossequio alla fonte virgiliana54, alla fiera dimostrazione, da parte di Didone, del proprio valore in qualità di fondatrice di città: Enea, d'Asia splendore, di Citerea soave cura e mia, vedi come a momenti, del tuo soggiorno altera, la nascente Cartago alza la fronte. Frutto de' miei sudori son quegli archi, que' templi e quelle mura: ma de' sudori miei l'ornamento più grande, Enea, tu sei. Enea replica con parole accorate (in cui è forte l’influenza della Bérénice raciniana), ma già indicative dell’imminente addio; l’autonoma invenzione di Metastasio fa sì che, mediante aposiopesi.

Ed io parlar non oso, I, 2, 68), Selene compia la prima allusione alla propria passione per Enea, che l’accomuna alla sorella; nella scena successiva tale sentimento riceve ulteriore conferma: Osmida fa infatti credere che Enea si voglia allontanare solo per non soffrire di fronte alla richiesta di nozze da parte di Iarba (sotto le mentite vesti dell’ambasciatore de’ Mori Arbace).

Le tue nozze chiederà il re superbo, e teme Enea che tu ceda alla forza e a lui ti doni. Perciò così partendo, fugge il dolor di rimirarti. (I, 3, 95-99) 

Didone invia Selene a tranquillizzare il condottiero troiano, dal momento che è lui solo ad aver conquistato il cuore della regina, dando così alla sorella la possibilità d’esprimere ulteriore sofferenza nell’aria Dirò che fida sei (due strofe, ognuna di quattro settenari, tre piani seguiti da uno tronco, con schema rimico a. b .b .c. | a. d. d. c): Dirò che fida sei, su la mia fé riposa. Sarò per te pietosa, (per me crudel sarò). Sapranno i labbri miei 54 Cfr. Capitolo I p. 2. 55 cfr. P. METASTASIO, Didone abbandonata, op. cit., p. 123 nota ai versi 60-67. 287 scoprirgli il tuo desio. (Ma la mia pena, oh dio, come nasconderò?) (I, 3, 104-111) in cui particolare importanza acquista, all’interno del gioco paranomastico fida/féde, il contrasto fonico in quarta sede fi/fe/te, in cui Metastasio pone l’accento su un concetto (fede/fedeltà) cardine in Virgilio57. Nel recitativo che costituisce la breve scena successiva, Didone sembra d’altronde alquanto dimentica del defunto Sicheo, come traspare dalle parole rivolte a Osmida: Venga Arbace qual vuole, supplice, o minaccioso; ei viene in vano. In faccia a lui pria che tramonti il sole, ad Enea mi vedrà porger la mano. Solo quel cor mi piace, sappialo Iarba. (I, 4, 112-116). Dopo la presentazione “esotica” di Iarba (en travesti), le cui parole a Didone ben riecheggiano Virgilio: 

Pygmalion Sychaeum Impius ante aras atque auri caecus amore Clam ferro incautum superat Del tuo germano infido Alle barbare voglie, al genio avaro Ti fu l’Africa so lschermo e riparo. Eneide, I, 347-350 Didone abbandonata, I, 5, 141-144 Didone, parlando orgogliosamente della sua opera di fondazione, ammette che ormai Sicheo fa parte del passato: Dalla reggia di Tiro io venni a queste arene libertade cercando e non catene. Prezzo de' miei tesori, e non già del tuo re Cartago è dono. 

La mia destra, il mio core quando a Iarba negai, d'esser fida allo sposo allor pensai. Or più quella non son … (I, 5, 168-176); particolarmente importanti risultano iversi 173 e 175, soprattutto alla luce di quanto osservato circa la basilare importanza del dextera virgiliano58: ulteriore segno di cambiamento – tratto peculiare 56Ivi, p. 127 nota ai versi 104-105. 57 Cfr. Capitolo II paragrafo 1. 58 Cfr. Capitolo II pp. 46 e passim 288 della Didone metastasiana – sono poi i versi seguenti, in cui si potrebbe anche vedere un’analogia con il refrain dell’irato Iarba di Busenello59: Or più quella non son, variano i saggi a seconda de' casi i lor pensieri. Enea piace al mio cor, giova al mio trono e mio sposo sarà. (I, 5, 177-181). Osmida poi, offrendosi a Iarba Se vuoi m'offro a' sdegni tuoi compagno e guida. Didone in me confida, Enea mi crede amico e pendon l'armi tutte dal cenno mio. Molto potrei a' tuoi disegni agevolar la strada. (I, 6, 205-210) (immagine 5 : Didone abbandonata [I, 5] Domenico Sarro e Pietro Metastasio, 210 × 240 mm, Biblioteca del Conservatorio di musica S. Pietro a Majella, Napoli - Rari 32.2.20.) 59 Cfr. infra p. 271. 289 si rivela traditore proprio di quella idea di fede presente nei discorsi di Selene e Didone, che in chiusura della scena precedente aveva ancora ribadito la propria autonomia sempre più vacillante, di rispettata regnante e donna innamorata (aria Son regina e sono amante, formata da due strofe di tre ottonari ognuna, due piani e uno tronco, schema a. b. c. |d. d. c)60: Son regina e sono amante e l'impero io sola voglio del mio soglio e del mio cor. Darmi legge in van pretende chi l'arbitrio a me contende della gloria e dell'amor. (I, 5, 196-201). Nella scena VII Iarba – in profonda controtendenza con la riabilitazione di cui era stato investito prima nelle tragedie cinquecentesche, poi nella Didone di Busenello – rivela tutta la sua disonorevole e bassa natura, allorquando prima rinnega quanto appena promesso a Osmida (ed è ancora l’idea di «fede», ad essere messa in discussione, o meglio pragmaticamente relativizzata61): Quant'è stolto se crede ch'io gli abbia a serbar fede! (I, 7, 233-234), poi meditando una frode nei confronti dell’avversario Enea: 

Io non voglio che al caso si commetta l'onor tuo, l'odio mio, la mia vendetta. Improvviso l'assali, usa la frode. (I, 7, 244-247). Questa idea negativa del re dei Getuli è ribadita nella scena XIII, come dimostra lo scambio di battute tra Iarba ed il consigliere Araspe, dopo di che il primo canta l’aria Son quel fiume formata da due strofe di quattro e tre decasillabi anapestici, con verso tronco in chiusura (schema abbcdec): 

«Il fatto che ella “sola” sia padrona del suo regno come del suo cuore trova espressione scenica nella situazione di assolo nella quale l’aria è cantata. Il conflitto si sposta all’niterno del personaggio, che deve riunire in sé le funzioni di “regina” e “amante”. Da un’inquadratura panoramica della scena nel suo insieme si passa al “primo piano”. R. STROHM, Leonardo Vinci: “Didone abbandonata” (Roma, 1726), in L’opera italiana nel Settecento, venezia, Marsilio, 

Non merta fé chi non la serba altrui, (I, 7, 236). 62 Sia Bellina che Lavezzi forniscono utili indicazioni circa le fonti classiche (Virgilio e Lucrezio, nella traduzione di Marchetti, e sugli influssi di questa particolare versione del poema didascalico lucreziano cfr. R. AJELLO, Una cultura ‘trasgressiva’ nella formazione di Metastasio, in «Legge, poesia e mito ‒ Giannone, Metastasio e Vico fra “tradizione” e “trasgressione” nella Napoli degli anni venti del Settecento, Atti del convegno internazionale di studi, Palazzo Serra di Cassano, Napoli» a cura di M. VALENTE, saggio introduttivo di G. GALASSO, Roma, Aracne) che stanno alla base di quest’aria: 290 ARASPE Dove corri, o signore? IARBA Il rivale a svenar. ARASPE Come lo speri? Ancora i tuoi guerrieri il tuo voler non sanno. IARBA Dove forza non val giunga l'inganno. ARASPE E vuoi la tua vendetta con la taccia comprar di traditore? IARBA aut rapidus montano flumine torrens sternit agros, sternit sata laeta boumque labores praecipitisque trahit silvas; stupet inscius alto accipiens sonitum saxi de vertice pastor Son quel fiume che gonfio d'umori, quando il gelo si scioglie in torrenti, selve, armenti, capanne e pastori porta seco e ritegno non ha. Se si vede fra gli argini stretto sdegna il letto, confonde le sponde e superbo fremendo se n' va. Didone abbandonata, et cum mollis aquae fertur natura repente flumine abundanti, quam largis imbribus auget montibus ex altis magnus decursus aquai fragmina coniciens silvarum arbustaque tota, Che suol repente in ampio letto accolta La molle acqua cader gonfia e spumante, Che non pur delle selve i tronchi busti Ma ne porta sul dorso i boschi interi; De rerum natura, I, 281-284 De rerum natura, I, 395-399 (traduzione di Alessandro Marchetti) 291 Araspe, il mio favore troppo ardito ti fe'; più franco all'opre e men pronto ai consigli io ti vorrei. Chi son io ti rammenta e chi tu sei. (I, 13, 380-390). 

L’idea del tradimento ossessiona Enea, il quale chiude la scena del primo incontro/scontro con Iarba con l’aria Quando saprai chi sono dal tono trionfale (due strofe di tre e cinque settenari, ultimo tronco, su schema abcdeefc), mentre nel cuore di Iarba si iniziano ad agitare propositi di distruzione di Cartagine, per punire l’indegno rival troiano: I miei guerrier, che nella selva ascosi quindi non lungi al mio venir lasciai, chiamerò nella reggia: distruggerò Cartago, e l'empio core all'indegno rival trarrò... (I, 12, 366-370), e il turbamento che scuote l’animo di Enea – sul quale però, a differenza della “stanchezza” e del dubbio che informavano il personaggio nelle tragedie cinquecentesche, brilla sempre una luce virgilianemente eroica ‒ è ben evidente nella scena XIV64, nello scambio di battute con Osmida: OSMIDA Come? Da' labbri tuoi Dido saprà che abbandonar la vuoi! Ah taci per pietà e risparmia al suo cor questo tormento. ENEA Il dirlo è crudeltà ma sarebbe il tacerlo un tradimento. OSMIDA Benché costante, io spero che al pianto suo tu cangerai pensiero. 63 Quando saprai chi sono / sì fiero non sarai / né parlerai così. / Brama lasciar le sponde / quel passeggero ardente, / fra l'onde poi si pente, / se ad onta del nocchiero / dal lido si partì. (I, 10, 340-347). 64 Per le differenze tra le versioni A e B, con l’aria di Araspe Infelice e sventurato (due strofe di ottonari, con verso tronco in chiusura, su schema a. a. b. | c. c. b), cfr. P. METASTASIO, op. cit., p. 212. 292 ENEA Può togliermi di vita, ma non può il mio dolore far ch'io manchi alla patria e al genitore. OSMIDA Oh generosi detti! Vincere i propri affetti avanza ogn'altra gloria. ENEA Quanto costa però questa vittoria. Se infine un’altra sensibile eco virgiliana, ma anche ovidiana, è presente nella scena XVII, quando Didone sfoga il suo rancore (battendo ancora, in linea con il testo dell’Eneide, l’accento sul tradimento della fede) contro Enea che le ha appena comunicato i suoi propositi di partenza: A chi misera me darò più fede? Vil rifiuto dell'onde io l'accolgo dal lido, io lo ristoro dall'ingiurie del mar, le navi e l'armi già disperse io gli rendo e gli do loco nel mio cor, nel mio regno, e questo è poco. la scena conclusiva vede ancora protagonista Enea, in preda al più profondo scoramento, come dimostra l’aria conclusiva Se resto sul lido (due strofe di quattro e sei senari, sempre con verso tronco in ultima posizione, con schema a. b. b. c. | d. e. e. f. f. c), in cui particolare significato acquistano particelle e lemmi inerenti la sfera semantica del dubbio (Se, in anafora iniziale; nel dubbio; confuso), della negazione (non, anche ripetuto) e del dolore (crudele; funesto; martire):

Eiectum litore, egentem Excepi et regni demens in parte locavi: Amissam classem, socios a morte reduxi. Fluctibus eiectum tuta statione recepi, Vixque bene audito nomine regna dedi Eneide, II, 373-375 Heroides, VII, 91-92 293 Se resto sul lido, se sciolgo le vele infido, crudele mi sento chiamar. E intanto, confuso nel dubbio funesto, non parto, non resto, ma provo il martìre che avrei nel partire, che avrei nel restar. (I, 18, 554-553). 

Il secondo atto si apre con una scena in cui, a conferma dell’impianto “quartettistico” (Didone, Enea, Selene, Araspe, cui va tuttavia aggiunto il negativo Iarba) su cui si reggono le interrelazioni sentimentali dei personaggi principali dell’opera, il confidente di Iarba rivela a Selene il suo amore per lei, che comunque gli nega ogni speranza, avendo il cuore già occupato: Araspe, il tuo valore, il volto tuo, la tua virtù mi piace. Ma già pena il mio cor per altra face. (II, 1, 20-22) per poi chiudere con l’aria Ardi per me fedele (due strofe di quattro settenari ciascuna, con schema abacbddc), in cui la sorella della regina piange la propria sorte sventurata, a causa di un amore non corrisposto, che la accomuna ad Araspe. È comunque nella IV scena che lo scontro tra Didone e Enea raggiunge il suo apice, prima con le sarcastiche parole della regina: Come! Ancor non partisti? Adorna ancora questi barbari lidi il grande Enea? E pur io mi credea che già varcato il mar d'Italia in seno in trionfo traessi popoli debellati e regi oppressi. (II, 4, 71-76), in cui è Didone stessa, dopo aver posto l’accento sui pregiudizi circa l’inferiorità cartaginese (barbari lidi) 67a prendere in giro i doveri per cui Enea è costretto a partire. 

Quest’ultimo, dal canto suo, si sente in dovere di difendere il proprio onore di guerriero, dopo aver avuto conferma delle bellicose intenzioni di Didone nei confronti di Iarba: 65 Sensibile, in apertura di atto, la differenza tra le due versioni A e B: «le prime tre scene dell’atto secondo di A saranno poi espunte da B, che ha quindi come scena prima quella che era IV», G. LAVEZZI, in P. METASTASIO, Didone abbandonata, Ardi per me fedele, serba nel cor lo strale, ma non mi dir crudele, se non avrai mercé. Hanno sventura eguale la tua, la mia costanza. Per te non v'è speranza, / non v'è pietà per me. (II, 1, 33-40). 67 Cfr. Capitolo I, pp. 24 e passim. ENEA Quest'amara favella mal conviene al tuo cor bella reina. 

Del tuo, dell'onor mio sollecito ne vengo. Io so che vuoi del moro il fiero orgoglio con la morte punir. (II, 4, 77-82) DIDONE E questo è il foglio il condottiero troiano si sente in dovere di puntualizzare: La gloria non consente ch'io vendichi in tal guisa i torti miei. Se per me lo condanni... (II, 4, 83-85). Dopo aver saputo che sotto le mentite spoglie di Arbace si cela proprio Iarba68, Didone pone ancora una volta, l’accento sulle proprie qualità di fondatrice-reggitrice di città, in stretta aderenza al primo ritratto della donna fornito da Virgilio: Urbem praeclaram statui, mea moenia vidi, Ulta virum poenas inimico a fratre coepi: Felix, heu nimium felix, si litora tantum Numquam dardaniae tetigissent nostra carinae. Senza di te finor leggi dettai, sorger senza di te Cartago io vidi. Felice me, se mai tu non giungevi, ingrato, a questi lidi. Eneide, IV, 655-658 Didone abbandonata, II, 4, 98-101 ed è ancora con parole amaramente ironiche che la regina si rivolge ad Enea che continua a chiedere grazia per Iarba: DIDONE Sì, veramente io deggio il mio regno e me stessa al tuo gran merto. 68 Già nella Didone delirante di Antonio Franceschi Iarba compariva sulla scena travestito da moro. Sulle autonome invenzioni e sulla catena di travestimenti e intrighi che abbondano tanto in quest’opera quanto nell’Enea in Cartagine (titolo a sua volta di vari “balletti eroici”) di Marco Antonio Catania, musicato dall’abate Pietro Andrea Ziani, cfr. P. BONO-M. VITTORIA TESSITORE, op. cit., pp. 292-293. 295 A sì fedele amante, ad eroe sì pietoso, a' giusti prieghi di tanto intercessor nulla si nieghi. (II, 4, 104-108); questi duri sfoghi sfociano nell’aria (che godette di grande fortuna autonoma nell’Ottocento, come dimostra ad esempio la composizione di Schubert D 51069) Ah non lasciarmi no (due strofe, la prima di settenari alternati tronco/piano, e quinari piani, su schema a. b. a .c. | d. b. d. c), preceduta dal recitativo70 Basta, vincesti: eccoti il foglio: Basta, vincesti, eccoti il foglio. Vedi quanto t'adoro ancora ingrato. Con un tuo sguardo solo mi togli ogni difesa e mi disarmi. Ed hai cor di tradirmi? E puoi lasciarmi? Ah! non lasciarmi no, bell'idol mio. Di chi mi fiderò, se tu m'inganni? Di vita mancherei nel dirti addio. Ché viver non potrei fra tanti affanni. (II, 4, 131-143). Nella scena successiva, rivelato da Iarba l’inganno di Osmida: Permette Osmida che per entro la reggia io mi raggiri, ma vuol ch'io vada errando, per sicurezza tua, senza il mio brando. (II, 5, 150-153) Enea ha ancora una volta modo di affermare il proprio valore sul re dei Getuli, con un linguaggio che risente sia del duello tassiano tra Tancredi e Clorinda sia dell’Adone mariniana71: Leggi. 

La regal donna in questo foglio  

Cfr. R. RICCO, Franz Schubert e “La Didone abbandonata” di Pietro Metastasio: la forza del mito e l’urgenza del moderno, in «Macramé – Studi sulla letteratura e le arti», a cura di R. Giulio, D. Salvatore, A. Sapienza, Napoli, Liguori, cui si rimanda per un’analisi dettagliata sia dell’aria metastasiana che dell’accompagnamento musicale schubertiano. 

Sull’importanza drammaturgica dei recitativi, anche in riferimento alla Didone abbandonata, in Metastasio, cfr. G. LAVEZZI, Recitativi e arie, P. METASTASIO, op. cit., pp. 56-57. 

Cfr. P. METASTASIO, op. cit., p. 16 nota al verso 170. 296 la tua morte segnò di propria mano. S'Enea fosse africano Iarba estinto saria. Prendi ed impara, barbaro, discortese, come vendica Enea le proprie offese. (II, 5, 166.171). Dal canto suo, Selene stenta sempre di più a non far trasparire la propria passione per Enea: Metastasio rende abilmente questo particolare con un lapsus da parte della sorella della regina che non sfugge al Troiano: SELENE Come fra tanti affanni, cor mio chi t'ama abbandonar potrai? ENEA Selene, a me «cor mio»! SELENE È Didone che parla e non son io. ENEA Se per la tua germana così pietosa sei, non curar più di me, ritorna a lei. Dille che si consoli, che ceda al fato e rassereni il ciglio. SELENE Ah no, cangia ben mio, cangia consiglio. ENEA Tu mi chiami tuo bene! SELENE È Didone che parla e non Selene. Vieni e l’ascolta. È l’unico conforto, ch’ella implora da te. (II, 9, 253-266). 297 Una tenue analogia con quanto immaginato dalla Didone di Giraldi Cinzio (o meglio, da Anna) si rende percepibile nei versi metastasiani della regina cartaginese, allorquando questa immagina la solidità politica del regno che deriverebbe dall’unione ufficiale con Enea: Se non sdegnava Enea d'esser mio sposo l'Africa avrei veduta dall'Arabico seno al mar d'Atlante in Cartago adorar la sua regnante. E di Troia e di Tiro rinnovar si potea... Ma che ragiono? (II, 11, 331-335), Mentre il condottiero troiano appare ancora dibattuto e lacerato tra sentimento per Didone e senso del dovere, il punto di maggior eversione nei confronti del testo virgiliano è rappresentato dalla conclusione della scena XI in cui, tenendo presente il particolare significato del termine dextera in Virgilio73 , Enea, dovendo scegliere tra la morte di Didone e il matrimonio di questa con il pretendente getulo, alla disperata proposta di lei, Dunque mi svena, esclama: No; si ceda al destino. 

A Iarba stendi la tua destra real; di pace priva resti l'alma d'Enea, pur che tu viva. (II, 11, 355-357): colui al quale nell’ipotesto eneadico viene rimproverato il peggiore dei tradimenti, avendo violato il più sacro suggello di giuramento (Nec te noster amor nec te data dextera quondam, IV, 307), invita proprio Didone ad offrire la destra real al pretendente. 

La fabula sembra a questo punto raggiungere il parossismo, con Didone che tenta in tutti i modi di far ingelosire Enea nei confronti di Iarba; alla sospettosa domanda di quest’ultimo sulle vere ragioni di quest’improvvisa passione nei suoi confronti, la regina cerca di replicare con sicurezza e sincerità: IARBA Dunque nel re de' Mori altro merto non v'è che un suo [di Enea] consiglio? DIDONE No Iarba, in te mi piace quel regio ardir che ti conosco in volto. Amo quel cor sì forte, sprezzator de' perigli e della morte. E se il ciel mi destina 72 Cfr. Capitolo V pp. 229-230. 73 Cfr. Capitolo II pp. 47 e passim. 298 tua compagna e tua sposa... (II, 12, 388-394) e dopo ritorna – in palese distanza rispetto all’archetipo virgiliano – l’accenno al giuramento solenne, siglato con la stretta delle destre: IARBA In pegno di tua fede dammi dunque la destra. DIDONE Io son contenta. (II, 12, 404-405). Ma Metastasio va oltre, e a Enea, che non riesce a sopportare lo spettacolo dell’unione della regina fenicia con Iarba, mette in bocca una paradossale accusa d’infedeltà nei confronti di Didone: DIDONE Odi; a torto ti sdegni. (s'alza) Sai che per ubbidirti... ENEA Intendo, intendo. Io sono il traditor, son io l'ingrato, tu sei quella fedele che per me perderebbe e vita e soglio, ma tanta fedeltà veder non voglio. (parte) (II, 12, 418-422). Subito dopo, però, avendo rivelato al re dei Getuli l’infondatezza della dichiarazione d’amore nei suoi confronti, è Didone ad essere investita dalle accuse di Iarba, che non casualmente la chiama perfida74: Già che vuoi, te 'l dirò. Perché non t'amo, perché mai non piacesti agli occhi miei, perché odioso mi sei, perché mi piace più che Iarba fedele Enea fallace. (II, 13, 433-436). 74 Per l’identica accusa a Enea da parte di Didone cfr. Capitolo II pp. 65, 67 e 102. 299 Se il primo atto si era chiuso con l’accorata aria di Enea Se resto sul lido, nella versione del 1724 l’atto centrale si chiude con l’invocazione di Didone agli dei (recitativo […] Pietosi numi, / rammentatevi almeno / che foste amanti un dì, come son io; […], II, 14, 450-452) che sfocia nell’aria (due strofe di quattro e cinque settenari piani con verso tronco in chiusura, come da norma, su schema aabcdedec).

Va lusingando Amore il credulo mio core, gli dice: «sei felice», ma non sarà così. Per poco mi consolo, ma più crudele io sento poi ritornar quel duolo che sol per un momento dall'alma si partì. (II, 14, 446-462).

L’apertura dell’ultimo atto riprende il passo virgiliano relativo ai preparativi per la partenza: “O socii (neque enim ignari sumus ante malorum) O passi graviora, dabit deus his quoque finem. Vos et Scyllaeam rabiem penitusque sonantis accestis scopulos, vos et Cyclopea saxa experti: revocate animos, maestumque timorem mittite: forsan et haec olim meminisse iuvabit. Compagni invitti a tollerare avvezzi e del cielo e del mar gl'insulti e l'ire, destate il vostro ardire, che per l'onda infedele è tempo già di rispiegar le vele. 

Quegli stessi voi siete che intrepidi varcaste il mar sicano. Per voi sdegnate invano di Cariddi e di Scilla fra' vortici sonori tutti adunò Nettuno i suoi furori. Per sì strane vicende all'impero latino il ciel ne guida. Andiamo amici, andiamo. 

Ai troiani navigli fremano pur venti e procelle intorno, saran glorie i perigli; e dolce fa di rammentarli un giorno. Eneide, I, 198-203 Didone abbandonata, III, 1, 1-10 ma subito il testo metastasiano varia rispetto all’ipotesto di riferimento: sopraggiunge infatti Iarba con seguito di Mori e subito scoppia la zuffa, al termine del quale però Enea, ad ulteriore 300 dimostrazione della sua – ritrovata, dopo le ombre cinquecentesche ed anche busenelliane – statura eroica, risparmia il re dei Getuli: ENEA Già cadesti e sei vinto. 

O tu mi cedi o trafiggo quel core. IARBA Invan lo chiedi. ENEA Se al vincitor sdegnato non domandi pietà... IARBA Segui il tuo fato. ENEA Sì, mori... Ma che fo? No, vivi. In vano Tenti il mio cor con quell’insano orgoglio. No; la vittoria mia macchiar non voglio. (parte) (III, 2, 28-35). 

Ad ulteriore dimostrazione della completa riabilitazione del condottiero troiano nella schiera degli eroi e della riconquista della sua cifra distintiva all’interno del poema virgiliano (la pietas), Enea grazia Osmida, che era stato legato e minacciato di morte da parte di Iarba: ENEA Amici, si ponga Osmida in libertà. (i Troiani vanno a sciogliere Osmida) (L’indegno da chi men può sperarlo abbia soccorso, 

A questo punto, in A nella scena III Iarba canta l’aria (due strofe di settenari con identico schema a.b. b. c.) Su la pendice alpina dura la quercia antica e la stagion nemica per lei fatal non è: ma quando poi ruina di mille etadi a fronte, gran parte fa del monte precipitar con sé. (parte). 301 ed apprenda virtù dal suo rimorso.) OSMIDA Ah, lascia, eroe pietoso, (s’inginocchia) Che grato a sì gran don… (II, 5, 70-74). 


Se poi nella scena VII Selene manifesta ancor più chiaramente i propri sentimenti amorosi verso Enea (icasticamente, e con ogni probabilità volutamente definito fiamma mia) che la inducono a sentirsi venir meno, come testimonia l’aria (due strofe di quattro ottonari ognuna, su schema a. b. a. c. | d. d. b. c): Io d'amore, oh dio! mi moro, e mi niega il mio tiranno anche il misero ristoro di lagnarmi e poi morir. Che costava a quel crudele l'ascoltar le mie querele, e donare a tanto affanno qualche tenero sospir! (parte) (III, 7, 121-128), nella scena successiva (VIII) anche Didone sente il proprio malessere aumentare a dismisura, come dimostra la cavatina76: Va crescendo il mio tormento, io lo sento e non l'intendo: giusti dèi, che mai sarà? (III, 8, 129-131); e infatti, poco dopo, Osmida comunica alla regina che le navi troiane sono salpate: Partì. 

Lontano Già da queste sponde. Io giunsi appena A ravvisar le fuggitive antenne. (III, 12, 197-199), suscitando così il disperato lamento della regina, esemplificato sui versi virgiliani: […] ite, corri, vola sul lido, aduna insieme 76 «la situazione scenica della donna sola con la propria ansia per ciò che accadrà, l’invocazione alle potenze celesti, ma anche la pacatezza e nitidezza della froma preludono alla contessa mozartiana delle Nozze di Figaro», R. STROHM, op. cit., p. 187. 302 ferte citi flammas, date tela, impellite remos armi, navi, guerrieri. Raggiungi l'infedele, lacera i lini suoi, sommergi i legni, Eneide, IV, 593-594 Didone abbandonata, III, 203-206 Nel frattempo, in un crescendo drammatico, Cartagine viene incendiata dalle truppe di Iarba, come testimonia l’atterrita Selene: Dalla cittade offesa Passan le fiamme alla tua reggia in seno, e di fumo e faville il cielo è pieno. (III, 16, 251-254), mentre Didone ha ancora occasione di proclamare, sancendo in tal modo la sua natura tragica e al contempo eroica, la propria condizione di solitudine, come ribadito dalla geminatio della preposizione senza.

Eccomi sola, tradita, abbandonata, senza Enea, senza amici, e senza regno (III, 17, 268-270). la dimensione tragica della regina è tutta condensata nei due participi passati esprimenti il tradimento e l’abbandono subiti, il conseguente isolamento ed anche la perdita dello status di regina: sconfitta come donna e annullata come regnante. Questa condizione di isolamento estremo è realizzata da Metastasio appositamente in climax: nella scena successiva, infatti, dopo aver scagliato maledizioni nei confronti di Enea, modellate sull’ipotesto virgiliano.

Sol, qui terrarum flambi opera omnia lustras, Tuque harum interpres curarum et conscia Iuno Nocturnisque Hecate triviis ululata per urbes, Et Dirae ultricesset di morientis Elissae, Accipite haec meritumque malis advertite numen Et nostras audite preces. Ah faccia il vento almeno, facciano almen gli dèi le mie vendette. E folgori e saette e turbini e tempeste rendano l'aure e l'onde a lui funeste. Eneide, IV, 607-612 Didone abbandonata, III, 18, 312-316 Didone si accorge dell’amore della sorella Selene per Enea: anche l’archetipica figura di appoggio e unica fonte di sicurezza familiare viene meno: SELENE Deh modera il tuo sdegno, anch'io l'adoro e soffro il mio tormento. 303 DIDONE Adori Enea? SELENE Sì, ma per tua cagion... DIDONE Ah disleale, tu rivale al mio amor? SELENE Se fui rivale ragion non hai... DIDONE Dagli occhi miei t'invola, non accrescer più pene ad un cor disperato. (III, 18, 320-326). 

Senza più speranza alcuna, nella scena finale, dopo aver ancora una volta riassunto il suo tragico stato, tanto disperato da indurla a bestemmiare.

Mancano più nemici! Enea mi lascia, trovo Selene infida, Iarba m'insulta e mi tradisce Osmida. Ma che feci empi numi? Io non macchiai di vittime profane i vostri altari. Né mai di fiamma impura feci l'are fumar per vostro scherno. Dunque perché congiura tutto il ciel contro me, tutto l'inferno? (III, 19, 329-337) Didone canta l’ultima cavatina (strofa unica di quattro settenari, il primo piano e i restanti tre tronchi): Vado... Ma dove?... Oh dio! Resto... Ma poi, che fo! 304 Dunque morir dovrò senza trovar pietà? (III, scena ultima, 350-353), simmetricamente corrispondente, per metro e stile, al primo arioso di Enea, Dovrei... ma no... L'amor... oh dio, la fé... Ah che parlar non so. (ad Osmida) (I, 2, 82-84) prima di dare l’addio alla vita, confermando però, anche nel momento estremo, una fierezza eroica e regale che la spinge a identificarsi nella sua città in via di distruzione: Precipiti Cartago, arda la reggia e sia il cenere di lei la tomba mia. (III, scena ultima). 

La didascalia finale, posta prima della «Licenza» in cui è Nettuno a parlare, contiene il racconto del suicidio della regina, unitamente alla narrazione di eventi sovrannaturali – palese eredità della scenografia barocca, ben presente nella Didone di Busenello – che sembrano sancire definitivamente la natura “positiva” della regina fenicia: «Dicendo l'ultime parole corre Didone a precipitarsi disperata e furiosa nelle ardenti ruine della reggia: e si perde fra i globi di fiamme, di faville e di fumo, che si sollevano alla sua caduta. 

Nel tempo medesimo su l'ultimo orizzonte comincia a gonfiarsi il mare e ad avanzarsi lentamente verso la reggia, tutto adombrato al di sopra da dense nuvole e secondato dal tumulto di strepitosa sinfonia. 

Nell'avvicinarsi all'incendio, a proporzione della maggior resistenza del fuoco, va crescendo la violenza delle acque. 

Il furioso alternar dell'onde, il frangersi ed il biancheggiar di quelle nell'incontro delle opposte ruine, lo spesso fragor de' tuoni, l'interrotto lume de' lampi, e quel continuo muggito marino, che suole accompagnar le tempeste, rappresentano l'ostinato contrasto dei due nemici elementi». 

In seno alle varie, opportune e necessarie, contestualizzazioni che sono state fatte della situazione sociale, politica e culturale napoletana in cui nasce la Didone abbandonata metastasiana, particolare rilievo merita l’anno di composizione (1724) in rapporto a quanto imediatamente precede e segue: se nel 1723 vede infatti la luce l’Istoria civile del regno di Napoli di Pietro Giannone, nel 1725 Giambattista Vico pubblica la Scienza Nuova Prima: tre anni prima, nella Cfr. G. GALASSO, Metastasio e Napoli, in «Legge, poesia e mito ‒ Giannone, Metastasio e Vico fra “tradizione” e “trasgressione” nella Napoli degli anni venti del Settecento», op. cit., p. LIII-LXXVII, in particolar modo M. VALENTE, Metastasio a Napoli tra Giannone e Vico, in Pietro Metastasio e il senso del “tradere”, ivi, pp. 133-164 e G. FERRONI, Il Metastasio napoletano tra l’Istoria civile” e la “Scienza nuova”, ivi, pp. 203-222. 305 seconda parte (De constantia philologiae, capitolo XXIV) del De constantia jurisprudentis, lo stesso Vico, aveva fatto menzione dell’episodio dell’incontro nella grotta tra Enea e Didone (dei quali viene messo subito in evidenza il comune denominatore dell’essere entrambi “fondatori di città”).

Dido et Aenenas, urbium conditores, in antro coniunguntur: primi gentium fundatores venerem in propatulo vivant.

Pochi capitoli oltre, Vico, fondamentalmente in ossequio alla nobile, prioritaria immagine di Didone che Metastasio eredita da Virgilio, fornisce una particolare interpretazione del suicidio della regina fenicia.

Quod Virgilius, antiquitatis numquam satis admirandus, in Didone legislatrice expressit quae regum externorum connubia multotiores dedignata, cum in Aenea morem gentium corrupisset, se ipsam interemit»; esattamente come nell’opera metastasiana – nonché in linea di coerenza con l’asse interpretativo fatto proprio dalla patristica, nonché da Petrarca, il Boccaccio latino ed Ariosto – l’atto estremo di Didone ne sancisce paradigmaticamente la statura eroica. 

A questo inquadramento, e anche in rapporto con quanto prima osservato circa la meditazione sui testi aristotelici che tra ‘500 e ‘600 sono da mettere in relazione alle varie opere ispirate alla figura di Didone, va focalizzata l’attenzione sul dibattito circa l’attualità e l’applicabilità dei precetti dello Stagirita; in quella che è G. VICO, Liber alter qui est de constantia jurisprudentis ad amplissimum virum Franciscum Venturam a regis consiliis et criminum quaestorem alterum, Napoli, Mosca. Questo il commento di Metastasio all’opera vichiana (lettera a Francesco d’Aguirre del 16 dicembre 1721): «È uscito alle stampe il secondo libro del signor Giambattista di Vico De constantia jurisprudentis, opera d’una pura lingua latina, di somma erudizione, e d’un acume metafisico; comunemente però è ripreso per oscuretto. La sua impresa è di ridurre tutte le scienze e le nozioni dottrinali, non meno che i commerci e le leggi, ad un solo principio», P. METASTASIO, Tutte le opere. Giustamente G. FERRONI richiama  l’attenzione anche su altri due passi vichiani relativi (il primo in maniera diretta, il secondo parzialmente, senza nominare direttamente la regina cartaginese) a Didone e Enea. 

Nel primo, tratto dalle Dissertationes sul De constantia jurisprudentis, si legge: « Cum auspiciis tota dignitas heroica contineretur, et auspicia nuptiis solennibus inter heroes cives custodirentur; non mirum si Theseus, et Jason post tot, ac tanta ab Ariadne, et Medea accepta beneficia, eas inclementissime deserant: quod Virgilius in Aenea, et Didone postea imitatus est: namque hic Heroum communis sensus hanc virtutem heroicam reputabat, quovis externarum foeminarum vel merito, vel forma, vel amore, heroicum ordinem corrumpi non oportere; qui, his ignoratis, non heroes, sed latrones inhumanissimi hactenus visi sunt», mentre nel secondo, tratto dalla Scientia nuova prima, Vico scrive.

Sì fatte voci, di tanto impropriate engli ospizi di Giasone e di Paride, ci oscurarono le storie della spedizione degli argonauti e della guerra troiana, ed insomma il diritto della guerra di tutte le genti eroiche: anzi, sopra il dissolutissimo Paride ci tramandarono per scelleratissimi Giasone e Teseo, di cui fa Virgilio imitatore il suo Enea, i quali tolgono l’onore alle regine donzelle o vedove, ne ricevono benefici immortali e poi crudelmente le tradiscono e le abbandonano, che non farebbono oggi gli più scellerativassassini. 

I quali fatti, per lo diritto delle genti eroiche, furono stimati pieni di giustizia, di rapire eroine ospiti overo straniere, delle quali furono caratteri Medea, Arianna ed Elena». 306 stata a ragione definita «la resa dei conti con Aristotele»80, Ludovico Antonio Muratori scrive nei Primi disegni della Repubblica d’Italia (1703).

Senza scrupolo, per così dir, di coscienza e senza offender il tribunale del dritto giudizio, non possono già ora sostenersi tutte le sentenze d’Aristotele, né adorarsi i difetti della sua scuola, figliuoli per la maggior parte però non di lui, ma de’ suoi barbari comentatori. Non perciò si vuol dispregiare Aristotele, siccome per lo contrario, avvegnaché ci paia che ne ritrovati della moderna filosofia più l’intelletto si appaghi e sia meglio illuminata la natura, non perciò vogliamo affatto canonizzare i moderni, inventori anch’essi di qualche sogno e forse talvolta abusanti l’utilissimo partito di dubitare d’ogni cosa».Dopo l’eversivo finale della Didone busenelliana, incurante dell’unità di luogo e coerente con il motto «Istoriar con le favole, e favoleggiar con le historie» proprio di Girolamo Brusoni, anche Metastasio avverte la necessità di attualizzare Aristotele, inserendosi, con la Didone abbandonata, in un solco che se per un verso manifesta tutta la coscienza e la metabolizzazione di una millenaria tradizione storico-leggendaria, per un altro è in grado di innestare in questo tema i germi di una nuova modernità drammaturgica, capace di brillare anche autonomamente senza la sinergia della musica. 

Per quanto concerne il primo aspetto, Metastasio ripropone con fermezza, ma al 80 Cfr. G. GIARRIZZO, Da Napoli a Vienna, in «Legge, poesia e mito ‒ Giannone, Metastasio e Vico fra “tradizione” e “trasgressione” nella Napoli degli anni venti del Settecento», op. cit., p. 105. 81 L. MURATORI, Opere, a cura di G. FALCO/F. FORTI, Milano-Napoli, Ricciardi, . Cfr. P. WEISS, Metastasio e Aristotele, in «Metatsasio e il mondo musicale», a cura di M. MURARO, premessa di G. FOLENA, Firenze, Olschki, Cfr- G. BENZONI, Istoriar con le favole e favoleggiar con le historie, in «Girolamo Brusoni. Avventure di penna e di vita nel Seicento veneto», a cura di G. BENZONI, Rovigo, Milanelliana Editore, 2001, pp. 9-28. 83 Per il «recupero criticamente sorvegliato della tradizione» maturata in seno alla scuola cartesiana di Caloprese, cfr. F. LOMONACO, Tra “Ragion poetica” e vita civile, in «Legge, poesia e mito ‒ Giannone, Metastasio e Vico fra “tradizione” e “trasgressione” nella Napoli degli anni venti del Settecento», op. cit., pp. 170 e passim. 

Come dimostrato ancora in tempi moderni, con la ripresa della Didone abbandonata in forma di spettacolo in prosa il 23 e 24 settembre 1999 a Roma e Venezia (regia di Mauro Avogadro – Scuola di Teatro dello Stabile di Torino, progetto di Franco Ruffini). Sulla necessità di un assoluto equilibrio tra musica e testo Metastasio si sarebbe espresso, in tempi più maturi, chiaramente.

Quando la musica, riveritissimo signor cavaliere, aspira nel dramma alle prime parti in concorso della poesia, distrugge questa e se stessa. 

È un assurdo troppo solenne, che pretendano le vesti la principal considerazione a gara della persona per cui sono fatte. 

I miei drammi in tutta l’Italia, per quotidiana esperienza, sono di gran lunga più sicuri del pubblico favore recitati da’ comici che cantati da’ musici, prova alla quale non so se potesse esporsi la più eletta musica d’un dramma, abbandonata dalle parole. 

Le arie chiamate di bravura, delle quali condanna ella da suo pari l’uso troppo frequente, sono appunto lo sforzo della nostra musica che tenta sottrarsi all’impero della poesia. 

Non ha cura in tali arie né di caratteri, né di situazioni, né di affetti, né di senso né di ragione; ed ostentando solo le sue proprie ricchezze col ministero di qualche gorga imitatrice de’ violini e degli usignoli, ha cagionato quel diletto che nasce dalla sola maraviglia, ed ha riscossi gli applausi che non possono a buona equità esser negati a qualunque ballerino di corda, quando giunga con la destrezza a superar la comune espettazione. 

Superba la moderna musica di tal fortuna, si è arditamente ribellata dalla poesia, ha neglette tutte le vere espressioni, ha trattate le parole come un fondo servile obbligato a prestarsi a dispetto del senso comune, a qualunque suo stravagante capriccio, non ha fatto più risuonare il teatro che di coteste sue arie di bravura, e con la fastidiosa inondazione di esse ne ha affrettato la decadenza, dopo aver però cagionata quella del drammamiseramente lacero, sfigurato e distrutto da così sconsigliata contempo intelligente elasticità, l’istanza tragica propria del IV libro dell’"Eneide", ma tenendo ben presente non solo – come esplicitamente detto – i Fasti ovidiani, bensì anche (o forse soprattutto) la sfumatura patetica che caratterizza l'"Epistula II" delle "Heroides". 

Sposando questa tradizione, Metastasio tiene presente tutto un ventaglio di spunti e sollecitazioni letterarie che, ad un’analisi approfondita della Didone, emergono in tutta la loro ricchezza, e che rivelano ovvie connessioni anche con altre opere: basti pensare – vista anche l’importanza della Sofonisba trissiniana per l’elaborazione del tema di Didone in chiave tragica ‒ alle suggestioni de L’Italia liberata dai Gothi presenti nel giovanile (e nitidamente graviniano), Giustino, oltre alle già analizzate analogie tra il XVI canto della Gerusalemme liberata e la storia della regina fenicia, anche in virtù delle connessioni tra l’Achille in Sciro (opera musicata da Domenico Sarro, con cui il 4 novembre 1737 fu inaugurato il teatro S. Carlo di Napoli) e Tasso. 

Per quanto riguarda invece il secondo aspetto, ribellione», lettera del 15 luglio 1765 a Francesco Giovanni Chastellux, P. METASTASIO, Tutte le opere, volume IV, pp. 398-399. 

«il controllo esercitato da Metastasio sul materiale di estrazione letteraria destinato a entrare nel contesto drammatico è sempre tale da evitare la proverbiale genericità della citazione a libro aperto», F. GAVAZZENI, Le disuguaglianze stilistiche della Didone, in Studi metastasi ani, padova, Liviana, 1964, pp. 88-89. 86 

Le parole di Sofia L’onde ancora al mio danno unite sono; la mia sciagura è tale ch’ogni alimento allo sperar mi toglie. 

Odio Giustin se m’è presente, e l’amo quando ottener nol posso. 

Ottengo poi che si richiami, e pur mel niega il mare: quel mare che, quando tormelo dovea, fu placido, tranquillo e senza moto, per non renderlo poi tutto commuove dal più profondo sen le sue tempeste dimostrano un dissidio interiore che in seguito sarà il tratto più intensamente tragico intorno a cui si svilupperà il dramma di Didone. 

Per l’eredità di Trissino nel Giustino, cfr. F. LOMONACO, op. cit., pp. 180 e passim. 

In una lettera «a un cavaliere napoletano» datata 7 aprile 1737 Metastasio aveva scritto (fornendo tra l’altro interessanti spunti di riflessione circa la visione a confronto di Ariosto e Tasso, vista anche la diversa metabolizzazione compiuta da entrambi della storia di Didone): 

Per secondar la mia poetica inclinazione mi fu da' miei maestri proposta la lettura e l'imitazione dell'Ariosto, giudicando molto più atta a fecondar gl'ingegni la felice libertà di questo, che la servile, dicevan essi, regolarità del suo rivale. 

L'autorità mi persuase, e l'infinito merito dello scrittore mi occupò quindi a tal segno, che, non mai sazio di rileggerlo, mi ridussi a poterne ripetere una gran parte a memoria: e guai allora a quel temerario che avesse osato sostenermi che potesse aver l'Ariosto un rivale, e ch'ei non fosse impeccabile. 

V'era ben frattanto chi per sedurmi andava recitandomi di tratto in tratto alcuno dei più bei passi della Gerusalemme liberata, ed io me ne sentiva dilettevolmente commosso; ma, fedelissimo alla mia setta, detestava cotesta mia compiacenza come una di quelle peccaminose inclinazioni della corrotta umana natura ch'è nostro dover di correggere; ed in questi sentimenti io trascorsi quegli anni, nei quali il nostro giudizio è pura imitazione dell'altrui. 

Giunto poi a poter combinare le idee da me stesso ed a pesarle nella propria bilancia, più per isvogliatezza e desiderio di varietà che per piacere o profitto ch'io me ne promettessi, lessi finalmente il Goffredo. 

Or qui non è possibile che io le spieghi lo strano sconvolgimento che mi sollevò nell'animo cotesta lettura. Lo spettacolo ch'io vidi, come in un quadro, presentarmisi innanzi d'una grande e sola azione, lucidamente proposta, magistralmente condotta e perfettamente compiuta; la varietà de' tanti avvenimenti che la producono e l'arricchiscono senza moltiplicarla; la magia d'uno stile sempre limpido, sempre sublime, sempre sonoro e possente a rivestir della propria sua nobiltà i più comuni ed umili oggetti; il vigoroso colorito col quale ei paragona e descrive; la seduttrice evidenza con la quale ei narra e persuade; i caratteri veri e costanti, la connessione delle idee, la dottrina, il giudizio, e sopra ogni altra cosa la portentosa forza d'ingegno che, in vece d'infiacchirsi come comunemente avviene in ogni lungo lavoro, fino all'ultimo verso in lui mirabilmente s'accresce, mi ricolmarono d'un nuovo sino a quel tempo da me non conosciuto diletto, d'una rispettosa ammirazione, d'un vivo rimorso della mia lunga ingiustizia e d'uno sdegno implacabile contro coloro che credono oltraggioso all'Ariosto il solo paragon di Torquato, P. METASTASIO, Tutte le opere,  Cfr. M. VALENTE, Presentazione a «Legge, poesia e mito ‒ Giannone, Metastasio e Vico fra “tradizione” e “trasgressione” nella Napoli degli anni venti del Settecento».

Altrettanto interessante è l’analogia proposta da R. BRUSCAGLI (Il paradigma tassiano fra una linea critica che nelle letture di Pindemonte e Desanctis della Didone ha trovato diversi ma coerenti esempi di acume e lucidità, è relativa alla peculiarità del testo metastasiano, che se da un lato si mostra coerente con un certo filone classico, da un altro – anche in linea con alcune particolari scelte operate da Busenello – si svincola dai legami propriamente tragici in cui era stata relegata la storia di Didone, per aprirsi a toni e scenari propri di una «vera commedia», mentre secondo Pindemonte le scene tra Selene ed Enea, come anche quelle tra Iarba e Didone sono certo indegne d’un serio dramma. 

Dalla diretta connessione algarottiana tra tragedia greca e melodramma.

Dai dorati palchetti e dall’arena A te fa plauso la leggiadra gente, lieta ch’omai per te l’itale scene grave passeggia il sofocleo coturno si arriva quindi, anche grazie al sapiente gioco di richiami metateatrali, in linea con stilemi barocchi, compiuti da Metastasio nell’intermezzo "L’impresario della Canarie", al completo superamento delle barriere tra generi, come d’altronde già alcune scelte operate dopo il Giustino sembrano far presagire.

Anche in virtù di ciò, con Metastasio si realizza una compiuta e moderna capacità introspettiva (complice anche la metabolizzazione del teatro francese, in primo luogo di Corneille). 

Il finale della Didone rappresenta ad ogni modo una fase dell’evoluzione del pensiero metastasiano, che verrà in seguito superata. 

Rrifiutando il concetto aristotelico di “catarsi”, Metastasio proporrà il concetto di “piacere”, e all’impossibilità di una risoluzione dei conflitti – peculiare essenza del ‘tragico’ ancora sancita dalla fine della Didone abbandonata – verrà a sostituire un tipo di conclusione il cui senso ultimo preferirà orientarsi verso una superiore sintesi e risoluzione equilibratrice dell’ingarbugliato succedersi degli eventi. 

1 comment:

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