Monday, January 8, 2024

GRICE ED AGOSTINO

 


 

Con Agostino si opera, per la prima volta e in maniera esplicita, una completa saldatura fra la teoria del segno e quella del linguaggio. 

Per trovare una altrettanto rigorosa presa di posizione teorica bisogna aspettare il "Corso di linguistica generale" di Saussure, scritto quindici secoli dopo.

La grande importanza che la tematica semio-linguistica ha in Agostino deriva in gran parte dal suo assorbimento della lezione stoica, come del resto testimonia il trattato "De dialectica" *De Lacy (1978: 163-164). 

Il titolo greco, essendo il testo in parte corrotto, è frutto della congettura di T. Gompers; altre congetture sono state proposte. 

D'ora in poi ci riferiremo a esso nella sua versione latina "De signis"; cfr. De Lacy (1978:11-14).

In "De dialettica" sono riassunti molti dei principali temi stoici in materia semiotica, tra cui il principio che la conoscenza è, in linea generale, conoscenza attraverso segni (Simone 1969: 95).

Ma vari elementi differenziano l'impostazione d'Agostino da quella stoica. 

In primo luogo, infatti, gli stoici, raccogliendo e formalizzando una lunga tradizione di origine soprattutto medica e mantica, consideravano propriamente "sẽmeîa" solo i segni NON-verbali, come il fumo che svela il fuoco e la cicatrice che rinvia a una precedente ferita. 

Agostino, invece, per primo nell'antichità, include nella categoria del "signum" non solo i segni non verbali come i gesti, le insegne militari, le fanfare, la pantomima ecc., ma anche le espressioni del linguaggio parlato -- come il latino.

"Diciamo in generale segno tutto ciò che significa qualche cosa, e fra questi abbiamo anche le parole", De Magistro, 4.9

In secondo luogo, gli stoici avevano individuato nell'enunciato il punto di congiunzione tra il "sẽmaînon" e il "sẽmainómenon," elemento che comunque non coincideva con il "semeion."

Agostino, invece, individua nella singola espressione linguistica, cioè nel "verbum," l'elemento in cui significante e significato si fondono, e considera questa fusione un segno di qualcos'altro:

"Quindi, dopo aver sufficientemente assodato che le "verba" non sono nient'altro che "signa" e che non può essere "signum" ciò che non significhi (significet) qualcosa, tu hai proposto un verso di cui io mi sforzassi di mostrare che cosa significhino le singole parole."

De Mag., 7.19

In terzo luogo, gli stoici avevano elaborato una teoria del linguaggio che aveva le due caratteristiche di essere formale (il "lektón" non coincideva con alcuna sostanza) e centrata sulla significazione. 

Agostino, invece, elabora una teoria del segno linguistico che ha un carattere psicologistico (i significati si trovano nell'animo) e comunicazionale (passano nell'animo dell'ascoltatore) (Todorov 1977: 35; Markus 1957: 72).

È del resto con l'analisi della nozione stessa di "verbum simplex" che si apre il "De dialectica" ed è con questa nozione che si inaugura una serie interessante di distinzioni terminologiche.

Agostino elabora una triplice distinzione che possiamo mettere in corrispondenza con i moderni concetti di significato, significante e referente. 

Infatti individua in primo luogo la "vox articulata" (il "sonus") della parola, cioè quello che è percepito dall'orecchio quando la parola viene pronunciata. 

In secondo luogo individua il dicibile (corrispondente, anche dal punto di vista della trasposizione linguistica, al lektón stoico), definito come ciò che viene avvertito dall'animo e che è in esso contenuto. 

In terzo go, infine, distingue la res, che viene definita come un oggetto qualsiasi, percepibile con i sensi, o con l'intelletto, oppure che sfugge alla percezione (De dialect., cap. V).

È così possibile ricostruire il triangolo semiotico nei seguenti termini:
dicibile vox articulata (o sonus) res

Ma Agostino guarda ai segni anche dal punto di vista del loro potere di designazione, oltre che da quello della significazione. 

Questo lo spinge a elaborare un'ulteriore suddivisione terminologica in corrispondenza dei due aspetti che può assumere il referente di una parola: 

(i) può infatti avvenire che la parola rimandi a se stessa come proprio referente (fatto che si verifica nel caso della citazione, ovvero della designazione metalinguistica), e allora prende il nome di verbum;

(ii) oppure può avvenire che la parola, intesa come combinazione del significante e del significato, abbia come referente una cosa diversa da se stessa (come avviene come di diciotarivo del linguaggio), nel qual caso prende il nome di "dictio." -- N. 3

È precisamente la nozione di "dictio" che, come ha osservato Baratin (1981), costituisce l'elemento di congiunzione tra la teoria del linguaggio e quella del segno.

E ciò in virtù di uno sfasamento semantico che la nozione stoica di léxis (significante articolato, ma senza essere necessariamente portatore di significato) ha subito nel corso degli studi linguistici antichi. 

"Dictio" è traduzione di "léxis."

Ma "dictio" non ha lo stesso significato che le attribuivano gli stoici, bensì quello che le davano i grammatici alessandrini, in particolare Dionisio Trace, che definiva la léxis come "la più piccola parte dell'enunciato costruito" (Grammatica graeci, I, I, 22, 4), a metà strada tra le lettere e le sillabe, da una parte, e l'enunciato, dall'altra. 

Questa sua particolare posizione fa sì che la "léxis" venga considerata come portatrice di un significato (in contrapposizione alle lettere e alle sillabe che non lo posseggono), ma incompleto (in opposizione all'enunciato che porta un senso completo).

Lo spostamento di fuoco dalla centralità stoica dell'enunciato alla centralità alessandrina della singola parola, fa sì che quest'ultima assuma alcune delle funzioni prima spettanti solo all'enunciato. 

In particolare, quella di essere un segno.

Agostino definisce decisamente la parola come un segno al cap. V del "De dialectica":

"La parola è, per ciascuna cosa, un segno che, enunciato dal locutore, può essere compreso dall'ascoltatore". 

E, del resto, il segno viene definito come 

"ciò che presentandosi in quanto tale alla percezione sensibile, presenta anche qualche cosa alla percezione intellettuale (animus)" 

(ibidem).

Ponendo l'accento sulla parola, anziché sull'enunciato, Agostino ritrova l'opposizione platonica tra parole e cose.

Incontro non casuale, in quanto Platone è l'unico, prima di Agostino, ad avere una concezione semiotica del linguaggio.

Per Platone, infatti, il nome era "deloma," svelamento di qualcosa che non è direttamente percepibile, ovvero dell'essenza della cosa. 

Ma mentre nel Cratilo platonico si discute se il rapporto tra nome e cosa sia un rapporto iconico (peraltro con la soluzione che conosciamo), in Agostino tale rapporto r configura subito come una relazione di significazione.

Il nome "significa" una cosa (nozione equivalente a quella di "essere segno di" una cosa).

Nel momento in cui Agostino propone la sua concezione del "verbum" come "signum," si producono alcune modificazioni teoriche, conseguenti allo spostamento di prospettiva. 

In effetti nelle teorie linguistiche precedenti a quella di Agostino il rapporto tra le espressioni linguistiche e i loro contenuti era stato concepito come una relazione di equivalenza.

La ragione era di carattere epistemologico e riguardava la possibilità di lavorare direttamente sul linguaggio, in sostituzione degli oggetti della realtà, dato che il linguaggio veniva concepito come un sistema di rappresentazione del reale (per quanto mediato dall'anima).

Al contrario, il rapporto tra un "segnum" e ciò a cui esso rinvia era stato concepito come una relazione di implicazione, per cui 1l primo termine permetteva, per lo stesso fatto di esistere, di arrivare alla conoscenza del secondo. 

Eco (1984:33) ha suggerito che, nell'enunciato stoico, i rapporti tra la relazione segnica e quella linguistica possono essere illustrati da uno schema in cui il livello implicazionale si regge su quello equazionale:

(ii)
C
(i)
E

dove E indica "espressione", C "contenuto", > "implica" e = "è equivalente a". 

In Agostino l'unificazione tra le due prospettive avviene a livello della singola parola e senza chiamare in causa rapporti di equivalenza. 

Caso mai la dictio, che è rappresentabile con il livello i, è costituita dall'unione, o prodotto logico, di una vox (significante) e di un dicibile (significato), unità che diviene segno di qualcos'altro (livello ii). 

La prima conseguenza dell'unificazione agostiniana, come sottolinea Eco (1984: 33), è che la lingua comincia a trovarsi a disagio all'interno del quadro implicativo. 

Essa infatti costituisce un sistema troppo forte e troppo strutturato per sottomettersi a una teoria del "sgnum" nata per descrivere rapporti cosi elusivi e generici, come quelli che si ritrovano, a esempio, nelle classificazioni della retorica greco-romana. 

Infatti l'implicazione semiotica era aperta alla possibilità di percorrere l'intero continuum dei rapporti di necessità e di debolezza.

Inoltre la lingua, come del resto Agostino mette in risalto nel "De Magistro," possiede un carattere peculiare rispetto agli altri sistemi di segni, corrispondente al fatto di essere un "sistema modellizzante primario", cioè tale che qualunque altro sistema semiotico può essere tradotto in esso. 

La forza e l'importanza della lingua fanno si che i rapporti con gli altri sistemi di segni si rovescino, e che essa, da specie, divenga genere.

A  poco a poco, il modello del segno linguistico finirà per essere senz'altro il modello semiotico per eccellenza.

Ma quando il processo evolutivo arriva a Saussure, che ne rappresenta il punto culminante, si è ormai venuto a perdere il carattere implicativo, e il segno linguistico si è cristallizzato nella forma degradata del modello dizionariale, in cui il rapporto tra la parola e il suo contenuto è concepito come situazione sinonimica o definizione essenziale.

La seconda importante conseguenza dell'innovazione d'Agostino riguarda il problema della fondazione della dialettica e della scienza (Baratin 1981: 266 e sgg.).

 Fintantoché il rapporto tra linguaggio e oggetto del reale era concepito nei termini dell'equivalenza, il primo non appariva direttamente responsabile della conoscenza del secondo. 

Ma nel momento in cui si attribuisce un carattere di segno alle espressioni linguistiche, la conoscenza delle parole sembra implicare, di per se stessa, e a priori, la conoscenza delle cose di cui esse sono segno. 

Tutta la grande tradizione semiotica, del resto, convergeva nel considerare il segno come il punto di accesso, senza ulteriori mediazioni, alla conoscenza dell'oggetto di riferimento.

Il problema che si pone ad Agostino è allora quello di prendere una posizione rispetto alla questione se il linguaggio fornisca o meno, di per se stesso, informazioni sulle cose che significa.

Agostino affronta la questione del carattere informativo dei segni linguistici nel
De Magistro." 

L'opera, in forma di dialogo tra Agostino e il figlio Adeodato, inizia stabilendo due fondamentali funzioni del linguaggio: (i) insegnare (docere) e (ii) richiamare alla memoria (commemorare), sia propria sia degli altri. 

Si tratta di funzioni contemporaneamente informative e comunicative, in quanto coinvolgono in maniera centrale la presenza del destinatario nel momento in cui forniscono informazione.

La prima parte del dialogo è tesa a dimostrare che queste funzioni, principalmente quella informativa, sono svolte dal linguaggio in quanto sistema di segni. 

Sono le parole, infatti, che, in qualità di segni, danno informazione sulle cose, senza che nient'altro possa assolvere alla medesima funzione.

Nella seconda parte del dialogo, però, Agostino ritorna sull'argomento e cambia completamente la sua prospettiva.

Fondandosi ancora una volta sul fatto che la lingua è un insieme di segni, egli mostra che si possono presentare due casi: 

(i) il primo caso è quello in cui il locutore produce un segno che si riferisce a una cosa sconosciuta al destinatario; in tale situazione il segno non è in grado, di per se stesso, di fornire informazione, come dimostra l'esempio, riportato da Agostino, dell'espressione saraballae, la quale, se non precedentemente nota, non permetterà di comprendere il riferimento ai "copricapi", che essa effettua; 

(ii) il secondo caso è quello in cui il locutore produce un segno che si riferisce a qualcosa che è già noto al destinatario; e nemmeno in questa evenienza si potrà parlare di un vero e proprio processo di conoscenza (De Mag., 10.33).

Alla fine Agostino conclude invertendo il rapporto conoscitivo tra segno e oggetto, e stabilendo che è necessario conoscere preliminarmente l'oggetto di riferimento per poter dire che una parola ne è un segno. 

È la conoscenza della cosa che informa sulla presenza del segno e non viceversa. 

La soluzione ha una ascendenza chiaramente platonica, e a essa si collega anche la presa di posizione, di marca ugualmente platonica, che la conoscenza delle cose deve essere pregiata maggiormente della conoscenza dei segni, perché
"qualunque cosa sta per un'altra, è necessario che valga meno di quella per cui essa sta" (De Mag., 9.25).

Ma se per le cose sensibili (sensibilia) sono gli oggetti esterni che ci permettono di arrivare alla conoscenza, non altrettanto avviene nel caso delle cose puramente intelligibili (intelligibilia). 

Per queste ultime Agostino individua una soluzione "teologica": la loro conoscenza deriva dalla rivelazione che viene fatta dal Maestro interiore, il quale è garanzia tanto dell'informazione quanto della verità (De Mag., 12.39).

Ma anche con questa soluzione "teologica" del problema linguistico, al linguaggio è lasciato uno spazio, che in parte coincide con la funzione del segno rammemorativo, ma in parte la supera: quando conosciamo già l'oggetto di riferimento, le parole ci ricordano l'informazione; quando non lo conosciamo, ci spingono a cercare (De Mag., 11.36).

In Agostino la soluzione teologica non è una scappatoia per uscire da un'impasse teorica. 

Al contrario, essa mette capo a nuove problematiche. 

È nel "De Trinitate" che vina offa che si temo col'espressi pre vedo teriore.mo. 

In effetti, per poter comunicare con gli altri, gli uomini si servono della parola o di un segno sensibile, per poter provocare nell'anima dell'interlocutore un verbo simile a quello che si trova nel loro animo mentre parlano (De Trin., IX, VII, 12).

D'altra parte Agostino sottolinea la natura prelinguistica del verbo interiore, il quale non appartiene a nessuna delle lingue naturali, ma deve essere codificato in un segno quando ha bisogno di essere espresso e portato alla comprensione dei destinatari.

Il verbo interiore ha, del resto, una duplice origine: da una parte esso costituisce una conoscenza immanente, la cui sorgente è Dio stesso; dall'altra esso è determinato dalle impronte lasciate nell'anima dagli oggetti di conoscenza. 

Ma anche in questo secondo caso esso è riconducibile a Dio, in quanto il mondo è il linguaggio attraverso il quale Dio si esprime. 

Si trovano qui gli embrioni del simbolismo universale, che tanta parte avrà nella cultura del Medioevo.

Quello che comunque emerge con sempre maggiore chiarezza è il carattere comunicativo della semiologia agostinia-na, che è individuabile anche nello schema riassuntivo proposto da Todorov (1977: 42):
sapere
immenente)
potenza
divina
verbo
verbo
interiore -
esteriore
pensato
verbo
esteriore
proferito


E comunque innegabile, come sottolinea Simone (1969:96 n. 2), che se la semiologia agostiniana presenta un aspetto "teologico", connesso al problema del verbo divino, tuttavia possiede anche un ben individuato e autonomo aspetto laico, che prende in considerazione i caratteri che il segno ha di per se stesso. Fanno parte di quest'ultimo aspetto le varie classificazioni dei segni, alle quali Agostino si dedica soprattutto nel trattato "De doctrina Christiana" ma che ritorna anche in varie altre opere.

Todorov (1977: 43 e sgg.) individua e analizza cinque tipi di classificazione a cui Agostino sottopone la nozione di se-gno:

1. secondo il modo di trasmissione: 

vista/udito

2. secondo l'origine e l'uso: 

segni naturali/segni intenzionali

3. secondo lo statuto sociale: 

segni naturali/segni convenzionali

4. secondo la natura del rapporto simbolico: 

proprio/traslato

5. secondo la natura del designato: 

segno/cosa

Todorov lamenta il fatto che Agostino giustappone quello che in realtà avrebbe potuto articolare, in quanto generalmente queste opposizioni sono tra di loro irrelate.

Questo non è però del tutto vero, perché (soprattutto nel De Magistro) c'è un tentativo di dare una classificazione combinata di alcuni aspetti del segno.

A questo proposito è possibile ricostruire tale classificazione ordinandola secondo uno schema arboriforme (Ber-nardelli 1987), secondo il modello dell'albero di Porfirio (Eco 1984: 91 e sgg.); cfr. p. 236.

La classificazione di Agostino non è totalmente a inclusione, come tende a essere quella porfiriana; e si può osservare che se venissero sviluppati i rami collaterali, si vedrebbero comparire, una seconda volta, alcune categorie elencate sotto il ramo principale. 

Tuttavia è Agostino stesso a metterci sulla strada di una classificazione inclusiva da genere a specie quando definisce la relazione tra nome e parola come "la stessa che c'è tra cavallo e animale" e includendo la categoria delle parole in quella più ampia dei segni (De Mag., 4.9). differenze
significanti qualcosa
verbale
(voce articolate)
nome in senso particolare
unzi dite di cos
res sensibili
(Romulus, Roma, fluvius)
generi e specie
RES
SEGNO
PAROLA
NOME
SIGNIFICANTE
delle "RES"
differenze
non significanti (significabilia)
non verbale
(gesti, insegne, lettere, tromba militare ecc.)
altra parte del discorso
(si, vel, ex, namque, neve, ergo, quoniam ecc.)
segno udibile di segni
udibili
(funzione metalinguistica)
res intelligibili (virtus) 

La prima relazione interessante è quella tra res e signa.

Per quanto il mondo sostanzialmente venga diviso in cose e segni, tuttavia, Agostino non concepisce tale distinzione come ontologica, bensì come funzionale e relativa.

Infatti anche i segni sono delle res e l'uomo è libero di assumere come segno una res che fino a quel momento era sprovvista di quella dignità. 

Anzi, la stessa nozione di res viene definita in termini rigorosamente semiologici (Simone 1969: 105): 

"In senso proprio ho chiamato cose (res) quegli oggetti che non sono impiegati per essere segni di qualche cosa: per esempio i: legno, la pietra, il bestiame" (De doctr.
Christ., I, II, 2). 

Ma, immediatamente dopo, cosciente della pervasività dei processi di semiosi, aggiunge: 

"Ma non quel legno che, leggiamo, Mosè gettò nelle acque amare per dissipare la loro amarezza (Esodo, XV, 25); né quella pietra sulla quale Giacobbe riposò la sua testa (Gen., XXVIII,11); né quella pecora che Abramo immolò al posto di suo figlio (id., XXII, 13)".

L'articolazione che esiste tra segni e cose è analoga a quella dei due processi essenziali: usare (uti) e godere (frui) (De doctr. Christ., 1, IV, 4). 

Le cose di cui si usa sono transitive, come 1 segni, che sono strumenti per giungere a qual-cos'altro; le cose di cui si gode sono intransitive, cioe sono prese in considerazione per se stesse (Todorov 1977: 39).

Nel De Magistro (4.8) Agostino propone anche un nome per le cose che non sono usate come segni, ma sono significate attraverso segni: significabilia. Niente toglie che in un secondo momento anche quest'ultime possano essere assun-le copo avio cosianicato i rapporti tra segni e cose, Agostino propone questa definizione di segno nel De doctrina Christiana (II, I, 1): 

"Il segno è una cosa (res) che, al di là dell'impressione che produce sui sensi, di per se stessa, fa venire in mente (in cogitationem) qualcos'altro". Nel nostro albero porfiriano abbiamo deciso di ricostruire la principale suddivisione agostiniana dei segni secondo la dicotomia verbale/non verbale, anche se altre opzioni, ugualmente esplicite nei testi di Agostino, erano disponibili.

Questa decisione è autorizzata da un passo del De doctrina Christiana (II, IV, 4) in cui, a conclusione di un'analisi dei vari tipi di segni, Agostino sostiene: "Infatti di tutti quei se-gni, di cui ho brevemente abbozzato la tipologia, ho potuto parlare attraverso le parole; ma le parole in nessun modo avrei potuto enunciarle attraverso quei segni"

Viene esplicitamente fatto riferimento al carattere, tipico del linguaggio verbale, di essere un sistema modellizzante primario, e tale carattere viene assunto come criterio della divisione fondamentale dei segni.

Una classificazione incrociata rispetto alla precedente è quella effettuata in base al canale di percezione. Agostino infatti sostiene che "tra i segni di cui gli uomini si servono per comunicare tra di loro ciò che provano, certi dipendono dalla vista, la maggior parte dall'udito, pochissimi dagli altri sensi" (De doctr. Christ., II, II, 4).
Tra i segni che vengono percepiti con l'udito ci sono quel-li, fondamentalmente estetici, emessi dagli strumenti musi-cali, come il flauto e la cetra, o anche quelli essenzialmente comunicativi emessi dalla tromba militare. Naturalmente, ritroviamo tra i segni percepibili con l'udito, in una posizione dominante, anche le parole: 

"Le parole, in effetti, hanno ottenuto tra gli uomini il primissimo posto per l'espressione dei pensieri di ogni genere, che ciascuno di essi vuole ester-nare" (De doctr. Christ., l, ll, 4).
Tra 1 segni percepibili con la vista Agostino elenca i cenni della testa, i gesti, i movimenti corporei degli attori, le bandiere e le insegne militari, le lettere. Infine vengono presi in considerazione i segni che riguardano altri sensi, come l'odorato (l'odore dell'unguento sparso sui piedi di Cristo), il gusto (il sacramento dell'euca-ristia), il tatto (il gesto della donna che toccò la veste di Cristo e fu guarita).
10.6.4 "Signa naturalia" e "signa data"
Sicuramente fondamentale, anche se non direttamente integrabile al nostro albero inclusivo, risulta lo schema di classificazione che oppone i signa naturalia ai signa data. I primi sono "quelli che senza intenzione, né desiderio di si-gnificare, fanno conoscere qualcos'altro, oltre a se stessi, come il fumo significa il fuoco" (De doctr. Christ., II, I, 2).

Ne sono esempi anche le tracce lasciate da un animale e le espressioni facciali che rivelano, inintenzionalmente, irritazione o gioia. Dopo averli definiti, Agostino dichiara di non volerli trattare ulteriormente.
E invece maggiormente interessato ai signa data, in quanto a questa categoria appartengono anche i segni della Sacra Scrittura. Essi vengono definiti come "quelli che tutti gli esseri viventi si fanno, gli uni agli altri, per mostrare, per quanto possono, i movimenti della loro anima, cioè tutto ciò che essi sentono e pensano" (De doctr. Christ., II, II, 3).

Gli esempi sono soprattutto i segni linguistici umani (le pa-role).

Ma Agostino, curiosamente, include in questa classe anche i segni emessi dagli animali, come quelli che si hanno quando il gallo segnala alla gallina di aver trovato il cibo (ibidem). Questo crea una marcata differenza rispetto ad Aristotele, che include i gridi degli animali tra i segni naturali (De int., 16 a).
Ma Aristotele opponeva "naturale" a "convenzionale" mentre i signa data non sono i "segni convenzionali" , come Markus (1957: 75) aveva suggerito (e come del resto era stato proposto dalla traduzione francese di G. Combès e J.
Farges). I signa data sono i "segni intenzionali" (Engels 1962: 367; Darrel Jackson 1969: 14), e corrispondono a una ben precisa intenzione comunicativa (De doctr. Christ., 11, M, 4). E del resto il carattere intenzionale che permette ad Agostino di includere tra i signa data quelli emessi dagli animali, anche se egli non si pronuncia sulla natura di questa intenzionalità animale (Eco 1987: 78).

Del resto, come nota Todorov (1977: 46), porre l'accento sull'idea di intenzione corrisponde al progetto semiologico generale di Agostino, orientato verso la comunicazione. 1 segni intenzionali, o meglio, creati espressamente in vista della comunicazione, possono essere messi in corrispondenza del symbolon di Aristotele e della combinazione stoica di un significante con un significato; quelli naturali, ovvero già esistenti come cose, corrispondono invece ai sẽmeia, sia aristotelici che stoici.

Uno dei punti fondamentali della semiologia agostiniana, infine, è costituito dalla ricerca dei modi in cui si puo stabilire il significato dei segni. Tale indagine è condotta soprattutto nel De Magistro, dove si può rintracciare una concezione semantica che si avvicina al tipo della "semiosi illimi-tata" di Peirce. Come ha rilevato anche Markus (1957: 66), il significato di un segno, per Agostino, può essere stabilito o espresso mediante altri segni, per esempio: fornendo dei sinonimi; attraverso l'indicazione con il dito puntato; per mezzo di gesti; tramite ostensione (De Mag., Il e VII).

Questa concezione del significato si rende possibile soltanto nel momento in cui viene abbandonato lo schema equazionale del simbolo, per adottare, come fa Agostino, quello implicazionale del segno. La teoria semiologica agostiniana si apre così, come ha messo in evidenza Eco (1984: 34 e sgg.), verso un modello "istruzionale" della descrizione semantica. Se ne può cogliere un esempio nell'analisi che Agostino conduce insieme ad Adeodato del verso virgiliano
"si nihil ex tanta superis placet urbe relinqui" (De Mag., 11,
3). 

Esso viene definito come composto di otto segni, dei quali, appunto si cerca il significato. me un signiteato af dubbio' dopo aver tutava sotol
neato che non si è trovato un altro termine da sostituire al primo per illustrare lo stesso concetto. Si passa, pol, a Ini-hill, il cui significato viene individuato come l'"affezione dell'animo" che si verifica quando, non vedendo una cosa, se ne riconosce l'assenza.

In seguito Agostino chiede ad Adeodato il significato di lex ed esso propone una definizione sinonimica: lex sarebbe equivalente a Idel. Agostino non è soddisfatto di questa soluzione e argomenta che il secondo termine è certo un'interpretazione del primo, ma ha bisogno di essere a sua volta interpretato. La soluzione finale è che lex significa "una separazione" da un oggetto. 

A questa conclusione, però, viene aggiunta anche una successiva istruzione per la sua decodifica contestuale: il termine può esprimere separazione rispetto a qualcosa che non esiste più, come nel caso della città di Troia a cui si allude nel verso virgiliano; oppure il termine può esprimere separazione da qualcosa che è ancora esistente, come quando diciamo che in Africa ci sono alcuni negozianti provenienti da Roma.

Il significato di un termine, allora, "è un blocco (una se-rie, un sistema) di istruzioni per le sue possibili inserzioni contestuali, e per i suoi diversi esiti semantici in contesti diversi (ma tutti ugualmente registrabili in termini di codice)"
(Eco 1984: 34).

La struttura implicativa permette regole del tipo 

"Se A appare nei contesti x, y, allora significa B; ma se B, allora С; есс.", regole che sono comuni tanto al modello istruzionale quanto alla semiosi illimitata.

In definitiva, è proprio grazie all'assunzione generalizzata del modello implicazionale che la semiologia agostiniana riesce a porsi sia come sintesi delle acquisizioni semiolingui-sta co del pronde antici azionia di la un delle pre secenti tendenze della ricerca attuale in campo semantico (modello istruzionale). 

NOTE:




'Nella prima sezione vengono riportate le risposte di Zenone di Sidone
alle critiche stoiche; nella seconda viene esposta la versione di Bromio del-l'enumerazione e confutazione di Zenone degli argomenti contro l'inferen-za empirica; nella terza viene riportata l'enumerazione di Demetrio di La-
conia degli errori comuni degli antagonisti del metodo analogico; la quarta sezione, che espone una seconda lista degli errori degli oppositori, è anoni-ma, 7r. Car quand roba Dite alle 'esa da attribuire a Demetrio.

3 Cfr. Phil., De signis, coll. VIII, 32 - IX, 3 = cap. 13). Il riferimento bibliografico al trattato di Filodemo è dato in maniera duplice, indicando prima la colonna e il numero delle righe del testo greco del papiro, poi il numero del capitolo corrispondente nella traduzione inglese effettuata dai De Lomel 7 più riprese ribadito anche nella terza sezione che riporta il
pensiero di Demetrio; cfr. col. XXVIII, 13-25 = cap. 45, e col. XXXVII,
122. r. Col Xii, 1-15 = cap. 18.
Cfr. Col. 1: 12176-Cap2, Col. XIV, 41l - cap. 19.
10 Cfr. col. XII, 1431 = cap. 17.

" In Peirce (1980: 140), del resto, c'è a proposito dell'icona anche un'interessante considerazione (sulla possibilità che l'oggetto del segno iconico esista o non esista), la quale sembra riproporre, in epoca contem-poranea, una tematica simile a quella stoica ed epicurea circa la distinzione dei segni in propri e comuni: "Un'Icona è un segno che si riferisce all'Oggetto che essa denota semplicemente in virtù di caratteri suoi propri, e che essa possiede nello stesso identico modo sia che un tale Oggetto esista ej-fettivamente, sia che non esista. È vero che, a meno che vi sia realmente un tale Oggetto, l'Icona non agisce come segno".

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