Tuesday, January 30, 2024

H. P. Grice (M. A. Lit. Hum. Oxon.), Commentarij sulla storia della filosofia romana classica di Francesco Adorno

 

ADORNO

LA PIU ANTICA FILOSOFIA ITALICA, NON PER CICERONE! 

E interessante sottolineare che Pitagora di Samo, isola ionica vicina alle coste dell'Asia Minore, emigra in Crotone, Italia (Magna Grecia) dopo aver fatti molti viaggi in Egitto e in Oriente, viaggi non impossibili, anche se poi le piu tarde scuole pitagoriche hanno voluto vedere in essi ben altro. Samo, dopo alterne vicende simili a quelle delle altre città e isole ioniche, dopo lunghi contrasti tra la classe dei nobili e la democrazia, e dominata dal tiranno Policrate, che favod il popolo contro i nobili, che si circonda di una fastosa corte, che e amico di Amasi re di Egitto. E per contrasti sorti con Policrate che Pitagora abbandona la Ionia per recarsi a Crotone nell'Italia meridionale, accompagnato là da una fama già leggendaria. Eraclito ed Erodoto, parlando di Pitagora, testimoniano appunto la fama di lui nel mondo ionico. Eraclito (Diogene Laerzio, IX, l) sprezzantemente parla della multiscienza o polymathia di Pitagora. Evidentemente il disprezzo nasce in Eraclito da una fama, o leggenda che fosse, ormai acquisita. Erodoto, riferendo dubitosamente la leggenda di Zalmosside, un tracio vissuto a Samo, in qualità di schiavo e di allievo di Pitagora e che, poi, liberato e arricchito torna in Tracia, dove sale in fama di mago e dove insegna l'immortalità dell'anima, provata con un trucco, afferma che questo gli era stato narrato dagl’abitanti l'Ellesponto e il Ponto (cfr. Erodoto, IV, 95). La vita e la figura di Pitagora le troviamo avvolte nella leggenda dai tempi piu antichi. Con una certa sicurezza si può dire che Pitagora nacque a Samo, da Mnesarco. Emigra da Samo nella Magna Grecia per un dissidio sorto con Policrate tiranno di Samo. Possono non essere leggendari i suoi molti viaggi, in particolare quelli in Tracia, in Asia Minore, in Egitto] a Creta. Risale probabilmente a Pitagora in Crotone la fondazione di una setta, ove si svolge una vita pitagorica. Fama di dotto e di enciclopedico e fama di uomo superiore, Pitagora dove, dunque, avere già prima del suo ultimo viaggio che lo trasporta a Crotone. Per quanto scarse, fondamentali sono le testimonianze di Eraclito, Senofane ed Erodoto, che confermano l'esistenza reale di Pitagora. Pitagora a Crotone, fondatore di una setta, di quella vita pitagorica di cui parla anche Platone (Repubblica, 600b), scienziato e sacerdote a un tempo, sacerdote e medico di anime, si perde nella leggenda, o meglio nelle ricostruzioni dei tardi filosofi neo-plato­nici e neo-pitagorici. “La Vita di Pitagora,” di Porfirio e la “Vita pitagorica” di Giamblico ricavano gran parte delle notizie dai pitagorici Apollonio di Tiana, Moderato di Gada, e Nicomaco di Gerasa. Solo che il pitagorismo puo sorgere, interpretandola a modo suo e per nuove esigenze, da una lunga e continua tradizione che si scandisce in tempi diversi, ogni volta tornando alla leggenda e proiettando in essa ciò che rispondeva a un certo tempo e a una certa situazione, onde, piu che di pitagorismo parlamo di pitagorismi. Di tappa in tappa, a ritroso, attraverso un attento smontaggio delle varie stratificazioni, si può risalire sino a Filolao, di cui possediamo alcuni frammenti. Risalire oltre è estremamente difficile e pericoloso. Gli stessi scritti andati sotto il nome di Pitagora – i versi d'oro, i tre saggi su educazione, politica, e fisica -- sono composti da filosofi che rivivano il sacro verbo del divino filosofo. Lo stesso Aristotele, cosi propenso ad interpretare posizioni diverse in funzione del proprio pensiero, non cita mai direttamente Pitagora, ma parla sempre di coloro che vengono detti PITAGOR-ici (Metaf., I, 5, 985b). – cf. Speranza non cita direttamente Grice, ma parla sempre di coloro che vengono ditti GRICE-iani. O Giuliano non parla di Cristo ma dei Galilei! D'altra parte di quello che può essere stato il Pitagora storico, anche il nome ha destato sospetto, ché il nome ‘Pitagora’ significa “l'annunciatore di Pizio,” e la leggenda vuole che Pitagora fosse figlio del dio Apollo pizio o del dio Mercurio - non sappiamo altro dalle fonti piu antiche se non che Pitagora, figlio di Mnesarco, nativo di Samo, si sarebbe occupato di una quantità di studi," (Lct&I Lct't'ct -- Eraclito) - e che quindi sarebbe stato spinto da un largo desiderio di sapere. Forse di qui la fama di Pitagora, “l’annunciatore dell’apollo pizio,” che per primo usa il termine ‘filo-sofo’, desideroso, “filos,” appunto, “di sapienza,” sofia – o sapiente dell’amore? -- che sostenne l'immortalità dell'anima e forse la tras-migrazione delle anime, che, giunto a Crotone, fonda una conventicola politico-religiosa. Obbiettivamente non basta l'accenno di Eraclito ai molti mathemata per indurre che Pitagora interpreta il tutto in termini numerici, che per Pitagora le cose sono numeri, né può bastare per far risalire a Pitagora una teoria fisica. Si pensi, comunque, anche al fatto che il termine “~&-rj(.Lot”, che c'è in Eraclito (fr. 41), significa solo studio, apprendimento, e che nelle fonti antiche, riferentisi a Pitagora, mai troviamo il termine “numero” (&.pL&(.L6t;). Il termine “numero” lo si trova, invece, in alcuni frammenti di Filolao. Orbene, una tradizione riferisce che e Filolao a divulgare la sapienza di Pitagora, tradendo quello che è stato detto il "silenzio pitagorico,” cioè, l'assunto che la setta doveva mantenere il segreto sull’inziazione. Solo che altra tradizione riferisce anche che il silenzio sarebbe stato rotto da Ippaso, filosofo piu antico di Filolao, da Archippo, da Liside, e cosi via. E costruita nei questi circoli la leggenda di Pitagora uomo divino, già Eraclide elabora la leggenda delle re-incarnazioni di Pitagora; e ben si conosce l'austerità dei filosofi pitagorici, austerità che ci è testimoniata da Isocrate. Dunque l'interesse accresciuto per la scuola di Crotone (o Crotona) suscita il desiderio di conoscere quale era stata la storia di Pitagora. Si scoprono nomi, si conoscono accadimenti, ma non si scoprono saggi di filosofi pitagorici anteriori a Filolao. La leggenda del silenzio pitagorico nasce cosi, e -cosi nasce l'accusa mossa a Filolao e poi ad altri di aver violato il segreto pitagorico (Maddalena, “I pitagorici,” Bari, p. 90, n. 32). Aristotele, poi, sostiene che al tempo degli atomisti, quelli che sono chiamati pitagorici si dedicano allo studio delle matematiche e lo fecero progredire. I scolastici di Crotone, dunque, nutriti nello studio delle matematiche, credeno che i principii delle matematiche sono i principii delle cose (Meta/., l, 5, 985b, 23-26). Evidentemente, qui Aristotele si riferisce proprio a Filolao e all’italiano Archita, della famosa colomba mecanica. Dunque la scuola di Crotone, fondato sulla scienza dei numeri e della geometria, dei numeri interi prima, degl'irrazionali poi, attraverso l'influenza di Teeteto e di Teodoro, e in effetto posteriore a Pitagora e ai primi immediati suoi discepoli. Ma forse un altro passo di Aristotele può chiarire il complesso problema. Aristotele, accanto ai pitagorici aritmetici, ne pone altri. Altri pitagorici però dicono che dieci sono i principii, ordinati in serie: limite/illimitato, dispari/pari, uno/molteplice, destroy/sinistro, maschio/femmina, in-quiete/in-movimento, diritto/ricurvo, luce/tenebra, bene/male, quadrato/rettangolo. In modo simile pare che pensasse anche Alcmeone di Crotone, sia che apprese questo da loro, sia ch'essi l'abbiano appreso da lui (Metaf., I, 5, 986a-986b). ALCMEONE, medico della scuola di Crotone, vive circa al tempo in cui a Crotone e Pitagora. A Pitagora, dunque, si puo far risalire il motivo delle opposizioni, delle cose vedute come determinantisi e quindi opponentisi. Forse di qui è nata la fama di Pitagora discepolo, nell’lonia, di Anassimandro e di Anassimene. Discepolo o meno, certo nell’Ionia Pitagora conosce gli studi (!Lot&~!Lot't'cx) di Anassimandro e la sua visione geometrica della realtà scandentesi nel ritmo dei limiti e delle compensazioni entro la linea dell'indeterminato illimitato. Dalla materia indefinita, pura quantità, incomprensibile se non determinata, limitata e qualificata, cioè numerata, onde dal numerare si costituiscono le cose stesse, il passo e breve, come facile è l'affermazione che, dunque, le cose sono numeri. Probabilmente tale e la tesi dei primi discepoli di Pitagora, anche se non cosi esplicita. Piu tardi, sia da Parmenide di Velia sia, per altro verso, d’Eraclito, tale tesi della realtà scandentesi nei contrari, e aspramente criticata, soprattutto per l'implicita opposizione contraddittoria di ciascuna unità (uno per sé) alle altre unità (molti per sé). In Filolao si trova la tesi famosa dell'armonia dei contrari, del pari e del dispari che si costituiscono dall'uno-parimpari e, sottesa, una discussione serrata nei confronti di Parmenide, ed è probabilmente con Filolao che l'oggetto dei “!LCX~!LCX't'cx” pitagorici divenneno il numero, “cìp~&!Lo(“, mentre nei primi pitagorici e ancora il contorni di una cose, il di-segno, costituito di punti. Si venne cosi a delineare già nella scuola di Crotona due momenti storicamente determinabili. Uno originario, del tempo di Pitagora, in cui il tipo di indagine è vicino a quello di Anassimandro e di Anassimene. Un secondo che, dopo Parmenide di Velia, si delinea in un senso piu strettamente matematico e musicale, che però spiega come i suoi sostenitori (Filolao ed ARCHITA DI TARANTO) puossono proclamarsi “pitagorici,” recuperando certi “!L«&~!LCX't'CX” di Pitagora. Piu complicato ancora è stabilire storicamente l'aspetto religioso-magico di Pitagora, l'effettiva consistenza della setta d'iniziati che fonda a Crotone, i suoi rapporti da una lato con gli sciamani e il leggendario Abari, sciamano venuto dal nord (Dodds, “I greci e l'irrazionale”, Firenze, pp. 171 sgg.), dall'altro lato con ALCMEONE e la scuola medica di Crotone. Ancora durante il suo soggiorno in l’Ionia, Pitagora e famoso per la sua multi-scienza, ma anche per il suo atteggiamento di uomo attraverso cui parla il divino, per il suo atteggiamento magico-religioso. Si dice che tale suo fascino suscita nell’Ionia meraviglia e forse anche diffidenza (M. Timpanaro-Cardini, “Pitagorici; test. e framm.,” I, Firenze, p. 4) ed si sostenne che Pitagora e un aristocratico che si trova in contrasto con il mondo ionico e milesio, razionalista e teso ormai a spiegare i fenomeni coi fenomeni (O. Gigon, “Der Ursprung d. griechischen Philos. von Hesiod bis Parmenides”, Basilea, pp. 120 sgg.). È questa un'ipotesi plausibile, che da un lato spiega il contrasto con Policrate di Samo, tiranno, democratico, circondato da una corte lussuosa, e dall'altro l'accoglienza data a Pitagora in Crotone, governata aristocraticamente, in lotta contro Sibari liberale e democratica. Sempre in via ipotetica, si puo dire allora che certi atteggiamenti religiosi e magici Pitagora benissimo accolta durante i suoi viaggi in Egitto e poi a Creta. Cosi il motivo dell'immortalità dell'anima l’accolta dal dionisismo trace e cretese, dal demetrismo di Creta, trasformando quelle che erano credenze agrarie, e che oramai avevano assunto nelle città dell’Italia forme politico-religiose, in una incantagione di tipo medico quali trova tra i medici incantatori e sacerdoti egiziani e soprattutto tra i medici della scuola di Crotone. Di qui, forse, e nata poi la fama di Pitagora discepolo del cosiddetto orfico Ferecide di Siro, e la leggenda che Pitagora, giunto a Creta, scese nell'antro dell'ida, apprenne nei misteri le cose riguardanti gli dèi. Parte poi per Crotone (Pap. Herc., 1788, VIII, fr. 4). Cosi non sembra un caso che la'leggenda già nota a Platone (“Carmide”, 156d-e) abbia fatto di Zalmosside, presunto discepolo di Pitagora, un medico che, accanto alla pozione o all'erba curativa, pronuncia un discorso incantatore, ch'era tipica pratica dei medici della scuola di Crotone, tra cui non va dimenticato che v'e ALCMEONE che e pitagorico, o, forse, viceversa, influenza i primi pitagorici. Ora, la. tesi ionica dei contrari, dei limiti e della compensazione, può essere propria anche di Pitagora, può spiegare, rifacendoci in particolare al motivo dell'aria o respiro di Anassimene, la testimonianza di Aristotele, secondo cui certi pitagorici ritennero che esiste il vuoto e che il vuoto entra nell'universo, in quanto l'universo respira dall'infinito, o “apeiron”, il respiro e il vuoto. Il vuoto, si dice, distingue le nature, essendo una specie di separazione e di distinzione delle cose consecutive (“Fisica”, IV, 6, 213b 22-27). Poiché la tesi dell'universo che respira ed è respiro è criticata in un frammento di Senofane (fr. 7: cfr. Diogene Laerzio, IX, 19), non del tutto aleatoria è l'ipotesi che il respiro dell'universo sia proprio del primissimo pitagorismo. La vita del tutto si scandisce, dunque, nel ritmo dei contrari per la forza della respirazione, di due moti contrari, emissione ed immissione, costituenti l'armonia del tutto, d'onde quella che e la cosmologia della scuola di Pitagora. La vita risulta quindi dall'equilibrio della respirazione, dal soffio vitale (anima). L'anima è, quindi, presente a tutto e per ciò, nell'uomo, il venir meno dell'equilibrio, della compensazione è malattia e poi morte dei singoli, non del respiro che ri-vive in chi vive. Per questo, l’uomo muoe,  perché non puo ricongiungere il principio con la fine, si legge in un frammento di Alcmeone di Crotone (fr. 4). Qui, forse, anche il motivo pitagorico dell'immortalità dell'anima e della trasmigrazione, è terapeuticamente la cura del corpo che non può non essere accompagnata dalla cura dell'anima. E come il corpo si cura ristabilendo l'equilibrio, cosi l'anima si cura ristabilendo l'equilibrio, purgandola, purificandola mediante un apprendimento, mediante un’incantagione. E se l’insegnamento consiste nell'iniziazione alla visione dei contrari e del respirante cosmo, l’incantagione si dove a un discorso e alla musica. Il sodalizio di Pitagora a Crotone si delinea come una specie di scuola medica, in cui se da un lato il maestro inizia ai “mathemata” putificatori, dall'atro, mediante una dieta, a prescrizione di cibi (fave, carni, ecc.), austerità di vita, tende alla cura dell'anima, a far si che l'uomo scande la propria vita all'unisono con la vita del cosmo. Senza dubbio vecchie credenze popolari, certi aspetti del dionisismo e dei misteri cretesi, certi tabu, ricongiungendosi a tradizioni apollinee, sirveno benissimo a costituire questa vita pitagorica che in altri tempi, per altre esigenze assume ben diversi significati. Si venne cosi a costituire, probabilmente fin dal tempo di Pitagora, tutto un complesso di norme dietetico-religiose, un sodalizio purificatorio, in cui, secondo il racconto di Dicearco (Porfirio, Vita di P., 18-19), che fossero ammessi ad ascoltare il verbo del maestro, la verità (“autòs épha”, “ipse dixit”) e a far parte del sodalizio uomini e ove, fin dai primi tempi si ha la celebre distinzione tra acusmatici o acustici -- coloro che dovevano solo ascoltare -- e matematici, coloro che si iniziavano agli studi veri e propri e che furono probabilmente i continuatori dell'insegnamento scientifico del maestro. A Pitagora, dunque, si possa far risalire la visione del cosmo scandentesi nei dieci contrari (da cui poi prese le mosse la concezione aritmo-geometrica e musicale) e vivente del respiro (da cui la cosmologia); la concezione dell'immortalità dell'anima e della presenza dell'anima là dove sono esseri (e forse a questo allude il celebre frammento di Senofane, per cui l'immortalità dell'anima e la tra-smigrazione si è fatta risalire ai primi pitagorici. Si narra che una volta, passando per dove maltrattavano un cagnolino, Pitagora impietosito pronunziasse, ‘Smetti di battere, poiché è certo l'anima di un mio amico: l'ho riconosciuto udendone la voce!’ (fr. 7); la cura medico-incantatrice dell'anima, ove sono presenti tradizioni magiche antiche, vive soprattutto in l'Italia, e tradizioni agrarie e mistiche che probabilmente proprio allora si costituisce in quelle associazioni che avranno poi il nome di orfiche e che giuocano in senso politico nelle ultime lotte dall’aristocrazia. Ed è qui che sia pure in via ipotetica - s'in- serisc~ il fatto che a Crotone, in un primo tempo, e accolto con entusiasmo l'insegnamento morale, equilibratore e GERARCHICO, di Pitagora dai circoli aristocratici che hanno in mano il potere quando Pitagora giunse a Crotone. Secondo la tradizione, la setta pitagorica e poi ostacolata e combattuta sia dagli aristocratici - essa, in fondo, dovette rivelarsi piu vicina alla latta condotta dai democratici in nome di una misura e di una legge che non fosse obbligatoria solo perché data dagli antichi signori che unici hanno in mano il potere. E non è forse un caso che si dice che a Pitagora si siano ispirati i legislatori Zaleuco di Locri e CARONDA DI CATANI, sia dai primi movimenti democratici che videro forse nella setta pitagorica un'eccessiva chiusura aristocratico-sacerdotale. La leggenda narra che l'aristocratico CILONE DI CROTONE, fattosi interprete dei malcontenti contro il sodalizio di Crotone, che ha sede nella casa di Milone, assalta, insieme a molti altri, la casa, ov'erano riuniti i pitagorici, e l’incendia. Si dice che sfuggirono alla morte Archippo e Liside. Liside si rifugia a Tebe dove sembra fonda un circolo pitagorico. Certo a Tebe fiorirono piu tardi Filolao e poi Simmia e Cebete, i famosi interlocutori pitagorici del “Fedone” di Platone. Archippo si rifugia a Taranto, ove prosegue l'opera del maestro. Di Taranto e il pitagorico ARCHITA, amico di Platone. Quanto a Pitagora vi sono due versioni, l'una risalente a Dicearco (fr. 34 Wehrli), l'altra ad Aristosseno. Secondo la versione di Dicearco, prima dell'esplosione violenta dei Ciloniani che porta all'incendio della casa di Milone, Cilone fa allontanare Pitagora da Crotone. Pitagora si recato a Metaponto dove e morto ancor prima dell'incendio. Secondo la versione di Aristosseno (fr. 18 Wehrli), Pitagora sarebbe sfuggito al massacro, perché non era presente. Fuggito a Locri poi passa a TARANTO per andare, infine, a Metaponto dove e morto, probabilmente (cfr. Porfirio, Vita Pit., 56). Data l'indefinitezza della figura storica di Pitagora e del suo insegnamento, e opportuno delineare solo certe suggestioni la cui origine si possa effettivamente far risalire a Pitagora, suggestioni che hanno dato luogo a motivi molteplici e a interpretazioni che si son delineate su vie diverse (la via della legislazione, dell'aritmetica, della mistica, del SIMBOLO, della medicina), e che hanno profondamente inciso, per un verso o per l'altro, a seconda di certe esigenze o di altre, sulla cultura italica. costituendo, nella circolazione delle idee, componenti molteplici, sia nel mondo italico. Si può dire che i primi pitagorici, quelli che Aristotele avvicina ad ALCMEONE DI CRONOTE, sono quei pitagorici che stabiliseno le dieci serie di opposti. Sono gli scolari di Pitagora o i discepoli piu vicini al maestro i quali pensano si al numero come rapporto e armonia, ma tra i componenti dell'armonia poneno oltre tutti gli opposti, anche l'uno e il molteplice. Ma come potevano accordarsi l'uno e il molteplice? (E. Paci, St. d. pensiero presocratico, Torino, p. 83). Proprio questo disaccordo o opposizione, tra l'uno da un lato e il molteplice dall'altro, impegna la discussione d’Eraclito, mentre, per altro verso, imposta la polemica di Parmenide di Velia. Certo di numeri nel *senso* matematico della parola non troviamo accenno nei primi pitagorici, se non piu tardi con Filolao. Nei primi pitagorici si tratta nell'esigenza di definire la quantità indefinite, il contorno di una cose, di un di-segno, costituito di punti. In altri termini, i pitagorici scoprono, attraverso quanto, mediante Pitagora, e pervenuto dalla geometrizzazione di Anassimandro, che “intendere” significa “misurare”, e “de-finire, appunto di-segnare. E poiché il ‘di-segno’, lo schema, sotto questo aspetto la forma, la de-limitazione è linea. Un piano e un insieme di line. Un solido e un insieme di piani. Una linea e un insieme di punti. Si puo dire che ciò, senza di cui nulla è, e il punto, e che, dunque, la qualificazione, l'intelligenza delle cose è dovuta al punto stesso e alla variazioni spaziali dei punti, onde una figura e una schema, la cosa, e pure, numeri. Ciò che rende conto della realtà stessa, delle cose, e la misura. Ora, se l'unità è il *punto*, si capisce come l'unità sia unita accanto ad altre unità. Di qui l'opposizione uno/molti, e, nella configurazione della cosa-punti, le opposizioni pari/dispari, limitato/illimitato, destroy/sinistro, maschio/femmina, quiete/movimento, diritto/ricurvo, quadrato/rettangolo. E poiché il dis-pari è in-divisibile, e cioè riferibile all'unità, il dispari e anche bene e luce, mentre, all'opposto, poiché il pari è divisibile, riferibile alla molteplicità, il pari r anche *male* e tenebre. Nella tavola pitagorica delle opposizioni, abbiamo cosi una figura-punti dispari e una figura-punti pari, che, se vengono ra-ffigurati, come sembra facessero i primi pitagorici, con una squadra (gnomone), si de-terminano in modo che i lati della squadra resultino uguali nei dispari, mentre nei pari i lati resultano disuguali, e quindi mentre i primi sono sempre rapportabili all'unità, i secondi sono rapportabili alla molteplicità. Il quadrato a costituito di gnomoni dispari, il rettangolo di gnomoni pari, per cui il *quadrato è unità*, il rettangolo molteplicità, e via di seguito. Si puo cosi parlare di un numero quadrato e di un numeri oblungo, ed è probabilmente entro questi termini che assume significato la famosa uaternaria pitagorica, sulla quale, si è detto poi, i pitagorici giurano, dato il suo valore sacro. Il suo valore sacro deriva dal fatto che la rappresentazione geometrica della quaternaria è costituita da 10 punti messi in forma di triangolo avente quattro punti per lato, la cui somma 1 + 2 + 3 + 4 è uguale a 10. La quaternaria costitusce il numero perfetto, poiché racchiude in sé i numeri delle TRE proporzioni musicali (proporzione ottava 2:l, proporzione quinta 3:2, proporzione quarta 4:3), delle quattro specie di enti geometrici -- punto = l; linea = 2; superfice = 3; solido = 4) cioè di ogni cosa (cfr. Mondolfo-Zeller, “La filosofia dei greci nel suo sviluppo storico” Firenze, p. 676). E questa un'interpretazione piu tarda. Unità-molteplicità resta, dunque, l'opposizione fondamentale. Compresa l'unità, la misura, l'armonia, rimane incompresa la molteplicità, la dis-armonia: il calcolabile (razionale) e l'incalcolabile (irrazionale, incommensurabile). Oppure gli uni rimaneno accanto agli uni e, dunque, ai molti dell'indefinito spazio (quantità), che fu forse il respiro di cui, sembra, parla Pitagora, o il vuoto cui accenna Aristotele. Solo che l'indefinito, de-finendosi, è un insieme di punti, è il contorno di cose che tuttavia si scandisce come pari e dispari, come infinito e finito, come comprensibile e incomprensibile, il tutto vivente dell'infinito (respiro), e quindi esso stesso, perché indefinito, incomprensibile, irrazionale. Di qui prende le mosse la critica di Parmenide di Velia, che, senza dubbio, ha rapporti coi primi pitagorici, anche se può essere leggendario ch'egli sia stato avviato alla filosofia, come dice Diogene Laerzio, da Aminia, figlio di Diocete, pitagorico (IX, 21). Ma di qui, crediamo, anche le due facce dello stesso Pitagora, da un lato volto ai “mathémata”, alla geometrizzazione, alle tecniche, e dall'altro al silenzio, alla via sacerdotale, come si dirà piu tardi, che coglie, come in un'iniziazione, di là dall'opposizione del finito e dell'infinito, del pari e del dispari, il divino respiro del tutto, la suprema armonia. Da questo, comunque, discende anche il significato medico dell'insegnamento di Pitagora e dei primi pitagorici, come particolarmente si rileva in ALCMEONE DI CROTONE, che se anche si accosta a Pitagora avendo già una sua certa formazione di origine milesia, poteva sopratutto attraverso il motivo dei contrari e dell'equilibrio, lui medico, accettare parte dell'insegnamento pitagorico. Come alla fisica ionica si ricollega probabilmente la primitiva dualità pitagorica apeiron/péras, cosi da quella stessa fisica trae verosimilmente Alcmeone alcune opposizioni: umido/asciutto, caldo/freddo, amaro/dolce, le cui potenze constata nella pratica della medicina, e che introduce in questa corrente pitagorica (M. Timpanaro-Cardini, pp. 119- 20). Dice cosi Alcmeone che la salute si mantenne dall'equilibrio delle forze, dell'umido, del freddo, del caldo, dell'amaro, del dolce e cosi via, mentre il dominio di un solo provoca la malattia (fr. 4), onde l’uomo muoie perché non puo ricongiungere il principio con la fine (fr. 2). E cosi non è un caso che medici e pitagorici siano stati anche CALLIFONTE e DEMODENE DI CROTONE, e poi di Taranto, medico e maestro di GINNASTICA.  Ed è probabilmente entro questa cerchia di interessi e di problemi, anche se discussa n'è la datazione, che rientra l'anonimo trattatello cosmologico-medico “Sul numero sette” (m:pl ~~3otJ.Ii3(1)v), i cui primi undici capitoli (forse piu antichi) descrivono il dominio del numero sette nell'universo, mentre i capitoli ultimi (XII-LIII) discutono le malattie partendo dalla premessa che gli animali e le piante che vivono sulla terra hanno una natura simile a quella del cosmo, i piu piccoli come i piu grandi (c. VI). A parte Pitagora, maestro e medico, nei primi pitagorici sembra abbiano prevalso, entro la visione totale di Pitagora, interessi piu particolari e tecnici, o per la medicina, o per la traduzione di una cosa in punto-figura, dai quali  si venne poi formando quella che sarà la cosmologia pitagorica (come può darsi sia il caso di Petrone d'Imera che ha una visione del cosmo in forma triangolare; o di Cercope, o di Brotino, o di Xuto, di cui in effetto non sappiamo quasi niente); o per la mnemotecnica (Parone) o la botanica (Menestore). Esclusi dalla scienza segreta, gli acusmatici con a capo Ippaso di Metaponto si ribellano contro i matematici, divenendo tali essi stessi, o meglio Ippaso, uno dei maggiori matematici del primo pitagorismo, egli che divulga il dodecaedro, iniziando le ricerche sugl'irrazionali.o incommensurabili,  poi proseguite da Teodoro e da Teeteto. Di fatto, le testimonianze su di lui sono molto discordanti e in discussione è anche il periodo storico in cui sarebbe vissuto. Ssecondo E. Frank, Plato u. die sogenannten Pyth., Halle, e quasi contemporaneo di Archita. Per quanto possiamo ricavare su Ippaso dalle testimonianze (tutte molto tarde, aristoteliche, post-aristoteliche e neo-platoniche) sappiamo ch'egli trova gl'irrazionali in geometria, il medio armonico in aritmetica (di qui l'avvicinamento ad Archita), gl'intervalli sin-foni in musica, la tesi dei periodi cosmici e del tutto costituito dal fuoco, per cui già in antico è stato avvicinato ad Eraclito (cfr. Waerden, in "Hermes," pp. 180 sgg.; M. Timpanaro, cit., pp. 105 e 78-83). La circolazione delle idee Epicarmo, commediografo, vissuto tra il 550 e il 460, nato forse a Cos, nell'Ionia, o a Megara Sicula, vissuto fin da bambino nella Isola di SCILIA e particolarmente a SIRACUSA, alla corte di Gelone e di Gerone, ove, sembra, conosceSenofane, ha, per i frammenti che di lui ci sono rimasti, pochi purtroppo, mportanza notevole come fonte. C'è chi in EPICARNO ha rintracciato motivi eraclitei, chi ha individuato motivi del primo pitagorismo (l'opposizione di pari e dispari: particolarmente interessante il fatto che, parlando di tale opposizione, per dire cosa siano le unità e il cangiamento delle cose, Epicarmo, sosteenne che si tratta di aggiungere o togliere pietruzze - fr. 2, - ossia i punti), chi ancora parladi chiari influssi senofanei. Originario di Cos, nell'Ionia, o di Megara Sicula, vissuto a Siracusa, fin da bambino, alla corte di Gelone e di Gerone, Epicarmo e il primo grande poeta della commedia dorico-siciliana. Si son conservati di lui un trecento frammenti e molti titoli, da cui si ricava che nelle sue commedie mette in parodia la mitologia (“Ulisse disertore”, Ciclope, Sirene, Ulisse naufrago), o si diletta di rappresentare figurine umane, tipizzandone i caratteri (Il contadino, Il megarese]. Isolando l'uno o l'altro motivo si cerca di delineare ora uno ora altro sistema filosofico di Epicarmo. Piuttosto che andar rintracdando una filosofia di Epicarmo, ciò che sembra importante è, da un lato, sottolineare il significato che hanno i suoi frammenti per stailire certi motivi propri del primo pitagorismo, ma soprattutto, dall'altro lato, per rendersi conto di come circolasno le idee e di come tali idee dovessero far presa ed essere discusse non in un certo ristretto mondo di intellettualima in piu vasti strati, costituendo una vera e propria atmosfera culturale. Non va scordato, a questo proposito, che Epicarmo e un commediografo, probabilmente uno dei primissimi. Sappiamo che la commedia (il canto del xé;l!Lot;, della festa orgiastica) come la tragedia (il canto dei <tpciy(l)v, dei capri) hanno origine da feste e riti collegati con il culto di Dioniso, e che il dionisismo e all'inizio, religione essenzialmente agraria, poi popolare nelle p6leis, e che via via s'imposne con la caduta dell’aristocrazie. La commedia sempre mantene il suo carattere popolare e, almeno piu tardi, popolare e politico, tanto che in effetto non poté mantenersi che in Atene democratica, ivi compreso il caso limite del conservatore Aristofane che, appunto, liberamente pone sulla scena la sua polemica politica contro gli uomini nuovi e i filosofi rivoluzionari. Probabilmente Epicarmo è il primo. Non senza interesse è che Platone (“Teeteto”, 152 d. c.) dica che nel genere della commedia Epicarmo è degno di stare a pari con Omero ad avere collegato e ahicolato in commedia vera e propria quelli che originariamente sono canti fallici e parodie popolari di miti distaccati gli uni dagli altri. Ora, proprio il fatto che Epicarmo scrive commedie e che, dunque, si rivolge a un certo pubblico, usando una certa tecnica di discorso, porta a pensare che quelli che distaccati dai contesti (che non abbiamo piu) sembrano possibili "sistemi " autonomi, dovevano essere in effetto motivi comprensibili a tutti, rispondenti anche se presi in giro a esigenze e problemi diffusi in un piu largo mondo. Sotto questo aspetto e per quel poco che di lui ci è rimasto, Epicarmo non fu né pitagorico né eracliteo né senofaneo. In lu,  pitagorismo, motivi eraclitei e senofanei stanno a denunciare un intrecciarsi di problemi e di interessi, in una riflessione consapevole, da un lato sulle tecniche per rendersi conto di fenomeni su cui operare, indipendentemente da ogni racconto della realtà, dall'altro lato sui metodi con cui intendere quella realtà stessa entro cui l'uomo vive, l'uomo stesso realtà, in città politicamente agitate e in via di assestamento, ove la misura, frutto di faticosa riflessione, la misura senofanea o lo misura eraclitea o quella pitagorica, la comprensione della natura e del metodo che può rivelare quella stessa natura ordinate (“cosmica”) puo dar luogo a misura cittadina, onde cosmo politico e politica cosmica finino con l'identificarsi, e dare un significato all'opera dei legislatori, di contro alla legge di prima la cui obbligatorietà riposa sulla antichità della legge dettata dai primi conquistatori, assurti a demoni, i cui discendenti, discendenti di dèi, hanno in mano i poteri politici, formando l’aristocrazia. Di qui la polemica di Senofane contro l'antropomorfismo degli dèi di Omero e contro le genealogie di Esiodo, di qui l'esclamazione di Eraclito che demone all'uomo e il logos a tutti comune, che è poi il logos che il tutto governa. Non sembra cosi senza interesse ricordare che le nuove esigenze culturali, il fervore di queste ricerche, le indagini tecniche, i tentativi di spiegarsi i fenomeni, l'esigenza di rintracciare quale sia la via (636t;) esatta per queste ricerche stesse, si siano avute nelle colonie ioniche e in quelle della Màgna Grecia nell’Italia meridionale, ove si intrecciàno anche con certe conclusioni dei culti dionisiaci, prima che nella propria Grecia. Qui assumono significato e sono oggetto di discussione pio tardi e in Atene democratica, al tempo di Pericle, quando oramai le città della lonia asiatica erano state assorbite dall'impero persiano e nelle città della Magna Grecia nell’Italia meridionale e in Sicilia i legislatori o i primi signori si erano trasformati in tiranni. Non sembra, dunque, senza importanza che a Epicarmo si puo accostare Senofane e Pitagora ed Eraclito. E ciò non tanto per Senofane, Pitagora, Eraclito presi in sé, in quella che e la loro coerenza (è vero anche che dei motivi eraclitei in Epicarmo si può a ragione dubitare), quanto per il fatto che sia nella lonia sia nelle colonie d'Occidente si rivele una comune situazione storica e politica che implica una comune e diffusa esigenza volta, dicevamo, al ritrovamento di tecniche e alla comprensione della realtà, di quello che è l'ordine del tutto. Particolarmente indicativo e in questo senso ricordare che quasi in questi stessi anni, in Atene in crisi, ed in via di rinnovamento dopo le guerre persiane, Eschilo, nel “Prometeo”, fa dire a Prometeo, che ha trovato cosi preziose invenzioni (!L1Jl«v/jfL«T«) in vantaggio dei mortali (v. 469). Gli uomini sono inetti prima che la chiarezza di spirito e dominio della mente a loro desi. Gli uomini in passato, pur vedendo, invano vedeno, e udendo udeno, ma simili a fantasmi di sogno nella loro lunga vita confusamente e a caso ogni azione compiano. Non conoscevano un sicuro SEGNO per presagir l'inverno o la fiorente primavera, ma senza conoscenza (')'VW!L1)) alcuna regolavano ogni azione. Ma finalmente a loro il sorgere degli astri rivelai e il tramonto si difficile a scernere. Inoltre il numero, somma di ogni invenzione (l~o:x,ov aocpLa!LiiT(I)V), trova  per essi, e le combinazioni delle lettere, costruttrice memoria di ogni cosa, madre dele Muse (vv. 442-461, trad. Untersteiner) Naturalmente qui non interessano per ora quali potevano essere le conclusioni, anche su di un piano politico, di tali ricerche, ma interessa sottolineare tutti questi motivi che rendono conto di come storicamente, in certi ambienti e in certe situazioni, si delineano certi problemi che dettero luogo a certe concezioni della realtà e della vita. Ed è appunto entro questi termini che sembra assumere il suo valore, nella polemica contro i pitagorici, e forse anche contro Eraclito, la ricerca della via, dell'unica via (636ç), o metodo di Parmenide di VELIA. Può darsi che Parmenide, cittadino di Elea, colonia focese sulla costa della Campania, vissuto tra il 520 e il 440 (tali date sono pura- [2 Platone, all'inizio del “Parmenide” (127b), narra che una volta durante le grandi Panatcnee, Parmenide e Zenone vennero ad Atene e si incontrarono con Socrate, allora giovanissimo, mentre Parmenide era già molto innanzi negli anni. Aveva circa sessantacinque anni. Calcolando sulle indicazioni di Platone si potrebbe dire che Socrate giovanissimo poteva avere allora sui diciotto anni, e poiché sappiamo che Socrate nacque nel 470i69, l'incontro tra Parmenide e Socratc potrebbe essere avvenuto nel 452 circa, per cui Parmenide dovrebbe essere nato nel 517 o anche nel 520 o 522, ché in effetto Platone non precisa esattamente i sessantacinque anni (cfr. anche Teeteto, 183e; Sofista, 2l7c). Secondo Diogene Lacrzio (lX, 1), invece, Parmenide sarebbe nato nel 544/400. Probabilmente Diogene Laerzio desumeva la sua cronologia d’Apollodoro e dalla tradizione che s'era sforzata di far coincidere le date di Parmenide con quelle di Eraclito e di Senofane (Diogene L., IX, l, 20). Della sua vita sappiamo pochissimo. Sembra che si occupa di politica e che ordina la propria patria, Velia, con ottime leggi (Plutarco, Adv. Colot., 32). Anche il poema di Parmenide va sotto il titolo “Intorno alla Natura” (sembra si dividesse in due nette parti, la prima intitolata la vmta, la seconda l'opinione). Ne sono rimasti in tutto !58 versi. 41    mente indicative), abbia risentito e discusso il motivo senofaneo dell'uno che tutto comprende, ch'è tutto mente, o viceversa che sia Senofane ad aver fatto tesoro dell'unica via di Parmenide. Può darsi che Parmenide discuta Eraclito e polemizzi contro le opposizioni di lui, o, piu facilmente, con l'opposizione unità-molteplicità, che implica nell'opposizione stessa di piu esseri il non essere, dei primi pitagorici. Può darsi infine che proprio dall'insegnamento e dalla problematica dei pitagorici -- si dice che Parmenide fosse stato iniziato alla ricerca e al sapere da Aminia pitagorico -- sia sorto in Parmenide il problema di quale sia la via che rende possibile il sapere e comprensibile il reale. Certo le testimonianze sono molto incerte e, a seconda della presa di posizione dell'uno o dell'altro testimone, si è puntato su uno o altro dei motivi parmenidei, facendo risalire a una o altra fonte, colorendo quindi di una o altra tinta quello che fu il pensiero di Parmenide. Proprio questo, tuttavia, può essere indice di come Parmenide, piu che sviluppare o portare a estreme conseguenze un certo "sistema," in effetto cerca, nella molteplice e diffusa discussione intorno alle possibilità del sapere, nella diffusa esigenza di come rendersi conto di quelle che sono le strutture che rendono intelligibile e comprensibile la realtà, d'inserire il proprio punto di vista, sçaturito dal discutere e l'una e l'altra delle posizioni. Alcuni frammenti che possediamo del suo poema (in tutto 158 versi, inseriti e citati in testi piu tardi) conforta questa ipotesi di un Parmenide calato in un preciso ambiente ove si dibatte, appunto, la questione dell'intelligibilità del reale. Cosi in tal senso, sembrano suonare le seguenti parole. Col solo pensierò esamina e decidi la molto dibattuta questione (fr. 7, v. 5); ma ora devi imparare ogni cosa e il cuore che non trema della ben rotonda verità e le opinioni dei mortali, in cui non è vera certezza (fr. l, vv. 29-30). La molto dibattuta questione e "ora devi imparare - cioè renderti conto - di come siano possibili le opinioni dei mortali," sono due espressioni molto precise che sembrano indicare da un lato come il problema di Parmenide nasca da un dibattito su questioni che stano a cuore e rispondevano a esigenze diffuse, e, dall'altro lato, come sia possibile, giunti a trovar la via che rende possibile il sapere, comprendere come sorgano le opinioni, ché, infine, di opinione (36~ac) si può parlare, finché non si sappia la verità (&>..of)&tLcc). Sembra lecito allora supporre che la sentenza di Parmenide (pare che il poema fosse piuttosto breve) venga alla fine di un lungo dibattito, di una ricerca che, scartando via via tutte le possibili vie, perché contraddittorie, trova l'unica via, unica perché non contraddittoria, su cui, dunque, si fonda l'unico sapere e di conseguenza la verità, "ben rotonda," appunto, e che non "trema," perché non contraddittoria, e, per ciò, essa stessa unica. 'Col solo pensiero esamina e decidi la molto dibattuta questione (fr. 7, v. 5). Abbiamo qui il punto su cui Parmenide impernia l'impostazione che rende valida la ricerca senza di cui non è possibile fondare un sapere verace e, a sua volta, la verosimiglianza delle opinioni (cfr. fr. l, vv. 31-32) intorno alla natura. Ora, può essere interessante sottolineare che il proemio (ne sono rimasti 32 versi e forse è intero) del poema, che a sua volta nettamente si divide in due parti (la verità, di cui leggiamo abbastanza; l’opinione, di cui non leggiamo che pochi frammenti), piu che con un volo poetico che rivelerebbe, com'è stato detto, l'entusiasmo dello scopritore, si apra con una serie di luoghi, di tapoi, lasciti di un comune modo di parlare, anche popolare, che evocano l'intento di Parmenide. LE CAVALLE CHE MI PORTANO fin dove vuole il mio cuore, anche ora mi condussero via, dopo che le dee mi ebbero [guidato sulla via molto famosa, che per ogni città porta l'uomo che [possiede il sapere (fr. l, vv. 1-3). Basti qui ricordare che, secondo Aezio (Plac., IV, 5, 5), per Parmenide sede della ragione (dell'egemonico, dice Aezio), come atto in cui si raccoglie il molteplice, è il petto, il cuore, e che il cavallo rappresenta, fin dai tempi piu remoti, la forza dell'intelligenza e la capacità dell'apprendere, perché sia facile riconoscere un motivo popolare-evocatore in quest'attacco del proemio. In altri termini Parmenide dice che la sua naturale capacità intellettiva - naturale e dunque divina - lo ha condotto fino alla distinzione Notte e Giorno (ivi guidato dalle vergini Eliadi, le figlie del sole, ed ecco un altro topo popolare, che affrettavano il corso verso la luce, liberando il capo dai veli (fr. l, vv. 9-10), lo ha condotto cioè fino al punto primo delle tradizionali distinzioni (da Esiodo ai misteri), all'origine verbale delle contraddizioni oltre cui è la non contraddittorietà, cioè l’alterità. lvi è la porta che mette ai sentieri della Notte e del Giorno, e ai due estremi la chiudono l'architrave e la soglia di pietra c la riempiono, in alto nell'etere, grandi battenti di cui la Giustizia, che molto punisce, tiene le chiavi dall'alterno uso (fr. l, vv. 11-14). La PORTA ROSSA DI VELIA si apre e benigna la dea accoghe Parmenide, perché ivi è giunto condotto dalle cavalle (cioè dal retto pensare), onde, appunto, la dea dice: Non fu un avverso destino a mandarti per questa via (che~ invero lontana dall'orma [dell'uomo), ma la legge divina, “thémis”, e la giustizia, “dike” (fr. l, vv. 26-28), cioè il giusto pensare, che è via lontana dall'uomo comune (tanto è vero che Parmenide usa il termine “anthropos” e non “aner”). Ma ora - prosegue la dea - devi imparare ogni cosa c il cuore che non trema della ben rotonda verità c le opinioni dei mortali, in cui non ~ vera certezza. Ma tuttavia anche questo imparerai, come l'apparenza debba configurarsi perché possa veramente apparir verosimile, penetrando il tutto in tutti i sensi (fr. l, vv. 28-32). L'accettare i dati dell'esperienza, di ciò che appare all'immediatezza dei sensi, implica molteplicità e dispersione, contraddizione; la definizione dell'indefinito implica il frantumarsi del reale in unità opposte fra loro, onde accanto alle cose che sono bisogna porre un non essere. Il pensiero, invece, coglie sé come discorso (logos), ma discorso che è unitd (mente, nas) ove ogni singolo membro del discorso si articola all'altro in una continuità che costituisce e presuppone il tutt'uno, compatto, che è la stessa realtà. Infatti a seconda di come in ognuno è avvenuta la fusione delle molto erranti membra, cosi la mente accompagna l'uomo. Poiché lo stesso ~ ciò che pensa - l'intima struttura delle membra - negli uomini, in tutti e in ognuno. Ché il pensiero ~ ciò che prevale (fr. 16). E allora quella stessa realtà, che nell'immediatezza sensibile e nella definizione puntuale appare molteplice e disarticolata, onde si pongono esseri accanto a esseri e quindi essere accanto a non essere, non appena si colga il pensiero, che è discorso e unità comprensiva (mente), quella realtà molteplice è essa stessa unità, cioè pensiero; e illusione il molteplice, il nascere e il perire, l'opposizione. Ma guarda tuttavia come le cose tra loro distanti sono invece per opera della mente saldamente unite. Infatti non scinderai l'essere dalla sua connessione con l'essere, né disgregandolo completamente in ogni sua parte, seguendo un certo ordine, né concentrandolo in se stesso (fr. 4). Parmenide punta subito sul pensiero, cioè sul discorso che è mente, ossia unità, o meglio comprensione totale e compiuta, per cui l'essere non è né un punto, ove tutto si concentra, né una serie disgregata di punti accanto a punti, ma totalità. In Parmenide, dunque, non si tratta tanto di un essere che è e di un non essere che non è, ma di due nostri modi di atteggiarsi di fronte a un'unica realtà: o si accettano le cose cosi come appaiono all'occhio, ai sensi, le une accanto alle altre, ritagliate e disarticolate, contraddittorie, nascenti e morenti; o, di là dall'apparenza fisica, si coglie, mediante la ragione, la ragion d'essere del tutto, che non è nessuno degli aspetti, ma è tutti insieme, simultaneamente: e non è mai stato e non sarà mai, perché è Qra (vuv) tutto insieme, nella sua compiutezza, uno, continuo (“lv auv~:x'<”) (fr. 8, vv. 5-6) o soltanto nella sua natura un tutto (faTL 3~ 11ouvov oÒÀoq~ué<;), come ha corretto l'Untersteiner. Le due famose vie di Parmenide (" orsu, io dirò... quali sono le vie di ricerca che sole son da pensare ": fr. 2, vv. 1-2) si risolvono in effetto in una sola via legittima, quella del pensiero, che è l'unica che svela il reale. Pensare implica sempre pensare qualcosa, cosi come dire implica sempre dire qualcosa, ché pensare il nulla è non pensare cosi come DIRE IL NULLA è NON DIRE. Ora se pensare è pensare l'essere (perché il non-essere non puoi né conoscerlo -.è infatti impossibile, -né esprimerlo ": fr. 2, vv. 7-8), e se il pensare dunque implica l'essere, lo stesso è pensare (voc!v) ed essere (fr. 3). Per la parola e il pensiero (vo&:!v) bisogna che l'essere sia: solo esso infatti è possibile che sia e il nulla non è " (fr. 6); e poiché il pensiero è n~s(vou<;), mente comprensiva, e 16gw.(},6yo<;), discorso, cioè articolazione della molte- plicità in una sola unità, e l'essere e il pensare sono la stessa cosa, l'es- sere è mente, è cioè unità totale, compiuta (finita), circolare. Per me," dice la dea, "è uguale da qualunque punto cominci: poiché là tornerò di nuovo" (fr. 5). Pensare, dunque, e dire non si può che l'essere, per cui la via che è e che non è possibile che non sia (fr. 2, v. 3) è la via che, non essendo contraddittoria, è l'unica che persuade, ed è perciò la via della Verità ("questa è la via della persuasione, poiché segue la verità (fr. 2, v. 4); mentre l'altro modo di atteggiarsi di fronte alla realtà, quello della sensibilità, è una via che non è e che è necessario che non sia, e questo è un sentiero inaccessibile a ogni ricerca (fr. l, vv. 5-6). La conclusione cui la prima via conduce, e non può non condurre ("e, come era necessario, il nostro giuizio fu quindi di abbandonare una delle vie, perché impensabile e innominabile, e infatti non è la strada della verità, e che l'altra è ed è vera (fr. 8, vv. 16- 18), è che l'essere è e che solo dell'essere si può dire che è, solo è è è. Pensare l'essere, e non si può non pensare che l'essere, implica che l'essere è finito, cioè compiuto - ché a lui nulla può mancare, onde l'essere è totalità, ché, se fosse due o piu di due, tra l'uno e l'altro essere dovremmo ammettere un qualcosa che distingue e che dunque è diverso dall'essere, cioè il non essere che non è, per cui l'essere è tutto, ed è simultaneo (" è ora tutto insieme "), senza origine e senza termine, ché dovrebbe o scaturire dal non-essere o risolversi nel non-essere (per questo né il nascere né il perire gli concesse Dike allentando i legami, ma lo tiene ben fermo": fr. 8, vv. 13-14). L'Essere in quanto essere non ha né passato né futuro, ed è indivisibile, e poiché ogni parte dell'essere è essere e non può non essere, l'essere è identico tutto a se stesso. L'essere, dunque, è immobile ché,. se si muovesse dovrebbe muoversi in un luogo altro dall'essere, cioè nel non essere che non è (cfr. fr. 8, vv. 1-35). Totale unità, perfetto e quindi finito, indivisibile, immobile e immutabile, identico a sé, tutto presente sempre e, dunque, atemporale e aspaziale, tale l'Essere, quale necessariamente il pensiero può pensarlo senza contraddizione; o, meglio, QUESTI I SEGNI, crljji4TCX (fr. 8, v. 2), non contraddittori, tanto è vero che si possono ridurre a uno solo (a è), e quindi persuasivi, con cui si può IN-DICARE (SEGNARE) l'Essere. L'Essere, dunque, non si può umanamente che IN-DICARE, tanto è vero che, alla fine, Parmenide non può non pensare l'Essere che come sfericità compatta. Esso è compiuto tutto intorno, uguale alla massa di una rotonda sfera, che dal centro preme in ogni parte con ugual forza giacché· è necessario che non sia in questo o in quel punto di poco piu grande o piu piccolo. Da ogni parte identico a se stesso, urta in ugual maniera nei suoi confini (fr. 8, vv. 42-45, 49). Parmenide crede cosi di risolvere nell'unità totale dell'Essere la contradditoria opposizione unità-molteplicità, definito-indefinito dei pitagorici. Non a caso egli dice. Ti tengo lontano da quella via su cui errano i mortali che niente sanno, uomini a due teste... gente indecisa per cui l'essere e il non essere è lo stesso e non è lo stesso, e per cui di ogni cosa v'è una strada, che può esser percorsa in due sensi (fr. 6, vv. 3-5, 7-9). Si può in questi versi scorgere una critica ai primi pitagorici e, forse, ai motivi piu diffusi e facili di Eraclito. Risolta, dunque, nell'Unità totale dell'Essere la molteplicità, il nascere e il perire, quella stessa molteplicità, quello stesso nascere e perire si rivelano contraddittori e quindi non veri. Il che significa che la contraddizione sta nel porre e nel definire le cose come enti o esseri accanto a enti o a esseri, cose che per sé nascono e per sé periscono, nel definire le cose come cose. Cosi facendo si ritiene, si opina di aver colto l'essenza, le forme delle cose, mentre in effetto si sono distaccati gli aspetti dell'è, si sono contraddette le cose, cioè l'essere stesso, onde opiniamo vero ciò che in effetto non è che puro nome. Perciò non sono che puri nomi quelli che i mortali hanno posto, convinti che fossero veri: divenire e perire, essere e non-essere e cambiar di luogo e mutare lo splendeQte colore (fr. 8, vv. 38-41). E qui va sottolineato che Parmenide non dice come Eraclito essere - non essere, nascere - morire, unica cosa. Ma dice essere e non essere, divenire e perire. Nell'e disgiuntivo sta la contraddizione e, dunque, il non vero, nella denominazione e definizione (nel contornare la cosa in senso pitagorico). E questo è tanto piu chiaro all'inizio ·della seconda parte (l'Opinione) del poema, ove Parmenide dice. I mortali nelle loro dottrine hanno dato nome a due forme, di cui una è di troppo- e in questo è il loro errore- e apponendole ne distinsero la figura, e vi apposero segni assolutamente diversi l'uno dall'altro. Qui la fiamma del fuoco etereo, dolce, e lieve al piu alto grado, e dappertutto uguale a se stesso,  ma non uguale all'altro; ed anche quello per sé, come suo contrario: la notte senza luce, massa densa e pesante (fr. 8, vv. 53-59). Nella molto dibattuta questione Parmenide sembra che chiaramente e consapevolmente, indicando la via da seguire, batta l'accento su ciò che è fondamentale per ogni ricerca, che, cioè, bisogna innanzi- tutto rendersi conto del campo e dell'orizzonte del proprio lavoro, ri-chiamando al principio che non è affatto afferrare e comprendere le cose il definirle, il raffigurarle, il nominarle: questa è, appunto, opi-nione, illusione. Il che non significa che, resisi conto di questo - che la realtà definita e SEGNATA con piu nomi diversi è un'illusione, è non vera, mentre l'Essere in quanto tale, il solo pensabile, si risolve nell'Unità totale, per cui il vero è l'Essere tutto, immobile e compatto, - il definire e il numerare, il distinguere e il nominare non siano, emro questi stessi limiti, un lavoro valido e utile. Appresa la verità, anche questo imparerai, come l'apparenza debba configurarsi, perché possa veramente apparir verisimile, penetrando il tutto in tutti i sensi (fr. l, vv. 28-32). Si chiarifica cosf il motivo della Notte e del Giorno del proemio che ora ritroviamo all'inizio della parte dedicata all'Opinione. L'unica via, che è quella del pensiero e sulla quale conducono le vergini Eliadi, porta oltre le distinzioni originarie di Giorno e di Notte (oltre quelle distinzioni che son servite all'uomo per definire e intendere il reale) annullando ogni distinzione nell'unicità dell'essere che è. Solo ora, solo quando si sia consapevoli di ciò, possono sussistere i due mondi, il mondo della verità e quello dell'opinione, come due modi diversi di cogliere l'unica realtà: sentita e tradotta in parole da un lato (opinione), e, dall'altro lato, còlta col pensiero e tradotta in una sola parola, la parola per eccellenza, è. Quando si sia consapevoli di questo, si coglie il valore ipotetico delle opinioni, che possono determinare e ritagliare una certa realtà verosimile. Di qui - crediamo - tra le opinioni, si pone l'opinione di Parmenide su come sia costituito il cosmo, di cui, pur- troppo, non abbiamo che oscuri accenni in Aezio. Quella di Parmenide sembra fosse una visione dell'universo concepito come un complesso di cerchi concentrici, costituenti tutti una sola circolarità, che, forse, era l'immagine verosimile dell'Unità del Tutto, della Sfera, e, sotto altro aspetto, giustificazione delle opinioni dei pitagorici. Avendo cosi risposto Parmenide alla dibattuta questione, avendo risolto l'essere, per non contraddizione, in una massiccia unicità, portando ad estrema conseguenza il tema parmenideo si poteva giungere alla considerazione che, in effetto, l'unico piano che resta all'uomo in quanto uomo è il mondo della opinione e delle parole, sulle quali parole si configura la realtà stessa e non viceversa. Sarà questa clusione di Gorgia; o ~ rovesciata la questione - si poteva giungere alla possibilità, sul piano delle parole, di infinite contraddittorie, che, in altro ambiente, e per interessi diversi - verso le discussioni e le antilogie dei sofisti e la confutazione di -potranno essere le conclusioni eleatiche dei Megarici. Senza le premesse di tale discussione e problematica si precisano chiaramente nei finissimi argomenti di Zenone di Velia, diseepolo e difensore di Parmenide, in cui si vede bene il taglio netto tra l'essere che è e in cui tutto si annulla, e il mondo umano costruito dall'uomo stesso. All'inizio del “Parmenide” Platone narra che una volta, durante le grandi Panatenee, Parmenide e Zenone vennero ad Atene. Parmenide era allora molto innanzi negli anni, tutto bianco, ma d'aspetto bello e nobile, e aveva circa sessantacinque anni. Zenone si avvicinava allora ai quaranta anni, di grande statura e bell'uomo (Parmenide, 127b). Platone dice, poi, che in quell'occasione Zenone lesse un saggio che scrive per difendere la tesi di Parmenide, ma k:he quel libro egli compose per amor di polemica e che per giunta un tale glielo aveva sottratto, per cui, Platone fa dire a Zenone. Nnon ebbi neppure il ternpo di pensare se fosse o no il caso di darlo alla luce (128a). Platone, forse, per dare avvio alla sua discussione, probabil-mente nei confronti dell'eleatismo megarico, si riallaccia di proposito a Zenone e a Parmenide mettendoli in rapporto con Socrate, allora giovanissimo, quel Socrate di cui poi i megarici furono discepoli. Può darsi, dunque, che Platone forza la notizia di Zenone ad Atene insieme a Parmenide, in un'epoca, il 455-450, in cui sembra difficile, per ragioni cronologiche, che Parmenide sia potuto venire ad Atene, o avesse circa sessantacinque anni. Nulla vieta, invece, di pensare che Zenone sia stato effettivamente ad Atene, anche se in epoca diversa, e che sia nato tra il 500 e il 490. Discepolo di Parmenide, Zenone nacque ad Elea nel 500/490. ·Platone (Parmenide, 127b) narra che nel 452 circa Zenone, venuto con Parmenide ad Atene, aveva circa quaranta anni. Tutte le fonti lo presentano come uomo prestante e altamente intelligente, che prese attiva parte alla vita politica della sua città, dove sarebbe eroicamente morto combattendo il tiranno Ncarco, quando, preso da Nearco e torturato, per non parlare si spezza la lingua con i denti, sputandola addosso al tiranno. Sembra che la struttura originaria del saggio di Zenone (o dei suoi saggi) fosse antinomica, e che [Altro punto sospetto è che Platone dice che il saggio che Zenone scrive e stato fatto circolare senza il permesso dell'autore. Potrebbe questo essere indice che Platone, in effetto, non espone la tesi vera di Zenone, anche se, nella finzione del dialogo, Zenone stesso approvi, con qualche riserva, il sunto che dei punti salienti dà Socrate. Platone, nel Parmenide tende a dimostrare l'impossibilità di pensare l'essere di Parmenide che porta dietro di sé l'altrettanta impossibilità di pensare i molti, onde, postici sul piano di Parmenide, risulta impossibile il discorso, un qual- sivoglia giudizio. Non interessa ora la soluzione di Platone e il suo tentativo di poter pensare l'Essere come dialetticità corrispondente alla dialetticità del pensiero, per cui si rendeva possibile porre un tutto oggettivo. come ordine dialettico e misura su cui scandire, attraverso la conoscenza di sé, lo stesso ordine politico. È tuttavia importante sottolineare che nei confronti dell'uno di Parmenide e delle opere di Zenone (che accettando l'ipotesi di Parmenide e anche accettando che l'uno di Parmenide si può, all'estremo, ritenere assurdo, vuoi dimostrare che altrettanto assurdo è porre unità accanto a unità, come i pitagorici, quando si ritenga che queste siano realtà per sé e non puri nomi), la polemica di Platone chiarifica quella che storicamente dev'essere stata l'aporia fondamentale in cui doveva trovarsi il lettore del saggio di Zenone. In verità - abbietta Zenone nel Parmenide di Platone - questo mio saggio vuol essere in certo modo una difesa della dottrina di Parmenidc contro quelli che cercano di metterla in ridicolo sostenendo che la tesi dell'esistenza dell'uno va incontro a molte conseguenze ridiwlc c contraddittorie. Vuole confutare perciò questo mio saggio quelli che asseriscono l'esistenza dei molti c render loro la pariglia e anche di piu, cercando di mostrare che la loro ipotesi dell'esistenza dei. molti va incontro a conseguenze ancor piu ridicole di quella dell'uno se si vuole andare in fondo alla ricerca (l28c-d). In effetto qui Platone corregge la sua prima affermazione che Zenone e Parmenide avessero detto la stessa cosa ("dite su per giu la cosa medesima ": 128b}, e per i suoi intenti lascia cadere la precisazione di Zenone. Ma ciò è fondamentale, perché, in genere, è con questi abili accenni che Platone distingue quello che a lui importa da quello che accantona, ma che corrisponde, quasi sempre, alla verità storica. Zenone, quaranta fossero gli argomenti contro la tesi che sostiene il molteplice e il moto. Platone che vede in Zenone il difensore dell"Uno di Parmenide, lo chiamò il "PALAMEDE eleatico" (Fedro, 26ltl). ] dunque, sarebbe parmenideo alla rovescia. Egli accetterebbe che l'Uno tutto di Parmenide porti alla finale contraddizione dell'impensabilità - proprio sulla via del pensiero - dell'Uno stesso. Solo che la facile critica dell'annullarsi dell'Uno deve tener presente che, ammessa la esistenza dei molti, di punti accanto a punti, come enti reali, si cade nelle stesse contraddizioni di chi pone l'uno. Zenone non dice mai cosa sia l'Essere. Zenone nega che posti i molti come esistenti, sul piano logico i molti esistano, confermando cosi la tesi parmenidea che i molti in quanto tali, in quanto definizioni, non sono che puri nomi. Ammessa, dunque, pitagoricamente, l'esistenza di punti reali costituenti le cose, bisogna necessariamente ammettere che ciascuna di tali unità in quanto punto ha una grandezza, anche se minima, onde in ogni punto vi sono infiniti punti e quindi ogni punto-unità sarà infinitamente grande; se il punto poi non ha gradezza, poiché le cose si costituiscono come aventi grandezza per l'unione dei punti, come sarà mai possibile che punti senza grandezza diano luogo a grandezze? n punto dunque, se non ha grandezza, non è (fr. l, 2). Ancora: ammesse piu cose costituite di punti, esse saranno ad un tempo in numero finito e infi.t;lito, il che è contraddittorio: saranno in numero finito, perché non possono essere piu o meno di quante sono; infinito perché tra l'una e l'altra ve ne sarà un'altra ancora, e tra questa e l'altra un'altra ancora all'infinito (fr. 3). Ancora: ammessa la molteplicità di cose reali per sé, bisogna ammettere o che sono continue, onde la molteplicità si annulla nella continuità, che, essendo divisibile all'infinito, è costituita di infiniti punti a loro volta divisibili all'infinito, fino al nulla; oppure che ogni cosa, limitando l'altra, occupa uno spazio e si distingue dal- l'altra per uno spazio: ma allora ogni spazio in quanto luogo implica un altro luogo e cosi all'infinito, sino all'unico luogo cioè l'uno, cioè il nulla (Aristotele, Fisica, 209a-210b; Simplicio, Fisica, 140, 34, 562, 1). Entro questa linea rientra anche il cosiddetto argomento del grano di miglio. Un grano o la decimillesima parte di un grano di miglio fa rumore: ora se fra un grano di miglio e un medimmo c'è proporzione, vi sarà proporzione anche tra i suoni, per cui se un medimmo di miglio fa rumore lo farà anche un solo grano (Aristotele, Fisica, 250a~ 19; Simplicio, Fisica, 1108, 18), ma ciò non avviene. Evidentemente quest'ultimo argomento rientra nei termini dei primi. Se l'uno, o la totalità, è impensabile irrelativamente, altrettanto impensabili sono i molti qualora si pongano quali realtà accanto a realtà. Nessuna parte del molteplice costituirà il limite ultimo e nessuna sarà senza una relazione con un'altra" (fr. 1). Poiché i molti sono impensaolli, se non. determinati come variazione di quantità di un CONTINUO, e poiché IL CONTINUO si può rappresentare come retta all'infinito, fino al nulla, i molti, se posti come realtà per sé, non sono. Cosi nell'ipotetica retta (nulla è pensabile se non in quanto estensione ed estensione che si qualifica) altrettanto inconcepibile è il moto, o meglio la possibilità dello spostamento e del passaggio da punto a punto, ché, dato, ad esempio, un segmento AB, tra A e B posta una metà A', necessariamente tra A e A', vi sarà una metà A" e cosi vita all'infinito – eis apeiron -- (argomento della dicotomia, cioè della divisione in due: Aristotele, Fisica, 233a, 239b, 263a; Simplido, Fisica, 1013; 4). Evidentemente non vi è allora passaggio tra un ipotetico primo punto A e il punto della linea accanto ad A, onde si può dire che Achille piè veloce" (in A) non raggiungerà mai la tartarugà che sia un passo avanti (in A"), ché, in effetto, logicamente, né l'uno né l'altra si muovono (argomento dell'Achille: cfr. Aristotele, Fisica, 239b; Simplicio 1013, 31), tanto piu che la linea, essendo costituita d'infiniti punti, è divisibile all'infinito, e quindi, all'infinito, si annulla. Analogamente LA FRECCIA non raggiungerà mai il bersaglio, dovendo percorrere l'infinito e rimanendo sempre ferma al punto di partenza (argomento della freccia: cfr. Aristotele, Fisica, 239b; Simplicio, Fisica, 1015, 19; Filopono, Fisica, 816, 30; Temistio, Fisica, 199, 4). Infine, dei presunti quaranta argomenti con i quali Zenone avrebbe dimostrato la contraddittorietà in cui pone o l'esperienza sensibile o la definizione dei dati che implicano la molteplicità o il movimento, abbiamo l'argomento detto dello stadio. Considerando in uno stadio un punto mobile che va ad una certa velocità, se lo si considera rispetto ad un punto fermo andrà, ad esempio, a dieci chilometri l'ora, se lo si considera invece rispetto a un altro punto mobile che vada alla sua stessa velocità in senso opposto, quello stesso mobile va a venti chilometri all'ora. Il quarto argomento - dice Aristotele - è quello delle due serie di masse uguali che si muovono in senso contrario nello stadio, lungo altre masse uguali, le une cioè a partire dalla fine dello stadio, le altre dalla metà, con velocità uguale; la conseguenza è, secondo Zenone, che la metà del tempo è uguale al doppio (Fisica, 239b; cfr. anche Simplicio, Fisica, 1016, 9 sgg). I celebri argomenti sul movimento, con cui, accettata la premessa che esiste il moto, con ferrea consequenzialità, di deduzione in deduzione, si dimostra come-sul piano logico, contraddicendosi, non si possa se non negare il moto (onde, appunto, Aristotele, secondo Diogene Laerzio, VIII, 57, nel “Sofista” andato perduto - ha potuto dire che Zenone fu padre della DIALETTICA, come arte del confutare), ci sono rimasti attraverso le discussioni e le critiche di Aristotele. Non sappiamo, in effetto, se tali argomenti fossero proprii del saggio di Zenone, ché le fonti precedenti, ivi compreso Platone (che fa intravedere solo gli argomenti contro l'esistenza della molteplicità), ne tacciono. Certo gli argomenti sul movimento potevano essere conseguenza di quelli sulla pluralità, che, portando a dimostrare l'intraducibilità della fisica in termini logico-matematici, per l'impensabilità del CONTINUO SPAZIALE, portavano anche a rendere impensabile il continuo temporale-spaziale su cui si determinano, definendoli, i punti-geometrici, i cui rapporti di movimento divenivano rapporti spaziali e, quindi, ancora una volta impensabili o contraddittori. La polemica di Zenone sembra quindi rivolta sia contro i punti- cose dei primi pitagorici (o se si vuole contro la riduzione a numeri interi delle cose da parte dei primi pitagorici), supponendo i numeri irrazionali, sia contro l'impossibilità di ridurre le esperienze della vita, della mutevolezza, alla sfera della ragione e dei numeri, senza perdere in puri nomi quella stessa vitalità. Le conseguenze della discussione di Zenone, tenendo presenti certe posizioni a lui contemporanee o immediatamente posteriori - lasciando da parte le implicazioni che vi hanno veduto certi storici, riferendo le tesi di Zenone ad alcune delle concezioni della matematica e della fisica moderna, - sembrano potersi indicare nei seguenti punti: l. impossibilità di ridurre la fisica in termini matematici; 2. conseguente impossibilità di pensare, e quindi di definire, sia l'Essere come totalità, sia la molteplicità; 3. consapevolezza che ogni ricostruzione matematica è valida, in quanto ipotetica e che altrettanto ipotetica è ogni ricostruzione fisica. Sul piano storico si determinano cosi: posizioni diverse, a seconda di quale aspetto della problematica, impostata da Zenone, veniva approfondito. O si insistito sul continuo giungendo a risolvere e ad an- nullare i molti (che restano come determinazioni valide su di un piano puramente linguistico) nel continuo stesso, cioè nell'infinita unità (Me- lisso); o si è risolto l'uno su di un piano puramente matematico, per cui l'uno non è nessuno dei punti della serie, né il pari né il dispari, ma la possibilità dell'uno e dell'altro, e che nell'opposizione-armonia dà luogo a un'ipotesi logica che spiega un'ipotesi fisica (Filolao e piu tardi Archita); o si è assunta l'ipotesi fisica del continuo divisibile al- l'infinito in infiniti punti ognuno dei quali, infinito, ha in sé tutte le infinite possibilità, gl'infiniti semi vitali, onde in ogni punto tutto è tutto (Anassagora); o si è fatta l'ipotesi che gli infiniti punti, proprio perché infiniti e quindi escludenti un passaggio dall'uno all'altro all'infinito costituiscono infiniti limiti, d'onde una infinita serie di limiti, d'indivisibili (atomi) implicanti nel limite una separazione, cioè un altro limite come vuoto (Leucippo, che fu discepolo di Zenone, e Democrito). Infine, se da un lato la problcmatica di Zenone portava a impo- stare l'intelligibilità del reale non come afferrante la struttura in sé del reale stesso, ma come ipotesi o fisica o matematica, dall'altro lato portava, nella consapevolezza dell'impossibilità logica dell'Essere o del divenire, della Verità, a rimanere sul piano dell'opinione c del discorso umani, entro i termini dello stesso mondo dègli uomini e dei loro rapporti (Protagora, Gorgia). Da quelli che sembrano essere i frammenti autentici (111) del poema di Empedocle di Girgenti, che va sotto il tradizionale titolo “Sulla natura”, ciò che pare potersi ricavare è la seguente concezione. La realtà tutta è costituita di quattro elementi o radici (p~~6ljL«T«): fuoco (Zeus lucente), aria (Era donatrice di vita), terra (Edoneo), acqua (Nesti, le cui lacrime son fonte di vita per i mortali); Tali radici non hanno nascita (&yhot-r«). Ciò che vico detto nascere e perire non è altro che il mischiarsi in uno o altro modo degli elementi di fondo. Vi sono due forze, l'una che unifica (amor~, cpLÀEot), l'altra che separa e distingue (discordia o odio, ve!xoc;), mediante cui la realtà tutta si scandisce in un ritmo, ovc a un primo momento, in cui predomina la forza unificatrice (amore) e in cui le quattro radici (tutte uguali c tutte aventi la stessa dignità: fr. 17, vv. 27-30) sono mescolate insieme come in uno sfero (si è parlato di ricordi parmenidei), succede un momento in cui nella lotta di Odio e di Amore - non ancora del tutto disgiunte le radici [Nato ad Girgenti nel 492 circa, sembra che Empedocle sia morto nel 432. Le notizie sulla sua vita e sulla sua morte sono leggendarie. Si dice che abbia avuto rap- porti coi pitagorici (cfr. Diogene Laerzio, VIII, 54-55) e con Parmenide, durante un suo viaggio a Velia (Teofrasto, Pllys., fr. 3, Dids, DorograpA; G., p. 477). Fu di parte democratica e politicamente attivo. Sembra che Empedocle abbia scritto piu opere; di una parte di esse non ci son tramandati che i titoli (Politica, Della med;cina, Proemo ad Apollo); d d poema Sulla Natura (ficp\ ~)leggiamo I l i frammenti, del poema Puri#- caz;o,; (l{d«pJLOl) pochi frammenti. 62    sorge la vita vera e propria, che è amore e contesa a un témpo, unità e distinzione, finché per il predominiò di Odio le quattro radici si di- stinguono totalmente restando masse accanto a masse. In effetto il ciclo cosmico è sempre tutto insieme uno, ché l'Essere consiste appunto in questo scorrere e trapassare dall'unità dello sfero alla distinzione delle radici, dall'uno all'altro polo, ove l'essenza delle radici resta sem- pre quella che è, mutandosi le cose per la tensione delle due forze op- poste: le due forze che reggono il mondo sono state ieri e saranno domani, e mai l'infinito tempo di questa coppia sarà vuoto (fr. 16). D'altra parte la massa dell'acqua, o quella del fuoco, o della terra, o dell'aria, è costituita, ciascuna, d'infinite particelle d'acqua, di terra, di fuoco, di aria, onde nel momento d'Amore sono tutte fuse e confuse insieme, mentre nel momento di Odio si distinguono separandosi e tutte le particelle di acqua si unificano nell'acqua, quelle di fuoco nel fuoco, quelle di terra nella terra, quelle di aria nell'aria. Aristotele poteva cos(sostenere che Empedocle cadeva in contraddizione perché, alla fine, Amore separa e Odio unisce: quando, infatti, per opera di Discordia, il tutto si disgiunge negli elementi, allora il fuoco si.raccoglie in una unica massa, e cosi ciascuno degli altri de- menti; quando, al contrario, per azione di Amore, essi si raccolgono nell'Uno, è necessario che di nuovo le parti di ciascun elemento si separino fra loro (Metaf., l, 4, 985a m). A parte l'abbiezione di Aristotele, ciò che resta proprio di Empe- docle è che la realtà è costituita di infinite particelle di acqua, di terra, di fuoco, di aria, che, distinte per qualità, sono, come sfondo originario su cui tutto si ritaglia, una unità indistinta, ove le distinzioni avvengono per la tensione delle due forze. E allora, per Empedocle, la vita, l'esistenza, è appunto il momento intermedio, che non è né pieno amore né pieno odio, ma, appunto, la tensione i cui momenti estremi sono come termini ideali di un ciclo, che in quanto ciclo è sempre quello che è, cioè la tensione stessa. I dati dell'esperienza, portata all'estremo, dànno che tutto ciò che è, è riducibile a quattro elementi: solidi (terra), liquidi (acqua), aeri- formi (aria e fuoco). Tali elementi sono irriducibili ad altro, se non all'essere che è i quattro elementi stessi nella loro unità, donde l'ipotesi di un'unità ongmaria e di una distinzione ultima, entro·cui, come arco di un pendolo, oscilla il costituirsi di tutte le cose, in virtu delle forze di attrazione e di repulsione, cui si giunge, sempre per esperienza, in quanto forze che ciascuno vive quotidianamente. Questo sembrano significare i versi del secondo frammento. Angusti poteri sono diffusi per le membra. Gli uomini vedono solo una piccola parte di una vita che non è vita. Condannati a pronta morte, sono rapiti e si dileguano come fumo. Ognuno di essi è persuaso solo di ciò in cui a caso s'imbatte. E sospinto in tutte le direzioni si vanta di scoprire il tutto. Tanto è difficile che queste cose siano viste o udite dagli uomini e abbracdate dalla loro mente. Tu, dunque, poi che sei qui giunto, saprai non piu di quanto la mente umana possa (fr. 2). L'uomo in quanto uomo, in quanto amore e odio a un tempo, in quanto fusione ancora e distinzione dei quattro elementi, se da un lato non può cogliere il momento originario della totale fusione nello ~fero (fr. 27-28) d'amore, ché in quel momento, questa attuale realtà, l'uoniò, non è piu (a lui, all'essere, è impossibile accostarci s1 da raggiungerlo con gli occhi e afferrarlo con le mani, che è la via di persuasione maggiore che arrivi al cuore dell'uomo (fr. 193), dall'altrv lato tuttavia può rendersi conto, proprio perché la realtà quale appare all'uomv è unione e distinzione degli elementi, che i due termini estremi sona unità totale e fusione delle radici e distinzione delle quattro radici in masse accanto a masse. Ipotesi l'una e l'altra (tu dunque saprai solo questo cui poté assurgere la mente umana -- fr. 2), fondata sull'esperienza di ciò che all'uomo, momento della realtà tutta, è dato sentire, vedere, toccare, vivere, in quanto esperienza di vita, cioè di forze vitali nella loro opposizione. E te vergine Musa dalle candide braccia, supplico, di ciò che è giusto udire agli uomini che hanno la vita di un giorno. Tu, dunque, uomo, con ogni tuo potere scorgi, in quanto è palese, non piu fidando all'occhio che all'orecchio, non all'orecchio sonoro oltre la chiara fede del gusto, e a nessuna delle altre membra, per quante è una via di conoscenza, nega fede, ma conosci ogni cosa in quanto è palese (fr. 4). E poiché, appunto, la via di persuasione maggiore che arrivi al cuore dell'uomo è la via dell'esperienza diretta (fr. 193), è questa che pone l'uomo di fronte alla realtà costituita di terra, di fuoco, di acqua, di aria, e a questa Empedocle richiama. Su via! Vedi un po' se nelle testimonianze che ti ho dato ho commesso qualche errore, parlando della forma ((Lopq~~) degli elementi. Guarda, dunque, il bianco sole il cui calore ovunque si spande, e tutte le costellazioni infuse di vaporosa chiarezza, e la pioggia che reca freddo e nuvole ovunque, e la terra donde scaturisce tutto ciò che è saldo e compatto (fr. 21). Non solo, dunque, si dimostra l'esistenza del fuoco, dell'acqua e della terra per via puramente sperimentale, ma anche l'esistenza dell'aria, cioè dello spazio come pienezza corporea, escludente il vuoto che è non essere inconcepibile, mediante la prova famosa della clessidra. Empedocle descrivendo il processo respiratorio, dimostra l'esistenza dell'aria come corpo, immergendo una clessidra nell'acqua. Quando una fanciulla, giuocando con una clessidra di lucente rame, ne copre il foro con la sua mano ben modellata, e la immerge nella cedevole argentea pozza, il volume dell'aria che preme dall'interno dell'orifizio impedisce all'acqua di entrare, finché la fanciulla non libera la corrente d'aria compressa. Allora, non appena l'aria ne esce, l'acqua vi entra in quantità uguale (fr. 100, 8-21). E, cosi, sperimentabili sono le due forze (amore e odio) dalla cui tensione nascono e muoiono tutte le cose, senza che gli elementi subi- scano variazione. E manifesta è la lotta tra Amore e Odio anche nell'insieme del corpo umano. Quando sotto l'azione di Amore, gli elementi si riuniscono in una sola massa, allora i corpi fioriscono di crescente vita; quando sono disgiunti dalla funesta Discordia, allora le membra errano separatamente verso le prode estreme della vita (fr. 20). L'uomo, dunque, in quanto momento intermedio dell'oscillazione pendolare del tutto, trovandosi come al momento culminante della tensione su cui la realtà tutta si scandisce, avendo in sé gli elementi e le forze su cui si struttura la realtà, può conoscere la realtà stessa in quanto le sue strutture coincidono con le stesse strutture costitutive della realtà. Di qui l'affermazione di Empedocle che il simile conosce il simile, che fra le parti vi è un'attrazione simpatetica. Si pone cosi in maniera consapevole il problema del conoscere, possibile in quanto le strutture della realtà coincidono con le strutture del soggetto, in una identificazione delle parti del soggetto alle parti dell'oggetto (con la terra vediamo la terra, con l'acqua l'acqua, con l'etere l'etere divino, e  col fuoco il fuoco distruttore, con l'Amore l'Amore e con la funesta Discordia la Discordia (fr. 109), ch'entrano in comunicazione mediante effluvi emananti dalle cose e che penetrano nei sensi per mezzo di pori. t evidente in Empedocle una forte preoccupazione metodologica, per spiegare il ritmo della realtà tutta, una e, nell'unità, molteplice. Fondandosi sui dati di un'esperienza totale, si rende verosimile l'ipotesi fisica del tutto i cui termini opposti, idealmente dati (la fusione di tutti gli elementi, la separazione degli elementi accanto agli elementi), diano conto di quella che è in atto la presenza della realtà. Ipoteticamente son cosi concepibili i due estremi dell'unica oscillazione e. la formazione e la disgiunzione della situazione attuale. Dalla fusione del tutto, poi, via via, si costituirono le cose: dapprima, ad esempio, sulla terra spuntarono teste senza colli, ed erravano le braccia nude prive di spalle, vagavano occhi soli sprovvisti di fronti (fr. 57). Molti esseri nacquero con doppie facce e petti, e buoi con facce d'uomini, o sorsero busti umani con teste bovine, e forme miste di maschi e di femmine, provviste di membra villose (fr. 61). Per giungere infine, attraverso il punto intermedio della parziale unificazione e disgiunzione, alla totale disgiunzione degli elementi. Una, dunque, la realtà, e molteplice a un tempo. Immobile nell'essere dei suoi elementi, mobile nello svariare dellè congiunzioni e disgiunzioni, entro il ritmo delle due forze opposte che governa il tutto, il tutto che sempre è, pur nelle sue facce molteplici. Si capisce cosi come anche Empedocle {leghi ogni antropomorfismo, come egli canti l'essere uno vitalità, “cpp-l)v”, ineffabile, che per tutto il mondo si slancia con veloci pensieri (fr. 134), come l'appello alla natura sia- un appello polemico, di contro a certe credenze popolari, un appello all'indagine scientifica. Gli uomini vedono solo una piccola parte di una vita che non è vita. Condanna~ a pronta morte, sono rapiti e si dileguano come fumo. Ognuno di essi è persuaso solo di ciò in cui a caso s'imbatte. E sospinto in tutte le direzioni si vanta di scoprire il tutto. Tanto è difficile che queste cose siano viste o udite dagli uomini o abbracciate dalla loro mente. Tu dunque, poi che sei qui giunto, saprai non piu di quanto la mente umana possa (fr. 2). L'appello di Empedocle all'esperienza è chiaro. Egli distoglie l'amico Pausania, cui il poema è dedicato, dal disperdersi dietro ciò che appare nell'immediatezza, dall'aver brama di ciò cui tendòno gli uomini volgari, per richiamarlo ad ascoltare e a meditare sul suo insegnamento: Se nella trama serrata del tuo pensiero comprendi con chiarezza le mie lezioni, se con spirito puro ti lasci iniziare, le mie tesi tutte e per sempre ti saranno presenti e molte altre ancora ne acquisterai, perché per sé si QCcrescono nell'uomo, ciascuna secondo la sua natura (fr. 110). Attraverso l'indagine della natura, di esperienza in esperienza, in un collegarsi intelligente delle esperienze stesse, l'uomo, egli stesso natura, si fa davvero partecipe della natura, modificandola in un unico processo. L'indicazione evidente del metodo costituisce una tecnica con cui operare, e adeguarsi alla realtà stessa: Conoscerai cosi quanti rimedi vi sono dei mali e riparo della vecchiaia. Placherai. L’mpeto degli infaticati venti, che, balzando sulla terra, con il loro soffiare inaridiscono i coltivati, e, se tu vuoi, potrai richiamarli quando possano servire. Dopo la pioggia darai all'uomo la siccità propizia, e dopo l'arida estate la feconda acqua che nutre l'albero e le messi future (fr. 111). Di qui, probabilmente, e da altri testi simili a questi è nata piu tardi la leggenda di un. Empedocle mago e taumaturgo, nell'epoca in cui sono nate anche le leggende su Pitagora, che non a caso è stato piu volte avvicinato a Empedocle. Si narra che Empedocle fa sbarrare una gola montana da cui soffiava, greve e pestilenziale, il vento di mezzogiorno sulla pianura (Plutarco, De curios., 515c); che arresta la pioggia, che salva gli agrigentini da una pestilenza e cosi via. Potremmo moltiplicare gli esempi. Evidentemente, in un'epoca che anda rintracciando, a sostegno di proprie tesi, dati miracolosi, si son ritagliati certi aspetti e certi testi di Empedocle, che potevano servire. In effetto, ricollocando Empedocle nel suo tempo (nacque nel 492 circa e muore nel 432), nella sua città, Girgenti, in un'epoca di grande attività economica e politica, in una Sicilia in cui sappiamo che circolano le idee di Senofane, di Pitagora, della scuola medica di Crotone, di Parmenide, di Eraclito, la figura e la personalità di Empedocle non hanno nulla di straordinario. Egli e uno scienziato, che, atraverso una serie di esperienze, formula, tenendo presenti i risultati di Parmenide, di Eraclito e la polemica di Senofane, l'ipotesi del tutto che costituito di quattro elementi, fusi e confusi in una sola unità come sostrato, si distinguono ed. esistono per virtu di due forze opposte. Ora, se il metodo di Parmenide e uno metodo strettamente logico, quello di Empedocle è un metodo empuiStlco e razionale, che imposta, a sua volta, il problema del rapporto fra natura e uomo che; parte della natura, può, in quanto sappia il ritmo della natura stessa e la sua costituzione, modificare sé e la natura. Sotto questo aspetto la fisica di Empedocle è, ad un tempo, la sua morale, tesa, attraverso l'indicazione del metodo e delle vie dd conoscere, a purificare gli altri, la maggioranza dei cittadini ignoranti, legati a tradizioni, a riti, a concezioni che Empedocle, conscio di una piu ardita cultura, sente come estremamente invecchiati e falsi. Cosi, leggendo i pochi frammenti che sono rimasti dell'altro suo carme, “Le purificazioni” {xot&otp!Lo(), si ha la consapevolezza precisa di trovarci di fronte a un uomo vissuto in un certo ambiente, che ha la coscienza di respirare una nuova atmosfera culturale, effettivamente civile, e in questo senso purificatoria, di avere. contribuito a fare avanzare la scienza, che non può essere solo patrimonio di alcuni, ma che diviene davvero operante in quanto si divulghi, formi una diversa coscienza critica, un diverso equilibrio e rapporto umano che diviene, dunque, azione politica, naturalmente entro i termini di una certa situazione storica. In quanto rivolta ai piu, ai concittadini di Agrigento popolosa e arretrata, la sua lezione può apparire come profetica. Ma come storicamente, per non equivocare, non diremmo Empedocle taumaturgo, cosi neppure lo diremmo profeta o mistico. Il suo discorso ai piu, il carme pun"'ficatorio, è, in effetto, molto chiaro nella sua genesi, quando lo si riconduce a quello che probabilmente ha voluto essere. Il discorso di un saggio che rivolgendosi a un pubblico, a una massa, senza dubbio arretrata, usa un linguaggio comprensivo per quel pubblico, al quale egli appare, appunto perché sapiente, come un dio e un sacerdote di una nuova religione. Sotto questo aspetto la sua parola vuoi essere incantatrice, indicando ai piu.la via da seguire, indicando, pur nella necessaria discordia, la strada dell'equilibrio e dell'amore, facendosi dunque parola medica e politica. Amici, che abitate la grande città che declina al biondo Acragante, sul sommo della cittadella, uomini usi a fare buone opere, fidi porti di ospiti, che non conoscono la perfidia, a voi salute. Io al vostro cospetto non piu· mortale, ma un dio, mi aggiro, fra tutti onorato come ne sono degno, coro- nato di bende e di fiorenti serti. Uomini e donne mi venerano e mi seguono in grandissimo numero, chiedendo la risposta mia che guida a salute. Gli uni vogliono oracoli, altri di malattie innumeri domandano la parola che sana, lungamente da aspre doglie trafitti (fr. 112). La via che guida a salute, la parola che sana. Aristotele dice (secondo Diogene Laerzio, VIII, 57, nel “Sofista” perduto) che come Zenone di Velia inventa LA DIALETTICA, Empedocle inventa LA RETORICA, l'arte del dire. E cosi si dice anche che Gorgia, fratello di un medico, e discepolo di Empedocle, e che Empedocle scrive anche un trattato di medicina, e che ha contatti con i medici di Crotone, con i medici pitagorici e con i medici agrigentini Pausania e Acrone. Non possiamo giurare sull'esattezza di queste notizie, ma sono sintomatiche di un certo indirizzo. Senza dubbio il Carme Purificatorio (ch'ebbe grande successo anche quando fu letto ad Olimpia) è una specie di discorso medico-oratorio (iatrosofistico), probabilmente sulla linea dei discorsi medico-incantatori dei primi pitagorici e della scuola medica di Crotone (anche se diverso n'è l'insegnamento), che venivano, d'altra parte, a coincidere, data una precisa concezione del tutto, con il movimento politico delle democrazie sicule. E democratico e politicamente attivo sappiamo che e Empedocle. Ora, se in Empedocle abbiamo una concezione fisica che puo, nel suo insistere sull'uomo come parte del tutto e partecipe della vicenda cosmica, coincidere con.certe visioni dionisiaco-popolari, d'altra parte egli, giuocando su quelle, tende a purificarle di ciò ch'esse, sul piano rituale, avevano di torbido e d'irrazionale; e, rifacendosi appunto alla concezione del ciclo cosmico, ove nella vicenda del tutto nulla va perduto, per cui su di un piano mitico si puo sostenere la trasmigrazione delle anime, tenta di allontanare il volgo dall'uso dei sacrifici umani e dall'antropofagia, lascito d'antichi riti. Empedocle, cosi:, sottolinea che l'uomo, in quanto parte della natura, è divino, onde compito dell'uomo è uniformarsi al ritmo stesso su cui si scandisce il tutto, tendendo all'equilibrio delle forze, di Amore e di Discordia, senza far prevalere Discordia, la cui mancanza tuttavia annullerebbe l'uomo stesso, per cui, anche se l'aspirazione è all'unità totale e divina, tuttavia l'uomo, proprio perché uomo è anche discordia e lotta, senza di cui neppure si renderebbe conto di Amore, senza di cui non sarebbe sapiente, senza di cui non istituirebbe quell'equilibrio chç è la salute dell'uomo e del tutto, onde Empedocle e cantato da LUCREZIO (1, 710 sgg.). Cosi se nel carme “Sulla Natura” leggiamo: poiché Contesa, nelle membra, grande s'accrebbe, e al suo onore insorse, compiutosi il tempo che ad Amore e a Contesa è prefisso, in alterna vicenda per ampio giuramento (fr. 30); nel Carme purificatorio éos1 suona il frammento 115. V'è un oracolo del fato, antico decreto degli dèi, suggellato di larghi piuramenti: se mai alcuno dei dèmoni che ebbero in sorte una lunga vita, macchi le sue membra di sangue, o seguendo la Discordia empio spergiuri, vada errando tre volte diecimila anni lungi dai beati, nascendo nel corso del tempo sotto tutte le forme mortali, permutando i penosi pensieri della vita. Perché la forza dell'aria li tuffa nel mare, e il mare li sputa nell'arida terra, la terra nelle fiamme del sole fulgente, che li lancia nei vortici dell'aria, l'uno li riceve dall'altro e tutti li respingono. Uno di essi anch'io sono, fuggiasco dagli dèi ed errante, perché fidai nella folle Discordia. Ma l'uomo è anche amore, amore che si pone, mediante la discordia, come termine di realizzazione, onde se da un. lato a questo porta l'indagine sperimentale e metodologica, dall'altro a questo è possibile aniare i piu·mediante certe tecniche di discorsi, LA RETORICA, che viene ad essere a un tempo medicina e politica. Gran parte ddle leggende su Empedocle, miracoloso guaritore e resuscitatore di morti, uomo divino e profeta, derivano da certi passi del Carme Purificatorio, che sono poi serviti, in tarda epoca, a far di Empedocle unà specie di santone, accomunandolo non senza perché àlla leggenda di Pitagora, e, per altro verso, a Orfeo, allorché si parlerà dell'aurea catena della verità divina rivelatasi attraverso la catena degli iniziati. Cosi anche la morte di Empedocle è rimasta avvolta nella leggenda. La piu fàmosa è quella secondo cui Empedocle, per disfarsi dell’estranea tunica di carne (fr. 126) che lo riveste, per tornare (ed è evidente, in Plutarco e in Porfirio da cui è tratto il frammento, l'interpretazione orfico-pitagorica) alla patria celeste, si sarebbe gettato nel cratere dell'Etna, che avrebbe poi eruttato uno dei calzari di bronzo del filosofo (cfr. Strabone, VI, 274; Diogene Laerzio, VIII, 70; Suda, s.v.). Ma altrettanto sintomatica è l'altra leggenda secondo cui Empedocle, dopo aver resuscitato una donna, durante la notte, dopo un banchetto, chiamato da una gran voce, in mezzo a un immane bagliore, sarebbe scomparso in un'apoteosi, tornando, egli divino, tra i numi del cielo (cfr. Eraclide Pontico, in Diogene Laerzio, VIII, 67 sgg.). Qui, d'altra parte, s'innesta LA RETORICA DI GORGIA e se ne chiarifica la portata. Non preoccupiamoci - egli dice - dell'Essere e del Non-essere, tanto l'uno e l'altro sono la stessa cosa. Che ci sia o non ci sia quel mondo è lo stesso, perché non è conoscibile (Del non ente o della natura). Se ci crediamo, accettiamolo. Ma esso non incide affatto su questo nostro mondo umano, che è il mondo dell'illusione e dell'opinione su cui si agisce facendolo e ordinandolo mediante la parola e l'arte della parola (RETORICA). L'Elogio di Elena di Gorgia sarà anche una pura esercitazione o uno scherzo, ma è senza dubbio uno scherzo assai serio, che proprio, in quanto esercitazione, mette chiaramente a nudo cosa Gorgia intendesse con RETORICA, indipendentemente (come Protagora) da ogni preoccupazione d'ordine logico-gnoseologico. La parola domina tutta quanta la vita affettiva. Con la parola discipliniamo gli affetti. La retorica, dunque, è fondamentale nella formazione degli uomini, meglio nella istituzione della vita sociale. È appunto giuocando passione con passione, sentimento con sentimento, che possiamo costruire una società umana. E poiché la passione di una folla non è la passione di un individuo e quella di uno non è la passione di un altro, di qui l'importanza del sapere usare le parole, volta a volta, l'importanza delle tecniche dei discorsi, fino a giungere allo studio del come accentuare parole, o porre parole accanto a parole. Cosi non.1 caso Gorgia nell'Elogio di Elena vede subito la relazione che corre tra la retorica e la poesia. Le parole della poesia riescono a suscitare nell'anima nuove e particolari esperienze. L'anima attraverso i discorsi uditi si modifica. Il discorso cosi è visto come espressione da una parte e dall'altra come capacità di modificare il modo dei rapporti umani, e poiché l'uomo è sentimento e opinione. E sentimento e opinione sono parole. E la parola che trasforma e costruisce il mondo umano, istituisce volta a volta quelle che possono essere le virtu, indi- [Figlio di Carmantida, fratello del medico Erodico, nacque a Leontini, in Sicilia, probabilmente tra il 485 c il 480. Sembra sia stato discepolo di Empedocle ed abbia risentito gl'influssi della scuola di Velia e di quella pitagorica. Con sicurezza sappiamo che nel 427 venne ad Atene, ambasciatore di Leontini, per chiedere aiuti contro Siracusa. Ad Atene ha molto successo e determina un notevole influsso sulla letteratura oratoria. Itinera poi in Tessaglia, in Beozia, ad Argo. E certo a Delfi e a Olimpia ove tenne orazioni. Senza dubbio e altre volte ad Atene e qui tenne un famoso epitafio. Muore vecchissimo - quasi tutte le antiche testimonianze dicono a 109 anni - in Tessaglia presso Giasone, tiranno di Fere. Suoi discepoli furono: Menonc tessalo, Licofrone, Isocrate, Crizia, Alcibiade, Tucidide, Prosscno di Beozia, Polo di Girgenti, Licimnio, Protarco, Alcidamante di Velia. Le sue opere piu famose sono: “Intorno al non ente o intorno alla Natura”, “L'elogio d’Elena”; “L'apologia di Palamede”; “ “Discorso pizio”. Forse è di Gorgia anche un trattato su L'arte oratoria.pendentemente da cosa sia la Virtu con il V grande. Sotto questo aspetto estremamente importante, proprio per rendersi conto dell'appello al concreto dei primi sofisti, appare il fatto che Gorgia, ad esem-pio, non intende ricercare cosa sia la Virtu, ma, a chi gli chiedeva cosa è Virtu, risponde. La virtu di chi? Del bambino, dell’uomo virile, o del vecchio? della donna o dell'uomo? (cfr. Platone, Menone, 71e; Aristotele, Politica, I, 1260a, 17). La seconda fase dei pitagorici secondi. Le indagini matematiche. Ippocrate di Chio Secondo la leggenda, dalla distruzione della casa dei pitagorici a Crotone si salvarono Liside e Archippo. Liside si sarebbe rifugiato a Tebe, ove, sembra, avrebbe fondato un circolo Epitafio”; “Discorso olimpico”; pitagorico di cui un prosecutore sarebbe stato Filolao, fiorito nella seconda metà del V se- colo, che sul finire del 400 sarebbe andato in Italia. Archippo si sa- rebbe, invece, rifugiato in Taranto, ove avrebbe proseguito l'opera di Pitagora, proseguita a sua volta da Archita di Taranto, uomo politico di vaglia, contemporaneo e amico di Platone. In realtà di Filolao e di Archita sappiamo molto poco.1 Non senza una qualche ragione, anzi, particolarmente per quel che riguarda Fi- lolao, si è giunti a dubitare che gli stessi frammenti che si ritengono proprii dell'opera (Sulla natura) di lui, siano in effetto rielaborazione, se non falsificazione, di Speusippo, il nipote di Platone e suo succes- sore nella direzione dell'Accademia, che avrebbe composto un libretto Sui numeri dei Pitagorici (cfr. Throlog. Arithm., p. 82, 10 De Falco). Platone nel “Fedon” pur discutendo alcune tesi pitagoriche, rivela un suo pitagorismo, soprattutto per quel che riguarda il motivo dell'armonia dei contrari, e cosi:, in piu passi degli altri dialoghi e in particolare nel “Filebo” e nel “Timeo” sembra riallacciarsi a certi motivi che paiono tipici di Filolao (armonia del limite e del non limitato, armonia cosmica), e di Archita (armonie musicali). Ad ogni modo l'accenno che nel “Fedone” Platone fa direttamente a Filolao è molto sospetto. O come,.Cebète, non avete, tu e Simmia, udito parlare di questi argomenti, voi che siete stati discepoli di Filolao? Si, ma niente di preciso, Socrate. Anch'io, veramente, solo per averne udito parlare di queste cose (“Fedone”, 61tl). Chi abbia un po' di pratic~ dei testi platonici sa che generalmente Platone usa questi giri di frase allorché vuoi mettere sugli attenti intorno a certe dottrine. Nel caso preciso, Platone avverte che la tesi che sta per esporre, appunto quella dell'armonia del tutto cui si giunge attraverso l'analisi di se stessi (ché le nostre strutture corrispondono alla ragion d'essere del tutto) non è né tesi di Socrate né di Filolao, ma interpretazione personale, volta a certi scopi precisi e diversi. Talvolta, effettivamente, dietro alcune tesi platoniche si nascondono motivi esistenti, ma che in realtà avevano storicamente tutt'altro signifi- [Scarsissime sono le notizie sicure su Filolao e su Acchita. Di Filolao sappiamo che fu contemporaneo di Socrate (dr. Feàone, ove Socrate parla di Simmia e Cebete di Tebe che avevano ascoltato Filolao). "Demetrio negli Omonimi dice che Filolao e il primo a pubblicare i libri dei Pitagorici, col titolo Della natura " (Diogene L., VIII, 84-85). Su questo e sull'esistenza di un'opera di Filolao si è molto discusso e la questione è ancora aperta. Di Acchita di Taranto, sappiamo che visse a cavallo tra il V e il IV secolo, che fu uomo politico di vaglia, signore di Taranto, amico di Platone (cfr. VII lettera, 338b, 339a) che riusci a far partire Platone da Siracusa, quando Platone si trova in quella città semi-prigioniero del tiranno Dionisio (VII lettera, 350a). Secondo Aristosseno (fr. 48 Wehrli) Acchita, quando e stratega, non emai sconfita~: ritiratosi dal comando, cedendo all'invidia, la città subi subito uoa sconfittacato. Questo, con tutte le cautele possibili, può essere il caso di Filolao e, sotto un certo aspetto, di Archita. Platone avrebbe, probabilmente in polemica con le conclusioni dell'uno massiccio di Parmenide, ri-elaborato un pitagorismo a modo suo, purrifacendosi a certi motivi che potevano scaturire dalla discussione di Filolao nei confronti dell'Essere di Parmenide. E questo particolarmente appare da certe pagine del Parmeide e del Filebo, ove sono alcune espressioni che sembrano coinci- dere con alcuni frammenti di Filolao, ma che in effetto vanno molto oltre ciò che di fatto possiamo ricavare dai frammenti di Filolao. Es- sendo, dunque, possibile una distinzione tra Platone e Filolao, senza arrivare a sostenere una troppo raffinata falsificazione da parte di sco- lari di Platone, che avrebbero costruito i testi di ·Filolao a bella posta, la cosa piu probabile sembra sia la seguente:- del secondo pitagorismo ciò che appare di piu altamente metafisica, in un'aspirazione all'ordine supremo del tutto, è in effetto rielaborazione platonica in primo luogo, poi rielaborazione di Aristotele. Piu probanti, per tentare di avvicinarsi alle tesi storiche del se- condo pitagorismo, sembrano certe pagine di Platone in cui si pole- mizza contro coloro che si occupano di geometria, di aritmetica, di astronomia, di teoria musicale: loro difetto sarebbe, secondo Platone, di non essersi elevati al primo principio, alle strutture dialettiche dell'essere, per ri~anere sul piano delle ipotesi e della traduzione del visibile in termini geometrici e aritmetici (cfr., in particolare, Repubblica, 510c sgg.). L'abbiezione di Platone, che implica tutt'altro problema, il problema della ragion d'essere del tutto, è la stessa abbiezione - anche se diversa nel suo contenuto - che ai pitagorici muoverà Aristotele. Sotto questo aspetto, rifacendoci a certi frammenti di Filolao e di Archita e alla distinzione fatta da Aristotele tra i pitagorici del tempo di Alcmeone di Crotone e i pitagorici del tempo degli atomisti, sembra che si possa realmente parlare di un secondo pitagorismo, facente capo a Filolao e poi ad Archita, i quali, in quanto matematici o per lo meno in quanto sono partiti da osservazioni o da scoperte di carattere aritmetìco e geometrico, sarebbero stati accomunati al pitagorismo - nome generico, - entro cui per antonomasia si son fatti rientrare, tutti coloro che si sono occupati di matematica e di armonia. Tale il significato della testimonianza di Aristotele, che, parlando dei pensatori del tempo degli atomisti, afferma: vi furono i cosiddetti pitagorici, i quali, applicatisi alle scienze matematiche, le fecero per i primi progredire: cresciuti poi nello studio di esse, vennero nell'opinione che i principii delle matematiche fossero i principii di tutti gli esseri. E poiché i principii della matematica sono, naturalmente, i numeri, parve loro di vedere nei numeri, piu che nel fuoco, nella terra e nell'aria, molte somiglianze con le cose che sono o che divengono (Metaf., 958b). Aristotele, dunque, non solo distingue tra i pitagorici del tempo di Pi~agora, cui sarebbe attribuibile la tavola delle dieci opposizioni e i cosiddetti pitagorici di un tempo piu tardo, ma è a questi ultimi ch'egli, in particolare, attribuisce il progresso delle scienze matematiche, in- tese come scienze del numero, e la tesi che il reale è pensabile qualora sia riducibile a numero, cioè a quantità. Ed è, infine, a questi ultimi ch'egli attribuisce la tesi che elementi del numero sono il pari e il dispari: il primo, infinito: il secondo, finito; e l'unità, essendo pari e dispari insieme, la fanno costituita di entrambi gli elementi; e dal- l'unità sarebbe formato il numero (Metaf., 986a). Mentre nei primi pitagorici trovammo unità accanto a unità, donde vedemmo la critica di Parmenide, qui sembra invece si trovi il tentativo di risolvere sul piano matematico le aporie di Parmenide e di Zenone. In altri termini con Filolao e poi con ARCHITA DI TARANTO pare che certe scoperte aritmetiche e àltre musicali abbiano -portato a impostare il problema della pensabilità del reale sul piano del discorso, possibile qua- lora si riduca a quantità il pensabile stesso, ponendo quindi l'ipotesi della numerabilità e misurabilità resa possibile dall'unità come discorso, onde l'unità non è piu uno o altro punto della serie, ma il discorso stesso come armonia di punti (finiti e infiniti), cioè come condizione di quelli e quindi come " parimpari," per cui ogni aspetto comprensibile del reale è pari e dispari, è unità (monade) e diade. L'unità e la molteplicità si conciliano cosi in una serie infinita di numeri, che si ritmano nell'unità del discorso, come armonia, e come armonia dei contrari: l'armonia nasce solo dai contrari: perché l'armonia è unificazione di molti termini mescolati, e accordo di elementi discordanti (Filolao, fr. 10). Il che non significa èhe per Filolao l'uomo colga l'essenza ultima della realtà: la causa o le cause prime - saranno questi i problemi di Platone e di Aristotele. Egli pone semplicemente e concretamente la possibilità di pensare il reale: la sostanza delle cose, che è eterna, e la natura stessa richiedono conoscenza divina, non umana; solo che nessuna delle cose che sono e noi conosciamo 106    sarebbe potuta esistere, se non ci fosse la sostanza delle cose che compòngono il cosmo, delle limitanti e delle illimitate (fr. 6). Ora, poiché le cose appaiono come aventi qualità infinite, esse non sarebbero pensabili, se non si potesse trascorrere tra esse, cioè se non si potessero ridurre tutte a quantità, a un indefinito definibile me- diante la numerabilità e la misurabilità: perciò le cose stesse sono nu- meri, divisipili (pari) e indivisibili (dispari), limitanti e limitate, fra cui corrono rapporti di misura, proporzioni, che ne costituiscono l'armonia, cioè quell'unità che è condizione e presenza in ogni cosa: tutte le cose che si conoscono- dice Filolao -hanno numero: senza il nu- mero non sarebbe possibile pensare né conoscere alcunché (fr. 4). Il numero ha due specie sue proprie, il dispari e il pari: e la terza è il parimpari, for· mato da queste due mescolate. Molte forme ci sono dell'una e dell'altra, e ogni cosa per se stessa le rivela (fr. 5). Sembra, dunque, evidente che per Filolao non si tratta di conosce- re o di cogliere quella che è la realtà in sé, ma di determinare quale sia la condizione che rende pensabile la realtà, cioè che rende possi- bile la scienza: è la natura del numero che fa conoscere ed è guida e insegna ad ognuno tutto ciò che è dubbio e ignoto. Nulla sarebbe comprensibile, né le singole cose né le loro relazioni, se non. ci fossero il numero e la sua sostanza. Ma questo, armonizzando nell'anima tutte le cose con la percezione, rende co- noscibili esse e le loro relazioni secondo la natura dello gnomone, col dar corpo e distinguere le determinazioni delle cose, di quelle illimitate e di quelle limitanti (fr. 11). E allora se pensare è armonizzare nell'anima tutte le cose con la percezione, è riferire e misurare, la verità consiste nell'armonia, nel numerare e misurare, che è articolare e discorrere: nessuna menzogna accolgono in sé la natura del numero e l'armonia: non è cosa loro la menzogna. La menzogna e l'invidia partecipano della natura dell'illimitati? e dell'inintelligibile e dell'irrazionale. La verità è connaturata e propria della specie dei numeri (fr. 11). Di qui l'importanza del discorso matematico, per cui ciò che nel- l'immediatezza sensibile appare come continuo e indefinito, illimitato, diviene intelligibile in quanto si numera, in quanto ciò che si defi- nisce non è piu né acqua, né terra, né fuoco, né altra qualità, ma è traducibile in figure, in forme (mediante lo gnomone), costituite di piani, di linee, di punti; e i piani, le linee, i punti (gli originari punti, o ciottoli dei primi pitagorici), i numeri interi della serie (tutti uguali l'uno all'altro), si articolano fra di loro, in una unità discorsiva, che dunque non è nessuno dei punti, ma la loro stessa condizione, che è quindi ad un tempo pari e dispari, una e due, illimitata e limitante. Tutte le cose sono necessariamente o limitanti e illimitate o illimita- te o limitanti e illimitate. Soltanto cose illimitate non ci potrebbero essere (fr. 2). E in Giamblico si legge. Secondo Filolao è assolutamente impos- sibile che ci sia oggetto conoscibile, se tutti gli elementi sono illimi- tati" (fr. 3); cosi. come non ci sarebbe conoscenza se tutto fosse li- mitante. Dalla constatazione che nulla è pensabile se non è numerabile e misurabile, se non si colgono le figure ddle cose, se non si riduce tutto a un determinatore comune, viene l'affermazione di Filolao che la natura nel cosmo è composta di elementi illimitati e di elementi limitanti: sia il cosmo nel suo insieme che tutte le sue parti (fr. 1). Ora, se è vero, come sembra ritenessero i pitagorici, che le figure, le forme, “idee”, delle cose si costituiscono di numeri, è altret- tanto vero che ogni cosa ha un suo numero, e che, reciprocamente i numeri si determinano come figure: punti, linee, triangoli, quadran- goli, poligoni, cubi e cosi via. Nascevano di qui i problemi grossi dei rapporti tra le figure, che tradotti in numeri ponevano il problema delle proporzioni, a loro volta fondamento delle tecniche, ad esempio ar- chitettoniche, statuarie, e musicali. La natura del numero e la sua grande potenza - dice Filolao - le si vedono... anche in tutte le attività e in tutte le parole degli uomini, sia nelle attività tecniche che nella musica (fr. Il). E Archita: la scoperta del calcolo ha fatto cessare le discordie e ha accresciuto la concordia. Non è possibile che ci sia sopraffazione da che esso è stato trrntc: c'è invece parità. Per esso infatti ci accordiamo nelle relazioni di affari. Per mezzo suo i poveri ricevono dai ricchi e i ricchi dànno ai poveri, avendo fiducia e gli uni e gli altri di avere la loro parte. Il calcolo è strumento di giudizio e impedisce i torti (fr. 3). Quanto al cosiddetto sistema filolaico relativo alla concezione del- l'universo ed alla sua formazione, bisogna andare molto cauti. Se da un lato può darsi che Filolao abbia sfruttato tesi di pitagorici piu an- tichi e forse risalenti allo stesso Pitagora (come, ad esempio, il motivo della sfericità della terra, del moto dei punti, costituenti le figure, del moto inteso come respiro dell'universo), dall'altro lato il tentativo di tradurre in figure piane e solide, gli elementi come il fuoco, la terra e cosi via, può essere sospetto, soprattutto per quel che riguarda le figure solide e i loro rapporti, “sterometria”, perché la stereometria, come appare chiaramente da Platone, che ne fa un solo accenno nella Repubblica, mentre la conosce piu a fondo nel Timeo, fu studiata da Teeteto - discepolo di Teodoro che è senza dubbio alquanto posteriore a Filolao. Può cosi essei:e giustificato il sospetto di una rico- struzione a posteriori, formata anche di tesi proprie del pitagorisnìo primo e secondo (l'accentuazione dell'armonia musicale, il tentativo di matematizzare l'astronomia rifacendosi all'aritmetica e alla musica), in cui sono presenti anche ipotesi platoniche, democritee, eudossiane. In effetti i frammenti che si dicono propri di Filolao o i frammenti di altri pitagorici del tempo o anche anteriori, sono troppo pochi, brevi, e inseriti in testi troppo posteriori per giustificare sia una concezione cosmologico-cosmogonica propria di Filolao, sia una concezione cosmo- logico-cosmogonica dei pitagorici tout court. Non solo, ma non va scordato che possiamo ricostruire tale concezione pitagorica solo attraverso testimonianze di Aristotele che non cita Filolao, di Simplicio che non cita Filolao, ma· che, su sua stessa confessione, riprende da Aristotele, e da Aezio che cita Filolao. Al centro del cosmo è posto il fuoco, intorno al quale ruotano dieci corpi celesti (probabile ricordo del valore dato alla decade, alla tetraetys, dai primi pitagorici), ivi compresa la terra, che non ha dunque posi- zione centrale e che è sferica. Il cosmo si sarebbe generato da un primo alito caldo (il respiro di Pitagora), da un fuoco centrale (che sembra risalire a Ippaso di Metaponto), che armonicamente determina un in- determinato spazio vuoto. Il cosmo è uno, e cominciò a formarsi dal mezzo, con distanze uguali dal mezzo all'alto e dal mezzo al basso. Le parti che si trovano sopra la 109    parte centrale sono dalla parte opposta rispetto a quelle che si trovano sotto. Le une e le altre si trovano insomma, rispetto alla parte centrale, nello stesso rapporto: se non che sono da parti opposte (Filolao, fr. 17). Dal fuoco centrale, chiamato la madre degli dèi, perché da esso si generano i corpi celesti, o Estia, il focolare della patria, o il trono o la torre di Zeus, il fulcro cioè della vitalità del tutto (il primo armonizzato, l'uno, è nel mezzo della sfera, e si chiama focolare -- Filo- lao, fr. 7), si determina l'illimitato, costituendo cosi a poco a poco l'or- dine di tutta la realtà, formata alla fine dei dieci corpi celesti ruotanti armonicamente intorno al focolare dell'universo. Dal centro (fuoco) alla periferia abbiamo: la terra e, ad essa opposta, l'antiterra, invisi- bile per l'uomo perché ruotante insieme alla terra dalla parte opposta al fuoco; i cinque pianeti (Mercurio, Venere, Marte, Giove, Saturno); il sole C' il pitagorico Filolao dice che il sole è come un cristallo, perché accoglie il riflesso del fuoco che è nel centro e rimanda a noi la luce e il calore (Aezio, II, 20, 12); la luna e, infine, circondante il tutto, il cielo delle stelle fisse. Filolao, poi, sempre secondo la testimonianza di Aezio (II, 7, 7) avrebbe chiamato Olimpo la parte estrema di ciò che sta intorno, nella quale sono gli elementi nella loro purezza, mentre Cosmo avrebbe chiamato la zona che si trova sotto l'Olimpo e in cui si muovono i cinque pianeti, il sole e la luna, e Urano la zona sub- lunare dove ancora è disordine e indeterminatezza. Sembrerebbe, dun- que, che secondo Filolao l'universo sia una sfera entro cui si muovono armonicamente i corpi celesti, aventi come perno e centro di irradia- zione il fuoco centrale (la dimora di Zeus), che in quanto è fonte di tutto è anche ovunque, tanto piu là dove di piu il tutto è definito, il cielo delle stelle fisse, o Olimpo (la tradizionale sede di Zeus), per cui, forse simbolicamente, il fuoco è quell'unità che non è nessuno dei numeri, ma è tutti nella loro armonia, trovandosi cosi al centro e alla periferia come involucro di tutto (cfr. Aristotele, De coe.lo, Il, 13, 293), unità di finito e d'infinito. Sembra, infine, che a questa concezione vada riallacciata la celebre dottrina dell'armonia delle sfere di cui parla Aristotele. Certo Aristotele non cita direttamente i pitagorici ed è probabile che anche questa teoria sia una posteriore interpreta- zione e rielaborazione. Alcuni dicono che dal movimento degli astri nasce armonia, in quanto dal movimento sono prodotti dei suoni e questi sono consonanti. C'è in- fatti chi crede che, muovendosi corpi cosi grandi, ne nasca un suono perché suono è prodotto dal movimento dei corpi che sono quaggiu, i quali pure sono meno grandi e meno veloci di quelli. Non può, dicono, non nascere un suono straordinariamente grande dal movimento del sole e della luna e degli astri, che sono tanti e tanto grandi e procedono con tanta velocità. Cos{ essi credono che i rapporti della velocità degli astri in relazione alle distanze siano i medesimi degli accordi musicali; e perciò dicono armonico il suono degli astri ruotanti. Poi, a giustificare il fatto che questo suono non lo udiamo, dicono che la causa sta in ciò, che esso c'è sempre dal nostro nascere; manca per questo, dicono, ogni contrasto col silenzio, e quindi non possiamo distinguerlo, ché suono e silenzio si discernono appunto perché sono in contrasto. Insomma accade, per tal suono, agli uomini quello che accade ai fabbri, che per l'abitudine fatta al rumore non lo distinguono piu (De coelo, II, 9, 290b). Ora, come nella cosmologia l'alito caldo, il fuoco, che è al centro ed alla periferia, si costituisce come armonia vivente del tutto, cosi: sembra-che per i pitagorici l'anima fosse armonia e accordo musicale. L'anima, in quanto p~euma, soffio vitale, sta all'essere vivente come l'uno centrale, il focolare dell'universo, sta al tutto costituendo armonia tra gli elementi contrari. L'anima, dunque, sarebbe l'armonia che costituisce, essendone la condizione, la mescolanza ordinata degli de- menti corporei. Sotto questo aspetto, venendo meno gli elementi corpo· rei non viene meno l'anima, ché l'anima come armonia non è il risul- tato di una somma di parti, ma la condizione dell'ordine stesso, per cui l'anima resta sempre armonia di ciò che è vivente. Questa sembra fosse la tesi di Simmia, discepolo di Filolao, anche se Platone, nel Pedone, obbietta che, dissolvendosi gli elementi corporei, dovrebbe venir meno anche l'anima. Queste, nelle loro linee generali, le dottrine cosmogonica-cosmolo- gica e dell'anima-armonia che la tradizione ha fatto risalire ai pitago- rici. Senza dubbio alcuni motivi sono certamente del primo e del se- condo pitagorismo, altri sono dovuti a interpretazioni e sistemazioni posteriori, e, innanzi tutto, a Platone. Cosi, per esempio, certe conce- zioni proprie di Platone, che, nel Timeo in particolare, le mutuava da Teeteto (cfr. la tesi dei cinque elementi: terra uguale cubo, acqua uguale icosaedro, aria uguale ottaedro, fuoco uguale tetraedro, etere uguale dodecaedro), sono state piu tardi (da Aezio, in II, 6, 5) attribuite a Filolao (cfr. E. Sachs, Die fiinf plat. Korpcr, Berlino, 1917). Molte tesi cosiddette pitagoriche sono in realtà di Platone o posteriori ai pitagorici, o sono interpretazioni che, comunque, rispondono;~ problemi e ad esi- genze di altri pensatori in altre situazioni storiche. Ciò che invece sembra proprio dei secondi pitagorici, o almeno dei matematici è il valore dat~ all'i(lotesi, intesa etimologicamente come il presupposto che permette un. certo ragionamento; ipotesi matematiche che permettono appunto di pensare e che hanno estrema importanza per le tecniche, come sottolinea Fi- lolao. Di qui la critica di Platone a coloro che si sono occupati di geo- metria, di aritmetica, di astronomia: essi hanno formulato i(lotesi, ma da queste non sono giunti ai fondamenti primi, o meglio, al contrario, a queste.non son giunti dalla suprema ragion d'essere (cfr. Ref1., 510c); e la critica di Aristotele secondo cui i pitagorici sarebbero rimasti sospesi fra il sensibile e l'intelligibile (Metaf., I, 987a). Ha cosi ragione Abel Rey (La science dans l'antiquité, Parigi) quando sostiene che i pita- gorici hanno insistito sui " primi principii della scienza che non sono però i primi principii in se stessi assolutamente parlando." Entro questi termini può essere opportuno ricordare che a Filolao sembra si debba la scoperta e lo studio della proporzione o medietà ar- monica (di quarta, di quinta, di ottava), accanto alla proporzione arilm~­ tica (le cui proprietà furono formulate da.Archita) e a quella geometrica. Queste ricerche e studi appaiono come l'aspetto piu saliente del secondo pitagorismo, insieme a un altro problema che si presentava loro, e che, forse, entrava in contrasto con la teoria dei punti-unità dei primi pi- tagorici, il problema degli incommensurabili o numeri irrazionali (detti prima indicibili, 4ppYjTat; poi irrazionali, 4>-oyo'), che tuttavia po- neva le basi di nuovi rapporti e misure, la possibilità del passaggio dalle figure piane (geometria), alle solide (stereometria). Di qui da un lato il problema della duplicazione del quadrato e dall'altro il problema della duplicazione del cubo, che vennero spostando il problema da un'inda- gine piu strettamente aritmetica a una indagine che divenne sempre piu strettamente geometrica. Non sappiamo con precisione a chi risalga la teoria delle grandezze irrazionali. Probabilmente si scoprirono gli irrazionali, quando, volendo applicare il teorema detto di Pitagora (la duplicazione del quadrato) al triangolo rettangolo isoscele, ci si accorse ch'era impossibile misurare e indicare con un numero la diagonale del quadrato di lato l. Senza dubbio il motivo degli irrazionali fu poi approfondito da Teodoro di Cirene e quindi da Teeteto, come risulta chiaramente da Platone. Quanto alla duplicazione del cubo, o problema di Delo (cosi detto perché secondo la leggenda, conservataci da Eutocio, l'oracolo di Odo avrebbe richiesto agli abitanti di Delo di duplicare uno degli al- tari del tempio, clie aveva forma cubica), sembra che per primo vi si 112    sia dedicato il matematico Ippocrate di Chio, che venuto ad Atene per ragioni di commercio vi si stabill insegnando matematica tra il 450 e il 430, scrivendo i primi elementi di geometria ed entrando in rap- porto coi maggiori esponenti della cùltura ateniese. lppocrate applicò alla duplicazione del cubo il metodo, da lui stesso scoperto, detto apagogico, che consiste nel ridurre un problema a un altro problema, di modo che, se il secondo è risolto, o dimostrato, lo è ugualmente il primo. Egli stabilisce cosi che il problema della duplicazione del cubo era di trovare due medie proporzionali fra due numeri dati e non una sola media come per la duplicazione del quadrato (cfr. P. H. Michel, La science hellène, in Hist. génér. des Sciences, Parigi, l, p. 236). Sempre a Ippocrate di Chio sembra si debba l'impostazioné del problema della quadratura del circolo, cui credette di poter giungere mediante lo stu- dio dell'area delle lunule, che, se non risolse la quadratura del circolo, servi a formulare nuovi teoremi. In questa epoca il problema della quadratura del circolo fu ripreso e discusso anche da lppia di Elide, che mediante la curva  la lui detta di Ippia o quadratrice, se non risolse la quadratura del circolo, formulò il teorema della trisezione dell'angolo; da Antifonte 'che tentò la soluzione raddoppiando indefinitamente il numero dei lati di un poligono regolare iscritto in un cerchio; e da Brisone, un sofista fiorito sulla fine del V e l'inizio del IV secolo, che oltre al poligono iscritto considerò anche quello circoscritto. Non a caso ci siamo soffermati un momento su questo tipo di in- dagini volte a questioni precise e concrete. Accantonato il problema del- l'Essere quale si era formulato con Parmenide ed Eraclito, rivelatosi quel problema come inesistente, ché nell'uno e nell'altro caso si finiva nel silenzio, questo tipo di ricerche (volte all'indagine delle condizioni che rendono pensabile la realtà, o delle condizioni che rendono possibile il rapporto umano, o di quelle che esplicano il 'fatto' natura) ap- pare come il piu significativo e tale da costituire una ben precisa si- tuazione culturale. E se per filosofia s'intende ciò che allora s'intendeva, non una specifica disciplina avente un suo oggetto (come avverrà con Platone e con Aristotele), ma ricerca, desiderio di sapere in senso gene- rale, diremmo che la filosofia della seconda metà del V secolo, fu la matematica, la fisica, lo studio di quello che è il modo umano di pen- sare e di parlare, la retorica, l'indagine di come gli uomini istituiscono rapporti, di come l'uomo è religioso. Entro questi termini culturali ed entro questo tipo di ricerche rientrano esattamente anche le indagini di Democrito.'A tal proposito sembra, anzi, interessante ricordare che già sulla metà circa del II secolo si venga sempre piu definendo il campo pro- prio della dialettica e particolarmente della retorica come scienze a sé, approfondendone il significato educativo. Da un lato ciò si rivela da quel poco che sappiamo della Retorica dello stoico Diogene di Babilonia, che insieme a Carneade si reca a ROMA per l'AMBASCERIA, il quale vedeva nella retorica l'arte con cui si formano uomini politici utili alla città (cfr. Filodemo, De rhet., I, p. 333. Sudh.); o dall'altro lato attraverso la sistemazione della retorica del celebre Ermagora di Temno. Egli, oltre a determinare le tecniche dei discorsi relative alle questioni di dispute particolari da parte di singole persone (ipoten), delineò la pos- sibilità di discutere sul piano retorico argomenti di carattere generale (ten), vedendone il pro e il contro, come in tribunale, e che possono essere utiii sia per la parte deliberativa della retorica, sia per quella giudiziaria, sia per quella encomiastica, in uno sviluppo di quelli che in Aristotele erano i luoghi comuni (tesi) e i luoghi propri (ipotesi). Si capisce come poi di qui si potranno assumere, per esercitazione retorica nelle scuole, o per utilità di discussione in tribunale o in wli- tica, le tesi dalle tesi stoiche di morale, dalle tesi platoniche, da quelle aristoteliche, indipendentemente dai contesti e dal loro significato in quei contesti. Ma qui il discorso si fa diverso, anche se era necessario questo accenno per prospettare quelli che saranno certi aspetti della cultura quale troveremo dalla seconda metà del II secolo a. C. in poi a Roma, nel costituirsi di un ambiente, di una tematica, di un com- plesso di esigenze, che prendendo mosse e strumenti dal pensiero e dalla problematica della cultura greca si delinea in modi diversi, risol- vendosi alla fine in una diversa strutturazione, ove altre sono le do- mande e le richieste. Ad ogni modo, posta la formalità della logica crisippea e la sua soluzione in termini di grammatica e di sintassi, in un'analisi del lin- guaggio, ammesso pure che l'assenso venga dato a ciò che piu forte- mente. impressiona, onde assumiamo fede nella esistenza di ciò che si vien oresentando ('tUrx«vov )su cui poi si costituisce il discorso, posta l'analisi rivelante i vari tipi di discorso, la loro verità o falsità, e posti con ciò i sillogism! ipotetici, i ragionamenti anapodittici, ciò che sem- bra difficile spiegare è come Crisippo sia poi potuto passare, sul fon- damento di quella logica, a determinare la ragion d'essere, la logica di tutto, il cui esito è una teologia, una fisica, una concezione del di- ritto naturàle simili a quelle di Cleante. Qui non vengono in aiuto né le testimonianze, né i pochi e sospetti frammenti. Se da un lato tro- viamo un certo insieme di testimonianze, che, riferendosi particolar- mehte a Crisippo, permettono di ricostruire la sua logica e la sua dia- lettica, il suo studio dei significanti e dei significati, e certi termini tecnici, nel senso che sopra abbiamo detto; dall'altro lato, dall'e·sposi- zione che gli antichi dettero dello stoicismo parlando insieme di Ze- none, di Cleante e di Crisippo, vengono fuori, soprattutto comuni a Cleante e a Crisippo, la stessa teologia, la stessa fisica, la stessa etica. Possiamo cos1 solo sospettare o che la dimostrazione del tutto (fatalmente ordinantesi in una catena, manifestazione della Legge con cui Dio si realizza) è tratta per analogia dal modo con cui si costituisce il discorso, per cui lo stesso tutto e la sua ragion d'essere e concatena-. zione fatale è, alla fine, un possibile discorso ipotetico, che viene ac- cettato o respinto solo per opzione, per un atto di volontà, in un ripie- gamento, dal punto di vista ontologico, sul probabile o credibile; op- pure che Crisippo abbia nettamente distinto dalla logica (dialettica e retorica) come unica scienza umana, valida per provare uno o altro tipo di discorso, la fisica e la teologia valide a spiegare in quanto ba- sate su di un ragionamento, che può essere formalmente vero, e al quale diamo quindi l'assenso, una certa condotta morale. L'uomo, cos1, razionalmente ricostruendo un ipotetico tutto razionale, ove tutto è determinato, nella consapevolezza critica delle proprie determinazioni e limitazioni, da esse si libera accettandole e, in un giuoco ove le pedi- ne sono date e date sono le mosse, ha possibilità - tale sembra l'affer- mazione crisippea che fato e volontà umana possono coesistere - di determinare tra le possibili mosse date una mossa piuttosto che un'altra. Dice Crisippo: a quel modo che chi ha dato la spinta a un cilindr~ gli ha dato l'inizio del movimento, ma non la capacità di girare, cosf la rappresentazione imprime, si, l'oggetto, ma l'assenso sarà in nostro potere... Cosi l'ordine e la ragione e la necessità del fato muovon gli stessi gelliO"i e priiÌcipii delle cause, ma l'impeto delle risoluzioni e delle menti nostre e le azioni stesse le governa la volontà propria di ciascuno e l'indole degli animi (Cicerone, De fato, 41-43; Aulo Gellio, Notti Attiche, VII, 2). Altro di Crisippo non possiamo dire, ché gran parte delle piu duttili discussioni sugli indifferenti, sul rapporto tra utile e onesto, probabilmente certi sviluppi relativi alla giustizia, all'unica ragione per cui tutti gli uomini sono uguali e, idealmente almeno, hanno quindi  tutti gli stessi diritti da natura (il giusto è per natura e non per convenzione, come anche la legge e la retta ragione, secondo dice Crisippo ": Diogene L., VII, 128), le interpretazioni allegoriche degli dèi, alcune affermazioni paradossali, sono certo posteriori a Crisippo, e se prestiamo fede alle ricostruzioni di Cicerone, furono proprii della Scuo- la e in particolare di Diogene di Seleucia o di Babilonia e di Antipa- tro di T arso, che, dopo Zenone di T arso, successero nello scolarcato della Stoà durante il II secolo. Secondo Antipatro si deve rivelare ogni cosa, perché il compratore non ignori nulla di ciò che conosce il venditore: e per Diogene il venditore deve dire i difetti di ciò che vende, fin quanto vuole la legge; per il resto agisca senza inganno e, poiché vendè, venda nel modo migliore... E mentre Antipatro dice: " M a come? Mentre devi provvedere agli uomini e ren- derti utile al consorzio umano, a tale scopo sei nato, e riconosci il princi- pio naturale, per cui l'utile tuo è inseparabile dall'utile comune e vice- versa, terrai nascosto agli uomini quel vantaggio che può favorirli? Diogene risponderà. Altro è nascondere, altro è tacere. (Cicerone, “De officiis”, III, 51-52). In effetto sembra che se da un lato molte delle discussioni di etica1 sorte nella Scuola, hanno un sapore di esercitazioni dialettiche e retoriche, dall'altro lato proprio tali esercitazioni ponevano il problema della eticità su di un piano casistico, che venne, non poco, spostando la rigi- dità dell'originario stoicismo, permettendo una maggiore duttilità nei confronti delle singole situazioni politiche, mentre il motivo dell'ugua- glianza di tutti gli uomini in nome dell'unica ragione naturale assu- meva significato polemico di fronte alle sempre piu gravi sperequa- zioni sociali, anche se, alla fine, entro l'ambito di una realtà ove tutto si dispone in ben precisi gradi, rispecchianti la Legge di Dio, poteva giustificare proprio quelle stesse sperequazioni sociali. L'atteggiamento polemico, invece, tanto meglio si vede in alcune posizioni di Cinici del III secolo (Bione di Boristene, Menippo di Gà- dara, Cercida di Megalopoli, Telete), che, mantenendo il tipico aspetto cinico, di ribellione ad ogni tipo di società, nelle loro satire e diatribe e meliambi, forme letterarie propriamente popolari e rivolte al popolo, vennero puntando l'accento sulla sperequazione tra ricchi e poveri: Perché mai il cielo - scriveva Cercida - non toglie ai ricchi la loro maialesca ricchezza? A quali signori, dunque, a quali celesti dovremo rivolgerei, per avere il giusto compenso, quando il Cronide, che tutti ci ha generati, che anche a noi ha dato la vita, degli uni si mostra padre [dei ricchi], degli altri patrigno [dei poveri]? (Meliambo I, v. 9, w. 23-27). Alla morte di Crisippo, avvenuta ad Atene tra il 208 e il 204, sco- larca dell'Accademia era Telecle, successo a Lacide di Cirene, ch'era stato a capo della Scuola dalla morte di Arcesilao (240 circa) al 223. Di Lacide, ch'ebbe notevole fama di maestro, che fu circondato da molti discepoli venuti ad Atene da· tutte le parti del mondo greco, sappiamo solo che espose per scritto il pensiero del maestro. COs1, poco o niente sappiamo di Telecle, morto verso il 178, e meno ancora del suo successore Evandro, che lasciò la direzione dell'Accademia a Ege- sino di Pergamo, al quale successe il discepolo Carneade. Di altri Ac- cademici di questo periodo sappiamo solo i nomi, Aristippo di Cirene e Pitodoro, che dedicò i suoi scritti all'esposizione delle argomentazio- ni di Arcesilao (si cfr. Diogene L., IV, 51; Il, 83; lndex Herc., XXVII, 9; Cicerone, Lucullus, VI, 16; Suda, s. v. Aotxu31Jc;). La loro importanza sembra, dunque, soprattutto dovuta all'avere costituito una tradizione arcesilea, prendendo le mosse dalla quale Car- neade,1 in un approfondimento delle argomentazioni di Arcesilao, serratamente discusse gli scrhti di Crisippo (" Se Crisippo non fosse sta- to, neppure io sarei: Diog. L., IV, 62) e le tesi stoiche elaborate dai discepoli di Crisippo, Diogene di Babilonia, alla cui scuola fu Car- neade (Cicerone, Lucullus, XXX, 98), e Antipatro di Tarso, contempo- raneo di Carneade, del quale si dice che mai osò attaccare Carneade nella scuola o in piazza, preferendo difendere lo stoicismo attraverso gli scritti (Numenio, fr. 5). Nato a Cirene nel 219 circa o nel 214, in una città ricca di tradizioni scientifiche e culturali - da dove erano venuti ad Atene anche [Nato a Cirene tra il 219 e il 214, Carnéade venne ad Atene in un'epoca che non è dato precisare. Ad Atene si preoccupò soprattutto di rendersi conto delle varie com- ponenti culturali: ascoltò Egcsino di Pergamo, scolarca dell'Accademia, Diogene di Babilonia, scolarca della Stoà e discepolo di Crisippo. Fu uomo di vastissima cultura, dia- lettico sottile, buon parlatore. Successe nello scolarcato dell'Accademia a Egesino di Per- gamo. Probabilmente fu proprio la sua fama di dialettico e di buon parlatore che fece decidere gli ateniesi ad inviare a Roma Carneade insieme allo scolarca della Stoà Diogene di Babilonia, e allo scolarca del Peripato, Critolao, in qualità di·ambasciatore presso il senato romano (155 a.C.). Gli ateniesi, condannati da Roma a pagare una·forte multa per avere saccheggiato Oropo, inviano Carneade, Diogene di Babilonia e Critolao, a Roma perché cercano di far ritirare il provvedimento. Giunti a Roma e non ascoltati subito dal senato, i tre ambasciatori presero contatto coi romani, discutendo con loro di filosofia. Chi fece la massima impressione, per la sua arte dialettica, per avere un giorno esaltato la giustizia e il giorno dopo, con altrettanti argomenti convincenti, sostenuto che la giustizia è stoltezza, fu Carneade.  gli accademici Aristippo e Lacide, - Carnel).de, ad Atene, ascolta le lezioni e le discussioni dei maggiori maestri, dallo scolarca dell'Accademia Egesino di Pergamo a Diogene di Babilonia, scolarca del Portico (Cicerone, “Lucullus”, VI, 16; XXX, 98). Studioso e lettore attento di scritti filosofici di ogni provenienza, dice Cicerone che Carneade conosce a fondo ogni parte della filosofia: Va"o, XII, 46, - ottimo parlatore e sottile dialettico, sembra che per queste sue doti e scelto da Egesino a succedergli nello scolarcato dell'Accademia. Che Carneade, come Arcesilao, non scrive snulla, indica chiaramente una netta presa di posizione e l'assunzione della filosofia come sempre attenta e aperta consapevolezza critica. Di qui, non tanto un atteggiamento polemico nei confronti dello stoicismo, quanto un continuo richiamo alle ingiustificate evasioni dai limiti delle possibilità umane verso cui lo stoicismo veniva scivolando. Non a caso, anzi, tutta la discussione di Carneade si svolge al di dentro della stessa logica dello stoicismo. Carneade non oppone allo stoicismo altra concezione, sia pur rovesciata, ché sempre si sarebbe trattato di una " filosofia," ma egli, riconoscendo con lo stoicismo, o meglio con Crisippo, che i fondamenti del discorso umano sono da un lato i dati dell'impressione sensibile e dall'altro lato l'attività del soggetto che ordina e unisce in nessi e implicazioni quei dati stessi, proprio per questo, non po- tendo la ragione umana uscire da se stessa e dal proprio discorso, sottolinea l'illeceità del passaggio dal discorso umano ad un presunto discorso della realtà. E, soprattutto, usando il metodo delle anti- Carneade visse fino al 129 circa. Vecchio e ammalato, lascia la direzione dell'Accademia, che passa al discepolo Carneade di Polemarco che prem.ori al maesto (131). Lo scolarcato dell'Accademia e quindi tenuto da Cratete di Tarso, al quale succede Clitomaco di Cartagine. Carneade non lascia scritti. Su di lui e sul suo modo di pensare scrive Clitomaco, che, probabilmente, fu la maggior fonte di Cicerone. Per utilità ricordiamo che dopo Platone scolarchi dell'Accademia furono: Speusippo, Senocrate, Polemone, Cratete di Atene, Arcesilao, Lacide, Tclecle, Evandro, Egesino di Pergamo, Carneade. Di Diogene di Babilonia e di Critolao, che accompagnarono Carneade a Roma, sappiamo molto poco. Diogene di Babilonia, discepolo di Crisippo, succede nello scolarcato della Stoà a Zenone di Tarso. Soprattutto Diogene di Babilonia si occupa di dialettica e di retorica. Fu il quarto scolarca della Stoà dopo Zenone: Cleante, Crisippo, Zenone di Tarso, Diogene di Babilonia. Pochi i frammenti di Critolao, nativo di Faselide, nella Licia, e scarse le notizie su di lui. Succede nello scolarcato del Liceo ad Aristone di Ceo che scrive una “Storia del Peripato”, in cui sono inseriti i testamenti degli scolarchi suoi predecessori. Critolao fu il quinto scolarca del Liceo, dopo Aristotele: Teofrasto, Stratone di Lampsaco, Licone di Troade, Aristone di Ceo, Critoli10. A Critalao successe Diodoro di Tiro. 274    logie, egli tende a chiarire l'impossibilità di affidarsi a una qual- siasi dottrina che presuma d'essere l'unica vera o la possibilità che una dottrina abbia di dimostrarsi vera razionalmente. Di qui, di contro ad ogni tipo di teologia o di dimostrazione dell'esistenza degli dèi o del divino, l'appello di Carneade a rendersi conto dei propri limiti e delle proprie possibilità è, si, da un lato, la dichiarazione di morte di un certo tipo di filosofia, ma dall'altro lato è anche il piu alto riconoscimento della serietà dell'indagine che, negando alla filosofia la sua presunta funzione di scienza delle scienze, dà alla filosofia la funzione di determinare volta per volta il limite e la validità di que- sta o di quella ricerca, la consapevolezza dell'umana responsabilità, della responsabilità del pensiero. Carneade, certo, non si spiega senza Crisippo (soprattutto per ciò che riguarda i limiti della logica e della dialettica), senza la tesi stoica del fato e della Legge, e senza i conseguenti problemi sulla pos- sibilità o meno della libertà e della umana capacità di azione. Sotto questo aspetto, l'appello di Carneade alla consapevolezza critica, alla responsabilità del pensiero, al significato e alla funzione che ha il filosofare, non è un vuoto appello, ma una concretissima presa di posizione, nei confronti di tesi che finivano per alienare- l'uomo, in una situazione storica particolarmente favorevole a simili evasioni ed evi- tate responsabilità in astratte pacificazioni. Cosi, accanto alla discus- sione svolta da Carneade nei confronti della fantasia catalettica, della veracità o meno dell'impressione sensibile, della dialettica come capacità di discernere i ragionamenti veri dai falsi, dell'assenso, della ne- cessità della epoché (discussione, del resto, anche se piu approfondita, molto simile a quella svolta da Arcesilao), sembra di non poco conto ricordare la precisa problematica posta da Carneade nei confronti del- l'impossibilità di porre da un lato una realtà fatalmente ordinantesi in nessi, ove tutto è là dove dev'essere necessariamente, momento del necessario realizzarsi di una legge universale, e, dall'altro lato, l'uomo avente la capacità di volere, per cui almeno alcune cose sono in suo potere. Carneade, ed è naturale, non si decide né per l'una né per l'altra tesi. Ciò ch'egli vuole è giungere a porre l'inconciliabilità tra libertà e necessità, tra possibilità umana di costruire il proprio mondo e d'esserne responsabile, e la visione di un tutto ove Dio è legge. Ma nel sottolineare tale aporia, Carneade portava ad estrema conseguenza ed a consapevolezza quella ch'era stata la problematica propria di gran parte del pensiero greco. E qui pensiamo particolarmente ad Aristotele nel quale si vede bene il conflitto tra un tutto che sillogisticamente si scandisce e la volontà come capacità di realizzare in armonia dei fini che dipendono dall'attività propria dell'uomo e alla soluzione di una parte almeno della scuola aristotelica, che svincolando il filosofare dalla ricerca delle cause prime e dei fini ultimi, aveva posto la funzione del filosofare nell'indagine delle condizioni che permettono la costruzione delle singole scienze, o, per altra via, del come è che si pensa, del come è che si parla. Ma pensiamo anche ad Epicuro, alla sua polemica contro l'astrologia e la dialettica di Platone, con- tro il sillogismo di Aristotele, contro la matematicizza:z;ione dell'universo. Ed infine pensiamo agli stessi Stoici, in particolar modo a Zenone e a Crisippo, e cioè ai loro sillogismi ipotetici, alla loro logica proposizionale, che, invece di un esito religioso-teologico - non va dimenticato che gran parte degli stoici provenivano da zone orientali, particolarmente semitiche, ove giovani si erano formati - poteva aver quell'esito, che, in effetto, ebbe proprio in Carneade. Posto cioè che ogni discorso si costituisce di implicazioni dovute al ricordo di impressioni ricevute, ognuna delle quali non è, presa in sé, né falsa né vera (non abbiamo alcun criterio per poter affermare che l'impressione vera è quella che corrisponde all'oggetto impressionante, perché dovremmo già prima conoscere l'oggetto), e posta quindi l'ipoteticità del discorso, si deve avere il coraggio di mostrare che proprio perché ogni discorso è ipotetico, per cui l'uno si può opporre all'altro (antilogia), ogni di- scorso è valido sul piano umano, e la sua stessa verità - la coerenza o meno delle implicazioni - può cangiare, se diverse sono le impres- sioni e i relativi ricordi, per cui la stessa dialettica, intesa come scienza che dovrebbe distinguere il vero dal falso nei discorsi, non ha alcun criterio assoluto e quindi è vana, sf come vano sul piano ontologico si rivela il criterio dell'analogia con cui gli Stoici hanno costruito la loro cosmologia, la loro concezione del divino, della Provvidenza, con cui provano l'esistenza di Dio, e pongono la tesi del diritto naturale. Co- struzione umana, gli umani discorsi e le umane verità, le une e gli altri validi entro i termini della mobile storia degli uomini e delle loro esperienze, la stessa giustizia è storica e non naturale. Gli uomini sancirono il diritto per proprio utile, dal momento che spesso esso venne cangiato a seconda dei costumi e, nell'ambito di una medesima società, a seconda dei tempi: non esiste pertanto alcun diritto naturale; tutti, uomini ed esseri viventi, sono portati all'utile proprio, sotto la guida della propria natura; di conseguenza o non esiste affatto la giu- stizia o, se esiste in qualche modo, è il colmo della stoltezza, perché in servizio del vantaggio a ltrui nuocerebbe a se stessa (Lattanzio, Div. inst., V, 276    16, 2-3). C'è, dunque, un diritto civile, non un diritto naturale (Cicerone, Rep., III, 7 sgg.). Distinta la giustizia in due parti, chiamando l'una sociale e l'altra naturale, Carneade le capovolge ambedue, dal momento che la prima è civile saggezza, ma non vera giustizia, e la seconda è 1..erto naturale giustizia, ma non saggezza (Cicerone, Rep., III, 20, 31). Il che, ancora una volta, non significa affatto negare la giusuz1a o opporre alla tesi stoica un altro concetto di giustizia, ma dimostrare l'impossibilità di cogliere la giustizia in sé, di cogliere, di là dall'umano discorso e dalle situazioni umane, la ragion d'essere del tutto, la legge come recta ratio su cui tutto si fonda. Carneade, testimonia Cicerone, confutò la giust1z1a, non già perché pensasse che essa dovesse essere ingiuriata, ma per dimostrare che i suoi difensori discutevano intorno alla giustizia, senza avere alcun fondamento certo e solido (Rep., III, 7, 11). Lo stesso potremmo ripetere per ciò che riguarda gli dèi, la cosmologia, la provvidenza, la divinazione (artificiale e naturale) e cosi via, tutte tesi stoiche, che Carneade discute senza uscire fuori dalle stesse argomentazioni stoiche, dimostrandone la contraddittorietà sia ricorrendo alle antilogie sia ai vecchi sofismi megarici, come i soriti, sia all"' ironia" socratica (si cfr., anche per ciò che sopra è stato esposto, Cicerone, Lucullus; De natura deorum, III; De divinatione, II; De fato, VII, XIV; De finibus, II, 35-41; Sesto Empirico, Adv. math., IX e VII passim). D'altra parte, infine, poiché, almeno in Crisippo, la dimostrazione del tutto e di quelle che sono le leggi del tutto è tratta per analogia dal mondo con cui si costituisce il discorso, per cui di implicazione in implicazione si giunge a porre la condizione prima nel principio attivo e in quello passivo, lo stesso tutto e la sua ragion d'essere e concate- nazione fatale sono, alla fine, un possibile discorso ipotetico, che viene accettato o respinto per opzione. Sembra chiaro, allora, come di qui Carneade potesse trarre che, dunque, l'esito non· contraddittorio della logica stoica doveva essere non la certezza in un sapere assoluto, che accantona ogni altra opinione, ma il ripiegamento sul probabile o cre- dibile (7tr.&«vov- pithan6n ). Molto si è discusso sul significato che ha in Carneade la tesi del credibile. " È invalso l'uso," scrive il Dal Pra (Grande Antologia filosofica, Milano, l, pp. 515-16}, di considerare del tutto a parte la dottrina carneadiana del pithan6n, che darebbe fondamenmente si scandisce e la volontà come capacità di realizzare in armonia dei fini che dipendono dall'attività propria dell'uomo e alla soluzione di una parte almeno della scuola aristotelica, che svincolando il filosofare dalla ricerca delle cause prime e dei fini ultimi, aveva posto la funzione del filosofare nell'indagine delle condizioni che permettono la costruzione delle singole scienze, o, per altra via, del come è che si pensa, del come è che si parla. Ma pensiamo anche ad Epicuro, alla sua polemica contro l'astrologia e la dialettica di Platone, con- tro il sillogismo di Aristotele, contro la matematicizzaione dell'universo. Ed infine pensiamo agli stessi stoici, in particolar modo a Zenone e a Crisippo, e cioè ai loro sillogismi ipotetici, alla loro logica proposizionale, che, invece di un esito religioso-teologico - non va dimenticato che gran parte degli stoici provenivano da zone orientali, particolarmente semitiche, ove giovani si formano - poteva aver quell'esito, che, in effetto, ebbe proprio in Carneade. Posto cioè che ogni discorso si costituisce di IMPLICAZIONI dovute al ricordo di impressioni ricevute, ognuna delle quali non è, presa in sé1 né falsa né vera (non abbiamo alcun criterio per poter affermare che l'impressione vera è quella che corrisponde all'oggetto impressionante, perché dovremmo già prima conoscere l'oggetto), e posta quindi l'ipoteticità del discorso, si deve avere il coraggio di mostrare che proprio perché ogni discorso è ipotetico, per cui l'uno si può opporre all'altro (antilogia), ogni discorso è valido sul piano umano, e la sua stessa verità - la coerenza o meno delle implicazioni - può cangiare, se diverse sono le impressioni e i relativi ricordi, per cui la stessa DIALETTICA, intesa come scienza che dovrebbe distinguere il vero dal falso nel discorso o dialogo, non ha alcun criterio assoluto e quindi è vana, si come vano sul piano ontologico si rivela il criterio dell'analogia con cui gli stoici hanno costruito la loro cosmologia, la loro concezione del divino, della provvidenza, con cui provano l'esistenza di Dio, e pongono la tesi del diritto naturale. Cotruzione umana, le umani discorsi e l’umane verità, le une e gli altri validi entro i termini della mobile storia degli uomini e delle loro esperienze, la stessa giustizia è storica e non naturale. Gli uomini sancirono il diritto per proprio utile, dal momento che spesso esso venne cangiato a seconda dei costumi e, nell'ambito di una medesima società, a seconda dei tempi: non esiste pertanto alcun diritto naturale; tutti, uomini ed esseri viventi, sono portati all'utile proprio, sotto la guida della propria natura; di conseguenza o non esiste affatto la giu- stizia o, se esiste in qualche modo, è il colmo della stoltezza, perché in servizio del vantaggio altrui nuocerebbe a se stessa (Lattanzio, Div. inst., V, 276    16, 2-3). C'è, dunque, un diritto *civile*, non un diritto naturale (Cicerone, Rep., III, 7 sgg.). Distinta la giustizia in due parti, chiamando l'una sociale e l'altra naturale, Carneade le capovolge ambedue, dal momento che la prima è civile saggezza, ma non vera giustizia, e la seconda è terto naturale giustizia, ma non saggezza (Cicerone, Rep., III, 20, 31). Il che, ancora una volta, non significa affatto negare la giustiza o opporre alla tesi stoica un altro concetto di giustizia, ma dimostrare l'impossibilità di cogliere la giustizia in sé, di cogliere, di là dall'umano discorso e dalle situazioni umane, la ragion d'essere del tutto, la legge come “recta ratio” su cui tutto si fonda. Carneade, testimonia Cicerone, confuta la giustizia, non già perché pensasse che essa dovesse essere ingiuriata, ma per dimostrare che i suoi difensori discutevano intorno alla giustizia, senza avere alcun fondamento certo e solido (Rep., III, 7, 11). Lo stesso potremmo ripetere per ciò che riguarda gli dèi, la cosmologia, la provvidenza, la divinazione (artificiale e naturale) e cosi via, tutte tesi stoiche, che Carneade discute senza uscire fuori dalle stesse argomentazioni stoiche, dimostrandone la contraddittorietà sia ricorrendo alle anti-logie sia ai vecchi sofismi megarici, come i soriti, sia all'ironia socratica (si cfr., anche per ciò che sopra è stato esposto, Cicerone, Lucullus; De natura deorum, III; De divinatione, II; De fato, VII, XIV; De finibus, II, 35-41; Sesto Empirico, Adv. math., IX e VII passim). D'altra parte, infine, poiché, almeno in Crisippo, la dimostrazione del tutto e di quelle che sono le leggi del tutto è tratta per analogia dal mondo con cui si costituisce il discorso, per cui di implicazione in implicazione si giunge a porre la condizione prima nel principio attivo e in quello passivo, lo stesso tutto e la sua ragion d'essere e concatenazione fatale sono, alla fine, un possibile discorso ipotetico, che viene accettato o respinto per opzione. Sembra chiaro, allora, come di qui Carneade potesse trarre che, dunque, l'esito non-contraddittorio della logica stoica doveva essere non la certezza in un sapere assoluto, che accantona ogni altra opinione, ma il ripiegamento sul probabile o credibile (7tt&otv6v- pithanon). Molto si è discusso sul significato che ha in Carneade la tesi del credibile. "È invalso l'uso," scrive il Dal Pra (Grande Antologia filosofica, Milano, l, pp. 515-16) di considerare del tutto a parte la dottrina carneadiana del pithanon, che darebbe fondamento al suo probabilismo, come anche di considerare il probabilismo del tutto a parte rispetto allo scetticismo vero e proprio. Per contro, un attento esame della questione porta a concludere che, anche a proposito del problema dell'azione e del motivo della probabilità, Carneade non ha fatto che attenersi al classico metodo della ritorsione polemica nei confronti dello stoicismo. Crisippo sostenne che il probabile conduce all'assenso, ma non certo all'assenso della rappresentazione comprensiva; mentre tale assenso infatti è criterio di verità, la probabilità è causa permanente di errore. Ci si potrà difendere da esso percorrendo interamente ogni enunciazione, evitando che il conflitto delle ragioni in pro ed in contro ci distolga dalla rappresentazione comprensiva, evitando soprattutto che l'indebolimento dell'assenso ci porti a lasciarci sfuggire la rappresentazione comprensiva. Ebbene, Carneade risponde all'incirca nei termini seguenti. Il vostro criterio, o stoici, della rappresentazione comprensiva non è in fondo che un pithanon, ossia una di quelle probabilità che voi considerate come perenne fonte di errori. La vostra dialettica, che è tutta la vostra scienza, fondata sulla persuasione e sulla probabilità diviene una pura e semplice arte di persuadere, una retorica. La vostra pretesa di costituire, partendo dalla sensibilità, una scienza del vero e del falso, è vana; per l'azione è sufficiente la persuasione, come mostra lo stesso sapiente stoico; e la persuasione rende inutile la conoscenza compren- siva; la vostra teoria della conoscenza non ha dunque oggetto; pro- prio e solo alla persuasione voi siete costretti a ridurvi. Il pithanon è l'unico punto che vi resta di tutta la vostra filosofia." La rappresentazione ha due aspetti, uno relativo all'oggetto, l'altro al soggetto. Rispetto all'oggetto essa vera o falsa. Rispetto al soggetto appare vera o falsa: e quella che appare vera si chiama persuasiva, “pithane”. Ora, quella rappresentazione che appare vera, e in modo abbastanza chiaro, è per Carneade criterio di verità per la condotta della vita e l'acquisto della felicità. Talvolta accade anche che una tal rappresentazione sia falsa. Ma siccome questo capita di rado, si pu prestar fede a quella che per lo piu è vera, poiché noi non possiamo regolare giudizi e azioni che in conformità di ci che è il piu consueto (Sesto Empirico, Adv. math., VII, 166-173). Il criterio primo e comune secondo Carneade è dato dalla rappresentazione persuasiva. Ma poiché le rappresentazioni non sono mai isolate,.ma formano come una catena nella quale ciascuna è collegata con le altre, il secondo criterio sarà la rappresentazione persuasiva e insieme non contraddetta, “aperispastos”. Come alcuni medici comprendono chi ha davvero la febbre non da un solo SINTOMO, ma dal concorso di tutti, cosi l'accademico dal concorso delle rappresentazioni giudica la verità; e se nessuna delle rappresentazioni concomitanti la contraddica come falsa, dice che è vera quella che gli appare. Ma ancor piu della rappresentazione non contraddetta è persuasiva e perfetta generatrice di giudizio quella che aggiunga al non esser contraddetta anche l'esser esaminata in ogni parte ("diexodeuméne"), per esempio, per quel che riguarda il giudicante, il giudicato, il mezzo attraverso cui si giudica, la distanza e l'intervallo, il luogo, il tempo, la disposizione, l'attività, e cosi via. Nelle contingenze comuni, dice Carneade, usiamo per criterio la sola rappresentazione persuasiva. In quelle un po' importanti la non contraddetta; in quelle poi che influiscono sulla felicità, quella esamimta in ogni parte (Sesto Empirico, Adv. math., VII, 176 sgg.). Cicerone e Sesto sono le uniche fonti per avvicinarsi alla posizione di Carneade. Cicerone sembra attingesse - ma personalmente li rielabora, agli scritti di un discepolo di Carneade, Clitomaco di Cartagine, che fedelmente espose il pensiero del maestro. Ad ogni modo, comunque s'intenda o s'interpreti la tesi del pithanon, sia pur attraverso la ricostruzione che dell'atteggiamento di Carnede dà Cicerone e l'esposizione che del cosiddetto scetticismo di Carneade dà Sesto Empirico, ciò che chiaramente emerge è il continuo appello di Carneade a non uscire fuori dal proprio mondo umano, ad assumere di fronte ad ogni opinione o concezione, per venerata o venerabile che sia, una consapevolezza critica che, chiarendo le nostre idee, rende conto di ciò che siamo e di ciò che possiamo plausibilmente fare, in un accantonamento delle supreme verità, quali che siano, oggetto di fede, ma distruggitrici di quell'umano dovere che è il ragionare. Sotto questo profilo ed entro i termini delle discussioni antilogiche di Carneade, ci rendiamo conto dell'impressione che fa in Roma il suo celebre discorso sulla giustizia, in cui, dopo aver sostenuto il valore della giustizia con argomenti convincenti, con altrettanti convincenti argomenti ne dimostra l'assurdità. Ma ci rendiamo conto anche delle preoccupazioni di un CATONE di fronte a uomini come Carneade, e il suo darsi da fare, perché gli ambasciatori (Carneade accademico, Diogene di Babilonia stoico, Critolao peripatetico), inviati da Atene a ROMA per convincere il senato a ritirare il decreto con cui Atene e condannata a pagare una forte multa per aver saccheggiato Oropo, vennneno subito ricevuti e se ne andassero al piu presto. L'ambasceria di Carneade a ROMA è un episodio, ma è un episodio che è pure un SINTOMO e che, anche se con cautela, può indicare un termine bi-fronte: la conclusione di quella ch'ela problematica propria del pensiero greco, e l'inizio di tutta una problematica rispondente a situazioni diverse, a diverse richieste ed esigenze, nell'incontro tra due culture diverse di origini diverse, in un sempre maggiore allargamento anche a culture orientali, non piu filtrate solo dai greci, ma ritornanti al mondo greco attraverso Roma. Certo non fu all'indomani che tutto divenne diverso. Ma è sicuro che, già coi primi discepoli di Carneade (dei quali peraltro sappiamo pochissimo: Carneade di Polemarco, premorto al vecchio Carneade, che venne meno nel 129 erica, Cratete di Tarso, Clitomaco che fedelmente espose il pensiero del maestro), e particolarmente con Carmada e Metrodoro dai quali deriva Filone di Larissa, che fu a Roma e del quale Cicerone ascolta le lezioni, e Antioco di Ascalona, si puo determinare una problematica diversa, rispondente, appunto, a situazioni diverse e a diverse richieste. E cosi troviamo entro la scuola stoica modificazioni e compromessi che dettero luogo alla cosiddetta media stoa, indicativi anch'essi di situazioni diverse e di diversi controlli umani e politici, ove in nome dell'ordine e della razionalità del tutto, del diritto naturale e della legge universale, si puo riconoscere Roma la capitale del mondo, caput mundi), recuperando gia vecchie concezioni astrali e cosmologiche dei caldei, sia certi aspetti piu mistici e religiosi di Platone. Non solo, ma non è un caso che proprio in questi tempi, vi sia un rifiorire dell'epicureismo e si diffonda un epicureismo romano che già condannato dal senato romano, con l'espulsione degli epicurei Alceo e Filisco, per avere introdotto costumi licenziosi (Ateneo, XII, 547a), è indicativo di una opposizione nuova, di un appello alla plebe, fino all'esplosivo canto di LUCREZIO, il quale vide in Epicuro piu che una dottrina un'arma politica e culturale. Né certo possiamo comprendere LUCREZIO e l'epicureismo romano se non si tengono presenti proprio quelle situazioni di cui parlavamo, e senza di cui è difficile rendersi conto del delinearsi di una nuova civiltà, frutto di un incontro, di uno scontro e di un dialogo, diversi da quelli da cui si genera il complesso delle componenti della cultura greca: la quale, a sua volta, offri i suoi elaborati strumenti, ma in una modificazione dei suoi contenuti. Roma si assicura il dominio dell'Egeo, colla pace di Apamea conquista l'Asia Minore fino al Tauro, con la battaglia di Pidna, la Macedonia edefinitivamente sconfitta, e, con la seconda battaglia di Pidna, divenne PROVINCIA ROMANA. A causa di un'ultima rivolta della lega greca, Roma, dopo avere distrutto Corinto, rese tributarie tutte le città greche, trann~ Atene e Sparta. Il poeta Antipatro di Sidone cosi canta la distruzione di Corinto. Dov'è, dorica Corinto, la tua ammirata bellezza, dove le tue corone di torri e le ricchezze antiche? Dove i templi degli immortali e le case? Dove le spose sisifee e le miriadi di folla? Nessun VESTIGIO è rimasto, infelice, di te. Tutto ha rapito, tutto ha divorato la guerra. Noi sole, le alcioni, immortali Nereidi oceanine. Restiamo a testimoniare il tuo dolore (Ant. Pal., VII, 87). Sono versi come tanti ve ne potevano essere, si come tante erano state le guerre e le distruzioni durante la lunga e tormentata storia della Grecia, ma sono versi che possono avere, ora, un loro significato simbolico, come significativo è il fatto che Antipatro di Sidone fu il primo poeta greco volontariamente anda a Roma. Cosi altrettanto indicativa è la vicenda di Polibio, che, nemico di Roma, difensore della Macedonia, e, dopo la battaglia di Pidna tra i mille ostaggi inviati a Roma da Emilio Paolo. A Roma entra in dimestichezza con Scipione Emiliano e col suo circolo, descrivendo, infine, la grandezza di Roma, con chiara consapevolezza che tutto un mondo culturale e civile s'era compiuto e che, con Roma, altro si richiedeva, altre sono le esigenze, altra divenne la cultura. Oso avanzare l'ipotesi che quanto il resto dell'umanità [i greci] deride è il fondamento della grandezza romana, cioè la superstizione. Questo elemento è stato introdotto in ogni aspetto della loro vita pubblica e privata con ogni artificio per impressionare l'immaginazione a un grado tale, che non se ne potrebbe concepire uno piu alto. Molti probabilmente si stupiranno nell'apprendere ciò; la mia opinione è che ciò fu fatto per impressionare le masse. Se fosse possibile fondare uno Stato in cui tutti i citta- dini fossero filosofi, potremmo forse far a meno di questo genere di cose; ma in ogni Stato le masse sono instabili, piene di desideri illeciti, di violente passioni. Tutto quel che si può fare è quindi tenerle a freno col timore dell'invisibile e con altri inganni di tal genere. Non a caso, ma a ragion.veduta, gli antichi insi.nuavano nelle masse idee sugli dèi e pensieri su~la v1ta. ultrate~re~a. La folha. ~ la.incapacità sono nostre [dei greci] poi- che cerchtamo dt dtsperdere tah liluswni (VI, 56). E non è, forse, senza interesse ricordare che proprio IL CIRCOLO DEGLI SCIPIONI ha accolto ostilmente la celebre opera (Scritto sacro) di Evemero di Messana (vissuto tra il 340 e il 260 a. C.), in cui Evemero, rifacendosi a certe tesi sofistìche sull'origine storica della nascita degli dèi, sosteneva che gli dèi non sòno altro che uomini celebri e famosi in vita, che, per i loro meriti verso il genere umano, furono divinizzati dopo la morte.compimento del pensiero greco e Roma. La cultura e tradizioni greche a Roma sono forti. Chi si ponga a studiare la situazione culturale tra l'ambasceria dei tre filosofi a Roma e la morte di Cicerone, si trova di fronte a un insieme di questioni assai complesse e difficilmente districabili, che certo non si possono risolvere con quella specie di categoria che è divenuto il termine “eclettismo”, per la prima volta usato da Diogene Laerzio (Proem., 21) nei confronti di Potamone di Alessandria, ma ripreso dal Brucker (Historia critica philosophiae, Il, Lipsia, p. 193) e da allora adottato da tutta la storiografia filosofica per indicare l'indirizzo proprio del secolo di cui Cicerone sarebbe il maggior rappresentante. Si è cosi parlato di “eclettismo” per lo stoico Boeto di Sidone, per gli stoici Panezio e Posidonio, per Mnesarco, successo nello scolarcato della Stoà a Panezio; per gli accademici Filone di Larissa e Antioco di Ascalona, successi nello scolarcato dell'Accademia a Clitomaco, per l'aristotelico Andronico di Rodi. Al di fuori dell'”eclettismo” e, invece, rimasta la corrente epicurea con Zenone di Sidone, Fedro, Filodemo, Patrone, culminante in Roma con Tito LUCREZIO Caro, mentre con Enesidemo si avrebbe un ritorno all'originario scetticismo di Pirrone e di Timone. La prima difficoltà oggettiva è la mancanza di testi e di una documentazione precisa che permettano una ricostruzione storicamente esatta di singole posizioni, soprattutto per Boeto di Sidone, per Panezio e Posidonio, che pur ebbero un'influenza grandissima, per Filone è Antioco di Ascalona, con i quali sembra che l'insegnamento dell'Accademia abbia assunto un diverso significato rispetto a quello di Carneade. Ciò che sappiamo di loro, lo dobbiamo soprattutto Cicerone, o, meglio, alla rielaborazione che Cicerone nel corso della sua meditazione e nella sua precisazione del significato della retorica per la costituzione di una vita associata (entro i termini de! mondo romano, della sua cultura e della sua storia, in un momento drammatico per la salvezza della repubblica) ha operato di quei dibattiti, di quegli atteggiamenti fluidi e duttili, a loro volta influenzati dalle nuove richieste, dai nuovi problemi impostati dalla tradizione e dalle esigenze di Roma, da una Roma che da “città-stato”, avente una sua cultura ed una sua formazione, si veniva trasformando in “impero”, in mezzo a lotte e a dolori, a guerre, a cozzi di partiti, nell'incontro con altre e diverse concezioni e culture. D'altra parte, una seconda difficoltà sta nell'impossibilità di accertare con esattezza l'esistenza di UNA LINEA ORIGINARIA E ORIGINALE DELLA TRADIZIONE ROMANA, prima dell'incontro piu vasto con il mondo greco ed il mondo orientale, a parte le sicure reciproche influenze dovute a quel ponte di passaggio che furono Cuma e L’ETRURIA prima, TARANTO, la MAGNA GRECIA – Crotone, Velia --; la SICILIA poi. A tal proposito Cicerone è piuttosto preciso nel dichiarare l'imprecisione e la fluidità della cosiddetta corrente pitagorica romana, che avrebbe costituito lo sfondo e il tessuto della cultura di Roma fino al tempo della conquista della Grecia. Cicerone stesso in quel pitagorismo piu che una determinata concezione, piu che una filosofia, vede una tradizione, un modo di vita, o meglio una visione di un ordine trascendente e teleologicamente determinato su cui si vengono armonicamente scandendo le leggi della città e un tipo di éthos, in una struttura di stato ARISTOCRATICO e contadino-MIITARE, dove trovano posto esigenze religiose estremamente semplici e povere e pratiche terapeutico-cultuali, che se da un lato, trasmesse dalla Magna Grecia – Crotone, Velia --, potevano andare sotto il nome generico di "pitagorismo," dall'altro lato s'incontravano con la situazione ARISTOCRATICO-contadina del popolo di Roma. Per molti rispetti - scrive Cicerone - sono un ammiratore dell'ingegno e della virtu dei nostri connazionali, ma soprattutto per quegli studi a cui si dedicarono molto tardi, trasferendoli dalla Grecia nella nostra città. È vero che fin dalle prime origini di Roma, durante il periodo regio, gli ordinamenti, e in parte anche le leggi, regolarono a perfezione gli auspici, le cerimonie religiose, le assemblee popolari, gli appelli al popolo. Il consesso dei senatori, la ripartizione dei cavalieri e dei fanti e tutta l'organizzazione militare. Però, quando lo stato lazio o romano e liberato dal regime monarchico, si verifica un progresso meraviglioso e uno slancio incredibile verso ogni specie di primato. Non è certo questo il luogo per parlare dei costumi e degli ordinamenti dei nostri ante-nati né della costituzione e del governo dello stato lazio o stato romano. Esaminando in questa sede le attività culturali e filosofiche, molti fatti mi fan credere che esse pure siano state desunte dal di fuori e siano state non solo ricercate, ma anche mantenute e coltivate. I nostri ante-nati avevano infatti quasi sotto gli occhi un uomo di straordinaria sapienza e rinomanza, Pitagora, che visse in Italia al tempo in cui libera la patria Lucio BRUTO. Poiché la dottrina di Pitagora ebbe larga diffusione, a mio parere penetra anche nella nostra città, e questa congettura non è soltanto probabile, ma è anche confermata da alcuni INDIZI. Infatti le grandi e potenti città dell'Italia meridionale – Crotone, Taranto, Velia --, che appunto fu chiamata Magna Grecia, sono al culmine del loro splendore ed ivi ha grande risonanza il nome di Pitagora prima, e piu dei “pitagorici”. Chi può pensare che i nostri connazionali siano stati sordi a quei richiami di alta dottrina? Anzi ritengo che per ammirazione verso i pitagorici anche IL RE NUMA che regna molto prima del tempo di Pitagora, e stimato dai posteri un pitagorico. Essi infatti conoscevano le teorie e le massime di Pitagora, e dai loro pro-genitori avevano avuto notizia della equità e della saggezza di quel re. Ma, facendo una confusione cronologica sull'età di quegli uomini, perché si perde nella lontananza del tempo, credeno che colui che primeggia per sapienza e un alunno di Pitagora. E questo basti per la congettura. Quanto agl'INDIZI sui Pitagorici, benché se ne possano raccogliere molii, ci limiteremo a pochi, perché non è questo l'argomento della presente discussione, Si dice che essi solevano esporre in poesia certi insegnamenti piu segreti e rilassare nella tranquillità le loro menti affaticate dalle meditazioni con il canto e la musica. E CATONE, scrittore autorevolissimo, dice nelle sue “Origini” che presso i nostri ante-nati vige nei banchetti l'usanza che i convitati l'uno dopo l'altro cantassero, accompagnandosi al flauto, le glorie e le virtu degli uomini illustri. Risulta da ciò evidente che a quel tempo esiste il canto applicato ai suoni musicali e la poesia. Per quanto anche le dodici tavole rivelano che già allora si coltivava la poesia. Una legge (tab. VIII) sance che non e lecita la diffamazione mediante la poesia. Un'altra prova della cultura di quei tempi è che i festini religiosi e i banchetti dei magistrati si svolgevano al suono della lira. E questa era appunto una caratteristica di quella scuola filosofica di cui sto parlando. Per mio conto anche il carme di APPIO CIECO, console, che Panezio loda vivamente in una lettera a Quinto Tuberone, di cui Scipione l'Emiliano era zio e L. Emilio Paolo il nonno, discepolo di Panezio, forte oratore avversario dei Gracchi,  è d'ispirazione pitagorica. Nelle nostre istituzioni vi sono ancora molti particolari che risalgono ai pitagorici. Ma li tralascio, affinché non appaia che abbiamo appreso da altri ciò che abbiamo fama di avere appreso da noi. Lo studio della sapienza, ovvero filosofia, è certamente antico presso di noi, però non riesco a trovare nomi da citare per il periodo anteriore a LELIO, detto sapiens, oratore, stoico, console, e SCIPIONE EMILIANO. Quando questi erano giovani, mi risulta che furono mandati dagl’Ateniesi come ambasciatori presso il senato lo stoico Diogene e l'accademico Carneade (Cicerone, Tusculanae disp., IV, 1-3). Sembra, questa, una pagina abbastanza indicativa. Dietro la leggendaria figura di Pitagora è chiaramente mostrata l'UNILATERITà della cultura romana. Non sappiamo fino a che punto vi sia qui un giuoco ciceroniano, volto da un lato a mostrare il quadro di una antica AUSTERITà romana, cui puo servire il topos della vita pitagorica, e dall'altro lato a dimostrare la necessità di una consapevole riflessione che serva da fondamento, in una piu ampia concezione, a certi modi di vita, senza di cui la stessa attività dell'oratore non è, in effetto, realmente e concretamente politica e che Cicerone riconosce dovuta alla complessa problematica della cultura, che, tuttavia, ha da innestarsi sul tronco delle nuove esigenze e dei problemi, che, politicamente, socialmente, economicamente, militarmente, si presentano a Roma. Cicerone, naturalmente, ha presente la situazione di Roma al suo tempo, e sarebbe ozioso ricordarne i conflitti e i cozzi di ideologie e di interessi di classe e personali, i tentativi economici, le resistenze, le aperture (dai conflitti dei Gracchi a Mario e Silla, a Cesare e Pompeo), in un mondo, senza dubbio, in gravissima crisi e in trasformazione. Ma Cicerone sa anche che l'uomo politico, l'oratore (e si badi che Cicerone nettamente distingue il retore, il tecnico dei discorsi, il professore o precettista di retorica, dall'atore, che pur deve conoscere quelle tecniche e quei manuali, com'è chiaramente dimostrato dal “De inventione”, un manuale di retorica, al “De Oratore”), non può concretamente agire, determinare una certa condotta piuttosto che un'altra, se non inserendosi nella situazione presente, se non avendo coscienza della propria responsabilità, che tuttavia scaturisce dal riflettere sulla struttura culturale del proprio tempo, e a cui si giunge rendendosi conto del come e del perché si è pervenuti a quella struttura stessa. Sotto questo profilo Cicerone è una fonte preziosa, soprattutto quando le sue opere vengano studiate in ordine cronologico e non in astratto, e si tenga conto delle varie situazioni storiche per ricostruire, piu che un insieme di sistemi, il complesso delle molteplici linee attraverso cui si venne determinando l'incontro tra il mondo orientale e il mondo romano, e la trasformazione dell'uno e dell'altro, nel giro di un secolo circa, in una nuova atmosfera culturale. Il pensiero di Cicerone è incomprensibile, quando non lo si veda scaturire da certe precise situazioni storiche, quando non se ne colga la genesi dal di dentro di ciascun'opera, da quelle piu strettamente retoriche e giuridiche a quelle in cui si tenta di delineare il significato del “vir bonus”, dell'orator che, mediante il suo sapere, la sua “virtus”, sa inserirsi in una certa società, duttilmente, sapendo usare le tecniche, avviando quella società a una certa ritenuta convenienza e a una certa ritenuta “honestas”. Si capisce perciò come Cicerone, pur puntando a un certo ideale di uomo e di società, si preoccupa dei mezzi pratici per realizzarlo, e si capisce altresl come esponga via via i piani diversi con cui si sono storicamente presentati i vari aspetti della retorica e i vari tipi di oratoria, diversi a seconda delle concezioni e dei caratteri, delle situazioni in cui si sono venuti a trovare gl’uomini politici. Di qui, ed entro questi termini, i vari tipi di oratoria esposti da Cicerone da quella di SULPICIO e di SCEVOLA, a quella di COTTA, di CRASSO e di MARC’ANTONIO, a quella dei GRACCHI e di ORTENSIO, di BRUTO - e i fondamenti filosofici che hanno mosso quegli oratori, cioè quegli uomini politici. Cosi, attraverso questo lavoro, Cicerone, dal “De inventione” al “De Oratore”, all'Orator, e cosi via, si è reso sempre meglio conto che la retorica ha da trasformarsi in ORATORIA, cioè in filosofia, nel senso che la verace persuasione si ottiene ben pensando (virtu), che è ben parlare (ELOQUENZA) istituendo misurato e onesto costume. L'oratore, perciò, deve possedere un complesso di cognizioni che vanno dalla psicologia allo studio dei caratteri, di ciò che ragionevolmente anche dell'ordine del tutto e della realtà e del divino può essere accettato (“consensus gentium”), donde, nel conflitto tra "filosofia" e "retorica," il significato dato da Cicerone alla psicagogia del Fedro platonico e alla retorica di Aristotele, e, ad un tempo, accanto alle ipotesi (discussione giuridica di casi particolari), alle tesi (discussione di problemi generali), e quindi a certi aspetti della virtu e delle concezioni degli stoici la cui casistica e discussione scolastica, offre larga mèsse per le tesi" -, ma anche alla duttilità discussiva di un Arcesilao o di un Carneade, determinando il pro e il contro di ogni concezione e tesi, in un abile inserirsi e modificare che nega ogni sistema chiuso, per cui, appunto, Cicerone verrà criticando e escludendo sia il fato sia la divinazione. Cicerone, in effetto, non è mai stato né un "brillante espositore di dottrine altrui," come si è detto, né un uomo che abbia cucito insieme dottrine talvolta anche in contrasto tra loro, se non in quanto con- trasto e conflitto furono propri dello stesso Cicerone. Pensi pure ciascuno come vuole: vi deve essere libertà di giudizio. Noi ci atterremo sempre ai nostri principi; ricercheremo cioè sempre in ogni questione quello che abbia maggiore carattere di probabilità, senza essere vincolati a regole di nessuna scuola, alle quali ubbidire di necessità. (Tusc. disp., IV, 4). Vi è piuttosto, in Cicerone, una sottile noia nei contronti delle dispute di scuola, l'esigenza di ricondurre sul piano di un concreto agire umano sia il ragionamento sia la problematica morale sia la problematica relativa all'ordine del tutto, nell'ideale di usare le tecniche retoriche e le tecniche dialettiche, o una o altra concezione etica o religiosa, al fine di persuadere a un certo modo di vita che sia salvazione della libertà romana, della concordia di Roma, lacerata nei conflitti. Tale consapevolezza porta Cicerone a sostenere ch'egli, pur facendo tesoro della cultura greca, pur usando le tecniche ricavate dai manuali greci di retorica, pur rifacendosi ai grandi oratori latini, pur usando concetti e motivi elaborati dai greci, cerca di dare una consapevolezza critica (filosofica) al popolo romano, una cultura, che anche nel linguaggio, non fosse piu né greca né meramente precettistica e scolastica. Magnifica e gloriosa cosa è per i Romani non avere piu bisogno del greco per la filosofia: che, per certo, adempirò, se porterò a fine l'opera iniziata (De divinatione; Il, 1). Stando cosi le cose, sembra estremamente difficile potere, attraverso Cicerone, ricostruire precise posizioni di pensatori precedenti (Panezio, Posidonio, Filone di Larissa, Antioco di Ascalona, e cosivia), ché, sempre, anche quando Cicerone cita direttamente, anche quando dice di avere in mano le opere di quegli autori, egli usa quelle fonti in funzione di un suo fine, in funzione del pro e del contro, delle tesi, in funzione di certe situazioni politiche e, nei confronti di quelle, della sua politica. Ciò che, invece, è possibile, attraverso Cicerone, attraverso la mediazione da lui attuata, da un lato è ricostruire un'abbastanza precisa atmosfera culturale, ed entro questa la stessa evoluzione ed originalità del pensiero ciceroniano, fino a cogliere il senso e il perché di una posizione che è l'indice della trasformazione di una problematica, ben diversa da quella delle fonti stesse di Cicerone; e, dall'altro lato, tenendo presente tutto questo, ricostruire certe linee e correnti, certe componenti e certi materiali, che hanno dato luogo alla composizione ciceroniana. Ora, attraverso Cicerone ed altre non molte fonti sicure, appaiono evidenti quattro punti fondamentali. La cultura greca penetra in Roma sotto forma di insegnamento scolastico impartito dagli schiavi e dai liberti greci, soprattutto per ciò che riguarda la retorica. Quella stessa retorica e con essa aspetti e concezioni propriamente recierano richiesti dai romani delle classi superiori, in quanto strumento per una formazione culturale che sirve alla vita politica. Anche i maestri piu noti e i capi- scuola di Atene, o di Rodi; che, per la sua relativa libertà, divenne notevole centro culturale, se da un lato assunsero sempre piu aspetto professorale, dall'altro lato entrarono in rapporto con personalità romane, furono a Roma, insegnarono a romani, furono consiglieri di uomini politici di Roma, viaggiarono in oriente e in occidente. Nessun romano, discepolo di piu di un tutore greco e attento a correnti diverse, e, filosofo di professione, o "saggio," ma uomo politico, uomo di governo, oratore, finché proprio in questo, in questo saper governare, consisterà per essi il "sapere," il filosofare, in un tutt'uno di otium e negotium, ove l'otium serve al negoiium e il negotium è illuminato e reso intelligente dall'otium; il che non ha ancora nulla a che fare con l'ideale della vita contemplativa, o con un rifugio nell'otium per liberarsi da un ingrato negotium, ma è l'approfondita consapevolezza dell'antica "pratica" romana, che si trasforma in "cultura," in "humanitas," attraverso l'influenza della meditazione greca. Altri e diversi diverranno i problemi e gli ideali di vita con l'avvento del principato e dell'Impero. Sembra ora non poco suggestivo riportare un testo del “De Oratore,” in cui Cicerone riferendosi ai tempi immediatamente posteriori alla conquista della Grecia, scrive: Allorché la durata della pace - avendo Roma stabilito il suo dominio su tutte le genti - assicura un certo otium, non vi fu giovinetto posseduto da un qualche amore di gloria, che non volgesse i suoi sguardi e i suoi sforzi all'arte del dire. Dapprima ignoravano tutto delle ragioni interne della retorica e neppure lontanamente pensavano che vi fosse un metodo o un qualche precetto dell'arte, si che pervenivano solo fin dove potevano giungere col talento naturale e la riflessione. Piu tardi, dopo che si ascoltarono gli oratori greci, si studiarono i loro modelli, si seguirono le lezioni dei tutori greci, e veramente con incredibile studio che i romani s'infiammano per l'eloquenza ("De Oratore", l, 4, 14). 

 

I romani delle classi aperte al governo si resero conto dell'efficacia che per la carriera ("cursus honorum") ha la retorica, e poiché incontrano presso i tutori greci e le scuole greche la piu ampia discussione e precisazione di quell'arte, si servirono dei tutori greci, trovando numeroso personale insegnante tra i molti. schiavi che procuravano le conquiste. Ciò era già avvenuto al tempo della conquista di Taranto, quando da Taranto e condotto come schiavo. a Roma Livio Andronico, che venne poi liberato dal padrone, al quale Andronico aveva educato i figli (Hieron., Chron., 187a). 

 

Andronico inizia l'insegnamento pubblico del greco.

 

Domi forisque insegna Andronico. -- Svetonio, Gram., 1, 1.

 

Ma con Andronico -- e questo interessa qui ricordare -- ha anche inizio, in Roma, sul calco della scuola d’Atene, l'insegnamento *secondario*. 

 

L'insegnamento primario, cioè l'insegnamento dello scrivere, risale molto piu indietro, probabilmente al periodo etrusco della Roma dei re, quando i latini adottarono l'alfabeto degl’etruschi e il metodo di insegnamento della scrittura, derivato agli etruschi dai greci (cfr. I. Marrou, Storia dell'èducazione nell'antichità, Roma, p. 333). 

 

L'insegnamento *secondario* latino appare molto piu tardi. 

 

Questo ritardo non deve meravigliare. 

 

In Atene, l’insegnamento *secondario* classico si basa sulla spiegazione prima di tutto su Omero. 

 

Come puo Roma conoscere l'equivalente d'un tale studio dal momento che non possede una letteratura NAZIONALE? 

 

Di qui il paradosso, che non è forse stato abbastanza messo in rilievo, che la poesia è precisamente creata per fornire una materia d'esegesi all'insegnamento, e certamente per rispondere all'esigenza del nazionalismo romano, che non sta soddisfatto di un'educazione in greco. 

 

Il primo poeta IN LINGUA LATINA, e anche il primo professore di epica IN LINGUA LATINA, è quello stesso Livio Andronico di TARANTO, segnalato come il primo in data dei tutori che insegnano in Roma. 

 

Andronico traduce nella LOQUELA DEL LAZIO o loquela lazia o la loquela dei lazini l'Odissea, servendosi del vecchio metro indigeno, il saturnio. 

 

Tale traduzione dell'aventure d'Ulisse e per Andronico un testo che egli spiega, prae-legehat, parallelamente ai classici piu antichi nella ‘loquela graii’  (Svet., Gram., 1, 1). 

 

Naturalmente non e questa traduzione dell'aventure d'Ulisse fatta da un greco l'unica fonte della poesia epica didascalia nella loquella dei lazii.

 

Ma per molto tempo -- termini -- conserva il carattere, per noi strano, d'essere intimamente vincolata alla necessità d'alimentare i programmi dell'insegnamento secondario. 

 

Dopo, Ennio, anch'egli mezzo greco, accanto ad autori greci, continua a spiegare i poemi promossi d'Andronico e egli stesso, fin dalla loro apparizione, al rango di classici (Marrou, cit., p. 334). 

 

Quando Roma conquista la Grecia, i romani delle classi superiori conosceno benissimo il greco e già lo usano come lingua diplomatica, per cui non hanno piu bisogno di traduzioni.

 

Tanto è vero che la retorica, l'oratoria, la filosofia, e la dialettica sono studiate e insegnate in greco. 

 

Ma il discorso, sul piano del contenuto, è lo stesso di quello fatto per l'insegnamento secondario. 

 

La retorica costitu1 l'aspetto fondamentale dell'insegnamento superiore.

 

Sirve ai romani, che hanno possibilità di fare carriera politica, come strumento di cultura, come esercizio e preparazione, si come per l'insegnamento secondario sirve la grammatica e l'esegesi dei testi poetici o epici.

 

E perciò essi si rifecero, indiscriminatamente, ai retori greci e ai manuali di retorica, indipendentemente dai possibili contenuti che pur erano dietro quelle tecniche.

 

Questo spiega come l'insegnamento della retorica si svolge mediante esercitazioni, mediante svolgimenti di discorsi fittizi, che toccano o le tecniche persuasive, ri-entranti nella deliberativa, o le tecniche proprie della controversia, ove si discute il pro e il contro di casi particolari in relazione a testi di legge romane, in modo astratto e precettistico. 

 

Ma questo spiega anche come il contenuto soprattutto delle questioni generali (''tesi"; anche se già si ri-trovano in Aristotele come luoghi comuni, e come "tesi" in Teofrasto, esse vennero poste in primo piano da Ermagora di Temno) si puo assumere, indifferentemente, a seconda della "tesi" messa in discussione, sia dalle questioni di etica impostate dagli stoici, sia dalla dialettica e dai pro e dai contra sottilmente posti dagl'accademici. 

 

L'entusiasmo che a Roma suscita Carneade presso la classe colta, col suo doppio discorso sulla giustizia ri-entra in questo quadro, si come l'adesione che in quella stessa occasione ottenne, da parte di molti, lo stoico Diogene di Babilonia, maestro di dialettica. 

 

Lo studio della retorica, dunque, non presenta soltanto l'insegnamento di una precettistica, ma implica un piu vasto sapere: discussioni sulla dialettica e sulle fonti del sapere, su problemi morali, giuridici, di psicologia, e, quindi, alla fine, discussioni su una o su altra concezione del tutto, ove il materiale puo essere assunto dalle piu diverse tesi, offerte dalle filosofie e usato, poi, a seconda dell'una o dell'altra causa politica o giuridica, deliberativa o relativa a controversie. 

 

Proprio questa neutralità della retorica, nei confronti dei possibili contenuti, nel senso della prima sofistica, dove preoccupare i conservatori romani. 

 

Polibio (XXXI, 24) testimonia che e in Roma grandissimo numero di tutori. 

 

Di questo tempo è il Senato consulto che proibisce la residenza in Roma ai retori e ai filosofi elleni.

 

Si capisce cosi come, per politica, un conservatore DELLA RAZZA DEL CELEBRE CATONE il Censore si preoccupa dell'uso in Roma delle tecniche retoriche e dèlle dispute delle scuole filosofiche.

 

Nato nella Sabina, a Tuscolo, Marco Porcio Catone, e di una famiglia nobile.

 

In effetto Catone, piu che della elaborazione della cultura, si preoccupa dei Greci che Catone considera dei “degenerati”. 

 

Catone scrive nei celebri “Praecepta ad filium” avere notizia della filosofia greca, ma non studiarle a fondo. 

 

RAZZA CATTIVISSIMA e indocile ("nequissimum et indocile genus') è quella dei greci, e fa' conto che sia un profeta che ti dice questo. 

 

Se, quando che sia, codesta gente ci da la sua scienza, manda tutto in rovina.

 

E peggio ancora, se vedono qua i suoi medici. 

 

Congiurano di ammazzare con la loro medicina tutti i barbari.

 

E si faranno pagare per questo, affinché si abbia fiducia in loro e possano facilmente compiere l'opera di distruzione. 

 

Chiamano barbari anche noi, anzi avviliscono noi piu degli altri con il chiamarci Opici (in Plinio, Natur. hist., 29, 7). 

 

Ad ogni modo, lo stesso Catone il censore e grande oratore e si rese tanto conto della funzione politica della retorica, ch'egli, appunto, ne teme le possibili applicazioni. 

 

I conservatori romani paventano, ora, certi di agricoltori, legato alla sua terra, contadino rimase )><'r tutta la sua lunga vita. 

 

Vita parca, dura, laboriosa, dice Catone stesso, vissi sin da principio, coltivando il mio campo tra i dirupi della Sabina, dissodando, seminando le selci (p. 69, Maleovari). 

 

Gretto, duro, di pocbe idee ben fisse, contadino-soldato egli fu )><'r tutta la vih. 

 

Questore in Sardegna di Publio Scipione Africano, edile, pretore, console e comandante di eserciti, e censore e soprattutto il suo nome fu legato alla durezza della sua censura, tanto che fu detto, per distinguerlo da altri Catoni, Catone il Censore. 

 

Inviato a Cartagine, in qualità di ambasciatore, ne torna con la convinzione che gl'interessi di Roma esigessero la distruzione di Cartagine.

 

"Delenda Carthago" divenne il slogan di Catone il Censore. 

 

Plutarco riferisce un epigramma su Catone, che in due versi sintetizza la figura fisica e morale di Catone. 

 

Tutto denti, mordace, occhi verdi, rossigno è Catone

e Persèfone teme ancora d'accoglierlo nell'Ade. 

 

Se una specie di enciclopedia e il suo “Praecepta ad filium” (vi si trattava di medicina, di agricoltura, di retorica, di giurisprudenza e di arte militare), un vero e proprio trattato di arte agraria è il “De agricoltura."

 

Il "De agricoltura" di Catona e il primo *saggio* nella locuzione dei lazini giunto fino a noi.

 

Dalla classe degli agricoltori provengono gli uomini migliori e i piu valorosi soldati. 

 

Meno in balla di cattivi pensieri sono coloro che attendono al lavoro dei campi. 

 

Non altro che pochi frammenti possediamo della sua grande opera storica in 7 libri, le “Origines”:

 

I libro: storia di Roma sotto i re.

 

II e III libro: storia delle primitive città italiche.

 

IV e V libro: storia della prima e della seconda guerra punica.

 

VI e VII libro: storia degli avvenimenti posteriori.

 

Orazioni Catone scrive (ben quarantaquattro volte dove difendere se stesso) durante tutta la sua vita.

 

Delle 150 che Catone compose, di un'ottantina leggiamo oggi scarsi frammenti.

 

Celebri sono rimaste certe sue lapidarie sentenze. 

 

“Orator est, Marce fili, VIR BONUS DICENDI PERITUS” 

 

“Rem tene, verba sequentur" (dai Praecepta ad filium). 

 

Tutto cose, fatti, conti, come risulta dalle biografie antiche (Livio, 39, 40; Cornelio Nepote; Plutarco), la sua durezza, il suo talento, il suo buon senso da contadino, il suo utilitarismo, il suo ideale d'uomo forte, non ozioso, la sua stessa dirittura, creano la figura del ROMANO O LAZINO per eccellenza (a parte la sua ambizione, e il non troppo bello episodio del suo essersi dato all'usura) aspetti della cultura greca, si come i conservatori ateniesi dello stampo di un Aristofane e di un Senofonte, o del piu grande Platone, temettero la sofistica. 

 

Non a caso, anzi, Catone s'ispira piu volte a Senofonte e si senti vicino al Socrate, moralista e predicatore, presentato da Senofonte nei “Detti memorabilia” e nel “Convito”.

 

Il principio delle Origines di Catone, fr. 2, è una traduzione del principio del “Convito” di Senofonte.

 

Non solo, ma è interessante a tal proposito ricordare che le opere di Senofonte, che Cicerone testimonia essere sempre state in mano di Scipione Emiliano (in particolare i Memorabili e la Ciropedia) e lette da Catone (cfr. Tusc., Il, 26, 62; Ad Quint. frat., l, l, 23; Cato maior, 59, 79-81), fano parte della biblioteca dei re di Macedonia, messa insieme dallo stoico Perseo, discepolo di Zenone di Cizio, e che Paolo Emilio trasfere a Roma, come proprietà privata, in casa sua, e posta a disposizione dei propri figli e degli amici loro. 

 

Il Socrate senofonteo, filtrato attraverso testi stoici che formano il grosso della biblioteca dei re di Macedonia - non si scordi l'aneddoto secondo cui Zenone di Cizio si sarebbe convertito alla filosofia leggendo il Socrate di Senofonte e ritrovandone un esempio nel cinico Cratete -- apparve certo a Catone rispondente al suo ideale di vita, come anche risulta dalla biografia che di Catone compose Plutarco (cfr. F. Della Corte in Studi di fil. greca, Bari, pp. 314 sgg.). 

 

Ad ogni modo, accanto ai retori e ai maestri greci, cominciano a circolare a Roma i testi di pensiero, che offreno quel materiale e quei contenuti, quella necessaria cultura e che, a seconda della situazione politica, delle cause in questione, puo servire all'oratore. 

 

D'altra parte, per rendersi conto delle scelte, per cui di volta in volta puo essere assunti passi o tesi di Platone o di Aristotele, di Zenone o di Crisippo, e, piu tardi, di Panezio e di Posidonio, di Carmada e di Filone e di Antioco, o i loro modi di intendere Socrate o Platone o Aristotele, va tenuta presente la classe cui appartennero via via gli oratori e i politici ROMANI O LAZINI, da P. Cornelio Scipione Emiliano (l'Africano minore) ai Gracchi, a Pompeo, a Mario e Silla, a Cicerone. 

 

Non va, intanto, scordato che si comincia a circolare la grande sistemazione della retorica dovuta a Ermagora di Temno. 

 

Il manuale di Ermagora duo essere, per quel che ne sappiamo, una specie di summa e di ordinamento dei vari aspetti in cui si era discusso il problema della retorica dai sofisti agli stoici, dai quali ultimi deriva Ermagora stesso, in una teorizzazione della retorica. 

 

Ermagora, dopo avere insistito sulla distinzione tra ipotesi e tesi, dando particolar valore alla tui -- due sono i generi delle 'questioni'," scrive Cicerone. L'uno è il genus infinitum, l'altro il genus definitum. Definito è quello che i greci chiamano ipotesi, e noi nella loquela lazia, causa. Infinito quello ch'essi dicono tesi e noi possiamo chiamare proposito (Cic. Top., 21, 79), imposta la distinzione dei discorsi retorici sullo stato della causa. Ermagora divide a sua volta lo stato della causa in due grandi aspetti, l'aspetto razionale (yévot; Àoytx6v, genus rationale) e l'aspetto legale (yévot; VO(J.tx6v, genus legale) (cfr. in Hermagoras Fragmenta, ed. D. Matthes, Lipsia, i fragmm. 6-23). 

 

Ermagora cosi teorizza da un lato una retorica razionalistica e filosofica, dall'altro invece una retorica spiccatamente giuridica, una interpretatio iuris sorgente dalla stessa pratica giuridica. Da un lato, quindi, la retorica ermagorea mira al vero, dall'altro al GIUSTO: ai due massimi valori, cioè, della filosofia stessa, nella sua parte teoretica e nella sua parte morale (A. Plebe, Breve storia della retorica antica, Milàno, p. 114). Accanto alle altre conoscenze, offerte dai testi del pensiero greco, e dai maestri greci che venivano a Roma o alle cui scuole (Rodi, Atene) ci si recava, prese sempre piu piede l'esigenza di una sistemazione e razionalizzazione del DIRITTO, tanto che, anche per l'impulso dato da Cicerone, sorsero, accanto alle scuole di retorica, scuole vere e proprie di DIRITTO in cui insegnano magistri iuris, iuris periti. 

 

La conoscenza della legge romano e del complesso della legge romana, come insegna Ermagora di Temno, sirve non poco alla retorica ed all'azione politica. Materiale per tale sistemazione, soprattutto quando si pensi che il significato della legge romana giusta e universale e discusso e studiato in particolare da uomini che tendeno al potere politico e che per nascita e censo ne hanno la possibilità, e offerto dalle varie elaborazioni e approfondimenti che della Legge romana e del diritto romano hanno dato e davano gli Stoici, risalendo poi, attraverso essi, alle testimonianze di Platone, di Aristotele, di Dicearco. Quasi tutte le nozioni, scrive Cicerone, le cui parti sono riunite ora in corpi dottrinali, costituenti questa o quell'arte, un tempo erano disperse e non formano un insieme. 

 

Cosi, in musica, il ritmo, i toni, la melodia; in geometria, le linee, le figure, le dimensioni, le grandezze; in astronomia, le rivoluzioni del cielo, il sorgere e il tramontare, i movimenti degli astri; in grammatica, la spiegazione dei poeti, la conoscenza della storia, il significato delle parole, la pronuncia. 

 

Nella stessa retorica, l'invenzione, l'elocuzione, la disposizione, la memoria, l'azione. 

 

Il rapporto di questi elementi fra loro e ignoto. Sembra senza legami, disarticolati. Si è coscer- cato al di fuori, in un altro campo, di cui il filosofo si attribuisce l'intiera proprietà, un metodo che in qualche maniera cementa questi materiali sparsi e li costringesse a entrare in un sistema razionale. Poniamo dunque l'oggetto del diritto romano civile. 

 

Mantenere, sulla base della legge romana e dei costumi, il principio di giustizia che regola gli interessi dei cittadini nelle loro reciproche relazioni. Distinguemo, quindi, i generi, riducendoli a un certo numero, il piu piceolo possibile. 

 

Il genere è ciò che racchiude due specie o piu, simili tra loro per un carattere comune, ma separate per una differenza propria. Le specie consistono nelle suddivisioni che si raccolgono sotto il genere di cui sono formate. E tutto termino che serve a designare generi o specie, abbiamo cura di definirli con il loro esatto valore. La definizione, infatti, è una spiegazione breve e precisa dei caratteri che sono propri dell'oggetto che vogliamo definire. Si tratta, insomma, di ricondurre il complesso del diritto romano civile a un piccolissimo numero di generi, dividere poi ciascuno di questi generi in diversi membri o specie, far vedere infine, con una definizione, il valore proprio di ogni termine. Abbiamo cosi una teoria completa del diritto romano civile, ed una scienza stesa e feconda invece che difficile e oscura (“De Oratore”, I, 42, 187-190). Se cos{, per il yhoç ÀO')"x6v, il genere razionale, e per le "tesi" si cerca il materiale negli aspetti piu vari del pensiero e nei modi con cui esso puo essere usato - retoricamente si puo benissimo accostare tesi diverse, e, soprattutto, frasi diverse, sganciate dai loro contesti, - per il yhoç VOIL'x6v, il genere legale, il materiale e offerto, formalmente, dalla logica, dalla dialettica, e, per il contenuto, dal rapporto v6jLoç-Myoç, o meglio v6oç-v6jLot;, che impostato da Platone (cfr.. Leggi, 957c), puo essere interpretato secondo il "diritto naturale" approfondito da alcune posizioni stoiche. L'esegesi del diritto romano e della legge romana, l'esegesi delle tecniche retoriche, la loro funzionalità a seconda di certe situazioni ed esigenze politiche, implicano una piu vasta cultura, la richiesta di conoscenze e sistemazioni, come chiaramente si vede attraverso Cicerone, atte ad essere usate di volta in volta. 

 

Cicerone verrà a costituire come il nodo di questo processo, svoltosi dall'età di Scipione alla morte di Cesare, nel consapevole tentativo, egli homo novus, di conciliare l'oratoria usata dagl’ARISTOCRATICI con l'oratoria dei "populares" (o, meglio, di certi ARISTOCRATICI che mossero il popolo), mediante, appunto, una piu alta e vasta cultura, che e terreno comune, comune parentela, con cui determinare la persuasione alla pace, non solo entro il campo dell'aristocrazia, ma anche del popolo e tra aristocrazia e popolo. Naturalmente attraverso l'oratoria di un uomo capace di questo, attraverso un PRINCEPS fori, cioè sempre dall'alto. Di qui, per Cicerone, l'importanza ch'egli da all'insegnamento della retorica in la lingua degl’abitanti del Lazio, perché e possibile costituire nel mondo romano e del Lazio una consapevolezza critica (filosofia), che dove,  nell’ideale di Cicerone, determinare upa misura e un rapporto tra le classi, che fa davvero del mero stato romano una res publica. Tale prospettiva vede bene chi riperc'Qrra l'evoluzione dell'oratoria romana dei lazini nei suoi rapporti con la vita politica, da Scipione Emiliano ai Gracchi a Silla. 

 

Le tecniche retoriche sono assunte per presentare un certo tipo di politica e, quindi, persuadere a una certa concezione di vita che, in alcuni almeno, come nell'Emiliano, trova la sua espressione, il suo linguaggio, nello stesso modo di vita dell'uomo, creando un personaggio, un modello. E fu il modello aristocratico del “vir bonus,” del salvatore della patria, dell'uomo misurato, che si sacrifica per lo stato romano e la sua unità, e la cui eloquenza riflette, appunto, tale modo di vita. Si pensi a Scipione, a Lelio, a Marc’Antonio, a Crasso, a Rutilio Rufo, a Scevola pontefice, a Cotta. Oppure si tratta di muovere e commuovere il popolo vero e proprio, il popolo lazino, e allora altro è il tipo di eloquenza usata, altra la concezione cui si fa ricorso. Si pensi all'oratoria dei Gracchi, di Mario, di Sulpicio. Sotto questo aspetto, sembra chiaro perché Crasso, censore, abbia ~;mdannato e sciolto la scuola di retorica in la loquela dei lazini, creata da Plozio Gallo, su ispirazione di Mario. I rappresentanti del partito senatoriale e aristocratico, come ora Crasso, studiano a lungo la retorica e attraverso essa e per essa si e formata una vasta cultura, mediante cui tendeno a persuadere della propria concezione non solo la propria classe, bens(tutto IL POPOLO ROMANO o il popolo del LAZIO. Ma, pur dotti di greco e sostenitori della funzione che per l'oratoria ha la cultura greca, IN PUBBLICO OSTENTANO DISPREZZO per la cultura greca (cfr. Cicerone, “De Oratore”, Il, l, 4), consapevoli del pericolo che l'oratoria viene insegnata in la loquela del Lazio. Non è un caso che la fondazione di una scuola di retorica in la loquela del Lazio e ispirata da Mario, un "popolare," che Cicerone dice essere né eloquente né colto (Cic., Pro Fonteio, 19, 43). 

 

L'arte del ben dire, in quanto insegnata in quello ch’Ovidio chiama la ‘loquela graia’, accompagnata da lunghi studi, divenne patrimonio delle classi ricche e dell'aristocrazia. Plozio Gallo, attraverso la sua scuola, minaccia quel monopolio, dando le stesse armi piu che ai populares allo stesso popolo. S'irrisce qui la questione della “Retorica ad Erennio”. Questo saggio e un trattato di retorica in la loquela dei lazini, il primo giuntoci integrale. Alcuni recente, si l'hanno ritenuta di ispirazione ploziana (Marrou), rispecchiando un insegnamento di tipo molto moderno, nettamente opposto alla retorica classica delle scuole della loquela ‘graii’, anche se nutrito di questa, e specialmente di Ermagora, in cui si reagisce all'ingombro delle regole, alle astratte esercitazioni, per avvicinare l'insegnamento alla pratica e alla. vita mediante soggetti attinti dalla reale vita romana dei lazini (“exempla latina” – essempi dei lazini) e dibattiti agitanti la politica contemporanea (Marrou, Storia dell'educazione nell'antichità, I, p. 336). Il questore Cepione deve condannarsi per essersi opposto alla legge frumentaria del tribuno saturnino (Ret. ad Er., l, 21)? Si può assolvere l'uccisore del tribuno Sulpicio, ucciso per ordine di Silla (Ret. ad Er., l, 25)? 

 

Il Senato delibera, durante la guerra sociale, sulla questione di accordare il diritto di cittadinanza agli ITALICI chi non sono lazini (Ret. ad Er., III, 2). Morte tragica di Tiberio Gracco (Ret. ad Er., IV, 55). Naturalmente, non tutti i soggetti sono tratti da un'attualità cosi scottante. L’argomentazione non è sistematicamente orientata nel senso favorevole ai populares - un buon retore deve sapere parlare pro e contro. Tuttavia, non c'è dubbio che l'atmosfera generale della scuola risente della posizione politica del fondatore (Marrou, cit., p. 336). Altri (Michel, Rhétorique et Philosophie chez Cicéron, Parigi), invece, ritengono che non bastino le citazioni dei Gracchi, gli elogi dei populares, gli “exempla latina” – essempi dei lazini -- per accertare che la Retorica ad Erennio sia opera ispirata ai retori latini o lazini. Già Marc’Antonio, che, secondo Cicerone (De Oratore, I, 21, 94), compone un trattato di retorica, e favorevole agli “exempla latina” (cfr. Cicerone, De Oratore, Il, 24, 199 sgg.). Non sempre l'autore della Retorica ad Erennio mette in primo piano i populares. Se è vero che, anche senza nominarlo, elogia Mario, è altrettanto vero che tesse l'elogio di Silla (Ret ad Er., IV, 54, 68), spesso evoca la politica aristocratica e cita ed elogia la figura di Scipione Emiliano (Ret. ad Er., IV, 13, 19; 32, 43), non solo ma in certi casi, come nella lotta contro Saturnino, approva il consensus bonorum (Ret. ad Er., l, 12, 21), e non pochi sono, infine, gli esempi in la ‘loquela Graii’ (Ret. ad Er., l, 10, 17; 15, 25; 16, 26). 

 

Il Michel (p. 72) trae di qui la conclusione che l'autore della “Retorica ad Erennio” vuole stabilire una specie di equilibrio tra populares e OPTIMATES e ravvicinare i precetti dei retori greci alla storia politica di Roma. In effetto la “Retorica ad Erennio”, che chiaramente si ispira ad Aristotele, a Crisippo e ad Ermagora, è un trattato in cui si tenta, sull'esempio, appunto, di Ermagora, di presentare una summa dell'arte del dire, in una sistemazione dei vari aspetti della retorica in un tutt'uno coerente, facendo uso nelle esemplificazioni, non solo degl’esempi oratori greci, ma, SCRITTA DA UN ROMANO, nel LAZIO, PER romani, anche dei maggiori esempi dell'oratoria romana. Si vedono cosi, chiaramente, i due aspetti della Retorica ad Erennio. La teoria dell'arte del dire è ricavata dalle fonti greche, INDIPENDENTEMENTE dai contenuti filosofici ch'erano sottesi dietro quelle fonti. Essa consiste nella classificazione dei tre generi oratori aristotelici, giudiziario, dimostrativo, deliberativo. Nella divisione delle tecniche retoriche, di origine crisippea, in invenzione, elocuzione, disposizione, recitazione, cui è aggiunta, invece dell'argomentazione della causa, come in altri trattati stoici, la memoria, che, forse, risale a Zenone di Cizio. Nella divisione in sei parti del discorso: exordium, narratio, divisio, confutatio, confirmatio, CONCLUSIO. Per la casuistica e l'esemplificazione sono usate le fonti romane, cioè i tipi di orazione dei grandi oratori latini o lazini del lazio, tanto del grande Marc’Antonio, quanto dei Gracchi. 

 

Non va, d'altra parte, scordato che la Retorica ad Ermnio è il primo trattato romano di retorica, giuntoci integrale di cui, in realtà, le fonti romane ci sono ignote, se non siano ricostruite attraverso Cicerone, il quale nel suo tentativo fin dal “De inventione”, molto vicino alla Retorica ad Erennio, di dare una base meno precettistica e piu culturale-filosofica alla retorica, discutendo poi della funzione e della cultura necessaria all'orator, che deve svincolarsi dall'assumere unilateralmente una o altra precisa concezione, dall'accettare una o altra posizione, classifica e oppone tipi di retorica, cui corrispondeno tipi di concezioni. La Retorica ad Erennio è, da un lato, l'indice chiaro dell'esigenza, ormai maturatasi, da parte romana, dai lazini del Lazio di una sistemazione e di un ordinamento in un complesso dottrinario del sapere retorico, si come, sempre in funzione della retorica e del CON-VIVERE civile, si verrà poi sistemando e ordinando il sapere giuridico, e, dall'altro lato, è l'indice chiaro delle mutate condizioni politiche. L'oligarchia senatoriale nella quale si sviluppa l'ideale del “vir bonus” subisce la concorrenza delle altre classi. Nelle quaestiones uno spirito nuovo, piu democratico, penetra le istituzioni. I giudici sono tribuni, cavalieri. Di qui il nuovo aspetto politico e concreto dei problemi oratori. L’avvocato che perora per un magistrato dinanzi ai giudici cavalieri si trova a dover difendere un grande dinanzi a chi pretende d'essere del popolo. Rutilio Rufo, console, risponde alle accuse dei pubblicani. Il grande Crasso stesso, in un'arringa defensionale che scandalizza Marc’Antonio, si dichiara, lui senatore, schiavo del popolo (Cic., De Oratore, l, 52,. 226). L'eloquenza non è piu la nobile arte dei dibattiti aristocratici. t 10 strumento ambiguo di queste lotte in cui s'ignora sempre se l'oratore aduli il popolo o l'istruisca. 

 

Talvolta lo istruisce adulandolo (Michel, cit., p. 45). La retorica assume cosi una sempre piu larga funzione, oltrepassando i meri schemi precettistici, divenendo chiaro e necessario strumento politico, mediante cui inserirsi in una certa società per ordinaria a un certo fine, onde, appunto, il problema diviene il problema dei fini, dei termini entro cui è razionalmente valida l'azione umana socialmente e, entro questa, del fine proprio dell'uomo. S'innesta qui la problematica di Cicerone, homo novus, cavaliere, che sa benissimo come la sua carriera non la può dovere che alla propria cultura e all'abilità con cui usarla, in una con-temperanza dell'antico ideale del “vir bonus” senatoriale, il cui modello e la figura di Scipione l'Emiliano, dottrinariamente, forse, delineato da Panezio, con il raggiungimento di quell'ideale, indipendentemente dalla propria nobiltà di origine, attraverso la cultura e la propria "prudentia." Sotto questo aspetto, Cicerone non fu né un popolare né un aristocratico, ma un uomo di centro politicamente impegnato, sensibilissimo alle esigenze della classe nuova, in una moralizzazione della res-publica, di cui deve pur sempre rimanere guida il Senato. In Cicerone, cavaliere, uomo di cultura, avvocato e politico, hanno senza dubbio giuocato motivi diversi, concezioni e dottrine diverse, che, se prese nel loro insieme e nella loro coerenza, sono in contrasto l'una con l'altra, assumono tuttavia un significato, qualora vengano ricondotte entro i contesti ciceroniani. 

 

Cicerone non espone dottrine altrui, ma usa tesi e aspetti di dottrine, a seconda o della situazione politica per la quale parla, o della sua personale situazione, in mezzo ad avvenimenti mutevoli e talvolta drammatici, dando a filosofia non tanto il significato di una certa filosofia, quanto quello di consapevole riflessione su esperienze umane, riflessione che renda conto razionalmente, ragionevolmente (prudentia), di quelle stesse umane esperienze. L'uomo, poiché è dotato di ragione e per mezzo di essa vede la concatenazione dei fatti, le cause efficienti di questi e le cause occasionali, e ne conosce quasi i precedenti, confronta le cose simili e congiunge intimamente le cose future alle presenti, può facilmente vedere tutto il corso della vita e preparare le cose necessarie per viverla. E questo stesso istinto naturale, mediante la forza della ragione unisce l'uomo agli altri uomini, crea una corrispondenza che si manifesta nel linguaggio e nella socievolezza (Cic., De officiis, l, 4, 11-12). 

 

Cosi, sul piano della discussione, della dialettica, potevano servire gli’accademici, e sul piano della logica certe posizioni stoiche - si pensi all'uso fatto da Cicerone dei sillogismi ipotetici e dell'analogia e alcuni aspetti dell'analisi aristotelica per la formalità delle definizioni. Sul piano della condotta forense e politica, accanto a quelle tesi sia accademiche, sia aristoteliche, sia stoiche, puossono servire le tecniche retoriche elaborate da Aristotele, da Crisippo, da Ermagora. 

 

Sul piano piu strettamente umano, della possibile comunione umana, puo servire la delineazione di una humanitas il cui incontro è la comune ragione e la comune cultura, in un comune linguaggio, che sembra e l'aspetto piu saliente della tesi stoico-aristotelica di Panezio, in cui, certo, hanno giuocato il motivo della filosofia umana di Aristotele e il motivo accentuato della vita attiva di Dicearco; su di un piu alto piano politico si ricercava una legge romana universale, un diritto naturale che giustificasse un certo ordine sociale, una certa legalità romana, per cui potevano servire altre tesi stoiche. Ma, oltre a tutto questo, l'aspirazione umana ad una quiete ultra mondana, soprattutto dovuta a situazioni immediate e tristi della vita, poteva benissimo far usare a Cicerone tesi di Platone sull'immortalità dell'anima o alcuni aspetti del Protrettico e dell'Eudemo di Aristotele, accanto a una visione del divino la cui fonte può essere Cleante, insieme al topos della filosofia intesa come consolatio. 

 

Ora, se tagliamo via Cicerone e poche testimonianze posteriori, di cui alcune sono di derivazione ciceroniana, poco o nulla resta delle opere dei questi filosofi. Di qui, per le ragioni dette sopra, la difficoltà di ricostruire, attingendo a Cicerone, dottrine e posizioni compiute, storicamente esatte. 

 

Si pensi, ad esempio, al caso di Platone. Se le opere di Platone sono andate perdute e si dovesse ricostruire Platone mediante Cicerone, non avremmo certo Platone ma Cicerone stesso, che usa frasi e motivi di Platone. Lo stesso dobbiamo dire per gl’accademici da Clitomaco a Filone di Larissa ad Antioco d’Ascalona, gli ultimi due direttamente ascoltati da Cicerone e per gli stoici Boeto di Sidone, Antipatro, Panezio, Posidonio, anch'esso ascoltato da Cicerone, e per tutti gli altri cui si riferisce Cicerone. Non è, evidentemente, possibile ricostruire, ad esempio, la dottrina e una compiuta e sistematica filosofia di Panezio attraverso Cicerone, per poi, con un Panezio cosi ricostruito, spiegare Cicerone. Ciò che possiamo è, invece, renderei conto delle questioni suscitate in Cicerone, in funzione della sua problematica, dai pensatori greci da lui citati e discussi, i quali, a loro volta, hanno senza dubbio, almeno per ciò che ne sappiamo, risposto alle esigenze, ai problemi, alle richieste che provenivano da Roma, fin dal tempo di Carneade e di Polibio, in un complesso e Ìn un ampiamento di orizzonti, anche geografici, per cui se è vero che il mondo romano si grecizzò, è altrettanto vero che il cosiddetto mondo ellenico si romanizza, o meglio si venne determinando tutta una nuova e diversa atmosfera culturale, in cui anche certe parole, pur rimanendo le stesse, vennero ad assumere altro significato. Il celebre DOPPIO DISCORSO SULLA GIUSTIZIA, che Carneade tenne a Roma e ancora riportato e discusso da Cicerone. Con l'andar del tempo se n'era lorse ingrandita la fama e l'importanza, ma, certo, ciò sta a testimoniare che uno dei punti fondamentali della rifflessioni romana s'era venuto a imperniare sul motivo delle condizioni che rendono possibile l'umano rapporto. E per questo non vanno dimenticate da un lato la storia di Roma e delle sue conquiste e dall'altro lato la problematica che veniva a sorgere sulle condizioni e le capacità del potere. A parte l'aspetto dialettico del DOPPIO DISCORSO DI CARNEADE, la sua forza filosofica di rimettere sempre tutto in dubbio, ci.J che di quel discorso rimaneva piu crudo e scottante e, non solo la sottile negazione della dottrina stoica dello IUS NATURALE e la conclusione che la giustizia non va ricercata né in Dio né nella natura, intese come ordine e bene universale, ma l'esito di quel discorso stesso, per cui Carneade non negando l'esistenza della giustizia nel senso comune sottolinea che il giusto è sempre, soprattutto nei rapporti tra stato e stato, una forma di ‘ingiustizia’ nel senso comune della parola. Se Roma avesse voluto essere veramente giusta avrebbe dovuto restituire ciò che, con le sue conquiste, aveva tolto agli altri. Roma si è comportata prudentemente e utilmente, non con giustizia. In conclusione, dunque, non è possibile vivere giustamente, ché significherebbe ridursi ad un assoluta inazione. Se lo stoico vuoi vivere, cioè agire, deve negare il suo concetto di giustizia. Lo stesso va ripetuto per i romani. 

 

Quello di Carneade puo suonare come un richiamo, preciso e severo, nei confronti dei romani, alla lealtà, alla consapevolezza critica di ciò che si fa, un richiamo alla riflessione sulla verità della propria azione, e, nel caso specifico, all'azione dei romani, le cui conquiste e le cui forme di governo giuste dal punto di vista dell'utile romano e dell'utile di una certa classe dirigente vieni ammantate dell'orpello del concetto di giustizia. Se tutto ciò indigna Catone, particolarmente per la verità pericolosa ch'e implicita nel discorso di Carneade non va scordato che Polibio scrive che la grandezza romana sta nell'avere imposto un certo ordine e una certa legge giuocando sulla superstizione, tenendo a freno le masse mediante il timore dell'invisibile: Polibio, VI, 56, tutto questo impone, d'altra parte, una piu approfondita discussione e giustificazione. Carneade non condanna l'impero romano. Carneade mette solo in rilievo il fatto che quest’impero non ha base etica; e questo stimola altri a cercarne una (T. A. Sinclair, Il pensiero politico classico, Bari). Non solo, ma va aggiunto che se al tempo di Carneade il concetto di “impero” non esiste, se non nella sua figura giuridica, e proprio la riflessione sulla giustificazione del *commando* di un singolo o di un gruppo in Roma, nella delineazione di un modello d’uomo giusto, e del potere di Roma sugli stati e le città conquistate, che venne a costruire, appunto, il concetto di “principato” o d’impero. Entro questa linea, nei termini di questa esigenza di rendere giustificabile e, per ciò stesso, razionale e, dunque, convincente, l'azione della classe, che ha possibilità politiche, e l'azione di Roma, sembrano chiarirsi molti degli atteggiamenti assunti e dagli Stoici, e dagli stessi Accademici, i quali tutti ebbero contatti diretti e di clientela con i maggiori esponenti della classe dirigente romana, a cominciare da Polibio e da Panezio. Mentre, per altro verso, la de-lineazione di un ordine razionale e universale cui adeguarsi, fondamento e giustificazione dell'azione svolta da Roma, almeno da quando certe possibilità di carriera si allargarono dalla classe senatoriale alla classe dei nuovi ricchi o dei cavalieri, mise in crisi il mono-polio del potere dei nobili, giustificando, appunto, in nome della comune ragione, le possibilità dell'inserimento politico da parte delle nuove classi. E cosi, alla concezione universalistica e imperialistica di Roma, e alla concezione di un ordine politico basato su quella razionale universalità, di cui il "princeps" - l'"orinor" in principio - è il depositario e il propagandista, non poco poteva servire la tesi del gius-naturalismo stoico, qualora se ne giustificasse la possibilità, risolvendo il problema impostato da Carneade, che cioè il concetto stoico di giustizia e di diritto assoluto veniva a negare l'azione e gl’atti giusti. 

 

Ora tale giustificazione impone una revisione, entro i termini dello stoicismo, della originaria soluzione stoica, che e tentata da Panezio di Rodi, amico e consigliere, insieme a Polibio, di Scipione Africano, s1 come da parte degl’Accademici (da Carmada e Metrodoro a Filone di Larissa e Antioco d’Ascalona), perché fosse possibile la stessa dia- lettica e la discussione, perché si potesse giustificare l'azione, si imponeno delle modìficazioni che, rispondendo alle nuove esigenze, non ebbero poi piu niente a che fare con l'originaria posizione di un Carneade: né, d'altra parte, va scordato che già Clitomaco, successore di Carneade, dedica la sua opera intorno alla gnoseologia del maestro al console Lucio Censorino, e che, piu tardi, Antioco fu amico di Lucullo e che a Roma vive e scrive Filone di Larissa. Chi tenti, dunque, una ricostruzione, storicamente valida, delle varie fasi del pensiero non può non tener conto della storia interna di Roma, soffermandosi in primo luogo dapprima sull'esigenza da parte senatoriale di giustificare il proprio operato e la propria virtuosità fino a giungere a costruirsi con Scipione Emiliano minore l'ideale modello del “vir bonus”, salvatore della patria, che assomma in sé I'auctoritas, il cui consiglio è dato alla potestas (all'esecutivo), piu che con la parola, con la propria figura morale e la propria condotta, divenendo princeps della città. In secondo luogo, tenendo presente il conflitto tra la classe senatoriale e l'impoverita borghesia italica rurale, culminante nel conflitto tra lo stesso Scipione e Tiberio Gracco (dell'uccisione di Tiberio, Scipione dirà: iure caesum) e poi tra Scipione e C. Papirio Carbone, fino a che, morto Scipione, improvvisamente la notte precedente il giorno in cui egli dove pronunciare un discorso in senato contro le proposte di legge sulla questione agraria (fu chi disse che Scipione venne fatto uccidere da Papirio Carbone), sembra potersi attuare la rivoluzione in virtu di Gaio Gracco, rivoluzione però stroncata dalla oligarchia senatoriale. In terzo luogo, tenendo presente il celebre conflitto tra Mario e Silla, fino a giungere a Pompeo e al primo triumvirato. Entro questi termini sembra chiarirsi perché il problema fondamentale: quali che di volta in volta ne siano state le soluzioni - fosse il problema delle condizioni che permettono la vita politica: o in una negazione delle tecniche retoriche - particolarmente da parte senatoriale, - puntando sul retorico modello di una figura esemplare, e, per la sua esemplarità, convincente; oppure, via via negata la retorica come arte a sé, neutra, in un'affermazione della retorica filosofica, psicagogica, onde piu volte l'uso di Platone e di Aristotele, che, ricorrendo a tecniche diverse, caso per caso, seducesse ad una razionalità, istituente ordine e misura, entro i termini della legge, specchio di quella medesima comune razionalità. Di qui, anche, la sempre piu accentuata importanza data alla conoscenza del diritto romano e alla sua sistemazione. 

 

Il riflesso di tali polemiche sulla retorica, il conflitto dapprima tra contenuti e retorica e poi tra retorica degl’affetti e retorica filosofica, la problematica tra il porre una virtuosità in assoluto, che alla fine nega ogni possibilità di azione, e, quindi, anche ogni possibilità di convin- cere a quella virtuosità stessa, e il porre una possibilità di rapporto umano, fondato solo di volta in volta sul giuoco degli affetti, il riflesso di tutto ciò, anche nella sua aderenza, caso per caso, a precise esigenze politiche, è molto chiaro in Cicerone. A tal proposito, anzi, sembrano particolarmente illuminanti certi passi di Cicerone, in cui egli condanna l'insegnamento retorico di Cleante e di Crisippo. È vero che Cleante scrive un trattato di retorica e anche Crisippo, ma in modo tale che se uno desidera diventar muto, non deve leggere niente altro (De fin., IV, 3, 7). Troppo rigida ed esclusiva la loro logica per divenire eloquentia (“De Oratore”, Il, 38, 157 sgg.), essi non hanno possibilità di discutere altri argomenti, ché uno solo è il loro, onde mancano di inventio (Topici, 2, 6). Essi perciò non possono convincere alla virtu, per alta e pura che sia la virtu da essi proclamata (cohlc, sottolinea Cicerone, fu il caso dello stoico romano Rutilio Rufo, che per non adulare le passioni del popolo, per non scendere dinanzi ai giudici ad usare la tecnica del pathos, non fu capace di difendersi: De Oratore, I, 53, 227-54, 231). Sotto questo aspetto sembrerebbe aver ragione Carneade, dimostrando che, sul piano umano, lo stoico non può che contraddirsi, ripiegando sul probabile e sul convenevole, negando con ciò stesso la propria tesi, tanto è vero che gli stoici non pongono alcun passaggio tra il saggio e virtuoso e il non saggio e malvagio (di qui, per Cicerone i paradossi degli stoici: cfr. Paradoxa stoicorum), giungendo alla fine a sostenere che nessun uomo è saggio, tranne pochissimi, che, d'altra parte, non hanno possibilità di convincere gli altri per lo stesso fatto che gl’altri sono non saggi, per cui il saggio stoico resta in conclusione assolutamente avulso da ogni tipo di vita politica, rinnegando con questo lo stesso proprio concetto di giustizia e di razionalità. In realtà vi sono negli stoici cose troppo incompatibili con l'oratore quale noi formiamo. Questa, ad esempio: ad ascoltarli, tutti coloro che non sono saggi sono schiavi, nemici pubblici, folli; d'altra parte non v'è uomo che sia saggio. Sarebbe, dunque, una grande assurdità affidare la cura di guidare il popolo, il senato, qualsivoglia assemblea a chi fosse persuaso che tra i suoi ascoltatori non vi è uomo sensato, non un cittadino, non un uomo libero (“De Oratore”, III, 18, 65). Tale impossibilità di guidare la vita politica, sottolinea Cicerone, non ha permesso agli Stoici di scrivere intorno allo stato (De legibus, III, 5-6, 13-14). 

 

Solo Dione stoico, aggiunge, se n'è occupato. Chi sia Dione stoico non sappiamo a meno che non si tratti di Diogene di Babilonia, che secondo Ateneo, XII, 526, scrisse “De legibus”, e, insieme a lui, Panezio di Rodi. Su questo argomento dei magistrati, alcune questioni furono studiate molto sottilmente prima da Teofrasto, poi dallo stoico Dione. Tu dici? Anche dagli stoici fu trattato questo? Non proprio, salvo da colui che ho ricordato, e poi da quel grande e coltissimo uomo di Panezio. Gli stoici antichi soltanto astrattamente e pur con acutezza hanno trattato dello Stato romano, ma non in questa maniera pratica per l'utilità del popolo e dello stato romano (De legibus, III, 5-6, 13-14). È vero. Lo stato romano che potremmo delineare attraverso i frammenti di Cleante e dì Crisippo sarebbe lino stato romano universale, fondato sul motivo del diritto naturale, razionalmente ordinato, ove la legge sarebbe specchio della legge del tutto, del logos, ma dove anche, data la distinzione stoica tra saggio e non sagg e ola incomunicabilità tra gli uni e gli altri, si avrebbe un solo saggio ché tutti i saggi si identificherebbero in uno e molti uomini, i non saggi, i quali soli, alla fine, si dimostrerebbero capaci di azione e di vita sociale, che sarebbe però in-giusta, a-sociale, a-politica, dove non potrebbe non avere il sopravvento che la retorica degli affetti e delle passioni. L'abbiezione di Cicerone avrebbe potuto essere e in fondp lo e l'abbiezione sottesa di Carneade nei confronti degli stoici, ma con scopo rovesciato, ché Cicerone tende a rendere convincente sul piano umano proprio alcune tesi stoiche, in quanto utili a un certo fine politico. Certo a Carneade, per quel poco che di lui sappiamo, non seppe rispondere il capo della stoà del tempo, Antipatro di Tarso. 

 

Si dice che Antipatro di Tarso non ha mai il coraggio di scendere in discussione con Carneade direttamente e ch'egli tentasse di difendere le posizioni dello stoicismo ortodosso per scritto (cfr. Numenio, in Eusebio, Praep. ev., XIV, 8, 6), limitandosi ad approfondire gl'indifferenti tra cui avrebbe posto il dovere e la fama validi entro l'ambito umano (cfr. Cicerone, De fin., III, 17; anche Seneca, Ad Lucil., 92, 5; 87, 38), mentre Diogene di Babilonia, il collega di Carneade al tempo dell'ambasceria a Roma, discepolo di Crisippo, ha particolarmente approfondito alcuni aspetti della dottrina stoica, in forma precettistica e tecnica (la dialettica, la retorica, la musica), ma in modo tale che, ponendosi su di un piano piu logico che ontologico, nel senso di Zenone di Cizio, puo rinnovare i contenuti stessi dello stoicismo. Panezio poi tenta il recupero di tutte quelle tesi stoiche che, utili per un tipo di politica e di giustificazione di una certa azione, avrebbero potuto assumere, entro una precisa visione del tutto, una loro forza sul piano umano. In realtà, dietro l'atteggiamento piu pratico - come sottolinea Cicerone - piu umanistico di Panezio, che puo esattamente servire ai fini dell'azione di Scipione Emiliano, v'e la possibilità di sviluppare la logica e la dialettica di Crisippo, indipendentemente da corrispondenti strutture ontiche, battendo l'accento sull'aspetto ipotetico del discorso e sulla retorica nel modo in cui, attraverso Zenone e poi Crisippo, s'e delineata in Diogene di Babilonia. Studi recenti (cfr. A. Plebe, La retorica di Diogene di Babilonia, Filosofia) hanno messo in chiaro la stretta relazione posta da Diogene di Babilonia tra filosofia e retorica. 

 

Se la filosofia viene ad essere stoicamente 2 [Di Diogene di Babilonia, o di Seleucia, sappiamo molto poco. Discepolo di Crisippo, succede nello scolarcato della Stoà a Zenone di Tarso. E il quarto scolarca della Stoà dopo Zenone: Cleante, Crisippo, Zenone di Tarso, Diogene di Babilonia. A Diogene di Babilonia succede nella direzione della scuola Antipatro di Tarso e ad Antipatro, Panezio, la scienza del ben pensare, attraverso cui si determinano le condizioni senza le quali non v'è discorso cioè i dati e l'implicarsi dei dati stessi in nessi necessari, in un discorso sintattico e proposizionale, che è costituito dall'esperienza, in cui anzi consiste l'esperienza si capisce come l'arte del dire, in quanto espressione dell'arte del pensare, possa avviare gli altri a ben pensare, costituendo un ordine. sintattico e armonico, sociale, specchio appunto dell'ordine razionale cui si giunge attraverso lo stesso pensare e il rivelarsi del pensiero a se medesimo. Ipotetiche le premesse, an-apodittici i sillogismi, formalmente il discorso è necessario e può costituire, sul piano umano, un ordine altrettanto necessario e perciò stesso razionale, a cui serve la retorica, valida qualora, appunto, sia introduzione e avviamento al ben pensare e per ciò al ben vivere, insignificante, anzi da respingere, qualora resti su di un piano neutro di contenuti (cfr. framm. 95, III Arnim). Di qui il contrasto tra retorica pura e retorica filosofica, sospesa tra arte e scienza, e il parallelo, posto da Diogene di Babilonia o Seleucia, tra retorica e medicina (fr. 91, III Arnim), per cui la vera retorica è terapeutica ed è “psica-gogica”. Di qui, formalmente e per la sua funzione terapeutica e stimolante, il rapporto posto da Diogene tra retorica e musica (fr. 92, III Arnim). La funzione della retorica, che, in quanto seducente in vista del fine cui mira, cioè l'ordine e la misura razionali, si fonda su tecniche precise che potevano essere benissimo riprese dalle analisi sulla retorica e dai topici di Aristotele, sulla conoscenza dei caratteri umani (Gorgia, Platone, Aristotele, Teofrasto}, assumendo anche l'accorgimento dell'inganno o dell'illusione seducente (cfr. fr. 105, III Arnim), sapendo con opportunità (eùx.cxtp(cx, cukairla) usare i discorsi (fr. 122, III Arnim), prende un suo carattere preciso in quanto serva a porre ordine e composizione (croveaL(i, syncsis) nelle città e buona condotta (eòotyroy(ot, cuagoghia) politica, cioè sociale (fr. 102, III Arnim). 

 

Retorica e politica venneno, in tal modo, a coincidere in funzione della costituzione di un rapporto umano che fosse rapporto razionale, simile all'ordinarsi necessario di un discorso, in una misura per cui ciascuno si ponga là dove è bene che sia, come lè parole in una struttura grammaticale e sintattica. Non a caso, cosi, sembra che tra i pensatori greci, suoi contemporanei, Catone il Censore avesse, accanto all'ideale del Socrate senofonteo, una qualche simpatia per Diogene di Babilonia, che, d'altra parte, e anche questo sembra opportuno sottolineare, era stato a Roma già prima della CELEBRE AMBASCIATA  (cfr. Cicerone, De senectute, 7, 23). 

 

Le lodi che Cicerone fa di Panezio si fondano sul riconoscimento che Panezio ha reso realizzabile, politicamente funzionale, l'ideale della virtu e della giustizia stoiche. Ciò che di Panezio sappiamo è, in realtà, molto poco. Sappiamo ch'egli nacque a Rodi, città in quel tempo culturalmente attiva, politicamente legata a Roma. Uomo aperto e curioso, non vincolato fin dal principio a una precisa scuola, non formatosi ad Atene, sappiamo che Panezio vive a Roma parecchi anni, ch'entra in dimestichezza con Scipione Emiliano, che ne e consigliere ed amico, che e con lui ad Alessandria e durante le campagne d'Africa,e che divenne, in Atene, scolarca della stoà, succedendo ad Antipatro di Tarso, proprio all'indomani della morte di Scipione. Può darsi sia un caso, ma è un caso che può far pensare. Panezio lascia lo scolarcato. Panezio non e uno stoico di scuola, né, d'altra parte, si può sapere l'influenza che avrebbe potuto giuocare su di lui il pensiero dello stoico eretico [Nato circa a Rodi, Panezio, amico e discepolo di Diogene di Babilonia, vive a Roma parecchi anni, entrando in dimestichezza con P. Scipione Emiliano, di cui fu consigliere. Lo segui in Africa e in Asia. Nominato scolarca della Stoà, succed ad Antipatro di Tarso. Lascia lo scolarcato  e sembra sia morto in quello stesso anno. Delle sue opere, andate perdute, si ricordano soprattutto una “Sul dovere” (ITcpl wii x~o~), che sarebbe stata scritta al tempo del suo soggiorno a Roma, ed una “Sulla provvidenza” (ITcplnpov61cxç), che sarebbe la fonte del De officiis di Cicerone. Si conoscono inoltre i seguenti titoli: “Sulla tranquillità dell’animo” (ITcpl IÒ&u!l-(«ç); Sul,Oflt!Nio (ITcpl no>.l-n:!cxç); Sulle sct!l~ (ITcpl atlp~m:(J)'\1); “Di Socrate dei socratici” (ITcpl Ec,xp«wu Xlll TW'II E(J)xpcmxwv); Lettera a Q. Elio Tuberone. Nello scolarcato della Stoà, a Panezio succede Mnesarco, del quale non sappiamo nulla se non che segui pedissequamente il maestro. 

 

A parte Posidonio (dr. oltre) e i romani che seguirono Panezio, un altro discepolo di Panezio, del quale occorre fare almeno il nome, fu Ecatone di Rodi, che si occupa in particolare di problemi morali e i cui manuali divulgativi hanno larga diffusione. In questi manuali Ecatone discute soprattutto il problema dei conflitti dei doveri, in una delineazione della piu rigida morale stoica e in una distinzione tra virtu teoretiche e virtu non teoretiche, riportando lo Stoicismo ad una rigidezza che non era stata certo quella di Panezio. Scrive in tal senso Diogene Laerzio: "Secondo gli Stoici, non v'è alcun grado intermedio tra la virtu e il vizio. Come un legno deve essere diritto o storto, cosi un uomo è o giusto o ingiusto. Ecatone, nel secondo libro Sui beni, sostiene che la virtu è sufficiente alla felicità, non dando alcun valore a tutto ciò che si crede possa turbarla. Panezio e Posidonio invece sostengono che la virtu non è sufficiente, ma occorrono anche buona salute, abbondanza di mezzi di vita, e forza" (Diogene L., VII, 127-128). Per il resto cfr. sempre Diogene Laerzio, VII, passim. Ci sono stati tramandati i titoli delle seguenti opere di Ecatone: “Sui fini” (ITcpl T&ÀW'IIi; “Sui beni” (ITcprciyat.&wv); “Sulla virtu” (ITepl cip&:Twv); “Sul dovere” (ITcpl xat&ljxo~; “Sulle passioni” (ITcpl ncx&ciiv); “Sui para-dossi” (ITcpl natpct36~(J)'II); “Sentenze” (xpc't«'). Boeto di Sidone, del quale, di fatto, non sappiamo niènte (cfr. J. F. Dobson, Boethus of Sidon, "Classica! Quarterly," pp. 88-90), se non che fa un commento ai Fenomeni di Arato (su Boeto cfr. Diogene Laerzio, VII, 54, 143, 148, 149). 

 

Anche se indirettamente, cioè al di fuori e indipendentemente dalle dispute scolastiche e professorali di Atene, Panezio risponde a Carneade, rendendo positivo e non puramente negativo lo stesso "probabilismo" di Carneade, che, valido sul piano umano, suppone a suo contenuto - se non vi fosse una presunta verità, neppure si potrebbe parlare di probabilità, di capacità d'assumerne fede, nr.&Clv6v- pithan6n, dietro a sé o innanzi a sé, la visione di un tutto ordinato, un dover-essere cui ciascuno, a seconda della propria natura deve adeguarsi. Qui, forse, il senso del cosiddetto platonismo di Panezio, in questo suo porre l'ordine e la legge del tutto - niente affatto contrastante con certe tesi stoiche - come termine di realizzazione, come dovere, cui l'uomo conoscendo sé, entro i limiti della propria natura, deve avvicinarsi, realizando con ciò, di volta in volta, la piu genuina natura umana, l'istinto proprio dell'uomo. Di qui i due aspetti che Cicerone sembrano ispirati a Panezio particolarmente il “De natura deorum” e il “De offiiciis”) e anche altre testimonianze. (sia pur assai frammentarie) sottolineano come i piu appariscenti di Panezio. 

 

Da un lato un rigoroso immanentismo naturalistico, dall'altro lato, entl'Ò i termini di quella che è la natura nella sua totalità - il dovere dà parte dell'uomo di adeguarsi a quella natura stessa, ciascuno a seconda della propria natura. Sembra cos' interessante ricordare che Diogene Laerzio (VII, 41), su testimonianza di Fania, scolaro di Posidonio, sottolinea che, mentre Zenone e Crisippo poneno per prima la logica e per seconda la fisica e Diogene di Babilonia l'etica, Panezio e Posidonio cominciano dalla fisica: TIClvClhLot; 3~ XCll Tioaet36>vtot; cinò -.C>v rpuatxwv clpxov-.ClL. Approssimativamente possiamo renderei conto della concezione della fisica di Panezio per via negativa, cioè attraverso quello che le testimonianze sottolineano avere Panezio negato rispetto alle posizioni degli stoici precedenti. Panezio sostiene che il cosmo non muore e non invecchia, che questo cosmo è uno ed eterno nella sua totalità, e; che, dunque, non ha né un principio né una fine, né v'è conflagrazione (bcn6pc.>att;, ek_pirosis) periodica, e che per ciò stesso nessun dio lo regge, per cui è sciocchezza (rp>.-f)votrpov, flénafon) tutto ciò che si dice, intorno al divino: l>.eye yà:p rp>.-f)votrpov elvotL -.òv nept.&eou Myov (Epifanio, De fide, 9, 45. Per il resto cfr.: Cicerone, De nat. deor., Il, 46, 118; Filone, De aet. mundi, 76; Diogene L., VII, 142; Arnobio, Adv. nat., Il, 9; Stobeo, Ecl., I, 20 e Il, 7). 

 

Sembrerebbe cos' potersi riferire a Panezio, anche se non direttamente citato, la concezione riportata da Cicerone nel “De natura deorum” secondo cui natura e divinità coincidono nel senso che il divino è la stessa ragion d'essere (logos) del tutto, forza vitale e organizzatrice (egemonica), non separata dagl’esseri individuali, esistente anzi nel costituirsi di quegl’esseri, che quanto piu realizzano e conservano se stessi (la propria natura), tanto piu realizzano e conservano l'universo medesimo, ché diversi tra loro per gradi, non lo sono affatto per natura. 

 

L'ordine, quindi, e i rapporti tra le cose non sono dovuti a una "simpatia" delle cose tra loro né alla necessità del fato, bensi ad una razionalità che rende pensabile e giustificabile la realtà stessa e i suoi molteplici aspetti, e che esclude da sé sia il motivo della divinazione sia il motivo dell'anima immortale, separata dal corpo (cfr. Cicerone, Lucullus, XXXIII·, 107; De divinatione, l, 3, 6,. 7, 12; Il, 42, 87-47, 97; Tusc. diss., l, 32, 79-33, 80; Diogene L., VII, 149). Piu di questo non possiamo dire della fisica di Panezio. D'altra parte, sia il fatto che alcuni interpreti antichi hanno veduto nella concezione fisica di Panezio una diretta influenza della concezione platonica (va sottolineato che il riferimento è al Timeo ed è dovuto all'interpretazione che del Timeo dà Proclo, In Plat. Timaeum, 50b), sia i continui riferimenti delle testimonianze all'aristotelismo di Panezio, al suo essere non solo filo-platone ma anche filo-aristotele (Stoic.lnder Herc., col. 61, Comparetti 534), avendo Panezio sostenuto l'eternità del cosmo, sempre tutto in atto, l'unità di anima e corpo, portano a pensare che per Panezio la realtà, tutta in atto sempre, nei suoi aspetti molteplici, sia quella che è, in sé né buona né cattiva, comprensibile in quanto ricondotta ad una sua universale razionalità, rasserenante qualora appunto se ne comprenda da un lato la sua necessaria razionalità, dall'altro lato che, entro quella stessa razionalità, ogni cosa è là dove è bene che sia, ogni cosa attua se stessa pienamente in quanto attui la propria natura, cioè la propria ragione, secondo le risorse che la natura ha dato. 

 

Poiché, d'altra parte, è un fatto che all'uomo è dato rendersi conto di ciò (tra l'uomo e la bestia vi è grandissima differenza. La bestia, solo in quanto è stimolata dal senso, conforma le sue abitudini a ciò che è vicino e presente, non curandosi affatto del passato e del future. L’uomo, invece, poiché è dotato di ragione e per mezzo di quella vede la concatenazione dei fatti, le cause efficienti di esse e le cause occasionali, e ne conosce quasi i precedenti, confronta le cose simili e congiunge intimamente le cose future alle presenti, può facilmente vedere tutto il corso della vita -- Cic., De off., I, 4, 11), tale consapevolezza e comprensione è ciò che Panezio chiama ragione di contro all'istinto e agli impulsi degli animali e alla natura propria di ciascuna cosa, ché, sotto altro aspetto, essi stessi impulsi e natura, sono razionali. "Due sono gli elementi naturali dell'animo. L’uno è posto nell'istinto,  35 detto dai Greci op!J.i) (hormè: impulso), che trascina l'uomo qua e là; l'altro è posto nella ragione, che insegna e rivela all'uomo cosa si debba fare ed evitare. È quindi vero che la ragione deve comandare e l'istinto obbedire. I movimenti dell'animò sono di due specie e consistono nel pensiero e nell'appetito. 

 

Il pensiero si applica soprattutto alla ricerca del vero. 

 

L’appetito spinge all'azione. Faremo in modo dunque di rivolgere il pensiero alle cose piu grandi e di far sentire all'appetito il peso della ragione" (Cic., De off., I, 28, 101; l, 36, 132). Di qui, evidentemente, l'affermazione di Diogene Laerzio che, secondo Panezio, due sono le virtu: virtu teoretica e virtu pratica (VII, 92). In altri termini, insomma, l'istinto, l'impulso sono tali in quanto non compresi; compresi, l'istinto e l'impulso cessano di essere irrazionali, onde la razionalità  e ciò è dato all'uomo consiste nello stesso impulso qualora sia ordinato nella consapevolezza di quelle che sono, appunto, le risorse che la natura ci ha dato (•.. Ticxvat(-rLot; -rò l;;ijv xat-riX-rà;t;8e8o(dvrxt;~!Li"!x!pUae(a)ç&.!pop~t;-ri>.ot; d.m:!pi)vat-ro: Clemente Alessandrino, Strom., II, 21). Ciascuno deve conservare le proprie tendenze. Perché si possa pm facilmente conseguire quel decoro, che si cerca. E ciò avverrà se non contrasteremo per nulla con la natura dell'uomo in generale ("siamo tutti partecipi della ragione e di quella superiorità per la quale ci distinguiamo dalle bestie, da cui deriva l'onesto e il decoro ed alla quale risale la conoscenza del dovere": Cic., De off., l, 30, 107); ma, conservata questa, seguiremo la nostra propria natura ("come nei corpi ci sono grandi diffrenze cosi negli animi vi sono varietà anche maggiori": Cic., De off., I, 30, 107), cosi che anche se le altre ci sembrano migliori e piu importanti, misuriamo alla sua regola le nostre attitudini; non ~ opportuno infatti andare contro la natura e cercare di ottenere quello che non si può. Da ciò risulta chiaro che cosa sia il decoro, perché non lecito far nulla, ~e comunemente si dice, a dispetto di Minerva, ci~ quando la natura ~ contraria. Ma non v'è cosa piu decente della coerenza e di tutta la vita e delle singole azioni, e non si può conservarla se, per imitare l'altrui, trascuriamo la nostra natura. Tanta questa differenza fra le nature umane, che talvolta per gli stessi motivi uno è costretto a darsi la morte ~ un altro no. (Cicerone, De off., l, 31, 110-112). Concepita la realtà come razionalmente.strutturata, strutturato razionalmente l'uomo, parte della realtà, posto che, appunto, la natura è ciò per cui tutto è là dove è bene che sia, s1 che ciascuno realizzandc il proprio impulso, conservando sé conserva il tutto (si come nell'organismo quanto piu ogni organo è sé e realizza la propria funzione tanto piu l'organismo vive in atto nei suoi organi), ne consegue che l'uomo scoprendo sé come ragione, quanto piu vive secondo ragione, cioè secondo l'impulso proprio dell'uomo, che ordina e si fa guida degli altri impulsi, armonicamente, a seconda delle proprie possibilità, tanto piu ciascuno vive secondo "natura," secondo la propria natura, e quindi coerentemente. Sia pur nell'interpretazione che ne dà Cicerone, sembra che l'aspetto saliente di Panezio sia stato quello di insistere sul fatto che nell'ordine razionale del tutto ciascuno ha il suo giusto posto, in una specie di ordine gerarchico, per cui da un lato ne deriva che ciascuno deve realizzare sé razionalmente, cioè misuratamente, entro i propri limiti e le proprie possibilità, dall'altro lato ne deriva anche che ciascuno deve rimanere al suo posto, al posto che natura gli ha dato. Non a caso Cicerone, in funzione del suo ideale politico, riallacciandosi alla idealizzata figura di Scipione, sviluppa particolarmente proprio questo motivo, fino a giungere a far rientrare entro questo quadro la difesa della proprietà privata. Se è vero che formalmente gli uomini sono tutti uguali, perché partecipi di ragione (cfr. Leggi, l, 7-21 sgg.) e che per ciò, formalmente, non esistono cose private per natura, è altrettanto vero che, in concreto, come ciascuna cosa e ciascuno nell'ordine del tutto è distribuito al suo posto, cosi ciascuno ha il diritto a ciò che gli è toccato in sorte. 

 

Come il primo dovere della giustizia è di non offendere alcuno, se non si è provocati da ingiuria, cosf dovere della giustizia è di usare delle cose comuni e delle cose private come proprie. Non vi sono però cose private per natura, ma per antico possesso. Tuttavia, poiché quei beni comuni per natura diventano di proprietà privata, ognuno si tenga ciò che ebbe in sorte; se poi qualcuno desidererà per sé l'altrui, violerà il diritto ddl'umana società (Cicerone, De officiis, l, 7, 20-21). 

 

L'uomo di Stato dovrà soprattutto badare che ciascuno conservi il suo e che la proprietà privata non sia diminuita da parte dello Stato romano. 

 

L'eguagliamento delle fortune è la' peggiore delle pesti. 

 

Lo stato romano e costituito e la comunità cittadina e ordinata appunto perché ciascuno mantenesse la sua proprietà. Gli uomini infatti, sebbene siano spinti per istinto naturale ad unirsi fra di loro, cercano la difesa delle città nella speranza di conservare i loro beni (Cic., De off., Il, 21, 73). Certo, nel motivo di "ciascuno al suo posto," sia entro l'ordine del tutto sia entro le società specchio della politéia cosmica (l'argomento platonico anche se con frase stoica è particolarmente presente in Cicerone nelle Leggi: "Questo mondo intero è da considerare come un'unica città comune agli dèi ed agli uomii": Leggi, I, 7, 23) si veniva delineando lo scioglimento del rigido motivo stoico dell'ordine dato: a seconda dd posto che ciascuno ha, nel tutto e nella società di cui fa parte, ciascuno ha da realizzare per essere sé, un proprio dovere, che se formalmente è uguale per tutti (vivere secondo la comune ragione) ed è uno - onde l'ideale del saggio stoico, - in concreto si pone da un lato come realizzazione della ragione propria di ciascuno e, dall'altro lato, in ciascuno, come ordinamento armonico dei propri impulsi, sf che ciascuno sia se stesso, in armonia con sé e con gli altri, costituendo un ordine sociale. 

 

L'istinto naturale, mediante la forza della ragione, unisce gli uomini agli altri uomini, crea una corrispondenza che si manifesta nel linguaggio e nella socicvolczza, ispira soprattutto uno straordinario amore verso la prole, induce a desiderare adunanze c riunioni: per questi stessi motivi gli uomini cercano di procurarsi quelle cose che sono necessarie alla vita e alle sue comodità, e non solo per se stessi, ma per la moglie, per i figli, c per tutti gli altri che essi amano e debbono proteggere. 

 

Né invero è piccolo privilegio della ragione umana che soltanto l'uomo possa conoscere cosa sia l'ordine, il decoro c la misura nei fatti e nelle parole. E cosi non v'è altro animale che conosca la bellezza, l'armonia, l'ordine delle cose visibili; e la ragione naturale trasportando per analogia queste pro- prietà dagli occhi all'animo, tanto pio egli ritiene che si debbano osservare la bellezza, l'armonia c l'ordine nei detti e nei fatti, che non si commettano atti indccorosi cd effeminati, e che in ogni pensiero cd azione nulla si faccia o si pensi a capriccio... (De off., l, 4, 12-14). Di qui il concetto, sviluppato da Cicerone, del dovere medio e del conveniente e i concetti della società come ordine gerarchico e armonico e del rapporto tra gli Stati come rapporto di interdipendcnza armonica sotto l'egemonia di una città guida, realizzante la universale razionalità. 

 

Certo, secondo le tesi piu rigide dello Stoicismo, il virtuoso in assoluto è solo il sapiente, per cui solo il sapiente attua il dovere asso- luto (xcx-r6p&6lfL«, kat&rthoma); d'altra parte, se nell'ordine del tutto ogni essere ha il suo posto, e nella società, che idealmente dovrebbe rispecchiare l'ordine supremo, ciascun uomo ha il suo posto, per cui, per natura, non tutti possono essere sapienti, attuando quindi il dovere perfetto, ne deriva che, tuttavia, a ciascuno, per ciò che gli compete e che gli è proprio, spetta attuare il suo dovere, detto, rispetto a quello perfetto, dovere medio (xcx&;jxov, kathèkon), nella cui attuazione con- siste l'onestà. Si parla di un dovere relativo e di uno assoluto. lo penso che si possa chiamare retto il dovere assoluto, poiché i Greci.lo chiamano xcx'r6p&6lJL« (dovere perfetto), c l'altro, comune, perché lo chiamano xcx&;jxov. E cosf 38    definiscono questi doveri, in modo da stabilire come dovere perfetto quello che è retto; chiamano invece dovere comune.quello del quale si può dare una ragione plausibile. 

 

Tre, secondo Panezio, sono i casi che si presentano, quando si deve prendere una deliberazione. Riflettere cioè se si deve prendere una deliberazione: nella quale considerazione spesso gli animi ondeggiano in opposti pensieri. Ricercare poi ed esaminare se l'ar- gomento preso in considerazione possa arrecare o no le comodità e le gio- condità della vita, gli averi, il benessere, il credito e il potere, con i quali portiamo giovamento a noi stessi e ai nostri; la quale deliberazione rientra nell'utile. Si è, infine, incerti nel deliberare, quando ciò che sembra utile contrasta con l'onesto: mentre infatti l'utilità ci trascina verso di sé e l'onestà anche ci chiama a sé, avviçne che il nostro animo vacilli nel pren- dere una decisione e rimanga perplesso fra opposti pensieri... (Cic., De off., I, 3, 8-9). Ciascuno, dunque, in quanto viva seeondo ragione, cioè bene, ha il dovere di far bene il proprio singolo mestiere di uomo, il proprio ufficio, nei proprì limiti, conoscendo sé1 (cognitio), di agire secondo misura (actio), secondo convenienza (7tprnov, prépon), decorosamente (decus). Cos~ accanto alla virtu teoretica, era possibile, nella realiz- zazione pratica della ragion d'essere, che è lo stesso ordine del tutto, posto dinanzi agli occhi come dovere, porre ilcomplesso ·delle virtu pratiche (giustizia, beneficenza, temperanza: cfr. De ofJ., 1), in cui consiste l'onesto, che se formalmente sta, apJ?unto, nella giusta misura, di volta in volta realizzata secondo le circostanze, costituendo un abito civile, che va dai rapporti sociali 1 (De of J., I, 7-34) all’educazione, dal modo di vestire e di incedere (De off., l, 35-36) al modo di parlare (1, 37), al decoro delle abitazioni (1, 39)  e cosi via; dall'altro lato rispecchia quéll'arnionia razionale del tutto, quel supremo bene che, dunque, non nega i singoli beni, quei singoli benessere, estetica- mente valutabili, buoni perché belli, cioè compiuti con ordine e mi- sura. "Nella padronanza dell'animo e nella giusta misura di ogni cosa consiste il decoro, che i n greco si dice 7tpé7tov, pré p o n " (D e off., l, 27, 93). 

 

La virtu pratica per eccellenza, dunque, è quel giusto mezzo,, di sapore aristotelico, che sta a fondamento sia dell'agire giustamente, sia dell'agire benevolmente, sia dell'agire con temperanza, in un rap- porto di equilibrio e di rispetto, in cui sta l'humanitas e la charitas generis humani: charitas, cioè rapporto di decoro, che, in quanto armo- nico, si riflette come rapporto di grazia, di eleganza. 

 

Il decoro per natura non può mai esser disgiunto dall'onesto; ciò che è infatti decoroso è anche onesto, e ciò che è onesto è anche decoroso, e quale sia la differenza tra loro è piu facile immaginare che spiegare. 

 

Qualunque cosa infatti appare decorosa, quando ha per fondamento l'onestà. 

 

Il decoro [si manifesta non solo nella temperanza, ma è il fondamento di tutte le virtu che costituiscono l'onestà]. 

 

È decoroso infatti ragionare con assennatezza e prudenza, agire consideratamente, vedere ed osservare in ogni cosa il vero.

 

La stessa cosa si può dire della fortezza. 

 

Le azioni generose e magnanime sembrano decorose e degne dell'uomo.

 

Il decoro, dunque, riguarda tutte le parti dell'onestà e le riguarda in modo che non si vede solo per via di astrazione, ma si manifesta chiaramente. 

 

Vi è un qualche cosa di decoroso che si presuppone in ogni virtu; ma questo può essere separato dalla virtu piu in teoria che in pratica.

 

Due sono poi le specie del decoro: vi è infatti un decoro generale, che si ritrova in ogni genere di onesto, e un decoro, a questo subordinato, che riguarda le singole parti di esso. 

 

Il primo è di solito cosi definito: "Decoro è ciò che è consentaneo alla superiorità dell'uomo, in quanto la sua natura si differenzia dagli altri esseri animati." 

 

Cosi, invece, si definisce quella parte che è subordinata al genere: "Ciò che è consentaneo alla natura umana, in modo che in esso appaiano moderazione e temperanza ed una certa nobiltà... 

 

A noi la natura stessa ha assegnato una parte, dotandoci di superiorità e preminenza sugli altri esseri animati... e perciò, dalla natura stessa essendo state asse- gnate le parti della costanza, della moderazione, della temperanza e della verecondia e insegnandoci essa il modo di comportarci verso i nostri simili, possiamo conoscere quanto sia l'estensione del decoro generale e quali parti contempli il decoro particolare. 

 

Come infatti là bellezza del corpo per l'armonica disposizione delle membra attira gli sguardi e ci diletta in quanto tutte le parti sono tra loro unite in leggiadra armonia, cosi quel decoro che risplende nella vita eccita l'ammirazione di quelli con i quali si vive con l'ordine, la coerenza, la moderazione degli atti e dei fatti. 

 

Si deve avere dunque un certo rispetto non solo per gli uomini migliori, ma anche per tutti gli altri... Il dovere poi, che deriva dal decoro, deve prima di tutto seguire quella via che conduce alla convenienza ed alla conservazione delle leggi di natura; e se noi la seguiremo come guida, non potremo mai sbagliare e conseguiremo la sapienza, la giustizia e la fortezza... (Cic., De off., l, 27-28). 

 

La concezione stoicheggiante di un tutto ordinato, di una realtà razionalmente articolata, ove, come in un discorso o in un organismo vivente, ogni parte implica l'altra in una sola armonia - accantonate e non piu discusse le ragioni e i motivi che avevano mosso i primi stoici nei confronti di Platone e di Aristotele, - poteva benissimo, soprattutto in quanto volta a costituire il fondamento di un certo ordine politico e l'ideale modello, inserire nel proprio corpo dottrinario antichi testi platonici, particolarmente, per ciò che riguarda appunto l'ordine costituito, i testi del Platone ultimo, dal Timeo alle Leggi all'Epinomide, oltre alcune parti della Repubblica. 

 

Cosi, una volta posto l'ordine del tutto piu che come conclusione di un'argomentazione scientifica, come dato e come termine di realizzazione, e sottolineata quindi la possibilità di Ùn ayviamento a quell'ideale nella capacità di compiere ciascuno, per ciò che gli compete, il proprio dovere, entro i termini del mondo umano, la rigidezza morale di certo stoicismo poteva risolversi nel compromesso del dovere comune e del conveniente, salvando i cosiddetti "indifferenti," che assumevano un loro valore in quanto strumenti di quella misura (chi è ricco, se lo sia con temperanza e prudenza, può attuare meglio l'ideale del sapiente di chi è povero). 

 

Non solo, ma è chiaro come per ciò si potessero recuperare da un lato i motivi platonici del cittadino cellula e organo della propria classe e delle classi strumenti in funzione del tutto ordinato che è lo Stato, e della temperanza di ciascuno che ha da rivelarsi non solo nella misura interna, ma anche negli atteggiamenti esterni (dal vestire all'incedere, dall'accogliere le sventure con fortezza al rispetto per i vecchi e cosfvia), e dall'altro lato si potessero sfruttare- le indagini aristoteliche sul giusto mezzo, sulle virtu etiche e sui caratteri. 

 

Entro questo quadro poi, che poteva servire come un'enciclo- pedia e un sistema del sapere, e la cui funzione, appunto, fu tale negli ambienti romani nei quali venne formandosi, assumeva un particolar significato, una volta interpretato nel senso platonico, l'antico motivo stoico· del diritto naturale. 

 

Una la ragione del tutto, una la legge su cui tutto si scandisce: la legge, almeno formalmente, pone tutti su di un piano di uguaglianza, ove per natura tutti hanno gli stessi diritti, in quanto dovere di cia- scuno è di seguire quell'unica ragione e quell'unica legge diffusa in tutto e in ciascuno. Secondo ragione o giustizia, perciò, non vi sono patrie o classi diverse, uomini superiori e inferiori, schiavi e liberi, ma una sola Città, una sola patria, l'umanità nel tutto (cosmopolitismo). Certo, l'interpretazione della legge e della giustizia come adeguazione all'ordine e alla legge universali, in nome della comune umanità razionale, per cui tutti gli uomini sono uguali, quando si era venuta formu- lando e!ltrO l'àmbito della prima Stoà, in Grecia, rispondeva a precise esigenze, ed assumeva un carattere politicamente rivoluzionario nei confronti delle strutture politico-sociali delle Città-Stato, quali in particolare si erano venute determinando dopo la morte di Alessandro; si come, in altra situazione, la stessa vis polemica aveva avuto l'appello alla convenzionalità della legge, ed allo Stato valido in quanto costru- zione degli uomini, non soffocati nella libera esplicazione della loro natura, che è di non aver natura ma di costruirsela (appello formulato da alcuni dei primi solisti e dagli epicurei). Entro i termini, invece, in cui viene ora prospettato il concetto di natura e di ragione universale, che non esistono a sé, ma nel costituirsi stesso del tutto, per cui tutto è là dove è bene che sia, tutto ha il suo giustò posto, lo stesso appello al diritto naturale assume una venatura ed un'accezione diversa. 

 

Se formalmente, infatti, per natura tutti gli uomini sono uguali, sempre per natura ciascuno è diverso dall'altro, ed entro l'ordine del tutto, in cui ogni parte è organo, di- verso dall'altro, in funzione del tutto, ognuno ha da essere là dove è posto da natura, in un'armonia si delle classi e degli uomini tra loro, ma dove ognuno non può non restare se non dove è. D'altra parte, proprio perché ciascuno è là dove deve essere, po- tendo entro i suoi limiti esplicare il proprio diritto, nel rispetto, appunto, dei limiti e delle possibilità altrui, cioè nel rispetto dell'ordine costi- tuito, non tutti possono aver la coscienza, o meglio la conoscenza di quello che è l'ordine supremo, da cui deriva l'ordine umano. 

 

A tale ordine, dunque, gli uomini vanno avviati da chi ne sia capace, dal saggio, dal vir bonus, incarnazione della Legge, e, sia pur gradual- mente, da quella Città in cui la classe dirigente, l'auctoritas, in nome del popolo, costituendo, volendo un'armonia di Senato e di Popolo, ordini in armonia le altre città e gli altri stati avvicinandosi con ciò all'ideale dell'unico Stato. 

 

Non possiamo certo dire quanto Panezio abbia influenzato la concezione politica di Scipione e del suo circolo, o, viceversa, quanto certe tesi paneziane abbiano subito l'influenza della politica di Scipione. 

 

Ad ogni modo nella situazione storica di Roma, la costituzione romana deve essere apparsa, sia pur con tutti i suoi difetti, sia pur sfruttando miti e superstizioni religiose (come malinconicamente sottolinea il greco Polibio), rispetto alle singole situazioni poli- tiche delle città greche, condizione della possibile realizzazione dell'armonia delle genti ed internamente ad ogni stato dell'armonia tra le classi. 

 

Non sembra cosi un caso che tanto Polibio quanto Panezio abbiano esaltato la costituzione romana (Cic., Rep., I, 21, 34), e che Polibio, rifacendosi al motivo dicearchiano della "politèia" mista, ne abbia visto la possibile realizzazione attraverso la Respublica romana, mentre Panezio ha dato un contenuto teorico alla politica perseguit~ da Scipione, il quale ha presentato se stesso come il salvatore della Patria e della Respublica. 

 

Polibio,4 l'uomo che aveva combattuto contro Roma, in nome della f 

 

Nato a Megalopoli nd 208 circa, Polibio e, come ilpadre Licona (uno dei capi della Lega Achea), avversario dei Romani. 

 

Vinti i Greci a Pidna nd 168, Polibio venne inviato come ostaggio a Roma. 

 

A Roma divenne intimo della casa degli Scipioni e, soprattutto, del giovane Scipione Emiliano. 

 

Maestro e consigliere di lui, Polibio accompagna Scipione l'Emiliano nelle sue varie spedizioni: sia in quella che si concluse con la distruzione di Cartagine, sia in quella contro Numanzio.

 

Mori, sembra per una caduta da cavallo. 

 

Solo cinque libri restano dei quaranta della sua Storilt, che vuole essere un'indagine documentata e obbieniva degli eventi (UI, 5, 58), libertà della Grecia, che, come il padre Licorta, aveva avuto cospicua parte nella storia della Lega Achea, che, dopo la vittoria romana del 168, fu in.viato quale ostaggio a Roma, entrato in dimestichezza con la gente degli Scipioni, e divenuto maestro e consigliere di Scipione Emiliano, al principio della sua Storia (che vuoi essere una storia basata tutta sulle reali vicende umane e sui fatti, •pragma- tica," l, 2), scrive: 

 

Chi può essere tanto stolto o pigro da non sentire il desiderio di sapere come e sotto quale forma di governo i Romani, in meno di cinquantatré anni, fatto senza precedenti ndla storia, abbiano conqui- stato quasi tutta la terra abitata? (I, l). 

 

Il carattere peculiare della nostra opera dipende da quello che è il fatto piu straordinario dc:i nostri tempi [la conquista romana]: poiché la sorte rivolse in un'unica direzione le vicende di quasi tutta la terra abitata, e tutte le costrinse a piegare a un solo e unico fine, bisogna che lo storico raccolga per i lettori in una uni- taria visione d'insieme il vario operato con cui la fortuna portò a compimento le cose dd mondo (I, 4). 

 

E nel VI libro si legge: 

 

Chi ritiene impresa piu bella e piu grandiosa non solo guidare, ma sottomettere e controllare altre. nazioni, cosi che tutti guardino a lui e si inchinino ai suoi ordini, allora bisogna ammetta che la costituzione degli Spartani è inadeguata e inferiore a qudla dei Romani. 

 

I fatti stessi bastano a provare la maggiore efficienza della costituzione di Roma (VI, 50). 

 

Tre erano al tempo ddla battaglia di Canne gl'organi ddlo Stato che si spartivano l'autorità. 

 

Il loro potere era cosi ben diviso e distribuito, che neppure i Romani avrebbero potuto dire con sicurezza se il loro governo fosse nd complesso aristocratico, democratico, o monarchico. 

 

Né c'è da meravigliarsene, perché considerando il potere dc:i consoli, si sarebbe detto lo stato romano di forma monarchica, valutando quello del Senato lo si sarebbe detto aristocratico; se qualcuno inqne avesse considerato l'autorità dd popolo, senz'altro avrebbe definito lo Stato romano democratico. 

 

Le prerogative di ciascuno di questi organi ai tempi della guerra annibalica e, tranne qualche piccola eccezione, ancora.ai nostri giorni, sono le stesse (VI, 11). 

 

Il rapporto tra le diverse autorità è cosi ben congegnato, che non è possibile trovare una costituzione migliore di quella romana. 

 

Quando infatti un pericolo comune sovrasti dall'esterno e costringa i Romani a una concorde collaborazione, lo Stato acquista tale e tanto potere, che nulla viene trascurato, anzi tutti compiono quanto è ricercandone principi, cause e pretesti (III, 6, 7) nel tempo e nello spazio, in una spie· gazione razionale e scientifica del reale succedersi dei fatti (pragmaJica), che renda conto di come Roma abbia potuto divenire il centro della storia.  43   

 

necessario e i provvedimenti non risultano mai presi in ritardo, poiché ogni cittadino singolarmente e collettivamente collabora alla sua attuazione. 

 

Ne segue che i Romani sono insuperabili e che la loro costituzione è perfetta sotto tutti i riguardi. 

 

Quando poi, liberati dai timori esterni, essi godono del benessere seguito ai loro fortunati successi e vivono in pace, se nell'ozio e nella tranquillità, come suole accadere, qualcuno si abbandona alla prepotenza e alla superbia, subito la costituzione interviene a difendere l'autorità dello Stato. 

 

Se difatti uno degli organi che lo costituiscono diventa troppo potente in confronto agli altri e agisce con tracotanza, non essendo esso indipendente come abbiamo detto, ma essendo i singoli organi legati l'uno all'altro e controllati nella loro azione, nessuno di essi può agire con violenza e di propria iniziativa... (VI, 18). 

 

Non va ora scordato che questi testi del VI libro, sulla costituzione romana, seguono ad alcune pagine dedicate da Polibio alla nascita degli Stati, alle loro varie fasi, alla loro decadenza e ricominciamento dal punto di partenza, in un andamento ciclico (VI, 1-10). 

 

Polibio, rifacendosi, in parte, a Platone e ad Aristotele, per la teoria della naturale trasformazione delle forme di governo, divenuta oramai un topos ("essa è stata esposta con particolare acume da Platone e da altri filosofi," VI, 5), sottolinea che la prima forma di governo è la MONARCHIA la cui degenerazione è la TIRANNIDE, in contrasto alla quale sorge l'ARISTOCRAZIA la cui degenerazione è l'OLIGARCHIA, contro la quale si fa avanti l'ordinato potere del popolo (DEMOCRAZIA), che tuttavia degenera nella OCLOCRAZIA (potere della plebe). 

 

La moltitudine, abituata a consumare i beni altrui e a vivere alle spalle del prossimo, quando ha un capo magnanimo e ardito, che non può aspirare alle cariche pubbliche per la sua povertà, usa la violenza e concordemente ricorre a uccisioni, esili, divisioni di terre, fino a quando, ritornata allo stato selvaggio, ritrova un padrone e un monarca" (VI, 9). 

 

Questa la rotazione delle forme di governo (1toÀ~-n:~6>v dV«XOXÀwatç, politeiòn anak.Yklosis), processo naturale per il quale esse si trasformano, deca- dono, ritornano al tipo originario (VI, 9). 

 

A prima vista, sembra che la costituzione romana, descritta subito dopo (VI, 11-18), non rientri in nessuna delle tre succedentesi forme di governo. 

 

In effetti, Polibio vede nella costituzione romana la piu alta forma di democrazia, la possibilità di salvare la libertà nell'ordine dello stato costituito come armonia dei poteri e come armonia tra gii Stati, sotto la guida di Roma, e in Scipione l'Emiliano (se ne veda l'esaltazione in XXXII, 8-16) l'uomo virtuoso, il princeps che può salvare lo Stato e l'universale Stato dal disordine, dovuto a gruppi faziosi e popolari - non è un caso l'accenno alla divisione delle terre, ove, forse, è presente in Polibio la lotta condotta da Scipione contro Tiberio Gracco, - con il conseguente ritorno a forme monarchiche e tiranniche, attraverso l'ocloaalria. 

 

La posizione di Polibio e di Panezio (il loro avere recuperato certe linee di una certa tradizione greca, in una sistemazione che rispondeva alle esigenze politiche di una precisa classe romana) giustifica la giusta azione di Roma, di fronte al discorso di Carneade sulla giustizia. 

 

La repubblica (res-publica) fa dire Cicerone a Scipione è cosa del popolo ("res populi"), ed il popolo poi non è qualsivoglia agglomerato di uomini ri-unito in qualunque modo, ma una riunione di gente associata per accordo nell'osservare la giustizia e per comunanza di interessi. 

 

La prima causa poi di siffatto riunirsi non è tanto la debolezza, quanto una specie di istinto associativo naturale.

 

L'umano genere non è infatti isolato né vagante nella solitudine, ma generato con carattere tale che, nemmeno in ogni sorta di abbondanza e facilità di vita, l'individuo puo rimanere isolato1. 

 

Motivo dell'associarsi non furono gli sbranamenti delle fiere, ma la stessa natura umana, e il fatto che gli uomini si riunirono tra loro perché rifuggivano naturalmente dalla solitudine e appetivano la comunione e la società.

 

Tutta la popolazione, che è costituita da un raggruppamento di gente, tutta la città, che è l'ordinamento della popolazione, tutto lo Stato che, come dissi, è cosa del popolo, deve esser retto da un governo cosciente, onde essere duraturo. 

 

Ora delle tre tipiche forme di governo, la pio pericolosa è quella che sorge dalla smodata libertà delle plebi.

 

Da questa suole sorgere il potere degl'OTTIMATI o quello fazioso dei TIRANNI, o il regio o quello popolare, e da esso suoi germogliare una qualche specie di regime di quelle che già dissi, ed impressionanti sono i ritorni e quasi i cicli dei mutamenti e delle vicissitudini negli ordinamenti politici; è proprio del filosofo conoscerli, mentre il prevederli nel momento in cui incombono quando si è al governo dello Stato, moderandone il corso e mantenendolo in propria potestà, questo è pregio solo di un grande cittadino e di un uomo quasi divino. 

 

Sento pertanto che la pio degna di approvazione è una quarta specie di ordinamento, moderata e frammista di questi tre [monarchia-aristocrazia-democrazia] che ho menzionati per primi (Cic., De rep., l, 25, 26, 29). 

 

Il circolo sembra cosi chiudersi. 

 

Da un lato abbiamo formulata e sistemata, attraverso il recupero di motivi stoici, platonici, aristotelici (distaccati dai loro contesti), la visione di un tutto razionalmente ordinato, ove ogni cosa è là dove deve essere, dove è giusto che sia.

 

Dall'altro lato abbiamo, in funzione di un'azione politica, il tentativo di un ordinamento dello Stato, che trova il suo fondamento e la sua giustificazione, la sua legalità, nello stesso ordine universale, nell'ordine naturale, che, in quanto a tutti comune, per la comune razionalità, se formalmente dichiara tutti uguali e fratelli di fatto, in nome del diritto naturale, del vinculum iuris e della giustizia, pone ciascuno a un certo posto, dove i posti sono già dati per natura e, dunque, per legge. 

 

Entro questi termini si vede bene.

 

Da parte romana, il tentativo di dare un fondamento giuridico allo Stato di Roma, s! che il diritto positivo, quale si era venuto determinando storicamente, trovasse la sua conferma in un diritto comune a tutti, nel diritto, appunto, di natura, di modo che il vinculum iuris e il vincolo su cui si articola il tutto coincidesse. 

 

Rompere q!Jel vincolo avrebbe significato spezzare l'ordine costituito, rovesciare la respublica, venendo meno alla giustizia e al diritto stesso, su cui si poteva basare la "propaganda" di Roma e della sua classe dirigente in funzione dello ius gentium. 

 

Il consolidamento del territorio o della giurisdizione di una nazione, specialmente quando comprende tribu o distretti confinanti, non può non far sorgere contemporaneamente la questione dei rapporti tra legge nazionale e legge delle tribu o dei distretti: e la risposta non può essere rimandata a lungo. 

 

Un qualsivoglia sistema 'comune' deve sorgere per rispondere a questa pratica necessità, e il contenuto effettuale di questo sistema dipenderà in ogni caso dalle condizioni in atto quando la necessità compare.

 

Roma incontra questo problema nei primi tempi, relativamente, della sua storia giuridica, quando l'influenza della filosofia politica e forte e il diritto romano ancora malleabile, e anzi piu suscettibile di influenze esterne di quanto non divenne piu tardi, dopo che le sue leggi si furono sviluppate e fissate in una tecnica tanto esigente da richiedere uno studio che escludeva necessariamente gli altri rami del sapere. 

 

Avvenne cosi che i primi giuristi romani poterono - e lo fecero, in effetti - fondere i principi filosofici con le leggi locali della penisola italica, per formare il loro nascente sistema giuridico; e per alcuni di essi questa fusione può avere gradualmente ·preso la forma di una identificazione piu o meno completa dello ius gentium - un sistema 'comune' distillato in pratica dalle varie leggi locali di Roma e delle vicine tribu da ultime assoggettate - con lo ius naturale che la filosofia stoica aveva insegnato a considerare come un sistema 'comune' a tutta l'umanità" (C. H. McLlwain, Il pensiero politico occidentale dai Greci al tardo Medioevo, Venezia, pp. 136-37). 

 

Il motivo del diritto naturale, dunque, poté servire in Roma, da fondamento e da giustificazione per l'azione politica della classe dirigente senatoriale e, piu tardi, attraverso l'idealizzazione della figura di Scipione Emiliano (quale si rivela anche nel Somnium Scipionis di Cicerone), soprattutto al tempo di Cicerone, quale giustificazione della posizione assunta dalla classe degli uomini nuovi, e, ad un tempo, in nome della 1egge (espressione della legge razionale su cui si scandisce il tutto) a giustificare la conservazione dell'ordine dato, d'i contro a coloro che tendevano a rompere quell'ordine, fossero i popolari o un Cesare. 

 

Tale, nel suo fondo, la politica di Cicerone. 

 

Se, ora, la visione di Cicerone, la sua interpretazione della concezione paneziana, retoricamente espressa volta a volta a seconda di certe situazioni, spiega quella ch'egli dichiara difesa della "res-publica," essa spiega anche, oltre la ripresa di motivi platonici, aristotelici e stoici, l'avversione di Cicerone per i popolari e per Cesare e la sua avversione per gl'epicurei, la cui filosofia, egli arriva a dire, dovrebbe essere condannata non con ragionamenti, ma con un decreto legge (De finibus, II, lO, 30). 

 

Basti qui ricordare la formulazione che del diritto da Epicuro, coerentemente alla sua concezione che socialmente implica non un ordine dato, scandentesi su di un ordine universale e razionale, ma un ordine e un equilibrio frutti dell'attività umana, per cui la razionalità è conquista e azione, e la formulazione che, attraverso una ri-elaborazione del concetto di giustizia, di ordine, di legge-intelletto di Platone, mediante il motivo della legge e della ragione propria di certe posizioni stoiche (Cleante, Crisippo, Panezio) vien data del diritto naturale da Cicerone: lucidissima formulazione di un concetto che s'era venuto elaborando in un secolo circa di discussioni politiche, nell'àmbito di Roma, e che sta a fondamento di una precisa presa di posizione. 

 

Diceva, dunque, Epicuro: 

 

Per tutti gl'animali che non poterono stringere patti per non ricevere né recarsi danno reciprocamente, non esiste né il giusto né l'ingiusto, altrettanto per tutti quei popoli che non vollero e non poterono porre patti per non ricevere e non recare danno (Massime Capitali, XXXII). 

 

Non è la giustizia qualcosa che esiste di per sé, ma solo nei rapporti reciproci e sempre a seconda dei luoghi dove si stringe un accordo di non recare né di ricevere danno (Mass. Cap., XXXIII). 

 

L'ingiustizia non è di per sé un male, ma lo è per il timore che sorge dal sospetto di non poter sfuggire a coloro che sono preposti alla punizione di tali azioni (Mass. Cap., XXXIV). 

 

Da un punto di vista generale, il diritto è uguale per tutti, poiché rappresenta l'utile nei rapporti reciproci, ma dal punto di vista delle particolarità dei vari luoghi e di ogni genere di principt causali segue che una medesima cosa non è per tutti giusta (Mass. Cap., XXXVI). 

 

Cicerone, invece, proprio di contro alla tesi contrattualistica e convenzionalistica di Epicuro e di contro all'altrettanto contrattualistica e storicistica tesi di Carneade, ambedue estremamente pericolose per uno Stato costituito, che, d'altra parte, cercava giustificazione e fondamento alla propria politica universalistica, dice. 

 

Vi è certo una vera legge, la retta ragione conforme a natura, diffusa tra tutti, costante, eterna, che col suo comando invita al dovere, e col suo divieto distoglie dalla frode.

 

Ma essa non comanda o vieta inutilmente agli onesti né muove i disonesti col comandare o col vietare. 

 

A questa legge non è lecito apportare modifiche né togliere alcunché né annullarla in blocco, e non possiamo esserne esonerati né dal senato né dal popolo.

 

Essa non sarà diversa da Roma ad Atene o dall'oggi al domani, ma come unica, eterna, immutabile legge governerà tutti i popoli ed in ogni tempo, e un solo dio sarà comune guida e capo di tutti: quegli cioè che ritrovò, elaborò e sanzionò questa legge; e chi non gli ubbidirà, fuggirà se stesso e, per aver rinnegato la stessa natura umana, sconterà le piu gravi pene, anche se sarà riuscito a sfuggire a quegli altri che solitamente sono considerati supplizi (Cic., De rep., III, 33). 

 

Ancora una volta, sia pur nell'affermata uguaglianza di tutti gli uomini, si rivela una precisa presa di posizione da parte di un preciso partito politico. 

 

Assumono anzi un valore non poco indicativo certe battute iniziali de)T,'! Leggi, in cui chiaramente si dice: 

 

Riallacciamoci, dunque, nello stabilire la definizione del diritto, a quella legge suprema che è nata tutti i secoli prima che alcuna legge sia mai stata scritta o che un qualche Stato sia mai stato costituito.

 

Dal momento, dunque, che dobbiamo mantenere e conservare inalterate le condizioni di quello Stato, la cui forma Scipione ci insegna essere la migliore e poiché tutte le leggi dovranno essere adattate a quel genere di costituzione, occorrendo anche inserirvi i principi morali senza sancire ogni cosa.per scritto, trarrò fuori la radice del diritto dalla natura, sotto la cui guida dobbiamo svolgere tutta questa discussione.

 

(Leggi, l, 19-20). 

 

Non solo, ma altrettanto indicativo è che alla tesi postulata da Cicerone ("tutto l'universo è governato dalla potenza, dalla ragione, dalla potestà, dall'intelletto, dal volere, o con qualsiasi altro termine che indichi ciò che pensiamo": ib., 21), donde discende che il tutto è come legalmente costituito, Cicerone stesso contrapponga la tesi epicurea, secondo la quale il "dio di nullà si cura né delle cose proprie né delle altrui," e faccia dire ad Attico epicureo: 

 

"Te lo concedo, se me lo chiedi: tanto per questo concerto di uccelli e risonare di acque" - il dialogo si finge svolto in campagna - "non temo che mi senta alcuno dei miei condiscepoli" (ib., 21). 

 

In effetto l'uguaglianza di tutti gli uomini - si dirà pio tardi di tutti gli animali, onde la giustizia è vincolo universale degli esseri viventi - è un'uguaglianza relativa, ché già in partenza sono date le disuguaglianze. 

 

L'uguaglianza è dovuta alla comune ragione di cui ognuno partecipa, ma in gradi diversi. 

 

Entro il motivo stoico, infatti,    la comune ragione è la Ragione universale che realizza se stessa mediante gl'individui, onde ciascuno nel tutto e nella società deve mantenere il posto che gli è dato da natura, per cui il bene è conoscenza e sta nel mantenere l'ordine dato. 

 

D'altra parte, entro i termini di questa visione legale del tutto, se da un lato si giustifica l'azione politica e la funzione cosmica (ordinatrice) della classe senatoriale, dall'altro lato si delineava la possibilità formale di un rispetto umano, che si concretava in quel decoro, in quel dot1ere medio, in quella charitas humana, in quel vivere conveniente- mente alla propria natura, di cui sembra abbia parlato Panezio, e che sul piano pubblico diveniva, di contro ad altre posizioni politiche, rispetto della res-publica e dovere di lavorare per essa. 

 

Di qui, anche, entro quest'àmbito politico, l'importanza dello studio del diritto, della formulazione della parola"della legge e della sua interpretazione, in quanto rispecchiamento dell'ordine universale, della universale giusti- zia, o, meglio, in quanto quell'ordine esiste appunto nella formulazione stessa della legge. 

 

Sotto questo aspetto, in questo convergere fra giustizia formale e giustizia sostanziale, il sapere giuridico diviene il fon- damento medesimo della ricerca scientifica, diviene iuris prudentia, e, per·altro verso, studio delle tecniche oratorie. 

 

Non sembra cosi un caso che fin dal principio le persone che ruotarono intorno a Scipione Emiliano e che ebbero rapporti con Polibio e con Panezio, si siano proclamate tutte vicine allo "stoicismo" e siano state soprattutto personalità politiche, militari, oratori e giuristi, a cominciare da C. Lelio, avversario dei Gracchi, detto sapiens, per la sua prudentia politica, amico di Panezio; C. Fan- Dio, genero di Lelio, console, anch'egli amico di Panezio, autore di "Annales", contrario alla proposta di C. Gracco di concedete la piena cittadinanza ai Latini e i diritti dei Latini agl'italici.

 

Blossio di Cuma discepolo di Antipatro di Tarso, Quinto Mucio Scevola l'Augure, Q. Elio Tuberone, avversario di Scipione Emiliano e di C. Gracco, Sp. Mummio, vicino a Scipione e a Panezio, P. Rutilio Rufo, Q. Elio Stilone, maestro di Varrone e di Cicerone; per giungere a Q. Mucio Scevola Pontefice, vittima delle lotte civili, celebre per la sua giustizia, giurista di grande valore, autore di libri XV/Il iuris civilis, in cui cerca di dare un fondamento al diritto, e di un'opera intitolata "Opo~ (H6rot) in cui da definizioni (!Spo~) di concetti giuridici e di rapporti giuridici, a L. Lucilio Balbo, anch'egli giurista, discepolo di Q. Mucio Scevola, il Pontefice, a Q. Lucilio Balbo, al quale Cicerone assegna nel De natura deorum il compito di esporre le concezioni stoiche sul divino; a M. Favonio, partigiano di Pompeo, ucciso dopo Filippi; a Cornificio Lungo, a Q. Valerio Sorano; al celebre Catone Uticense, ch'ebbe a maestri gli stoici Atenodoro Cordilione (da Pergamo, segui Catone, a Roma, ove rimase suo ospite) e Antipatro di Tiro. 

 

Cicerone definl Catone stoico compiuto, soprattutto per la sua dirittura e constantia sapientis. 

 

Avversario di Cesare, in cui vedeva l'attentatore alla libertas romana, a Utica, assediata da Cesare, si tolse la vita. 

 

II suicidio di Catone Uticense è rimasto un topos della letteratura stoica e della teorizzazione del suicidio politico sul quale, poco prima di uccidersi, sembra abbia discusso con lo stoico Apollonide (cfr. Plutarco, Catone, 55 sgg.). 4. 

 

 

È stato detto che il gran merito di Posidonio di Apamea,'1 scolaro di Panezio, vissuto tra il 135 e il 51 a. C., "fu di raggruppare, in modo piu completo di chiunque altro, la massa di credenze che dominavano lo spirito degli uomini, dando ad esse una forma singolare ed eloquente. 

 

II vasto insieme dei suoi scritti esprime con una.pienezza unica lo spirito generale del mondo greco all'inizio dell'èra cristiana: egli concentrò questo. spirito e lo rese consapevole. 

 

È per questa ragione che, in seguito, gli scrittori che si occuparono di teologia, di filosofia, ·di geografia o di scienze naturali, considerarono Posidonio come la fonte piu abbondante e piu facilmente accessibile a cui attingere. 

 

Egli li Posidonio, nato sul 135 a. C. ad Apamea, in Siria, a circa venti anni lasciò la patria, dilaniata da lotte intestine, disprezzando, inoltre, la molle vita delle città greco- siriache. 

 

Giunto ad Atene nel 115, entrò nella Stoà, allora diretta da Panezio. Ritiratosi Panezio dall'insegnamento nel 110/109, Posidonio lasciò Atene. Si mise in viaggio: fu in Africa settentrionale, in Gallia, altrove. Dal 95 a.C. circa fissò la sua dimora in Rodi, ove,·divenuto celebre per la sua cultura, il suo insegnamento, le sue ricerche scien- tifiche e storiche, fu fatto cittadino onorario della città, occupandone anche la pritania. Ambasciatore a Roma sostenne gli interessi di Rodi. 

 

In Rodi venne visitato dalle mag- giori personalità del tempo. Tra gli altri lo fu da Pompeo, e Cicerone si recò apposita- mente a Rodi per ascoltarlo. 

 

Delle moltissime opere di Posidonio, andate perdute, riferiamo qui i titoli tramandati: Fisica {~cnxòç ).6yoçl; "Sull'universo" (IIe:pt x6CJ!'OUl; "Sugli dèi" (IIe:pt &t:wvl; "Sugli eroi e sui dèmoni" (IIcpt ijpc!!Cil\1 X(Xl à(XLI'6116l\ll; "Sul fato" (IIt:pl &:(I'(XPI'évtJçl; “Sulla divinazione” (IIt:pl I'(XVTLlrijc;;l; “Sull’anima” (IIcpl ~U)('ijt;l; "Introduzione al linguaggio" (E!a(XyCilyi) ncpl >Jl;t:Cilç l; 

"Contro Ermagora" {Upòt; 'Epi'(Xy6p(X11 l; 

"Sul criterio" (IIcpl TOU xpLTCptou l; 

"Sulle passioni" (IIcpl 7rot&wv l; 

"Dottrina del carattere" (:Eu\IT(Xy- V.CC mpt 6py'ijçl; 

“Sulle virtu” (IIa:pl~~'lipCTW\1l; 

"Etica" ('Hihxòc;;~·Myoc;l; 

"Protrepttci" (IIpOTpmTLXot); 

"Sul dovere" (IIr:pl wu xcx&Tjxo\ITOc;l; 

"Esege# del Timeo di Platone" ('E~iJY1JaLç TOU IIM.TCil\10<;; TLI'(X(ou l; 

"Sulle meteore" (IIe:pl !.I.ETC6lp6l11 l; 

"Sulla grandezza del Sole" {Ilcpl TOU 'H).(ou l'cyi&ouc;l; Su Zmone (IIpòt; ZijiiCil\I(Xl; Sujl'oceano (Ilepl cllXC«VVul;Oltre Polibio (TIZ I'CTii Ilo).(~L0\1l; Tattica (Téxll'll T(XXTLxij l; 

Lettere ('E7rLCJTOì.r&t l- 50    univa i vantaggi di uno stile attraente e colorito a quelli di una enciclopedia" (E. Bevan, Stoics and Sceptics, Oxford, 1913}. 

 

D'altra parte, si è anche detto, il fatto che il nucleo degli scritti di Posidonio fosse tratto dalla filosofia corrente delle scuole e dalle credenze popolari accresce la difficoltà che sorge quando si cerca di attribuirgli con sicu- rezza molte idee che ritroviamo presso scrittori a lui posteriori. "Que- ste idee possono infatti essere giunte a questi scrittori attraverso la mediazione di altri" (Bevan, cit.). 

 

Senza dubbio dietro molte cognizioni di Cicerone, che ascoltò Posidonio a Rodi, di Filone l'Ebreo, di Strabone, di Seneca e cosi via, c'è Posidonio, ma ci sono anche quei molti manualetti di filosofia popolare, per lo piu di tipo stoico, che sappiamo circolare nel 1 secolo a. C., e che erano compilazioni di luo- ghi comuni, di sentenze correnti, di detti popolari. Impossibile ricostruire attraverso le fonti una posizione, storicamente attendibile, di Posidonio, ché a seconda delle fonti usate potremmo avere piu Posi- doni l'uno diverso dall'altro; tuttavia mediante quelle fonti stesse, cri-ticamente vagliate, è possibile cogliere un Posidonio volto, piu che a costruzioni astratte, a raccogliere dati, descrivere e catalogare fenomeni, a rendersi conto e a rendere conto di quei dati e di quei· fenomeni stessi, dai normali agli anormali all'osservazione, si tratti di fenomeni fisici o di fenomeni cosiddetti psichici, o di fatti storici, in un tenta- tivo, sembra, di dare una spiegazione integrale dell'universo o, com'è stato detto, di "rendere l'universo familiare agli uomini." Già un primo sguardo ai testi da cui si traggono le testimonianze su Posidonio o entro cui si trovano citazioni da Posidonio, rivela non solo la molteplicità degli interessi di lui in campi molteplici, ma anche, e soprattutto, il fatto che Posidonio servi da fonte e da informazione a uomini di culture diverse e mossi da interessi diversi. 

 

Chi si limitasse a Cicerone o a Seneca avrebbe un Posidonio studioso di questioni morali e sociali; chi si limitasse a Galeno avrebbe un Posidonio stu- dioso di fenomeni psichici; chi si limitasse a Strabone o a Simplicio o a Stobeo o ad Ateneo, avrebbe un Posidonio descrittore di fenomeni naturali, geometrici, astronomici, astrologici, geografici, storici; chi si limitasse a Cicerone e a Diogene Laerzio avrebbe un Posidonio assai vicino a un Cleante e a un Crisippo, particolarmente in fisica. 

 

Abbiamo citato solo alcuni nomi di autori dalle cui opere è possibile trarre informazioni su Posidonio, ma già questi sono assai indi- cativi per mostrare da un lato gli aspetti diversi dell'opera posidoniana e, dall'altro lato, l'impossibilità di ridurre il pensiero di Posidonio a una o ad altra precisa dottrina. Cosi v'è chi, unilateralmente puntando su certe fonti, da cui sem- bra apparire una qualche insistenza di Posidonio sulla lotta tra un  51   principio positivo e attivo e un principio negativo e passivo, tra forza attiva e materia, tenendo presente l'origine orientale, siriaca di Posidonio, ha fatto di Posidonio un mistico, legato.a concezioni dualistico- religiose "orientalizzanti," che di contro al razionalismo unificante proprio dello stoicismo greco, avrebbe inserito entro la concezione stoica il motivo di forze irrazionali, come starebbe a dimostrare la polemica di Posidonio contro Crisippo e il primo stoicismo che, ridu- cevano, invece, l'errore e il male a sbaglio logico, negando l'esistenza di un'anima irrazionale, e sostenendo che le passioni non sono che errori di giudizio. E cosi v'è chi - sempre escludendo quelli che sono stati gli aspetti diciamo scientifici dell'indagine posidoniana, appunto perché "scientifici" e non "filosofici" - ha cercato, spuntando precise testimonianze, avulse dai loro contesti, di fondare tutta la concezione di Posidonio sul motivo stoicheggiante della "simpatia" universale, dimostrando come proprio in questo Posidonio si allontanasse dal maestro Panezio, riallacciandosi allo stoicismo di Crisippo (diceva Crisippo che il pneuma diffondendosi e penetrando ovunque, au!J.ftot&ét; ~nLV ot1Y.(j).ro niv cfr. Arnim, II, fr. 473). 

 

Posidonio, ancm:a di contro a Panezio, avrebbe ripreso la tesi della ciclicità del tutto i cui termini estremi, toccantisi, sono dovuti alla conflagrazione (ecpirosis) del cosmo, in cui l'universo, che si scandisce per degradazione nelle due zone del razionale e del- l'irrazionale (aristotelicamente del sopralunare o celeste e del sublu- nare o terrestre e mortale e corruttibile), si riassorbe tutto - ivi com- prese le anime umane - nel l6gos universale. Entro questi termini (dovuti alle ricostruzioni dello Schmekel e del Reinhardt, mentre molto piu cauto, usando tutte le fonti, appare l'Edelstein) si è delineato un ben preciso sistema di Posidonio, in cui mentre da un lato.sarebbero penetrati motivi mistici e irrazionali di provenienza orientale, dall'altro lato tali motivi sarebbero stati spie- gati da Posidonio, al di là delle tesi propriamente stoiche, mediante la concezione aristotelica dell'universo distinto nelle due zone, celeste e sublunare, e la concezione platonica dei due aspetti dell'anima, la razionale e l'irrazionale, in una conseguente ripresa del dualismo pla- tonico, proprio del Timeo (sembra che Posidonio abbia scritto un commento ·al Timeo) nella tensione tra Intelligenza e Necessità. 

 

Posidonio, dunque, avrebbe posto a fondamento del tutto due principi attivo l'uno (~ò noLouv, tò poiun), passivo l'altro (~ò n«oxov, tò paschon), in quanto materia sostanziale non avente alcuna qualità (Diogene L., VII, 134). 

 

"La materia e sostanza di tutto, Posidonio disse che è senza qualità e senza forma, non avente né una forma distinta per sé né una qualità in sé" (Doxographi Graeci, p. 458, 811). L'altro principio, il principio attivo o divino, è alito caldo, pneuf!Ja e fuoco, forza vitale che, pur senza forma, si diffonde e dà forma alla materia informe, esso l6gos dando a tutti una ragione, una propria ragion d'essere. "Dice Posidonio:.&&6c; la-rL 7tV&:U(.Lot vo&:pòv 8L~xov 8L' &:7tl%<71jc; oòatotc;: dio è alito razionale diffuso per tutta la materia" (Commenta Lucani, ed. H. Husener, ad. v. 578, p. 305). Ne discende che la realtà qual è scaturisCe nelle sue qualificazioni, cominciando dagli elementi (fuoco, aria, acqua, terra), dalla tensione tra il principio attivo e quello pas- sivo in una gradazione che va dal superorganico (l'originario fuoco, l'originaria forza, il l6gos divino, inesistente in sé quale realtà tra- scendente) all'organico e all'inorganico, dal razionale (di cui parteci- pano dèi e uomini) all'irrazionale, al limite, al corpo, come termine estremo e affievolito dal diffondersi del pneuma. 

 

Di qui la distinzione tra un mondo celeste e divino ed un mondo sublunare e corporeo, cor- ruttibile, già oltre la natura e sottoposto al fato. 

 

"Dice Posidonio che il fato è terzo dopo Zeus. Primo è Zeus, seconda la natura, terzo il fato" (Doxographi graeci, 234a, 4). L'irrazionalità, dunque, in quanto mancanza di organicità, di razionalità, di ordine collegante ("sim- patia") è propria del mondo corporeo e, perciò, anche dell'uomo in quanto corpo, impulsività (primo aspetto dell'anima irrazionale) e desiderio (secondo aspetto dell'anima irrazionale). 

 

Le passioni non sono, quindi, dovute ad un errore di giudizio, ma hanno una loro realtà, accanto all'altro aspetto altrettanto reale dell'uomo, che è, in lui, la forza egemonica, la razionalità (anima razionale), mediante la quale l'uomo può coordinare le passioni, con ciò facendosi specchio di quell'ordine che è costituito dal divino 16gos o pneuma che si dif- fonde e si realizza nell'ordine con cui appare il tutto. 

 

Animato il tutto per la razionalità o forza vitale e organica che gradatamente per il tutto si diffonde sino al limite del corporeo e dell'irrazionale, posto l'uomo come nesso tra l'irrazionale e il razionale, oltre l'uomo, tra l'uomo e il principio divino, vi è tutta una serie di anime, di demoni e di eroi intermediari. Secondo certi stoici, scrive Alessandro Polii- store, "l'aria è tutta piena di anime, venerate come demoni ed eroi; sono esse che mandano agli uomini sogni e presagi" (in Diogene L., VIII, 32). 

 

E tale tesi è da Cicerone (De divinatione, l, 64) attribuita a Posidonio. 

 

Di qui, sembra, il motivo posidoniano della divinazione e, sul piano della "simpatia," il significato che vengono ad avere le congiunzioni stellari e i loro influssi, attraverso le graduazioni demo- niche, sulle cose e sugli uoplÌni (cfr. Ario Didimo, f. 32 in Doxographi Graeci, p. 466, 18; Achille Tazio, lsagoge in Arati Phaenomena, c. 10), ché, appunto, le stelle e gli astri sono divinità. Senza dubbio stoica, nel suo complesso, la concezione di Posidonio,  53   si capisce d'altra parte com'essa sia stata detta eretica e platonizzante nei confronti dello stoicismo primo, e non solo per ciò che riguarda la "fisica" - secondo Diogene Laerzio, VII, 41, Posidonio poneva, nell'ordine degli studi, innanzi tutto la fisica, - ma anche, paralle- lamente, per ciò che riguarda l'"etica," soprattutto per la minuziosa indagine posidoniana delle passioni, dell'irrazionale e del male, del fato, che sono propri della natura umana, ad essa radicati e che si risolvono solo, platonicamente, in un controllo delle passioni, in una sapiente misura, per cui è possibile da parte di chi sa, di chi ha com- preso e studiato le umane passioni e gli umani caratteri, un'educazione dell'anima, mediante l'indicazione di un ordinamento delle passioni stesse, in cui consiste la razionalità, in un amore di sé come armonia, specchio dell'armonia del tutto, che diviene ad un tempo amore degli altri, in quanto tutti, cose e uomini, sono come organi di un solo orga- nismo (dr. in particolare, per l'analisi delle passioni e per la loro terapia, Galeno, De plac. Hipp. 6t Plat., libri IV e V). Sotto questo aspetto, la funzione del filosofo, in quanto saggio, è d'essere educatore e, per ciò stesso, socialmente e politicamente impegnato. 

 

Molti piu frammenti e testimonianze abbiamo relativamente alle ricerche ed alle scoperte scientifiche di Posidonio. Innanzi tutto sap- piamo che gran parte delle sue descrizioni di fenomeni, dei suoi cal- coli, delle sue dottrine, sono dovuti a osservazioni dirette, a minuziose raccolte di dati, opportunamente vagliati e non solo catalogati. 

 

Sappiamo altres1 che Posidonio, nato in Siria, ad Apamea (città greca sull'Oronte, fondata un secolo e mezzo circa prima della sua nascita), abbandonò ancora giovane la patria, dilaniata da lotte intestine, da guerre tra città e città, nella corsa al potere dell'uno o dell'altro prin- cipe della oramai distrutta casa seleucida. Due frammenti di Posidonio parlano, anzi, del suo disprezzo per la vita molle delle città grcco- siriache e per la "miserabile farsa delle loro operazioni militari" (cfr. Bevan, cit.). Da Apamea Posidonio venne ad Atene, ove entrò nella scuola di Panezio circa nel 115 a. C. Dopo la morte di Panézio (110/09) viaggiò molto: fu in Africa settentrionale fino alle colonne d'Ercole (Strabone testimonia ch'egli vide coi proprt occhi calare il sole di là dei limiti del mondo sconosciuto: III, l, 5, 138; che vide alberi popolati di scimmie: XVIII, 3, 4, 827). Visita l'entroterra di Marsiglia e in quei villaggi barbari vide teste umane appese alle porte delle capanne (Strabone, IV, 5, 198); e, sempre spinto dalla sua curio- sità e dall'esigenza delle sue ricerche,· fu ovunque nel mondo occiden- tale conquistato e ordinato da Roma. 

 

Fissa la sua dimora in Rodi, la patria di Panezio, ove scrisse le sue opere, insegnò, divenne celebre, cittadino onorario di Rodi, di cui occupò 54    anche la pritania, e per cui andò ambasciatore a Roma, visitato dai romani che passavano per Rodi (come fu il caso di Pompeo) o che da lui veniv,ano appositamente per studiare, come fu il caso di Cicerone. Sono tutti dati molto indicativi. Discepolo di Panezio, quando Panezio era scolarca della Stoà ad Atene, Posidonio, in effetto, non fu stoico di professione, non fu scolarca della Stoà, legato cioè a certe regole. Viaggiò molto, raccolse u n notevole materiale di osservazioni. non s'impegnò mai con un partito, né fu cliente, tanto che fissò la sua dimora a Rodi, la città rimasta piu libera del mondo dominato da Roma. 

 

Il complesso delle sue ricerche e delle sue osservazioni lo portarono non solo a raccogliere e a descrivere un materiale di prim'ordine in tutti i campi delle scienze naturali (astronomia, meteorologia, geo- grafia), ma anche a formulare teorie che furono fondamentali per ulteriori ricerche e che chiaramente dimostrano la precisione del me- todo proprio dei precedenti grandi ricercatori di Alessandria. 

 

In astronomia, Posidonio, riallacciandosi alla misurazione del diametro del sole ottenuta da Aristarco e migliorata da lpparco di Nicea e rifacendosi a un calcolo di Archimede, giunse a dare la misura del diametro del sole e della distanza di esso dalla terra che piu si approssima alle misure calcolate oggi, spiegando anche perché il sole appare piu grande sul filo dell'orizzonte che non nel cielo aperto (cfr. Plinio, Nat. ·hist., II, 85; VI, 57), mentre descriveva il fenomeno della rifrazione atmo- sferica (cfr. Cleomede, Sul moto circolare dei corpi celesti), Posidonio poi, rifacendosi all'analisi che delle maree avevano dato Eratostene e Seleuco di Seleucia, mediante osservazioni proprie, fatte dalle coste della Spagna atlantica, sostenne che le maree sono dovute agli sposta- menti della luna, descrivendo, per primo, i tre periodi delle maree: alta e bassa marea quotidiana; alta e bassa marea mensile; alta e bassa marea annuale. 

 

Il fenomeno è, secondo Posidonio, dovuto all'influenza della luna e degli altri astri sulla terra, entro l'ambito della simpatia universale. Celebri furono anche le descrizioni e catalogazioni, meto- dicamente effettuate da Posidonio, dei fenomeni sismici, ch'egli, con Aristotele, spiegava mediante l'ipotesi che i movimenti terrestri fos- sero dovuti all'aria circolante nelle cavità sotterranee, e la descrizione della formazione delle comete. Si è detto, infine, che Posidonio è stato il fondatore dell'"etnologia." In effetto, Posidonio, rifacendosi a de- scrizioni di popoli date da Erodoto e da Polibio, alle analisi dei carat- teri umani e dei popoli di certi testi ippocratici, mediante osservazioni proprie, ha cercato di determinare i caratteri fisici e i tratti psicologici di ciascun popolo, spiegando tale rapporto psico-fisico con l'influenza dei climi. Egli ha cosi nettamente distinto ·i popoli europei del nord  55   dai popoli europei del bacino mediterraneo. 

 

Ha sottolineato che i popoli del nord e quelli delle zone tropicali, gli uni per il troppo freddo, gli altri per il troppo caldo, hanno intelligenza ottusa, mentre i popoli che vivono in clima temperato hanno intelligenza vivace, e in loro prende il sopravvento il logos, la razionalità, fonte di civiltà e di equilibrio. Ogni natura (piante, animali, uomini) si determina qual è nel suo luogo naturale, ma quando viene trasportata in altra regione si adatta poco a poco ai caratteri del nuovo ambiente, finché ne assume la natura propria. 

 

Abbiamo, non a caso, citato il nome di Archimede e il nome di Ipparco. 

 

Ipparco di Nicea, in Bitinia, visse ad Alessandria e a Rodi, dove compf la maggior parte delle sue osservazioni. 

 

Non è qui il luogo per descrivere le scoperte di Ipparco e i suoi calcoli. Basti ricordare ch'egli ottenne la possibilità di determinare la posizione delle stelle (calcolò la posizione di circa 800 stelle) e di farne un catalogo, appurandone la grandezza a seconda della loro luminosità, calcolando la loro longi- tudine e latitudine, mediante processi matematici, per i quali, usando pratiche babilonesi, determinò i fondamenti della trigonometria. Posto un circolo, egli lo divise in 36 gradi, ogni grado in 60 minuti e cia- scun minuto in sessanta secondi. " 

 

Dividendo poi il diametro in 120 parti, Ipparco cercò di calcolare, con procedimenti teorici, di cui troviamo l'applicazione in Tolomeo, e non con semplici approssima- zioni pratiche, il valore delle corde in rapporto a queste parti del diametro. Non solo, ma per rendere piu comodi e piu rapidi i calcoli astronomici nei quali dovevano essere utilizzati i diversi valori delle corde, ne stabiH una vera 'tavola' cominciando da un angolo di una metà dì grado e successivamente procedendo per metà di grado. Si vede di quale aiuto poteva essere una tale tavola, e quale ·precisione un simile procedimento trigonometrico dava alla espressione matema- tica delle osservazioni astronomiche" (P. Brunet, La science dans l'an- tiquité, in Histoire de la Science, a cura di M. Daumas, Parigi, p. 266). 

 

Su questa base scaturisce il tentativo di Ipparco di applicare le costruzioni geometriche alla realtà concreta dei fenomeni osservati. Solo dopo la piu attenta.osservazione del movimento di ciascun astro, delle sue eccezioni, della sua grandezza e periodo, per cui Ipparco, oltre la tavola trigonometrica, si costruf degli strumenti nuovi (per la misura del diametro apparente del sole e della luna, costruf uno stru- mento migliore di quello che s'era fatto Archimede, in quanto munito oltre che di un punto visivo mobile, di un punto visivo fisso con cui con esattezza si otteneva il dia~etro angolare dell'astro), è possibile passare alla costruzione geometrica che renda ragione delle apparenze. 56    Ipparco cosi, studiando il sole, dimostrò per via di misurazione la ine- guaglianza delle stagioni, mediante gli eccentrici e gli epicicli, deter- minando la posizione del sole per ogni giorno dell'anno, giungendo quindi a formulare la celebre teoria della "precessione degli equinozi." Ipparco, infine, sempre sul piano del calcolo e della misurazione con- tinuò l'opera geografico-matematica di Eratostene, sviluppando l'uso delle coordinate geografiche, cioè introducendo paralleli e meridiani, indicando cosi le regole geometriche mediante cui è possibile disegnare carte piane del cielo e della terra. 

 

Sembra che per la rappresentazione del cielo abbia proposto una proiezione stereografica e per quella della terra una proiezione ortografica (cfr. Brunet, cit., p. 273). 

 

A parte i risulçati di Ipparco, ciò che soprattutto interessa sottolineare qui è il tipo della sua ricerca, che, sul piano di un Archimede, di un Eratostene, sul piano di quella ch'era divenuta la ricerca propria dei "filosofi" di Alessandria"', indipendentemente da pregiudiziali teo- logiche, da costruzioni già date "a priori," si fonda sull'osservazione sperimentale, e, attraverso questa, senza rimanere preso dalla pura enumerazione dei fenomeni, vien determinando una teoria, che serva a rendere ragione dei fenomeni osservati, attraverso il calcolo e la misura- zione matematica (che assumono il valore di strumento, si come gli strumenti veri e propri che servono per quelle misurazioni e calcoli me- desimi, come n'è esempio il nuovo astrolabio inventato da Ipparco). D'altra parte, ciò che, come abbiamo detto, colpisce particolarmente chi studia come si sono costituite le scienze dei primi "filosofi" di Alessandria, fino a un Eratostene, un Archimede, un lpparco, se da un lato è la prevalenza data all'osservazione diretta e allo studio delle condizioni che permettono l'una e l'altra ricerca, che diviene scienza, appunto, a seconda dell'uso corretto delle sue stesse limitazioni, dal- l'altro lato, ed entro lo studio di quelle condizioni medesime, è l'allon- tanamento dalla prima impostazione dovuta agl'immediati discepoli di Aristotele, che, in un'accentuazione dell'ultimo Aristotele, per il pericolo sempre implicito in Aristotele che per il suo legame con Platone si era mantenuto sul piano delle "forme" e quindi sempre della filosofia intesa come teologia, avevano decisamente puntato sulla mèra raccolta di dati, sull'enumerazione, che in quanto tale, rende alla fine impossibile il sapere. Molto bene ciò si nota quando chiaramente si vede (si cfr. particolarmente Archimede) da un lato l'importanza data all'esperienza, all'osservazione, alla catalogazione dei fenomeni nor- mali e anormali, ma dall'altro lato, attraverso la stessa analisi dei feno- meni, alla invenzione di ipotesi che riescano concretamente a spiegare in unità una molteplicità di fatti. 

 

Tutto ciò, naturalmente, era pio facile finché si trattava, entro l'ambito di ciascuna scienza di trovare le condizioni dell'una e dell'altra. 

 

Piu difficile lo fu per la fisica e particolarmente per l'astronomia. 

 

L'astronomia, e per altro verso la fisica, dopo Platone - si pensi in special modo alla soluzione del "Timeo", delle "Leggi" e dell'"Epinomide,"e all'importanza politica ch'ebbe per Platone quella soluzione - anda a cozzare contro il motivo (d'altra parte ripreso da Aristotele) del movimento circolare e uniforme dei cieli. 

 

Con esso, che, in quanto movimento perfetto e razionale, viene identificato con il divino, entrava in contrasto il rispetto dei fatti e diveniva estremamente astratta la riduzione della fisica e dell'astronomia a teologia, ché la soluzione geometrico-matematica dei fenomeni (la "salvazione dei fenomeni") correva il rischio di passare da strumento esplicativo a costruzione per sé stante entro cui, poi, dovevano essere costretti i fenomeni. 

 

I termini del contrasto si vedono bene quando si pensi all'accantonamento della teologia operato in Alessandria dagli "istorici" e poi, andando oltre essi, dai "filosofi" che usarono la matematica e la geo- metria come strumenti esplicativi dei dati Bsservati e sperimentati, finché alla loro volta in altri ambienti (sempre per sottintese esigenze politiche) quelle ipotesi geometrico-matematiche tornarono ad avere la funzione che avevano assunto in Platone e in Aristotele, definitiva- mente teologizzando la filosofia. 

 

Per altro verso, tale contrasto si vede bene allorché si dia il debito peso alla polemica di Epicuro e all'ipotesi della struttura dell'universo costituito di atomi e di semi vitali, e al "casuale" incontro di quegli atomi, ove la razionalità non è piu un dato, una forma per sé, ma una conquista. 

 

Sia pur giungendo a soluzioni diverse - a parte la componente del primo scetticismo.e della seconda Accademia, - anche l'ipotesi del primo stoicismo (Zenone) e il motivo della "simpatia" (Crisippo}, potevano servire alla costi- tuzione di una fisica autonoma, o, per lo meno, alla giustificazione di certe esperienze religiose, non razionali, che s'erano delineate sem- pre di piu in ambienti popolari, lasciti di antiche credenze, di antichi miti e riti. 

 

Ora, una piuttosto ampia documentazione mostra un Posidonio assai vicino al metodo d'indagine proprio di Ipparco di Nicea: analisi minuta e diretta di fenomeni, uso.di certi ritrovati matematici e geo- metrici in funzione della spiegazione dei dati stessi; ma anche studio minuto e diretto di fenomeni psichici (forze irrazionali, caratteri di- versi, e cos{ via); registrazione di fenomeni fuori dell'usuale. 

 

Di qui, da parte di Posidonio, nella sua palese esigenza di rendere "familiare l'universo agli uomini," il recupero del motivo stoico della "simpatia" e della ipotesi stoica, mediante cui è possibile pensare la realtà, per cui a fondamento del tutto stanno due principi non qualitativamente determinati, non aventi cioè "forma": da un lato urra quantità assolutamente indefinita, dall'altro lato una forza. Dalla tensione dei due termini si costituiscono e si qualificano le cose, onde l'ordine e la razionalità non son presupposti, "forme," ma si costituiscono nella stessa tensione dei due termini, in un conflitto ove la misura e la razionalità sono un'operazione, ove operativa è la stessa scienza e la saggezza, e dove la religiosità consiste da un lato nel sentirsi dipendere dalle forze irrazionali (documentate dall'esperienza, testimoniate dalle tradizioni religiose popolari, dai misteri) dall'altro lato nell'operare, mediante il l6gos, su quelle forze, costituendo un'armonia che è la stessa razio- nalità. 

 

Giuoco di forze l'universo, giuoco di forze l'uomo; il logos, che è soffio vitale (pneuma), scaturisce dall'equilibrio di quelle forze nella con-passione (simpatia) dell'una e dell'altra forza, e perciò nel- l'organarsi dell'una e dell'altra cosa, dell'una e dell'altra forza vitale (anima), onde le reciproche influenze e simpatie, ivi comprese le influenze stellari, come, ad esempio, le maree dovute alla Luna, e i rapporti tra le anime incorporate e le anime (pnéumata) che per gradi si trovano tra il l6gos e i corpi. 

 

Sembra, cosi, chiaro come per Posidonio, curioso di ogni aspetto della realtà, dei fatti della natura e dei fatti umani, la "filosofia" sia scienza in quanto consapevolezza dell'operatività del sapere, mediante cui se da una parte è possibile rendere "familiare l'universo," dall'altra parte, entro un tale universo familiarizzato, è possibile rendere docile la natura, dare all'uomo, operando sulla natura, una vita civile. Vi è a tal proposito una testimonianza preziosa di Seneca (Lettere a Lucilio, XIV, 90). 

 

Seneca discute e critica la tesi posidoniana, sostenendo che pur riconoscendo a Posidonio d'aver "portato un gran contributo alla filosofia" (Lett. a Luc., 90, 6-7), non può ammettere oon Posidonio che la filosofia sia tecnica, sia operatività, che mediante la filosofia si siano costituite e abbiano progredito le tecniche, che naturalmente modificano e trasformano la natura in funzione del benessere umano: dalle tecniche per costruire case alle tecniche per fare il pane, alle tecniche per coltivare (agricoltura), alle tecniche per avere le case riscaldate, comode, a quelle per costruire tavole, e cosi via. 

 

"Non posso concedere a Posidonio che la filosofia abbia trovato le arti di uso comune, né saprei darle la gloria dei mestieri fabbrili. 

 

La sapienza sta piu in alto, non delle mani maestra, ma delle anime (sapientia altius sedet nec manus edocet, animorum magistra est)" (Lett. a Luc., 90, 7, 25-26). 

 

Nella polemica di Seneca - e si vedranno le ragioni per cui Seneca dà àlla filosofia un compito liberatore, il compito di purificare l'anima, di curarla, per condurla alla contemplazione del divino, in un'evasione da questo mondo - sembra chiarirsi l'atteggiamento proprio di Posidonio, anche nel campo piu strettamente politico, ché, appunto, anche la politica è saggezza, e, in quanto tale, è operativa, cioè capacità da parte del saggio di costituire, di creare un ordine tra le passioni, in un equilibrio che è conquista, e che, in quanto equilibrio, è, ad un tempo, giustizia. 

 

Sappiamo, ora, che Cicerone, il quale aveva ascoltato Posidonio a Rodi e che con Posidonio era entrato in dimestichezza, tanto da inviar- gli la Storia del proprio consolato, perché il grande storico la usasse per la sua opera (può essere abbastanza sintomatico che la richiesta di Cicerone sia rimasta senza risposta), fece largo uso delle notizie, dei dati, delle singole dottrine scientifiche di Posidonio, e soprattutto della tesi posidoniana relativa all'unificazione delle scienze nella filosofia, ma in funzione della cultura enciclopedica propugnata da Cicerone, utile per la formazione dell'oratore (cfr. particolarmente, De Oratore, III, 55 sgg., 57, 61, 87 sgg.). 

 

Anche; tale deviazione ciceroniana è piuttosto indicativa, come lo è il fattiféhe, appunto, il successo che ebbe Posidonio nel futuro della cultura fu dovuto essenzialmente alla mèsse di notizie, di dati, di istorie, che si sono ritrovate in lui, usato soprattutto come una specie di enciclopedia del sapere. 

 

Sembra, infine, che Posidonio, sottolineando i rapporti intercorrenti degli oggetti che scaturiscono dalla tensione tra i due principi nell'or- ganarsi delle cose sotto la spinta del logos, del pneuma, abbia da un lato giustificato sul piano di un'ipotesi le possibili influenze dell'una stella sull'altra e delle stelle e degli astri sulla terra e sulle cose della terra, ivi compreso l'uomo (astrologia); dall'altro lato, posto che per gradi di affievolimento, non giungendo il 1ogos a tutto, vi è una zona che rimane come abbandonata a sé, pura quanticl, abbia con ciò giu- stificato non solo le passioni e il caso, ma anche indicato la possibilicl di operare, mediante il 1ogos umano, su quella zona, qualificando certe cose, cioè trasformando il loro primigenio aspetto in altro. 

 

Posidonio, pare, giustificava cosf tutta una serie di esperienze che aveva determinato la tradizione astrologica (di provenienza caldaica) e tutta un'altra serie di esperienze che, pur rifacendosi all'astrologia, si era delineata per un verso nella fiducia di costituire delle tecniche mediante cui con la natura trasformare la natura (alchimia, magia), e per altro verso operando su certe cose, in rapporto diretto con una o altra influenza stellare, influire sulle stelle stesse e perciò sugli uomini e sugli dèi (magia astrologica). 

 

Anche se, indirettamente, alcune testimonianze hanno fatto pensare che Posidonio abbia raccolto del materiale intorno alla storia della magia e abbia descritto esperienze magiche, e abbia inoltre composto una specie di storia dell'astrologia- che, si badi, nell'antichità non era affatto distinta dall'astronomia - il silenzio di Cicerone, il quale, comunque, sostiene che tra gli stoici il solo Panezio avrebbe rifiutato gli "astrologorum praedicta" (De divinat., II, 88), e il silenzio, in merito, di fonti piu tarde, non permettono un piu lungo discorso. 

 

Ha, invece, una sua importanza l'accostamento tra Posidonio e Democrito fatto da Seneca nella Lettera a Lucio. 

 

Dopo avere negato che le tecniche e le invenzioni siano frutto della filosofia e della saggezza come avrebbe voluto Posidonio, Seneca cita Democrito.

 

Il medesimo Democrito trova come si leviga l'avorio, come un sassolino sottoposto a cottura si trasforma in uno smeraldo, come anche oggi, cuo- cendoli, si colorano certi sassi adatti a essere cosf colorati. Ora, anche se un saggio ha fatto queste scoperte, non le ha fatte perché era un saggio (Seneca, Lettere a Lucilio, 90, 33). 

 

È noto come, ancora una volta, bisogna rifarsi a Cicerone per ri-costruire, molto approssimativamente, quello che fu il pensiero di Filone di Larissa e di Antioco di Ascalona, l'uno e l'altro per un certo periodo della loro vita scolarchi dell'Accademia; e come, in effetto, sia la posizione di Filone sia quella di Antioco, e il conflitto tra di loro, si possano comprendere solo attraverso il filtro di Cicerone e le sue intenzioni. 

 

Secondo l'"Academicorum index herculanensis" (XXV, l, 36; XXIV, 28; XXIX, 39.; XXX, 5), a Carneade, ritiratosi per e malattia, successero nello scolarcato dell'Accademia, prima Carneade di Polemarco, poi Cratete di Tarso, al quale successe un altro discepolo di Carneade, Clitomaco, detto Asdrubale, nato a Cartagine. 

 

Carneade di Polemarco e Cratete di Tarso non sono piu che dei nomi.

 

Dello stesso Clitomaco sappiamo pochissimo. 

 

Venuto ad Atene 

 

Dei primi successori di Carneade sappiamo pochissimo, in realtà solo i nomi: 

 

Carneade di Polemarco, scolarca; Cratctc di Tarso, scolarca; Clitomaco Asdrubale di Cartagine, scolarca.

 

Sembra che Clitomaco, per un qualche disguido con Carneade, nel 140 - nato circa a Cartagine, - apre una scuola per conto suo. 

 

Ciò rende conto del perché Carneade ritiratosi dall'insegnamento, piuttosto che Clitomaco designato alla sua successione, prima Carneade di Polemarco, poi Cratcte di Tarso. 

 

Solo dopo la morte di Carneade e di Cratcte, Clitomaco, ritenuto il piu fedele interprete del pensiero di Carneade, poté essere nominato scolarca dell'Accademia. 

 

Delle sue molte opere (400 secondo Diogene Laerzio, IV, 67) non abbiamo che notizie. 

 

La piu celebre è una storia della dottrina sulla sospensione dell'assenso, in 4 libri. 

 

Si ricorda anche uno scritto sulle sètte. 

 

Per il resto si veda sopra, s{ come a veda sopra ciò che riguarda le varie correnti determinatesi in seno all'Accademia al tempo di Clitomaco.  

 

su1 ventiquattro anni (cosi secondo l'lndex herculanensis, XXIV, 2; mentre secondo Diogene Laerzio, IV, 67, sui quaranta), aperto alle discussioni piu vive del suo tempo - egli discusse e approfondi le tesi dei peripatetici, degli stoici, degli accademici: cfr. Diogene L., IV, 67.

 

Clitomaco e noto soprattutto per i suoi saggi con i quali divulga il pensiero di Carneade, da lui frequentato per una ventina d'anni, dandone evidentemente una sua interpretazione (si ricordi che Carneade non aveva scritto nulla). 

 

Non sembra un caso, anzi, che contemporaneamente a Clitomaco, di contro a lui, altri discepoli di Carneade abbiano sostenuto che diversamente andava interpretato Carneade. 

 

Delle moltissime opere di Clitomaco (circa quattrocento, sostiene Diogene Laerzio, IV, 67), quasi tutte relative all'esplicazione della filosofia di Carneade (Diogene L., Il, 92, cita anche un suo scritto su Le scuole filosofiche e Cicerone, Tusc. disp., III, 22, 54, un suo scritto consolatorio inviato ai Cartaginesi in occasione della distruzione della città), Cicerone apertamente dichiara di conoscerne e usarne, per esporre la tesi di Carneade sulla "sospensione del giudizio," tre, di cui due dedicate al poeta Caio Lucio e al console L. Censorino, ed una, piu Si veda sopra anche per Callide, Carmada, Metrodoro di Stratonica e i loro relativi discepoli. 

 

A Clitomaco successe Filone di Larissa. 

 

Nato a Larissa, in Tessaglia, Filone fin da giovane potE _ascoltare l'insegnamento dell'accademico Callide che a Larissa dirige una diramazione dell'Accademia. 

 

Passa ad Atene, entrando nell'Accademia, sotto la direzione di Clitomaco. 

 

A Clitomaco succede quale scolarca dell'Accademia. 

 

Filone resse l'Accademia fino allo scoppio della guerra mitridatica, quando si reca a Roma, dove prosegui il suo insegnamento, e dove, sembra, mori. 

 

Nulla e rimasto dei saggi di Filone se non scarsi frammenti e testimonianze di un suo saggio Sulla filosofia e la notizia di un. suo lavoro, composto a Roma, che si sarebbe non poco spostato dallà linea Carneade-Clitomaco-Carmada seguita da Filone finchE soggiornò ad Atene. 

 

Antioco nacque ad Ascalona, in Palestina.

 

Venuto ad Atene, segui per molti anni l'insegnamento di Filone. 

 

Quando Filone si trasfere a Roma, Antioco si reca ad Alessandria, passando prima per Roma dove conobbe Lucullo. 

 

Era sicuramente ad Alessandria con Lucullo. 

 

Era ceno ad Atene, scolarca dell'Accademia. 

 

Segue poi Lucullo nella spedizione di Siria, durante la seconda guerra mitridatica, assistendo alla battaglia di Tigranocerta.

 

Dei molti saggi di Antioco.non possediamo nulla se non ciò che riferisce Cicerone, in particolare di una, il "Sosus."

 

Il "Sosus" e composto da Antioco, al tempo del suo soggiorno ad Alessandria, per controbattere e confutare lo scritto dell'antico maestro Filone giuntagli da Roma e che lo aveva indignato. 

 

Si vede nel testo i termini e il significato della polemica Filone-Antioco. 

 

Se già Filone da un nuovo indirizzo all'Accademia, per cui si disse ch'egli era stato il fondatore di una quarta Accademia; piu deciso ancora verso un aspetto piu dogmatico fu l'indirizzo dato da Antioco per ciò detto il fondatore della *quinta* Accademia.

 

Di Accademie, come dicono i piu, ce ne sono state tre.

 

La prima e piu antica fu quella di Platone.

 

La seconda, o media, quella di Areesilao, uditore di Polemone.

 

La terza e nuova quella di Carneade e Clitomaco. 

 

Alcuni ne aggiungono una quarta, quella di Filone e Carmada, e altri ne contano una quinta, quella di Antioco.

 

-- Sesto Empirico, Pyrr. hypoth., l, 220). 

 

ampia intitolata, appunto, "Sospesione del giudizio," in quattro libri, nei quali venivano esposte e discusse le tesi di Arcesilao e di Carneade. 

 

Non dirò nulla - sottolinea Cicerone - di cui si possa sospettare che sia una mia invenzione.

 

Riprenderò tutto da Clitomaco, vissuto con Carneade, uomo di acutezza veramente cartaginese, e soprattutto accurato e zelante. 

 

Abbiamo di lui quattro libri sulla sospensione dell'assenso ("de sustinendis assensionibus").

 

Sull'autorità di Clitomaco, Carneade spiegasse il suo probabilismo. 

 

Ascoltate ora come tale problema sia presentato da Clitomaco stesso, nel libro da lui dedicato al romano Lucilio, dopo averne dedicato un altro, sullo stesso argomento, a L. Censorino, console con M. Manilio (Cic., Lucullus, XXXI, 98; XXXI1, 102). 

 

A quanto sembra, Cicerone ritene che Clitomaco e un espositore accurato e fedele di Carneade.

 

Del suo zelo analitico e della sua prolissità parla anche Sesto Empirico, Adv. math., IX, l, che, d'altra parte, accomuna sempre il nome di Clitomaco a quello di Carneade, Pyrrh. hypot., l, 220, 230), soprattutto per ciò che riguarda quello che dovètte essere il motivo piu discusso nella scuola, in polemica con i fondamenti della logica stoica, e cioè il motivo dell'assenso cui si accompagnava la possibilità o meno del criterio del probabile, che a sua volta coinvolgeva la possibilità o meno della fiducia nell'azione. 

 

In due modi, aggiunge Clitomaco, si può intendere l'affermazione.

 

Il sapiente sospende l'assenso; l) che il sapiente non dà il proprio assenso a nulla; 2) che si trattiene dal rispondere, senza dichiarare se approva o no, senza negare, senza affermare. 

 

Clitomaco ammette la prima interpretazione, e non dà mai il suo assenso.

 

Adotta anche la seconda e, tenendo ferma la sola probabilità, risponde si o no, a seconda che ciò che si presenta sia piu o meno probabile.

 

Ma solo per quelle appercezioni che spingono all'azione, e per quelle, mediante cui possiamo, quando si venga intero­ gati, rispondere in uno o altro senso, non seguendo che le apparenze, dato, tuttavia, che non diamo il nostro assenso (Cic., Lucullus, XXXII, 104). 

 

Sembrerebbe, dunque, che la interpretazione data da Clitomaco della posizione di Carneade - sulla scia di Carneade egli mostra anche come tutte le tesi che sostengono la possibilità di un sapere assoluto siano controvertibili: cfr. Sesto Empirico, Adv. math., IX, l - s i risolvesse sul piano della totale sospensione, allorché si tratta del vero in assoluto, onde il sapiente non solo non può proclamare alcuna verità, ma, conseguentemente, neppure accettare una qualsiasi opinione.

 

Se tutto è opinione, nulla è opinione, ché assumendo una qualsiasi opinione già si distinguerebbe tra vero e opinabile. 

 

Solo che allora, proseguendo coerentemente su questa via, sarebbe impossibile il criterio del "probabile," sia pur sul piano dell'azione (dice Sesto che "gli Accademici assentiscono a qualcosa con predilezione e, per cosi dire, con simpatia, accompagnata da un forte volere": Pyrrh. hypot., l, 230). 

 

Se l'una rapppresentazione vale l'altra, non si capisce come l'una, sul piano del volere, sia da preferire all'altra, sia piu probabile dell'altra. 

 

E per ciò verrebbe a cadere anche la retorica propugnata da Clitomaco (cfr. Sesto, Adv. math., II, 20 sgg.), che di contro alla dannosità della retorica comune, basata sofisticamente sulla possibilità di muovere gli affetti, sosteneva che la vera retorica consiste nell'avviare a ben pensare, attraverso lo studio e la discussione delle varie opinioni dei filosofi. 

 

Ma se l'una opinione vale l'altra, l'un giudizio vale l'altro, neppure è possibile pensare bene o pensare male, ed altro non resterebbe che il silenzio. 

 

Tali, sembra, le obbiezioni che in seno alla scuola furono mosse a Clitomaco da altri discepoli di Carneade, i quali tesero a dare del maestro un'interpretazione piu temperata e meno esclusiva. 

 

Su questa linea, per quel poco che ne sappiamo, si mossero particolarmente Carmada e Metrodoro di Stratonica. 

 

Certo, delle molte discussioni che fiorirono intorno al modo di interpretare la genuina filosofia di Carneade poco o nulla sappiamo, se non, appunto, che l'Accademia sembrò un "universo coro" (Sesto Emp., Adv. math., IX, 1). 

 

Cosi, di Callide che diresse una di-ramazione dell'Accademia a Larissa, di Zenodoro di Tiro che ne diresse una ad Alessandria, di Hagnone di Tarso che scrisse un saggio "Contro i retori," di Melanzio di Rodi e di Eschine di Napoli, non abbiamo che notizie esteriori (cfr., per Callide e Zenodoro, lndex herc., XXXV, 36; XXXIII, 8; XXIII, 2; per Hagnone, Quintiliano, lnst. or., II, 17, 15; per Melanzio ed Eschine, Cicerone, Lucullus, VI, 16; De Oratore, l, 45; Diogene Laerzio, II, 64). 

 

Tutti, comunque, appaiono impegnati intorno alla questione della "sospensione dell'assenso" e sulla sua portata pratica, da un lato di contro a certa verità assoluta colta dagli stoici, di là dalla loro stessa impostazione logico-empiristica, che non puo non condurre al silenzio, dall'altro lato di contro al pericolo, portando ad estrema conseguenza la "sospensione del giudizio" sul piano teoretico, di rimanere in silenzio, cioè nell'assoluta impossibilità di pensare e di agire. 

 

Entro i termini di tali discussioni si mossero Carmada e Metrodoro di Stratonica. 

 

Di Carmada si dice che fosse bravissimo oratore, che celebre fosse la sua memoria (cfr. Cicerone, Tusc. disp., l, 24, 59; De Oratore, II, 88, 360; Lucullus, VI, 16), che, fedelissimo di Carneade (ne imitava perfino la voce: Cicerone, Orator, XVI, 51), ne seguisse il metodo (cfr. Cicerone, De Oratore, I, 18, 84), discutendo le varie opinioni, non tanto per far prevalere l'una o l'altra, quanto per richiamare sempre chiunque ad un controllato atteggiamento critico, in cui, d'altra parte, consisteva per Carneade, come già per Clitomaco, la retorica da opporre alla cosiddetta "retorica comune." 

 

Ma proprio perché fosse possibile la riduzione dell'atteggiamento carneadiano a tecnica retorica, mediante cui, dalla discussione di tutte le opinioni, escludendo ogni passaggio dall'opinione al vero in assoluto, si potesse assumere, sul piano pratico, una certa opinione che servisse piu di un'altra, sia nel discorso sia nellfl spinta all'azione, era necessario scostarsi dalla sospensione assoluta propugnata da Clitomaco. 

 

Ugualmente sembra che Metrodoro di Stratonica - sottolinea il Dal Pra - sia stato del parere che convene senz'altro riconoscere l'inevitabilità dell'assunzione di qualche opinione e di qualche posizione.

 

Lo scettico stesso non è pertanto che non abbia alcuna opinione ed alcuna posizione.

 

Piuttosto egli attribuisce alla sua opinione o posizione un valore ben diverso da quello che gli stoici attribuivano alla loro verità. 

 

Per mantenersi nello scetticismo basterebbe pertanto riconoscere la differenza tra verità ed opinione e convenire che non si può dare se non opinione, ossia una persuasione pragmatica, una certezza che è d'altra parte sufficiente per la condotta della vita" (Lo scetticismo greco, Milano, 1950, pp. 227-28). 

 

In effetto la discussione si manteneva qui - entro l'àmbito delle scuole di Atene - sul piano della piu acuta tradizione greca relativa alla problematica logica, scaturita dalla questione dell'aderenza o meno dei termini del discorso alla cosa significata. 

 

Se si ritiene che il discorso verace sia quel discorso che corrisponde nel rapporto soggetto-predicato a reali rapporti di inerem:a propri delle cose, onde, pur usando nomi, i nomi sono tuttavia simboli significanti realmente le cose e il discorso è tale in quanto riflette il discorso del reale (in senso aristotelico).

 

Allora, posto che rimane sempre in dubbio che la rappresentazione, l'immagine o il nome, corrisponda a ciò che è, alla cosa, e che, quindi, lo stesso discorso sia arbitrario, ne deriva che si debba sospendere ogni giudizio, cioè che non si debba né affermare né negare qualcosa di qualche altra cosa, perché ciò implica sempre l'affermazione o la negazione di un'inerenza di cui non potremmo dir niente.

 

Su questo piano, probabilmente essendo inadeguato ogni giudizio, si elimina la possibilità del discorso verace e, per ciò, altro non resta che il silenzio, un pieno ritorno all'afasia di Pirrone. 

 

Oppure, se si ritiene (riallacciandosi al tipo di logica scaturita dalle discussioni intorno all'analitica e all'inerenza necessaria di Aristotele, e delineatasi attraverso la tematica dei sillogismi ipotetici di Teofrasto e l'"implicazione materiale" -- il "se" -- di Diodoro Crono e di Filone Megarico), che il discorso si fondi su rappresentazioni (già esse giudizi e proposizioni, e non soggetti e predicati), non perciò analizzabili, sulla cui veracità ed esistenzialità assumiamo fede in quanto afferrano piu fortemente di altre, ne deriva che il discorso si costituisce di rapporti tra rapprèsentazioni-giudizi, la cui implicazione è dovuta al ricordo e, dunque, all'anticipazione. 

 

Perciò verace o no è il discorso, se corretta o meno è la implicazione, indipendentemente dall'adeguazione o meno, nel giudizio, alla reale ineremea (di qui i sillogismi ipotetici, e ipoteticamente il porsi delle possibili strutture della realtà).

 

Se si ritiene E:iÒ, si può benissimo, sul piano della verità in sé e della esatta corrispondenza tra rappresentazione e cosa rappresentata, parlare di sospensione del giudizio e di non assenso, mentre sul piano del discorso si può parlare di probabilità relativamente a ciò che esso significa, assumendo quel discorso che appare come il meno contraddittorio, cioè il piu probabile, il piu credibile (nr.kv6v, pithanòn). 

 

In altri termini, se sul piano del vero non c'è nessun "criterio" che permette di sostenere che le cose sono comprensibili (per cui può anche darsi che lo siano), onde non si può parlare né di vero né di falso, sul piano, invece, delle rappresentazioni, quali si presentano alla mente, indipendentemente dal loro corrispondere o meno alla cosa, si può parlare, relativamente a ciò che appare, di verità e di falsità. 

 

Il remo che nell'acqua appare spezzato e fuori dell'acqua diritto, può darsi che in sé sia spezzato o diritto.

 

Perciò su questo sospendiamo il giudizio.

 

Solo che è vero che ai sensi appare spezzato ed è vero che ai sensi appare diritto, ma anche che, se piu evidente è attraverso l'impressione stessa, ch'è diritto, è vero, nel giudizio, che è diritto ed è falso che è spezzato, e perciò l'assenso è di probabilità (per l'esempio del remo, o per quello del colore cangiante delle piume del collo della colomba, cfr. Cicerone, Lucullus, XXV-XXVI). 

 

Tale, sembra, la posizione di Filone di Larissa che, discepolo diretto di Clitomaco, al quale successe nella direzione dell'Accademia, alla morte di Clitomaco, fu piu vicino alla interpretazione che di Carneade avevano dato Carmada (di cui furono scolari Diodoro e Metrodoro di Scepsi, ma dei quali non abbiamo che i nomi: cfr. lndex herc., XXXV, 39; Cicerone, De Oratore, II, 88, 360; Plinio, Nat. hist., VII, 24, 89) e Metrodoro di Stratonica (di cui furono scolari Metrodoro di Pitane e Metrodoro di Cizico, e anche dei quali non sappiamo che i nomi: cfr. lndex herc., XXXVI, 11 e XXXV, 33). 

 

Cosi: Sesto Empirico (Pyrrh. hyp., I, 235), brevemente esponendo la tesi di Filone di Larissa, scrive: 

 

"Filone afferma che relativamente al criterio stoico, cioè la rappresentazione catalettica, le. cose sono incomprensibili.

 

Ma relativamente alla natura delle cose, esse sono comprensibili.

 

Il criterio stoico non garantirebbe cioè se le cose siano o no comprensibili. 

 

Ma proprio questo, appunto perché non si può dire quando una cosa sia o non sia compresa, non esclude che le cose in quanto tali siano comprensibili. 

 

"Noi," sottolinea Cicerone, che in questo passo, su sua testimonianza, si riferisce a Filone, "non neghiamo quello che si presenta chiaro come la luce, ma diciamo che quelle stesse cose che voi stoicamente dite di percepire e di comprendere, a noi sembrano probabili" (Lecullus, XXXII, 105). 

 

Di qui deriverebbe la sottile distinzione posta da Filone tra evidenza e percezione.


Evidenti o incerte le cose in quanto presenti alla mente in modo piu o meno forte, ciò non significa ch'esse siano di per sé percepite e non percepite (cfr. Cicerone, Lucullus, X, 32; Xl, 34). 

 

E cosi, all'abbiezione che Antioco di Ascalona - discepolo dapprima di Filone, ma poi decisamente volto a uno stoicismo del tipo di quello di Cleante - avrebbe mosso a Filone.

 

Se assumiamo la proposizione alcune rappresentazioni sono false, e quindi affermiamo esse non differiscono in nulla dalle vere, si cade in contraddizione, perché, accordata la prima e riconosciuta dunque una qualche differenza tra le rappresentazioni, la prima viene negata dalla seconda che dichiara le rappresentazioni false simili alle vere.

 

Filone avrebbe risposto: "l'abbiezione sarebbe giusta se togliessimo del tutto la verità.

 

Ma non lo facciamo; noi discerniamo tanto il vero quanto il falso, solo ch'essi si presentano sotto l'aspetto della probabilità, poiché non abbiamo alcun segno che indichi la percezione" (Cicerone, Lucullus, XXXIV, 111). 

 

Sembra, dunque, che Filone svolgesse la propria discussione su due piani diversi. 

 

Da un lato, egli, riallacciandosi ad una certa tradizione (da Democrito a Carneade), nega la possibilità (sia coi sensi, sia con la ragione) di cogliere quelle che sono le strutture proprie della realtà, che resta di là dalle possibilità umane, e intorno a cui si sospende ogni giudizio o si parla per via di ipotesi; dall'altro lato, perciò, entro l'arco del discorso umano, Filone poneva la possibilità di costituire discorsi piu o meno probabili. 

 

Di qui la funzione della esperienza e della ragionata esperienza e della ragione che, se rimane sospesa sul piano dell'essere, è valida, con i suoi sillogismi, la sua dial~ca, la discussione delle opinioni, dei pro e dei contra, sul piano umano: 

 

Per navigare, seminare, sposarsi, avere figli, fare infinite altre cose, per le quali la sola probabilità può essere di guida" (Cicerone, Lucullus, XXXIV, 109). 

 

Si capisce in tal modo perché Filone, andando a ritroso nella storia della filosofia, abbia ritenuto che la genuina tradizione filosofica si dovesse rintracciare in quei pensatori che avevano messo in discussione la possibilità di cogliere le strutture della realtà, avanzando ipotesi e prospettando ragioni non contraddittorie, che permette~sero la pensabilità del reale, onde la possibilità di molteplici spiegazioni, ed entro la discussione di queste l'opzione per quelle che possano servire di piu, che siano utili alla vita, o, per lo meno, ad una presunta utilità, un presunto bene della vita. 

 

E per ciò Filone puo sostenere che egli, in effetto, rappresenta il piu intimo platonismo e, dunque, l'Accademia, interpretando il platonismo da un: lato sul piano dei dialoghi socratici, dall'altro lato sottolineando dei dialoghi della maturità di Platone l'aspetto dialettico e problematico, insistendo sul mito e sul verosimile, compresi come ipotesi di spiegazione, in funzione della vita pratica e associata, per cui poteva sostenere che in realtà non v'era stata una prima e una seconda Accademia, ma che unico n'era stato sempre l'intento. 

 

Filone sostene nelle sue opere - e l'abbiamo ascoltato dalla sua stessa bocca - che non vi sono affatto due Accademie, e dimostrava in modo irrefutabile ch'erano in errore coloro che cosi pensavano.

 

Chiamano nuova quest'Accademia, se nell'antica si deve collocare Platone. 

 

Comunque, Platone, nei suoi scritti, non afferma nulla, discute spesso il pro e il contro, interroga su ogni argomento, senza mai giungere a qualcosa di certo. 

 

Tuttavia, si chiami pure, se si vuole, antica Accademia quella di cui ho parlato ora, e nuova quella che si è continuata fino a Carneade, quarto successore di Arcesilao, e che non si discostò dai principr del suo fondatore.

 

Arcesilao diresse i propd.attacchi contro Zenone, non per pertinacia, o per ambizione di vincere, ma a causa dell'oscurità di quelle questioni che avevano condotto Socrate a confessare la propria ignoranza, e, prima dì Socrate, Democrito, Anassagora, Empedocle e quasi tutti gli antichi. 

 

Sostennero che nulla si può conoscere, nulla comprendere, nulla sapere; che limitati sono i sensi, deboli gli intelletti, breve la vita, e la verità, come diceva Democrito, immersa nel profondo; che tutto dipende dalle opinioni e dalle convenzioni; che nulla può esser lasciato alla verità; e che, infine, tutto è circonfuso di tenebre. 

 

Arcesilao, cosi, affermava che nulla si può sapere, neppure ciò che Socrate s'era mantenuto (Cicerone, Va"o, IV, 13; XII, 46 e 44; si cfr. anche Lucullus, XXIII, dove sono ancora citati Anassagora, Democrito, Empedocle, Socrate, Platone, e accanto a loro Metrodorò di Chio, Stilpone, Diodoro Crono, Alexino, i Cirenaici). 

 

Di qui, dunque, il valore dato all'opinione, alle discussioni dèlle opinioni, mediantt cui determinare ipotesi piu probabili di altre, in una continua apertura della ricerca, s1 che la ricerca stessa si costituisca come regola con cui individuare ciò che serve (bene) o non serve (male) alla vita, al convivere. 

 

Non sembra, perciò, un caso, secondo la testimonianza di Stobeo (Ecl., Il, 40), che Filone, in un suo saggio sulla funzione della filosofia, paragonasse la filosofia alla medicina e il filosofo al medico, che sostenesse che la funzione della filosofia consiste nell'avviare a purgarsi dalle opinioni unilaterali e perciò stesso false (I libro), determinando quindi i beni e i mali (II libro), quale possa essere il fine -- cioè la felicità -- cui l'uomo deve tendere (III libro), quali le varie forme di vita - per chi, in senso particolare; e come, entro i termini della convivenza politica, in senso generale, - quali, per l'uomo comune - per chi non è sapiente - i precetti e le regole da seguire (IV libro). 

 

Purtroppo il rapido sunto dato da Stobeo e la frammentarietà degl'Accademici di Cicerone - nei quali, sembra, si doveva trattare anche l'aspetto dell'etica di Filone - non permettono di renderei conto se sul piano pratico e accettando una verosimile ipotesi, che potesse interpretarsi in chiave platonica, Filone abbia proposto l'ipotesi stoica dell'ordine entro cui tutto si scandisce ed entro cui ciascuno deve assumere il posto che gli spetta. 

 

Tale sembra l'interpretazione di Numenio (in Eusebio, Praep. ev., XIV, 9, l) e di Agostino (Contra Ac., III, 18, 41), i quali sostengono che Filone dapprima nemico giurato degli stoici, sarebbe poi passato allo stoicismo (Numenio), riducendo lo stoicismo a platonismo (Agostino). 

 

Senza dubbio Cicerone (Varro e Lucullus), discorrendo dell'aspro conflitto che sarebbe scoppiato tra Filone e Antioco d'Ascalona, fa intravedere questo passaggio di Filone. 

 

Ad ogni modo, interessante sembra la notizia da Cicerone che Filone avrebbe particolarmente sottolineato l'utilità pratica della piu generale tési stoica dell'ordine, quando da Atene all'epoca della prima guerra Mitrìdatica passa a Roma, da dove non si sarebbe piu mosso, e dove forse mori, entrando in diretto. contatto con gli uomini che in quel tempo conducevano la politica romana. 

 

Secondo Cicerone, Filone, dopo essere giunto a Roma, scrive un saggio in due libri, che pervenuta nelle mani del suo ex scolaro Antioco di Ascalona che, allora, si trovava ad Alessandria, ne suscita grande indignazione. 

 

Mentre e pro-questore ad Alessandria - fa dire Cicerone a Lucullo, che fu appunto ad Alessandria come pro-questore, - con me era Antioco, e già prima di noi era giunto ad Alessandria Eraclito di Tiro, amico di Antioco, che aveva studiato sotto Clitomaco e Filone: egli fu uomo di valore e celebre in questa filosofia, che, quasi abbandonata, torna oggi alla ribalta. 

 

Spesso ho ascoltato Antioco discutere con lui, ma, sempre, dall'una e dall'altra parte con dolcezza. 

 

Fu proprio allora che i due libri di Filone, recentemente portati ad Alessandria, pervennero per la prima volta, tra le mani di Antioco. 

 

Quest'uomo, per natura dolcissimo (nulla avrebbe potuto essere piu mite di lui), violentemente si arrabbia. 

 

Me ne sorpresi, ché fino ad allora non l'avevo mai visto in quelle condizioni. 

 

Appellandosi alla memoria di Eraclito, gli domanda se quei libri gli sembrassero di Filone, o se ma:i avesse ascoltato aualcosa di simile, sia da Filone, sia da qualche altro accademico. 

 

Eraclito dice di no, ma riconosceva lo stile di Filone, né era possibile dubitarne. 

 

Erano presenti anche gli amici miei P. e C. Selio e Tetrilio Rogo, uomini dotti, i quali assicuravano di avere ascoltato a Roma sostenere quegli stessi principi da Filone, e che avevano copiato i due libri dal manoscritto dell'autore. 

 

Antioco tratta allora Filone ancora peggio e alla fine non poté tenersi dal pubblicare contro il suo maestro un saggio intitolato "Sosus" (Cicerone, Lucullus, IV, 11-12). 

 

Antioco, nato ad Ascalona in Palestina (cfr. Strabone, XVI, 2, 29), venuto ad Atene in gioventu, segu(per molti anni l'insegnamento di Filone, facendo parte dell'Accademia di cui difese con zelo le tesi fondamentali, discutendo particolarmente contro la posizione stoica di Mnesarco (successo a Panezio nella direzione della Stoà) e di Dardano. 

 

Circa al tempo in cui Filone lascia Atene per andare a Roma, Antioco lascia Atene per recarsi ad Alessandria. 

 

Forse passa prima per Roma. 

 

Certo si lega di amicizia con Lucullo. 

 

Antioco era ad Atene, scolarca dell'Accademia, e là lo ascolta Cicerone, recatosi ad Atene al tempo della dittatura di Silla. 

 

Quando Lucullo e nominato console e conduce le truppe durante la guerra mitridatica, che vittoriosamente per Roma si concluse con la battaglia di Tigranocerta, Antioco segu(Lucullo in Siria. 

 

Senza dubbio Antioco, come risulta dal Lucullus di Cicerone - in cui da un lato per bocca di Lucullo si espone la tesi di Antioco, IV-XIX; e dall'altro lato si difende, per bocca di Cicerone stesso, la posizione di Filone e dell'Accademia in genere, XX-XLVII, - era passato da un atteggiamento piu strettamente critico, da una posizione vicina a quella di Carneade, di Clitomaco e di Filone (del Filone almeno del periodo di Atene) ad una posizione piu dogmatica, avvicinandosi decisamente a tesi stoiche: anch'egli, sembra, al tempo in cui entra in piu stretti contatti con l'ambiente romano e particolarmente con un uomo come Lucullo. 

 

La malignità di Cicerone, secondo cui alcuni avrebbero sostenuto che Antioco abbandona i suoi antichi amori e le tesi di Filone, quando anche lui ebbe scolari e sperll ch'essi in futuro sarebbero stati detti "antiocheni," è una malignità assai indicativa quando si pensi che i discepoli di Antioco erano soprattutto romani (cfr. Lucullus, XXII, 69-70). 

 

Curiosa sembra allora la rottura tra Antioco e Filone, se essa è dovuta, come pare, all'irritazione che Antioco provò per il passaggio da parte di Filone allo stoicismo, passaggio documentato dall'opera di Filone, scritta a Roma, giunta ad Antioco che si trO\'llva ad Alessandria. 

 

Antioco scrisse allora 11 ~osus, in cui, soprUtutto, secondo quanto riferisce Cicerone, cerca di demolire il motivo del "probabilismo" e della"sospensione." 

 

Gli argomenti contro la tesi del "probabile" e contro la "sospensione" ricalcano la linea con cui Zenone, Cleante, Crisippo, Antipatro di Tarso sosteneno la "fantasia catalettica" e l'"assenso" e con cui Platone, nel Teeteto, afferma che l'atto del giudizio è dovuto all'anima (Cicerone, Lucullus, VII, 19-22); ma ciò che piu colpisce è il fatto che secondo Antioco, il "probabile," l"'evidenza," non bastano per assicurare un certo fondamento a un certo tipo di vita, per convincere e persuadere a vivere secondo l'ordine del tutto. 

 

Ma è la conoscenza delle virtu che innanzi tutto ci assicura che molte cose possono essere percepite e comprese. 

 

In esse sole, diciamo, è la scienza: la scienza, secondo noi, è non solo comprensione degli oggetti, ma comprensione stabile e immutabile.

 

Lo stesso è per la saggezza, per l'arte di vivere, che ha in se medesima la propria invariabilità. 

 

Se tale invariabilità non implica alcuna percezione e conoscenza, io domando donde viene e come è nata.

 

Perché l'uomo onesto s'imporrebbe (egole, anche severe, perché non tradirebbe il suo dovere o la sua fede, se non possiede alcuna comprensione, percezione, conoscenza, nulla che fondi le ragioni della sua azione? 

 

Sarebbe impossibile che si stimassero l'equità e la fede date ad un prezzo tale da non indietreggiare dinanzi ad alcun supplizio per osservarle, se non vi fosse assenso a realtà che possono essere false. 

 

Se la saggezza stessa ignora se è o no saggezza, come, prima di tutto, assumerà il nome di saggezza? 

 

E poi come oserà fare qualsiasi cosa, o agire con fiducia se non avrà nessuna idea certa da seguire? 

 

Poiché avrà dubbi sul termine e il fine dei beni, non sapendo a cosa riferirli, come potrà essere saggezza? 

 

È chiaro anche che bisogna stabilire un principio che la saggezza deve seguire, quando comincia ad agire, e che tale prin- cipio dev'essere conforme a natura. 

 

Se no, la tendenza (traduco cosf horml), mediante cui siamo mossi ad agire ed a cercare ciò che ci è sem- brato bene, non potrebbe esser messa in movimento. 

 

Ma la rappresentazione che la mette in moto deve dapprima apparire ed essere creduta vera, il che sarebbe impossibile se una rappresentazione vera non potesse esser distinta da una rappresentazione falsa. 

 

Come l'anima potrebbe essere spmta a ricercare un oggetto se non percepisse se l'oggetto che le appare è con- forme o estraneo alla natura?

 

Se la tesi di Filone fosse vera sopprimerebbe interamente la ragione che è luce e fiaccola della vita. 

 

In ogni ricerca, è la ragione che offre il principio e che conduce la virtU al proprio bene, poiché la virtU non è che la ragione stessa fortificata da questa ri- cerca. 

 

Desiderio di conoscenza è la ricerca e scoperta è il fine della ricerca. Ma non si scoprono cose false; anche gli oggetti incerti non possono essere scoperti; si parla di scoperta quando certi oggetti ch'erano come racchiusi vengono messi in chiaro. Si comincia cos{ dalla ricerca e si finisce con la  105   percezione e la comprensione. 

 

La dimostrazione (in greco apoàèizis) è defin,ita "un ragionamento che conduce da oggetti percepiti ad oggetti che non lo erano" (Cicerone, Lucullus, VIII, 23-26). Su questa base, in effetto, si svolge tutta ·la critica di Antioco nei confronti degli ultimi Accademici e di ·Filone, per cui sembrerebbe che, alla fine, la ragione della rottura tra Antioco e Filone debba es- sere rintracciata nei due diversi modi di assumere la tesi dell'ordine: in Filone, come ipotesi probabile; in Antioco, come autentico fondamento, scientificamente determinabile, attrayer~ il procedimento conoscitivo impostato dagli Stoici. 

 

Secondo Antioco, perciò, non solo Filone; aveva tradito il suo primitivo atteggiamento, scostandosi dalla linea di Car- neade, di Clitomaco, dello stesso Carmada e di Metrodoro di Strato- Dica (ecco perché Antioco poteva dire che nel nuovo scritto di Filone,. giuntagli da Roma, non riconosceva piu il vecchio maestro), ma, assu- mendo la tesi stoico-platonica in forma ipotetica e probabilistica, distrug- geva quella stessa tesi, ché, potendo essere altrettanto probabile un'altra, tutte divenivano indifferenti, né piu, o l'una o l'altra, potevano spin- gere all'azione. Arcesilao aveva messo in discussione particolarmente lo stoicismo di Cleante (cfr. I vol.), cercando di mostrare la contradditorietà implicita nell'~ssumere la rappresentazione catalettica ad un tempo come rap- presentazione adeguata dell'oggetto che impressiona e come assenso, cioè giudizio. 

 

Posto, appunto, che la rappresentazione è di oggetti, la rappresentazione stessa non può essere giudizio, ché il giudizio si ha solo nella proposizione, e se la rappresentazione la poniamo nel senso di Cleante, evidentemente essa non è una proposizione, se mai un termine della proposizione. Impossibile l'assenso relativamente a ogni rappresentazione, ogni rappresentazione (non giudizio) si presenta vera tanto quanto ogni altra rappresentazione, per cui lo stesso giudizio che si determinerà nel costituire i nessi e le implicazioni tra le rappresen- tazioni (non a ca$0 Arcesilao fu avvicinato a Diodoro Crono e ai megarici), non potrà mai esser volto alle strutture e ai nessi in sé dd reale. 

 

Sul piano della verità, dunque, lo stesso stoico, se non vuol ca· dere in contraddizione è costretto a sospendere il giudizio, o a rima· nere in silenzio, e perciò stesso a ripiegare, nel campo morale, sul conveniente, sull'eulogon, o a rimanere inattivo. Se Arcesilao e, poi, Carneade (polemizzando con Crisippo) avevano svolto le loro discus- sioni sull'epoché per mettere in contraddizione i fondamenti della tesi stoica, senza di contro avanzare una loro propria posizione, con Metro- doro di Stratonica c con Filone si cercò di dare un valore positivo e non piu solo critico nei confronti dello stoicismo, al "probabile" carnea- 106    diano, assumendo, perché sia possibile l'azione una probabile ipotesi. E qui Antioco aveva buon giuoco: la tesi del "probabile," divenuta po- sitiva e non piu critica, poteva esser ricondotta alla prima tesi della sospensione del giudizio e perciò all'indifferenza di tutte le rappresen- tazioni, per cui si poteva ritorcere l'accusa fatta agli stoici, che cioè come gli stoici dovevano rimanere in silenzio e inattivi, cosi in silenzio e inattivi dovevano rimanere gli Accademici. 

 

Per venir meno all'una e all'altra accusa, Antioco, riallacciandosi all'interpretazione che della fantasia catalettica di Zenone aveva dato Cleante, e cioè che la rappresentazione coincide esattamente con il rappresentato e che perciò i nessi tra le rappresentazioni ripercorrono i nessi tra le cose, giungeva, sia pur con altra terminologia (con terminologia stoica), a rifar sua la logica di tipo aristotelico, e, non rendendosi conto che, in effetto, la logica degli stoici era una logica "proposizionale" (di cui, invece, s'era reso conto benissimo Arcesilao criticando creante), riduceva il discorso stoico sulla realtà in discorso di tipo aristotelico che, a sua volta, gli faceva interpretare Platone in chiave aristotelico-stoica. 

 

Quali sono le qualità che diciamo percepite dai sensi, tali, di conseguenza, e cose di cui non si dice che sono direttamente percepite dai sensi, ma:he in un certo qual modo lo sono: "questa cosa è bianca, quella dolce, ~uesta emette suoni, un'altra è odorosa, altra ancora è aspra": tutto ciò lo afierriamo con un atto di comprensione dell'anima, non mediante i sensi. E poi: "è un cavallo, è un cane." Poi si passa, per il resto, ad una serie ~he collega insieme i caratteri piu salienti, come quelle proposizioni che abbracciano una percezione completa di realtà: "se è uomo, è animale mor- tale partecipe di ragione." Di questo genere sono le nozioni delle realtà impresse in noi e senza di cui ogni intelligenza, ogni discussione, ogni problema sono impossibili. 

 

Se tali nozioni (in greco ennoiaz) fossero false o impresse in noi in rappresentazioni tali che le vere non potessero essere distinte dalle false, come potremmo usarne? Come potremmo vedere quel che si accorda e quel che non si accorda con una cosa? E alcun luogo sarebbe lasciato alla memoria, che tuttavia è di fondamento, a un tempo, non solo della filosofia, ma di tutta la vita e di tutte le arti..Come potrebbe esserci, infatti, memoria di cose false? Ci si ricorda di ciò che non si è \'eracemente afferrato con l'anima?... (Cicerone, Lucullus, VII, 21-22). Antioco cosi, poiché il criterio stoico dimostrava, secondo lui, la coincidenza tra strutture della ragione e strutture della realtà, cui si giunge mediante le percezioni, sosteneva che, in effetto, gli stoici ave- vano servito, approfondendo la genesi del processo conoscitivo, a dar conto della tesi platonica, secondo cui l'ordine del tutto è razìonale e coincidente con le strutture del pensiero, onde l'indirizzo dato all'Accademia da Arcesilao prima (media Accademia), aveva cosutulto un vero e proprio tradimento del piu genuino pensiero di Platone, che, ora, Antioco, attraverso gli stoici e i peripatetici, voleva restaurare in funzione anche della vita associata e della moralità, non a caso rial- lacciandosi a Senocrate, Crantore, Polemone. Sembra allora chiaro, di qui, come Antioco interpretasse le tesi platoniche del tutto ordinato e dell'"anima mundi" (Timeo) e la tesi aristotelica della realtà tutta in atto, nel suo scandirsi in atto-potenza- atto, sulla linea di Zenone-Cleante, accantonando, d'altra parte, in questa, a sua volta, interpretazione dello stoicismo in chiave platonico-aristo- telica, certe tesi piu propriamente stoiche, come quella della confliJgra- zione, probabilmente anche per influenza degli stoici Boeto di Sidone, Zenone di Tarso, Diogene di Babilonia (la stessa attività divina che farebbe dopo la conflagrazione? 

 

E ammessa la conflagrazione, non ammetteremmo corruttibile l'incorruttibile divinità?: cfr. Filone l'Ebreo, De aeternitate mundi, 54), ma derivandone, attraverso le conces- sioni fatte proprio dagli ultimi stoici al rigidismo morale primo, una propria interpretazione dell'imperativo stoico: "vivi secondo natura." E ora, entro il quadro che siamo venuti delineando, assume un suo particolare significato l'esposizione che per bocca di Varrone, Cicerone (Varro) fa della posizione di Antioco, che scaturisce dall'interpreta- zione che ·Antioco dava della vecchia Accademia, di Aristotele e degli Stoici. 

 

Per influenza di Platone, vasto, diverso, ricco, si costitu{ una forma di filosofia una e identica sotto una doppia denominazione, cioè la filosofia degli accademici e quella dei peripatetici. Essi, d'accordo sul fondo delle cose, non differiscono che per il nome. Infatti, se Platone lasciò, per cos{ dire, l'eredità della sua filosofia a Speusippo, figlio di sua sorella, i suoi discepoli piu brillanti per il sapere e per la dottrina furono Senocrate di Calcedonia e Aristotele di Stagira.

 

Gli uni e gli altri, completi della fe- condità di Platone, formarono un sistema ben determinato, ricco e com- piuto ad un tempo. Accantonarono il socratico dubbio esteso a tutte le cOse e la consuetudine di Socrate di discutere senza nulla affermare. Cosf av- venne ciò che Socrate non approvava affatto, che cioè la filosofia si costituf in un'ane, in un ordine delle cose (ordo rerum), in una dottrina (descrip#o disdplinae). In principio tale filosofia fu unica, anche se sotto due nomi, ché non vi era alcuna differenza tra i peripatetici e l'antica Accademia.

 

Stabilivano la stessa distinzione tra ciò che si deve ricercare e ciò che si deve sfuggire. Triplice fu la ragione del filosofare ricevuta da Platone: la prima trattava della vita e dei costumi; la seconda della natura e delle cose occulte; la terza del ragionamento e del giudizio che discerne il vero dal falso, i termini giusti da quelli che non lo sono, l'accordo e la repu- gnanza dei termini. 

 

Nella prima parte, per apprendere a ben vivere, ci si rivolgeva alla natura, ci si raccomandava di obbedirle: in nessun'altra cosa, se non nella natura, va ricercato quel sommo bene, cui debbono riferirsi tutte le nostre azioni~ Stabilivano che l'estremo termine delle cose da desiderare, il fine dei beni, consiste nell'aver ricevuto dalla natura tutto ciò che è necessario all'anima, al corpo, alla vita. 

 

Dei beni del corpo, poi, ponevano gli uni nel complesso, gli altri nelle parti: nel complesso la salute, la forza, la bellezza; nelle parti l'integrità dei sensi e i vantaggi collegaù a ciascuna delle parti del corpo, come l'agilità per i piedi, la forza per le mani, la chiarezza per la voce, e per la lingua chiara scansione dei suoni. 

 

Dicevano beni dell'anima tutto ciò che serve a far penetrare la virtu nell'ingegno, e riferivano gli uni alla natura gli altri ai costumi. Della natura ritenevano proprie la prontezza nell'apprendere e la memoria, ambedue dipendenù dall'attività della mente e dell'ingegno. Ai costumi attribuivano i nostri interessi, e, per cos{ dire, le nostre consuetudini, le quali in parte si for- mano con un assiduo esercizio, in parte con la ragione... Tali sono, dunque, i beni dell'anima. Quelli della vita (terza specie) consistono in certe ag- giunte che possono facilitare la praùca della virtu. Infatti la virtu (del- l'anima e del corpo) si mostra anche ill" alcuni vantaggi che non dipendono tanto dalla natura, quanto da una vita felice. Affermavano perciò che l'uomo è membro della città e del genere umano, è cioè unito ai suoi simili mediante il vincolo dell'umanità. Ecco ciò che pensavano del sommo e naturale bene, cui riferivano tutti gli altri beni che servono ad accrescerlo o a conservarlo, sf come le ricchezze, la potenza, la gloria, la grazia. In tal modo ponevano tre specie di beni... 

 

Questa teoria comprendeva l'ob- bligQ di condurre una vita attiva e la fonte del dovere stesso: in altri ter- mini, raccomandava di obbedire ai precetti della natura... Della natura poi (questo seguiva) dicevano ch'essa va ricondotta a due principi: l'uno efficiente, l'altro, per cosi dire, che si offre all'azione modifi- catrice del primo. Nella causa efficiente, vedevano una forza; l'oggetto sot- tomesso alla sua azione era una specie di materia. Ad ogni modo non concepivano l'una senza l'altra, ché le parti della materia non sarebbero coerenù se non fossero trattenute da una qualche forza, e la forza non può trovarsi fuori della materia, poiché tutto ciò che è deve essere in qualche parte. Tale unione dei due principi la chiamavano corpo, o qua- lità. Di queste qualità le une sono primarie, le altre derivate da queste. Le qualità primarie sono uniformi e semplici; quelle che ne derivano varie e, diciamo, multiformi. Cosi l'aria..., il fuoco, l'acqua e la terra sono qualità primarie;. da esse sono scaturite le forme degli animali e di tutte le cose che la terra produce. Per ciò si chiamano principi e, per tradurre il termine greco, elementi. 

 

Ve ne sono due, l'aria e il fuoco, che hanno in sé forza motrice ed efficiente; le altre, cioè l'acqua e la terra, ricevono e patiscono in un certo qual modo l'azione di questa forza. Aristotele poneva un quinto elemento di cui erano formati gli astri e le anime, avente una sua essenza e che differisce dalle quattro di cui sopra. Ma subietta a tutte le modificazioni suppongono una certa materia non  109   avente alcuna specie e sprovvista di qualità, di cui tutte le cose sono espres- sione, di cui tutte sono fatte, sostanza di tutti i fenomeni, che può essere modificata in tutti i modi e in tutte le sue parti: donde segue che, per essa, perire non è affatto annièntarsi, ma scomporsi nelle sue parti, che possono essere tagliate e divise all'infinito, poiché nulla v'è in natura di s{ piceòlo che non possa essere diviso. Aggiungono che i corpi che sono mossi percor- rono intervalli ugualmente divisibili all'infinito. Da tal moto e dalla materia sorgono i fenomeni che abbiamo chiamati qualità], che, nella natura giustapposta e continua, hanno formato il mondo con le sue diverse parti. Fuori del mondo non v'è alcuna particella di materia, nessun corpo. Chia- mano parti del mondo tutti gli esseri di cui si compone e che sono tenuti insieme dalla natura senziente, in cui risiede la ragione, che eternamente dura, poiché nulla vi è di pio forte che possa distruggerla. Dicono che questa forza è l'anima del mondo, essa stessa mente e sapienza perfetta: questo chiamano Dio, questa specie di prudenza che veglia su tutte le cose sottoposte al suo comando, che ha particolar cura del cielo e che, sulla terra, si occupa anche delle faccende umane. Talvolta chiamano questa forza necessità, perché nulla può essere altrimenti da ciò che mediante essa si è costituito, nella catena, per cos{ dire fatale e immutabile dell'ordine eterno. 

 

Altre volte, invece, la chiamano fortuna, poiché produce quell'in- sieme di effetti inattesi, che l'oscurità delle cause e la nostra ignoranza impediscono di prevedere. Peripatetici e accademici trattano quindi la terza parte della filosofia, la parte che ha per oggetto la ragione e la dialettica. Benché sorga dai sensi, il giudizio di verità non risiede nei sensi. Ritenevano che la mente fosse giudice delle cose: la consideravano come la sola degna d'essere cre- duta, perché solo essa contempla ciò che, sempre, è semplice, uniforme e tale quale è. Questa essi chiamavano idea, sull'esempio di Platone (e tale termine noi postiamo esattamente tradurlo con spedes) La scienza, secondo questi filosofi, non riposa che sulle nozioni dell'anima e sui ragio- namenti. L'opinione sulle sensazioni non illuminate dalle nozioni]. Per questo approvavano le definizioni delle cose, e le usavano in tutte le que- stioni controverse. Approvavano anche le spiegazioni delle parole, cioè le ragioni per cui un certo termine era stato applicato a un certo oggetto,. il che chiamavano etimologia. Infine, prendendo per guida gli argomenti, quasi segni infallibili delle cose, giungevano alla prova e alla conclusione di ciò che volevano chiarire. 

 

In questo consisteva tutta l'arte della dialettica, l'arte in virtU della quale la ragione deduce conseguenze. Insieme alla dia- lettica, quasi frontalménte ad essa, facevano progredire l'arte oratoria, che consiste nello sviluppare tutto il seguito di un discorso composto in modo da persuadere..• [Chiarite le modifiche apportate da Aristotele e da Zenone di Cizio, si conclude, affermando]: penso come il nostro amico Antioco, che cioè nella fil~fia di Zenone va veduta una leggera riforma della vec- chia accademia piùttosto che una nuova dottrina (Cicerone, Van-o, IV-XII). Varrone, Cicerone e la funzione della cultura A parte Antioco, o chi per lui, il testo di Cicerone sopra riportato non ha tanto importanza se considerato a sé, quanto perché in esso è chiaramente delineata una concezione che sembra oramai divenuta comune, e che, indipendentemente dalle singole discussioni delle scuole. su singoli argomenti ed aspetti, assume significato in quanto viene a costituire un sistema di sfondo, una visione abbastanza generale e ge- nerica (divinità, ordine.dei cieli, mondo nella sua totalità, uomo e uomo che in quell'ordine del tutto trova i principl, la regola della vita) che serva da prima ed elementare cultura. 

 

Si capisce come qui giuo- cassero, di là dai loro contesti, testi singoli di Platone (dal Sofista al Timeo), dell'Epinomide, del primo Aristotele, gli aspetti pio generici della fisica stoica, in un tutt'uno abbastanzà· coerente che costituiva questa specie di religione cosmica entro cui dare forma all'ideale di un certo tipo di vita, proprio della classe colta e' dirigente. È stato giustamente detto che tale religione del Mondo trascende ormai le dottrine di scuola per ~ivenire il bene comune di ogni per- sona che abbia partecipato della b "paideia" greca: "oggi, diremmo, che abbia seguito il suo bravo corso scolastico" (Festugière, La révélation d'Hermès Trismegiste, II, p. 343). Non solo, ma non poco in- dicativo sembra il fatto che tali sintesi (di cui già in Cicerone si riflette l'esposizione manualistica da un lato, dall'altro lato la presentazione per argomenti) siano state compilate dai loro autori quando, usciti dai propri diretti impegni nelle loro singole scuole, sono entrati in contatto con la classe colta e dirigente del mondo romano, rispondendo evidentemente a ben precise richieste e.dando ad esse. chiarificazione e consapevolezza, in un arco che va da Polibio a Panezio ad Antioco e Filone. 

 

Per altro verso, invece, in seno alle scuole (particolarmente di Atene: Accademia, Stoà), si discutevano singoli problemi, donde il nascere, poi, ad uso delle scuole stesse, di manuali in cui - ad esempio per la scuola stoica - si elencavano questioni di morale, modi diversi di vita a seconda delle singole situazioni, sistemazioni delle ricerche della scuola sul linguaggio e sulle tecniche del dire (cfr. Diogene di Babilonia, Antipatro di Tarso, Cratete di Mallo, che insegnò a Per- gamo), introduzioni generali alla. stessa dottrina (cfr. Apollodoro di Sdeucia); oppure - per l'Accademia e ad uso delle discussioni - si elencavano le opinioni diverse intorno alle piu varie questioni, le ptolte sentenze da sottoporre a problemae cos1 via (si cfr., ad esempio, il sopracitato Clitomaco). Tutto ciò, fuori dalle singole scuole, fuori da precise problematiche che rispondevano a specifica preparaziOne, as- "sunse entro l'àmbito della cultura romana, la funzione da un lato di  lll   introduzioni generali, dall'altro di manuali utili alla preparazione sulle singole materie. 

 

E quando si pensa alla classe che in Roma aveva in mano le redini del governo e al modo di funzionare della politica romana (non si scordi l'importanza che ebbero anche i processi), ci rendiamo conto del perché la maggioranza di questi manuali, di cui è rimasta memoria, o siano manuali d'introduzione (dacxyoylj, eisagoghè} alla filosofia (intesa come concezione culturale generale) o manuali di retorica, di dialettica, o esposizioni di una certa· serie di opinioni o sentenze su singoli problemi (non a caso in quest'epoca, 1 a.C., si formarono i cosiddetti "Vetusta Placita", una epitome in sei libri delle Opinioni dei fisici di Teofrasto, che sembra siano usciti dalla scuola di Posidonio), o manuali di morale e di casistica morale (si vedano sopra i titoli delle opere di Ecatone di Rodi) cui vanno aggiunti, entro i termini di una preparazione generale, manuali divulgativi intorno alle singole scienze (particolarmente di astronomia, di agricolt_ura, di storia naturale), cui potevano servire i clo~ti acquisiti e le si~gole ricerche dei grandi scienziati del m e del u secolo. 

 

E se è vero che tali Introduzioni e Manuali servivano già per i giovani, che venendo alle scuole di Atene, di Alessandria o di Pergamo, non aspiravano certo a loro volta alla professione dei loro maestri, ma a formarsi, appunto, una cultura generale che servisse poi loro ad aprirsi l'accesso ai posti che offriva l'amministrazione dei singoli regni, ciò è tanto piu vero per i romani avviati alla carriera politica, nel disfacimento di quei regni stessi. 

 

Le discussioni svoltesi in seno all'Accademia e alla Stoà, particolarmente in quest'ultima, per ciò che riguarda i modi di vita, le posizioni di Panezio, di Posidonio, di Filone e di Antioco, le introduzioni e i manuali, le dossografie e le esposizioni di singole questioni, si ri- flettono in Cicerone.2 

 

Chiaramente, anzi, attraverso gli aspetti piu 2 

 

Di antica famiglia di possidenti, appartenente all'ordine dci cavalieri, Marco Tullio Cicerone nacque ad Arpino, in un'antica villa dei suoi antenati.

 

Insieme al fratello Quinto, Cicerone fu condotto dal padre a Roma pcrch~ vi avesse la migliore istruzione. 

 

Sotto la guida dell'oratore Lucio Licinio Crasso ha a insegnanti i maggiori maestri allora in Roma. 

 

Avuta la toga virile, Cicerone prese pane alla guerra Marsica, comandata da Pompeo Strabone. 

 

Tornato a Roma prosegue i suoi studi filosofici sotto la guida di Filone di Larissa, scolarca dell'Accademia in Atene.

 

Stabilitosi a Roma e sotto la guida del retore Molonc di Rodi, mentre, in casa, aveva come precettore lo stoico Diodoto, che in casa di Cicerone.

 

Ristabilitosi con Silla dittatore un relativo ordine, Cicerone si dette alla carriera oratoria, trattando cause civili c subito dopo penali. 

 

Dell'SI ~ l'orazione a favore di Publio Quinzio, dell'SO l'orazione a favore di Sesto Roscio accusato di parricidio. 

 

Preoccupato per avere difeso Sesto, contro le accuse di Crisogono potente libcrto di Silla, Cicerone si allontan ada Roma, per un viaggio di "perfezionamento"

 

problematici deil'opera di Cicerone, si delineano alcune grandi concezioni, entro il quadro di quelle visioni d'insieme, di cui parlavamo, e che, appunto mediante le discussioni delle Scuole, i manuali, le in- in Grecia. 

 

In Atene Cicerone ascolta lo scolarca dell'Accademia, Antioco di Ascalona, successo a Filone di Larissa, il retore Demetrio Siro, gl'epicurei Fedro e Zenone. 

 

Lasciata Atene, Cicerone visita le scuole di retorica in Asia e e, quindi, a Rodi dove s'incontra di nuovo con Molone di Rodi e dove conobbe Posidonio. 

 

E di nuovo a Roma, "non solo piu esercitato, ma quasi mutato" (Brutus, 89 sgg.). 

 

Cicerone, che nel frattempo sposa Tercnzia, torna alla carriera oratoria. 

 

Nominato questore, ha la provincia Lilybacum in Sicilia, che tenne con molta abilità e moderazione. 

 

Ritornato a Roma, intenta il celebre processo contro Verre che nei suoi tre anni di pretura siciliana  11veva saccheggiata la provincia.

 

E eletto edile curule, e pretore urbano. 

 

Disse allora la sua prima orazione politica (D~ imperio Gnaei Pomp~i). 

 

Insieme a Gaio Antonio e eletto console, con l'aiuto degli ottimati, difendendo poi il partito degl'oligarchi contro quello dei popolari e di Cesare, con quattro orazioni contro il disegno di legge agraria proposto dal tribuno della plebe Rucio Servilio Rullo. 

 

E poi la lotta contro Catilina e la lotta a favore di Murena. 

 

Se è vero che durante il suo consolato Cicerone aveva reso grandi servigi al partito degl'ottimati, è altrettanto vero, come è stato detto, ch'egli aveva abusato del potere mandando a morte cittadini romani senza regolare giudizio. 

 

Avvenuto l'accordo di Pompeo con Cesare e Crasso, Cicerone si trova isolato, sotto l'accusa di Publio Clodio, che passato ai plebei, nella sua qualità di tribuna della plebe, promosse una legge contro coloro che avevano fatto uccidere un cittadino romano senza regolare condanna. 

 

Cicerone allora si allontana da Roma,. mentre Clodio decreta l'esilio di Cicerone e l'ordine di distruzione della sua casa di Roma e delle ville di Tuscolo e di Formia. 

 

Cicerone si reca a Brindisi, a Tessalonica e quindi a Dirrachio. 

 

Il console, su proposta di Pompeo, revoca l'esilio di Cicerone, sostenendo ch'egli aveva agito per il bene della Repubblica. 

 

Cicerone torna a Roma in trionfo, pronuncia orazioni di ringraziamento dinanzi al Senato e al popolo e riusd a farsi ricostruire a spese pubbliche le sue case. 

 

Legato a Pompeo, Cicerone che non era piu appoggiato dal Senato, cerca da ora in poi, appoggi e forza presso i potenti dell'ora, difendendo amici e fautori, accusando nemici c gente che potevano metterlo in pericolo. 

 

Con molta intelligenza e moderazione resse il proconsolato in Cilicia. 

 

Tornato a Roma si trova in piena lotta tra Pompeo c Cesare. 

 

Titubante dapprima, si decise poi a seguire Pompeo c fu con lui in Oriente. 

 

Malato, non combatté a Farsaglia e, dopo la fuga di Pompeo, rifiutato il comando della flotta, si reca a Brindisi, dove attese Cesare. 

 

Appena Cesare sbarca, Cicerone gli anda incontro. 

 

Cesare smontato da cavallo si accompagna a Cicerone. 

 

Tornato a Roma si ritira dalla vita politica. 

 

Ucciso Cesare, Cicerone pronuncia in Senato un'orazione in favore di una pacificazione e di un'amnistia generale. 

 

Marc'Antonio invece eccita il popolo contro i congiurati. 

 

Anche Cicerone e costretto a fuggire da Roma. 

 

La sua lotta contro Marc'Antonio è affidata alle celebri Filippiche. 

 

Giunto a Roma Ottavio, che assunse, in qualità di crede di Cesare, il nome di Cesare Ottaviano, Cicerone torna a Roma sperando che Ottaviano salvasse la Repubblica, mantenendo la sua linea politica di difesa del Senato e degl'Ottimati. 

 

Ma Ottaviano si accorda con Antonio e Lepido, proclamandosi triumviri uipublicae costituendae, riserbandosi ciascuno il diritto di proscrivere i propri avversari. 

 

Cicerone e proscritto da Marc'Antonio. 

 

Fuggito da Roma, si rifugia nella sua villa di Astura presso Gaeta, ove raggiunto da sicari di Marc'Antonio, e ucciso.

 

Se le orazioni di Cicerone, seguite cronologicamente segnano le tappe della sua attività politica, le altre opere di lui segnano l'arco su cui si venne scandendo il suo pensiero, i momenti diversi della sua problcmatica e dei suoi fini, di cui specchio sono le stesse tecniche oratorie di volta in volta usate. 

 

In realtà impossibile è una divisione  113   traduzioni, si c9stituiscono in funzione di certe esigenze proprie del mondo romano. 

 

E quando diciamo mondo romano, non intendiamo qualcosa di compatto. 

 

Tutt'altro: un mondo culturalmente in fieri, delle opere di Cicerone in retoriche, filosofiche, storiche. 

 

Diamo qui, per utilità, l'elenco cronologico delle opere fisolofico-retoriche e delle orazioni. IOpt!re retorico-filosofiche

 

 Traduzione dell'Economico di Senofonte (ne restano alcuni frammenti); 

 

traduzione dei Fenomeni di Arato (: ne restano alcuni frammenti); 

 

De inventione rhetorica (in 2 libri; tentativo di sistemazione delle tecniche retoriche); 

 

De Oratore libri 111 (si dà, oltre alle tecniche, valore alla cultura in un solo nesso di filosofia e di eloquenza); 

 

De Republica (in 6 libri: doveva includere 9 libri. 

 

Il dialogo si suppone avvenuto nel 129 ed ha per principali interlocutori Scipione Emiliano e C. Ldio. 

 

Resta una parte del VI libro, andata sotto il nome di Somnium Scipionis.

 

Possediamo inoltre citazioni e riassunti di Lattanzio e di S. Agostino, alcuni frammenti scoperti da A. Mai in un palinsesto vaticano. 

 

Nel l libro dopo avere discusso della natura dello stato romano e della sua origine, e dopo aver passato in rassegna le tre forme di reggimenti politici tradizionali, monarchia, oligarchia, democrazia, e delle loro degenerazioni, si sostiene che ottima è la costituzione romana; nel n libro si fa vedere come si è realizzata la costituzione di Roma.

 

Nel III libro si dimostra che non c'è stato senza giustizia.

 

Nel IV libro si chiariscono i fondamenti istituzionali senza di cui non vi sarebbe vita morale.

 

Nel V libro si delinea quale debba essere la figura dd reggitore, del rector rerum publicarum.

 

Nel VI libro si doveva· definire il princeps: ne è un saggio il somnium Scipionis); 

 

De Leggibus -- doveva essere in 5 o 6 libri; ne restano 3. 

 

Il dialogo si finge tenutad Arpino, presso il fiume Fibreno e il fiume Liri; principali interlocutori sonò lo stesso Cicerone, il fratello Quinto e Attico. 

 

Nel I ·libro si discute e si defi· nisce il diritto naturale e il significato da dare alla legge.

 

Nel Il libro si dichiara che le leggi civili debbono avere a loro fondamento le leggi naturali; si discutono poi le leggi religiose.

 

Nel III libro si discutono le leggi dei magistrati.

 

Il IV e il V libro dovevano trattare dei giudizi e dell'educazione); 

 

Brutus o De claris oratoribus in un libro. 

 

Il  dialogo, che ha per principali interlocutori Cicerone stesso, Bruto e Attico, è una specie di storia dell'eloquenza romana, culminante in Antonio, Crasso e Ortensio); 

 

Orator (vi si delinea il ritratto dell'oratore perfetto secondo Cicerone, filosofo ed oratore ad un tempo); 

 

De optimo gent!re oratorum (: è un'introdu- zione alle traduzioni latine, andate perse, che Cicerone fece dell'Orazione di Eschine contro Ctesifonte e dell'Orazione di Demostene per la Corona); 

 

Paradoza Stoicorum (: elenco di tesi retoriche tratte da tesi stoiche in funzione di discussioni sulla morale); 

 

Hortensius (perduto, ma noto fino all'xi secolo: ne restano frammenti e testimonianze. 

 

Doveva essere una specie di grande introduzione alla filosofia inspirantesi al Protrettico di Aristotele. 

 

Servi nelle scuole eome introduzione alla filosofia. 

 

De partitione oratoria : opera a carattere tecnico e istituzionale); 

 

Consolatio (perduta: ne abbiamo qualche frammento citato da Cicerone stesso e da Lattanzio. Fu sc:Ìitta per consolarsi della morte della figlia Tullia); 

 

Academici libri (Cicerone ne stese due redazioni: gli Academica priora in 2 libri e gli Academica posteriora in 4 libri; degli Academica priora il l libro, o Catulus, è per- duto, il n libro, o Lucullus, si è salvato; degli Acllliemica posteriora si è salvato il l libro, o Varro; abbiamo alcuni frammenti e testimonianze degli altri libri. 

 

Vi si espone criticamente la storia del pensiero degli Accademici e in pa'licolare il pensiero di Filone di Larissa e di Antioco di Ascalona); De finibus bonorum et malorum libri V (dd 45; in tre dialoghi - il primo dialogo abbraccia il l e il n libro; il secondo dialogo il III e IV libro; il terzo dialogo il V libro. 

 

Nel l libro C. L. M. Torquato espone la tesi epicurea secondo cui il bene sta nel piacere; nel n libro Cicerone confuta la tesi epicurea; nel III libro Catone espone la tesi stoica secondo cui il bene consiste nella virtU e tutti gli altri cosiddetti beni sono indifferenti; nel IV libro 114    ove la grande espansione e le conquiste presentano problemi nuovi, economici e sociali, per cui lo stesso modo antico di governo entra in crisi, in cui la classe senatoriale e, ormai, quella degli uomini nuovi Cicerone confuta la tesi stoica sostenendo che nulla di nuovo se non nelle espressioni. hanno detto gli Stoici, rispetto ai platonici e agli aristotelici; nel V libro si espone la dottrina degli· Accademici, o meglio quella di Antioco); 

 

Tusculanae Disputationes libri V (del 45; sono una prosecuzione del De finibus; si rivolgono ad un pubblico piu esteso che non il De finibus, e, questo, forse, spiega il maggior peso dato all'ideale dd saggio stoico: nel I libro si dimostra che il saggio non teme la morte, nel II che non teme i dolori del corpo, nel III e nel IV che è alieno da ogni passione, nel V che uno è il bene, la virtu, in senso strettamente stoico); traduzioni del Protagora e del Timeo di Platone (45 circa); 

 

De natura deorum libri Ili (composto tra il 45 e il 44: nel I libro Velleio epicureo espone la tesi di Epicuro sulla divinità, confutando le tesi di Platone e degli Stoici ed esponendo le varie teorie sugli dèi da Talete a Diogene di Babilonia; Vdleio viene quindi confutato da Cotta; nel II libro Balbo espone la tesi stoica sul divino; nel III libro, di cui sono andate perdute alcune parti, Cotta confuta la tesi stoica sia relativamente alla natura degli dèi, sia al loro governo sul mondo, sia al loro inte- ressamento per gli uomini. Cicerone, infine, sostiene ch'egli attraverso la sua posizione accademica, ritiene opportuno optare per la tesi di Balbo); 

 

De senectute o Cato maior (composto tra il 45 e il 44, probabilmente finito prima del De natura deor., del De divinazione e del De fato; il dialogo si finge tenuto nel 150 tra Catone il Censore, ottantaquattrenne, Scipione Emiliano e C. Lelio, ed ha per oggetto la difesa della vecchiaia; la prima ispirazione è probabilmente dovuta al I libro della Rep. di Pla- tone); De divinazione libri Il (del 44; si riallaccia al De nat. deorum, per confutare la tesi stoica della divinazione. Il dialogo si svolge tra Cicerone e il fratello Quinto. 

 

Nel I libro si espone la storia e la critica della divinazione, implicante una ferrea ne- cessità. Quinto si dichiara favorevole alla tesi stoica; nel II libro Cicerone confuta la tesi stoica); De fato (scritto dopo la morte di Cesare, 44, nel De fato si discute a fondo la questione del rapporto necessità-libertà, rifiutando sia la tesi epicurea che quella stoica); Laelius de amicitia (del 44; il dialogo si finge avvenuto nel 129 in casa di Lelio all'indomani della morte dell'amico di Lelio, Scipione Emiliano); Topica (scritti nel 44, durante un viaggio per mare da Velia a Reggio; è un'opera di logica formale e di tecnica retorica); De officiis libri Ili (composti sulla fine del 44; vi si tratta dei doveri medi, in una rielaborazione dell'opera di Panezio intitolata IItpl "tOÙ Xct&-l)xov-ro~. 

 

Nel I libro si delinea in che consiste l'honestum, nel II in che consista l'utile, nel III si chiariscono i conflitti tra honestum e utile); perduti sono andati, oltre I'Hortensius, il De gloria e il De virtutibus, ambedue del 44. II. - Orazioni Pro Quinctio (81); Pro Seztio Roscio (80); Pro Q. Roscio (76); Pro M. Tullio (72-71: non completa); Verrine (70; dalla Divinatio in C. Verrem al Proemium actionis in Verrem alle 5 accusat. in C. Verrem); Pro M. Fonteio, Pro.Aula Caecina (tra il 69 e il 67); Pro lege Manilia o De imperio Gn. Pompei (66); Pro.A. Cluentio (66); De lege agraria contra P. Servilium, De lege agraria ad. pop. Romanum contra Rullum (63); Pro C. Rabirio (63); In Catilinam (63); Pro L. Murena, Pro L. Fiacco, Pro P. Sulla, Pro.A. Licinio.A.rchia poeta (63-62);.Ad Quirites post reditum suum (57); Post reditum in Senatu (57); Pro domo sua a d Pontifices (57); De haruspicum responsis in Senatu (56); Pro Cn. Plancia, Pro P. Seztio, In P. Vatinium, Pro M. Coelio, Pro Lucio Corn. Balbo, Oratio de provinciis consularibus (56); In L. Calpurnillm Pisonem (55); Pro T. Anneo Milone (52), Pro C. Rabirio postumo, Pro M. Marcello, Pro Q. Ligario ad Caesarem, Pro rege Deiotaro (50-45), Filippiche (14 orazioni in M. Antonium, del 44). ·si ricordano, infine,. gli epistolari ciceroniani, raccolti, probabilmente, fin dal 46, dal dotto liberto di Cicerone, Tirone (Epistolarum libri XVI ad familiares, Ep. libri XVI ad Atticum, Ep. libri Ili ad Cicer. fratrem, Ep. ad Brutum) ed alcune opere storiche e poetiche andate perdute, ma, sembra, di nessun valore.  115   tentano di mantenere il proprio potere o di rinnovarsi - non senza grossi contrasti interni - senza perdere le proprie prerogative, cer- cando anche, per la propria opera o la propria azione, giustifica- zioni ideali. 

 

La prima concezione, d'ordine generale (trascendendo le singole scuole e le loro piu profonde differenze), quale appare attraverso l'opera di Cicerone, è quella delineata come di Antioco: visione di un tutto ordinato, gerarchicamente scandentesi, ove il divino è la stessa ragion d'essere che fa s(che ogni cosa si articoli all'altra, in una sola unità vivente e razionale che su tutto si diffonde (anima mundt) e per cui ciascuna cosa ha la sua ragione (l6gos). 

 

Entro questi termini, in cui si fondevano aspetti platonici (doH'ultimo Platone) e stoici (particolar- mente la dottrina del principio attivo e del principio passivo, del l6gos e dei l6goi, della provvidenza, della legge, e la possibile interpre- tazione di tali dottrine, il cui esito era una concezione legale del cosmo), e il cui arco va da Panezio ad Antioco di Ascalona, si vede bene il costituirsi di una concezione, la quale ideologicamente serv(a giustifi- care un certo modo di intendere la politica e il mos, quali vennero attuati sull'esempio di Scipione, dalla corrente senatoriale, che prese, appunto, le mosse da Scipione Emiliano. 

 

Non solo, ma tale concezione, sotto l'aspetto dell'armonia del tutto e della legalità del tutto, giustificava da parte ~enatoriale l'istituzione di un certo "diritto" a diritto universale e la teorizzazione di un costume e di una libertà che veni- vano perciò assunti a costume, a bene, a libertà per tutti. Non poi molto lontana da questa, è un'altra dottrina che traspare da Cicerone, e che sembra sia stata messa a fuoco da Filone di Larissa. Identico lo sfondo e la strutturazione stoico-platonica, essa tuttavia sembra rispondere a una diversa esigenza, che rivela, di contro alla oramai sclerotizzatasi visione di certi conservatori piu rigidi, la possi- bilità di una maggiore duttilità di una discussione e convinzione che si realizzi retoricamente. Essa rivela cioè l'esistenza di gente che, pur legata alla carriera politica e alla corrente senatoriale conservatrice, si rende conto dei mutamenti avvenuti, che piu vivi sono i contrasti entro la stessa classe dirigente, nel venire alla ribalta di uomini nuovi e in una carriera politica alla quaie non si accede piu solo per nascita, ma anche da parte di chi ha rivelato le proprie capacità nei tribunali e nei processi. 

 

Pur optando per la visione di un tutto ordinato, tale strutturazione tuttavia viene assunta non come verità assoluta. 

Tale accettazione dogmatica, utile finché unica era la voce, diveniva estre- mamente debole, quando, in una discussione piu aperta si poteva di- mostrare che, portata alle estreme conseguenze, giungeva alla nega- zione proprio dell'azione (s(come avveniva in certe posizioni dello stoicismo) e, alla fine, all'impossibilità del discorso e, perciò, ad esau- rire la propria forza di convinzione. 

 

Di qui, invece, l'assunzione di quella tesi, e oramai comune concezione, come ipotesi, come verità probabile: era cosr possibile la discussione, la contrapposizione di opinioni diverse, il muovere a quella piuttosto che ad altra posizione e azione, mediante le tecniche della convinzione, fino a porre quella struttura- zione del tutto e la relativa acquisita saggezza e modo di vita piu che come essere, come dover essere, come impegno di realizzazione. E allora accanto al recupero di certo platonismo, stoicismo, aristotelismo, si chiarisce il recupero di altri aspetti del platonismo, di quel plato- nismo che poteva essere interpretato, invece che come essere, proprio come dover essere, insieme al paradossale ideale del saggio stoico, anch'esso posto come dovere, onde la possibilità di una morale medi~. di una misura e di una convenienza tutte umane, che, in chi n'è ca- pace, possono servire come termini medi per raggiungere l'impossibile virtu perfetta, posta non come principio, ma come termine di realiz- zazione. 

 

Tale la via presa da Cicerone e tale il suo rifarsi a Filone di Larissa e all'Accademia, piuttosto che al rigido dogmatismo in cui era venuto sfociando Antioco di Ascalona. Se avessi abbracciato la filosofia dell'Accademia per ostentazione o per puro gusto di critica, penso che andrebbe condannata non solo la mia stol- tezza, ma anche il mio costume e il mio carattere. Ché se nelle piccole cose si biasima la pertinacia e si reprime lo spirito cavilloso, vorrei, allorché si tratta del fondamento e del fine della mia intera vita, entrare in conflitto con gli altri, o frustrare gli altri tanto quanto me stesso? 

 

Perciò, se non pensassi essere inconveniente in una tale discussione, fare quello che tal- volta si· fa quando si discutono le questioni dello Stato, giurerei per Giove e per gli dèi penati che brucio per scoprire la verità e che penso come parlo. E come non potrei desiderare di scoprire il vero, dal momento che provo gradimento se, su di un qualche punto, scopro il verosimile? Ma proprio perché giudico essere cosa bellissima contemplare la verità, ritengo vergognosissimo affermare il falso come se fosse una verità. Personalmente, certo, sono incapace di non affermare mai il falso, di non dare mai il mio assenso, di non avere mai un'opinione, ma qui si tratta del saggio. 

 

Quanto a me, faccio molte congetture (io non sono un saggio), e non mi volgo a quella piccola Cinosura [Orsa minore] "guida notturna cui si affidano i Fenici in alto mare," come dice Arato [Cic., Arat. frg. 7; cfr. Nat. deorum, 2, 106], i quali, tanto piu esattamente si dirigono, quanto piU, per la sua vicinanza al polo, "ha una breve rivoluzione," ma dirigo i miei pensieri verso I'Orsa maggiore e le chiarissime stelle di settentrione, cioè verso ragionamenti in forma larga e non minuziosamente limati. E per ciò mi capita di andare errando e di navigare nel vago. Ma, come ho detto, non si tratta di me, ma del sapiente. Quando, infatti, ciò che mi rappresento ha fortemente  scosso la mente e i sensi, lo accetto e talvolta anche gli do il mio assenso; tuttavia non lo percepisco; ché nulla ritengo si possa percepire. lo non sono un sapiente; per questo cedo alle rappresentazioni e non posso resistere loro. Arcesilao è d'accordo con Zenone, quando pensa che la piu alta forza del sapiente è di stare attento a non essere afferrato e a non essere ingan- nato. 

 

Nulla è infatti. piu lungi dell'idea che abbiamo della gravità· del sapiente che l'errore, la leggerezza, l'avventatezza (Cicerone, Lucullus, xx, 65-66). Quando scrisse gli Accademici (nel 45 a. C.) Cicerone aveva ses- santun anni. In essi, per quel che n'è rimasto (Acad. post. lib" l, Varro; Acad. prior. lib. Il, Lucullus), alla posizione piu rigida e pio dogma- tica di Antioco di Ascalona, quale, d'altra parte, si rifletteva.nella posizione di Varrone reatino e di Lucullo, si contrappone nell'inter- pretazione del probabilismo di Filone di Larissa (cfr. sopra: si veda anche: "ci sono molte cose probabili, le quali, per quanto non colte in sé, tuttavia, dandoci una rappresentazione chiara e distinta, servono a regolare la vita del saggio": De nat. deorum, l, 12; anche Tusc. disp., V, 33, 82), una piu duttile concezione, passibile d'essere assunta in funzione retorica, avente per fine un certo tipo di politica. Cicerone era oramai giunto al pieno della sua maturità. Se considerati non a sé o come semplice fonte, ma nel complesso degli scritti di Cicerone, gli Accademici hanno un particolare interesse, in quanto chiariscono il doppio aspetto di tutto il pensiero ciceroniano: da un lato l'esigenza di una concezione filosofica, di una riflessione critica che renda conto, diciamo cosr, di una "saggezza teorica"; dall'altro lato, anche mediante quella saggezza, la capacità d'inserirsi nel mondo umano, per mezzo del- l'arte del dire, sr che quello stesso mondo umano si muova, scendendo, se si vuole, a compromessi, usando tutte le tecniche della piu scaltrita retorica. Può darsi che in Cicerone non vi sia una "filosofia," com'è stato detto, che in lui coabitino piu concezioni, non poche volte in contraddizione tra di loro, ch'esse siano state desunte, volta a volta, superficialmente, dai manuali e dalle sillogi, ma è anche certo che in Cicerone si riflette la problematica di un'epoca, o meglio di una certa classe di uomini, fluida e in lotta, in una certa epoca, nel suo tenta- tivo di determinare un modo di vita, che andando oltre l'assunzione della cultura come mezzo, facesse della cultura il fine, in una sintesi di scienza e retorica, in un pensiero che è davvero tale se è azione. 

 

Non è cosr un caso l'abile ripresa del motivo aristotelico ("e cosr - esclama Cicerone, - l'uomo, secondo Aristotele, è nato per due fini, comprendere e agire, come un dio mortale -- De finibus, II, 13, 40) di una ragione teoretica, di una ragione pratica e di una ragione poietica (cfr. I vol.), ove, relativamente alla retorica, essa, avendo per campo il mondo del possibile e non del necessario, fa tutt'uno con la dialettica. Certo, per intendere la-funzione mediatrice di Cicerone, il tipo ideale di vita da lui affrescato, il significato da lui dato alla cultura e perciò al rapporto filosofia-retorica, cioè la prospettiva di una poli- tica illuminata, capace di inserirsi volta per volta nel contrasto degli avvenimenti, vanno tenuti presenti i momenti estremamente gravi della storia e della politica di Roma durante l'arco della vita di Cice- rone, dal 106 al 43 a. C. È storia troppo nota per farne cenno qui. Non vanno comunque scordate le alleanze e le rotture tra uomini in lotta, i conflitti tra i "populares" e gli aristocratici, e in seno agli aristocra- tici le lotte in nome del popolo o del senato che gli stessi aristocratici e i cavalieri ebbero tra loro, pur di assurgere al potere. Entro questi termini si vede bene il tentativo di Cicerone di ostacolare l'affermazione singolare dell'uno o dell'altro personaggio - non a caso Cicerone fu in contrasto con Pompeo e con Cesare, - in nome di un ordine e di una legalità che conservasse quella res-publica quale si era deli- neata attraverso Scipione Emiliano, ch'era poi il tentativo di mante- nere un ordine in cui si determinasse la libertà d'azione piu che degli aristocratici o dei popolari, degli optimates. "Tutti sanno," ha scritto giustamente La Penna, "di qual largo favore godette nell'ultimo se- colo della repubblica romana lo slogan della libertas: uno slogan usato da parti opposte, con contenuto diverso e indefinito, uno slogan pluri- valente quasi quanto la libertà e la democrazia di oggi. 

 

Tutti por- tiamo dalla scuola, che spesso campa di sostrati remoti di cultura, l'immagine di Catone e di Bruto morenti per la libertà, benché a quasi tutti gli storici sia ormai chiaro che quella libertà era, in fondo, la facoltà per alcune cricche nobiliari di manipolare elezioni e magi- strature, grazie alla ineducazione politica e alla fame della plebaglia urbana, le cui esigenze vere o si manifestavano in esplosioni cieche e inefficaci o influivano in misura scarsa sulla legislazione. Ma è meno noto... che lo slogan della libertas non mor1, anzi continuò a prospe- rare sotto l'impero. Augusto attribuiva a suo merito di vindicare in libertatem rem publicam e gli imperatori successivi si proclameranno spesso vindici della libertà; nelle contese per l'impero non vi sarà contendente che non si proclami campione della libertà del popolo romano contro il tiranno. Tutto ciò è di scarsissimo interesse; piu interessante è che nel corso dell'impero lo slogan della libertas, in iscrizioni di monete e anche in qualche testo letterario, vada sempre piu accostandosi e quasi fondendosi con quello della securitas; e se- curitas è la tranquillità nel godimento dei propri beni, senza paura di  119   nemici esterni, senza paura di rivolte di schiavi o di agitazioni della plebaglia rerum novarum cupida, senza preoccupazioni per la cosa pubblica, che è in alto, in buone mani. Questo processo ideologico era naturale e già chiaro nell'età augustea..." (Libertas e Securitas, "Belfagor," p. 'Zll). 

 

In effetto tutto questo era già presente in Cicerone. E ciò si chiarisce tenendo presente la situazione storica, l'autorità degli optimates messa in forse sia da certi aristocratici e cavalieri che agivano avendo per scopo un potere personale, sia dalle rivolte popolari, in una struttura sociale in cui il popolo non c'era; ma anche si chiarisce cosi la funzione data da Cicerone alla cultura, la tensione a porre, sia pur come dover essere, un ordine e una misura ideali, per muovere i quali divenivano di grande importanza tutte le tecniche retoriche, onde la retorica venne pian piano a perdere per Cicerone il significato di mèra precettistica (come ancora era nel giovanile De inventione), per assumere la funzione di costituire e di "inventare" un certo ideale e di convincere ad esso. 

 

Se non vanno dimenticati i massacri di Mario, le molte guerre civili, le proscrizioni di Silla, la politica di Pompeo, di Crasso e di Cesare, i molti processi, neppure vanno dimenticati, anche in funzione di questi stessi conflitti, della lotta fra aristocratici e popolari, i due schemi retorici che n'erano scaturiti: l'uno fondato sulla pura virtus romana, legato alla sola tradizione del "forte" popolo romano, indi- pendentemente da ogni cultura, o meglio sganciato dall'ideale di un ordine costituito, la cui visione è propria del saggio; l'altro fondato invece sulla concezione del saggio di tipo stoico, in cui alla fine la virtu si distacca nettamente dalla politica. 

 

Di qui, ora, rifacendosi a quello che col tempo era divenuto un ideale, cioè la figura di Scipione Emiliano, virtuoso perché saggio, ma saggio perché uomo d'illuminata cultura, mediante cui ordinare lo Stato verso il bene, sorge l'esigenza di delineare la figura dell'oratore quale uomo politico, che può indicare quello che deve essere l'ordine e il fine da realizzare, in quanto abbia una vasta cultura generale e tecnica, e perciò stesso, perché ro- mano, non solo volta a quella greca, ma anche allo studio della tradizione di Roma, dei suoi costumi, della sua lingua, del suo diritto. 

 

Tale, sembra, l'esigenza messa in chiaro da Cicerone. 

 

Da un lato, quindi, l'importanza di una cultura enciclopedica, ed ecco di nuovo, oltre all'interesse per ascoltare e conoscere i vari maestri delle varie scuole, recandosi anche nei centri di maggior cultura, Rodi, Alessandria, Atene, il significato dato ai manuali, alle introduzioni, alla discussione delle questioni, mediante cui formare la propria personalità, cioè la propria humanitas o cultura; dall'altro lato il valore che assumono le ricerche dedicate alla tradizione romana, alla sua lingua, alla sua cultura. 

 

Assume qui un preciso significato storico - di cui già ci si rendeva conto nel tempo- l'opera cosiddetta erudita di Varrone reatino.

 

A tale proposito, anzi, sembra avere un particolare interesse la delineazione che Cicerone fa della figura di Varrone e soprattutto della sua importanza per aver fatto conoscere ai romani la loro storia, le loro antichità, contrapponendo tuttavia a lui la propria funzione di rendere latino un aspetto della paidèia greca, costituendo i cardini di una nuova cultura.

 

Che Varrone ci dica quello che fa, poiché le sue Muse tacciono piu a lungo del solito. 

 

Non credo che abbia smesso di lavorare, ma penso che nasconda le cose che scrive. 

 

"Niente a~o," rispose Varrone, "secondo mc, anzi, è follia scrivere ciò che poi si 'Vuole nascondere. Ho, invece, tra le mani una grossa opera, di cui da tempo mi propongo di dedicare una 3 

 

Nato circa a. C. a Rieti, nella Sabina, da una famiglia plebea, Marco Terenzio Varrone e soprattutto uomo di lettere e di vastissima cultura, anche se per un certo periodo si occupa di politica. 

 

Questore, legato, propretore di Pompeo nella guerra contro Sertorio, tribuno della plebe, pretore, legato di Pompeo nella guerra contro i pirati, Varrone vede in Pompeo il salvatore delle antiche tradizioni repubblicane. 

 

Addolorato per l'alleanza di Pompeo con Cesare e Crasso, Varrpne segue di nuovo Pompeo contro Cesare. 

 

Dopo Fàrsalo si ritira definitivamente dalla vita politica attiva per darsi tutto agli studi, ma sempre in funzione di Roma. 

 

Sia pur avendo combattuto contro Cesare, sia pur avendo scritto l'elogio di Porcia, la moglie di·Catone Uticense avversario di Cesare, Cesare, al quale Varrone dedica le Antìquitates rerum divi,..,m, gli diede l'incarico di organizzare un complesso di pubbliche biblioteche latine (cfr. Svetonio, Caes., 44). 

 

Morto Cesare, Varrone rientra tra i proscritti di Marc'Antonio. 

 

La sua casa e la sua ricchissima biblioteca furono saccheggiate e fu in quell'occasione che molte delle opere di Varrone andarono perdute. 

 

Varrone si dette alla macchia e fu nascosto da amici fidati, tra cui Fufio Caleno. 

 

Amnistiato poté tornare ai suoi studi. Muore l'anno stesso in cui Ottaviano prese il nome di Augusto. 

 

Varrone stesso, secondo Gellio, III, IO, I7, nel I libro delle Ebdomadi, scrive che  aveva composto 490 libri: il Ritschl, OfJUJt:., III, 525, riprendendo l'in· terrotto catalogo dei titoli delle opere di Varrone olfertoci da S. Gerolamo e aggiun· gendo scritti citati da autori antichi· che non si trovavano nel catalogo di S. Gerolamo, arriva a citare 70 opere per un complesso di 620 libri. 

 

Di tale sconfinata opera di Varrone resta pochissimo: 

 

Libri tres rerum rustìt:iiTUm (scritti a 80 anni); sei libri dei venticinque De lingua latina; un migliaio di frammenti delle altre opere. 

 

Diamo qui un elenco dei titoli delle opere piu celebri di Varrone: 

 

Antiquitates rerum humanarum et divinarum (41 libri); 

Annalium libri tres; 

De vita populi Romani; 

De gente populi Romani; 

De Pompeio (3 libri); 

Legationum libri 1I1; 

De iure civili (15 libri); 

DiscipliniiTflm libri IX (1. 

De grammatica; 2. 

De dialectica; 3. 

De rhetorica; 4. 

De geometria; 5. 

De arithmetìca; 6. 

De astrologia; 7. 

De musica; 8. 

De medicina; 9. 

De architectura); 

Libri tres rerum rustit:iiTflm; 

De lingua latina (25 libri); 

De poematis (3 libri); 

De poetis; 

De Jt:aenicis originibus (3 libri); 

De actionibus scae- nicis (3 libri); 

Quaestìonum Plautinarum libri V; 

De lectionibus (3 libri); 

Suationes (3 libri); 

Orationes (22 libri); 

De proprietate scriptorum (3 libri); 

De bibliothecis (3 libri); 

De similitudine verborum (3 libri); 

Liber de philosophia; 

De forma philosophiae libri' IIT; 

De principiis numerorum libri IX; 

Logistorici (76 libri); 

Saturae menippeae (4 libri); 

Pseudo-tragoetiiar11m (6 libri: tragedie da leggere, non da rap· presentare); 

Poemata (I O libri).  121   

parte al nostro amico (parlava di me Cicerone); è un lavoro di una certa importanza, che sto limando e rifinendo. 

 

Varrone,  dissi io, benché da tempo aspetù questo tuo lavoro, non oso reclamarlo, ché il nostro Libone, di cui ti è noto l'affetto, mi ha detto (certe cose non si possono nascondere), che, !ungi dall'interrompere quest'opera, tu la rimaneggi con grande cura né mai l'abbandoni. 

 

C'è però una domanda che fino ad ora non mi era venuto in mente di farti; ma ora, che mi son dato all'impresa di trasmettere gli argomenti dei nostri comuni studi, e di illustrare in lingua laùna quell'antica filosofia che è cominciata con Socrate, dimmi, ù prego, perché tu, che scrivi tante cose, accantoni questo genere, dal momento poi che in esso eccelli, e che tale studio e tali quesùoni sono assolutamente superiori ad ogni altro studio e ad ogni altra arte?" Varrone rispose: 

 

"Tu mi parli di un progetto cui ho spesso pensato, che spesso ho agitato.

 

Vedendo la filosofia trattata con una cura. particolare negli seritti dei Greci, ho ritenuto che quelli dei nostri concittadini che si sentono attratti da tali studi, se sono erudiù nelle dottrine greche, leggerebbero le opere dei Greci piuttosto che le mie; mentre quelli che non hanno gusto per le arù e le discipline greche, non si curerebbero affatto di un lavoro che non si può comprendere senza conoscere l'erudizione greca. 

 

Per questo non ho voluto scrivere opere che gl'ignoranù non potrebbero comprendere, e che i dotti sdegnerebbero di leggere. Noi poi, che rispettiamo come altrettante leggi i precetù della retorica e della dialettica (due scienze che la nostra scuola mette nel numero delle virtu), siamo costretti ad impiegare, nonostante la loro novità, alcuni termini che i dotù preferiscono cercare tra i greci, e che gl'ignoranti non vorrebbero neppure ricevere da noi. Sarebbe, dunque, un lavoro inutile. 

 

Non solo, ma tu, Cicerone, conosci la nostra fisica: essa abbraccia la forza efficiente e la materia che questa forza plasma e modifica: abbiamo dunque bisogno anche della geometria. Infine, mediante quali termini ·si potrà esprimere e far capire i principi che concernono la vita, i costumi, ciò che si deve fuggire e ciò che si deve cercare?... 

 

In questo campo], noi ci riallac- ciamo alla vecchia Accademia...: quanta sottigliezza ci vorrà per esplicarne le dottrinel Quale spirito e oscurità nelle nostre discussioni contro gli stoici! 

 

Tengo, dunque, per me solo i miei studi filosofici, e ne faccio, per quanto mi è possibile, la regola della mia condotta e il diletto dell'animo, d'accordo con Platone che la filosofia è il piu grande e il piu bel dono che l'uomo abbia ricevuto dagli dèi. 

 

Ma quelli dei miei amici che s'interes- sano di questi studi, li mando in Grecia, consiglio loro di andare ad attin- gere alla fonte piuttosto che ai rivi che ne derivano. Quanto alle cose che nessuno aveva ancora insegnato, e che gli studiosi non potevano trovare in nessuna parte, ho cercato, per quel che ho potuto (non ammiro granché le mie cos<:), di farle conoscere ai miei concittadini. Sono ricerche che non si potevano chiedere ai Greci, né, dopo la morte del nostro L. Elio, ai Latini. 

 

Ad ogni modo, le opere della mia giovinezza, in cui imitatore, non traduttore, di Menippo, ho diffuso qualche gaiezza, contengono certo cose riprese dal fondo stesso della filosofia e non poco dalla dialettica; non solo, ma perché i meno dotù, invitati a leggere dall'interesse dell'argomento, comprendessero piu facilmente tali questioni filosofiche, mi sono proposto di trattarle nei miei Elogi e nei proemt delle mie Antichità, se, comunque V l sono ClUSCltO. 

 

"SI," risposi, "ci sei riuscito, Varrone; stranieri nella nostra città, errànti come viaggiatori, le tue opere ci hanno, per cosi dire, ricondotti a casa, e, grazie a te, possiamo finalmente conoscere chi siamo e dove viviamo. Sei tu che ci hai rivelato l'età della nostra patria, la successione dei tempi, i diritti della religione e del sacerdozio; tu che hai esposto l'amministrazione interna, la disciplina militare, la disposizione dei quartieri e dei luoghi, tu che ci hai svelato i nomi di tutte le cose divine e umane, le specie, le fun. zioni e le cause. 

 

Tu hai diffuso luce sui nostri poeti, sulla nostra letteratura, sulla nostra grammatica. Tu hai composto un poema vario, elegante, quasi perfetto; tu, certo, hai in piu parti toccato questioni filosofiche, abbastanza per dare l'impulso, non sufficientemente per istruire..." (Cicerone, Va"o, I-III, 2-10). 

 

Varrone, per quel che ne sappiamo, e soprattutto un uomo di studio. 

 

Forte di una certa concezione filosofica generale, senza dubbio sulla scia del suo maestro Antioco di Ascalona (cfr. Cicerone, Varro, III, 12), applica alle proprie ricerche sul mondo antico romano, il metodo istorico proprio della scuola peripatetica, cercando d'illuminare le sue ricerche intorno ai costumi, alle leggi, alla religiosità, alla poesia e alla letteratura, mediante la visione della vita e della virtu propria degli stoici, dei cinici, e, pare, in particolare di Posidonio. 

 

Ad ogni modo sembra che le molte letture, la sua curiosità di conoscere le cose umane, attraverso i monumenti e i documenti, lo abbiano portato, nei suoi scritti, oltre alla descrizione e alla schedatura di tutto ciò che aveva ritrovato Varrone servf agli antichi sf come un'enciclopedia - a determinare come è che l'uomo, in certe condizioni politiche, geografiche, sociali, culturali, costituisce certi tipi di costume, di religione, di condotta politica. 

 

Sotto questo aspetto si chiarisce come Varrone distingua, senza porre l'uno superiore o inferiore all'altro, tre tipi di teologia, corrispondenti a tre modi diversi di spie- garsi da parte dell'uomo la propria esigenza religiosa. 

 

Il discorso su dio in forma di favola (teologia favolosa o poetica) risponde all'esigenza del divino propria degli uomini ignoranti o incolti; il discorso sul divino interpretato come ragion d'essere del tutto o causa, natura naturans (teologia naturale), è il discorso proprio degli uomini di cul- tura (filosofi), che identificano il divino con la stessa ragion d'essere o con le possibili condizioni che rendono pensabile la realtà, quali che poi ognuno ritenga siano le strutture del tutto (Varrone accettava la tesi accademico-stoica del divino come anima mund1); il discorso sulla divinità, rispondente all'esigenza dell'uomo in soCietà (teologia civile) di trovare un criterio all'obbligatorietà della legge, può essere in con- trasto, per ragioni politiche, con la t~ologia naturale (ove molte sono le soluzioni e le interpretazioni), per cui, proprio in funzione della vita associata, secondo Varrone, i discorsi della. filosofia intorno al divino e alla natura debbono rimanere privati o chiusi in seno alle scuole, a meno ch'essi non coincidano con le strutture legali di una certa comunità, servendo anzi a rendere conto di tale legalità. 

 

Il che, per altra via, sembra spiegare il successo di certo stoicismo e di certa Accademia nell'àmbito della classe romana, dirigente la vita politica (cfr. per la testimonianza sulle tre teologie, Sant'Agostino, De Civitate Dei, VI, 2-5). Gli studi storico-eruditi di Yarrone su come è che l'uomo è uomo, lo portavano, d'altra parte, a sostenere che già gli studi e le dimostra- zioni dei piu grandi pensatori dimostrano che l'aspirazione naturale dell'uomo consiste nel realizzare pienamente se stesso (felicità), e che perciò l'uomo è felice, allorché attua se medesimo sia come anima sia come corpo, ché l'uomo è un tutt'uno d'anima e di corpo. 

 

Vita beata, perciò, si avrà quando "virtu" (capacità di realizzare sé eccellente- mente) e "naturalità" (ciò che è bene compiere, che è primo per natura, prima naturae) coincidono, vita piu beata (beatior) allorché si abbiano anche quei beni di cui potremmo fare a meno, b~atissima quando non manca nulla. Di qui anche si capisce perché Varrone, dei due generi di vita (contemplativa e attiva), ormai luoghi comuni della tradizione, non ritenga compiuto né l'uno né l'altro, se presi a sé, ma ritenga perfetto il genere di vita misto, la vita cioè che sia ad un tempo contemplativa e attiva, in cui l'azione scaturisca dalla rifles- sione e la riflessione sia consapevolezza critica della propria posizione nel mondo e nel mondo degli uomini. Varrone, da un lato, con la sua sistemazione del sapere, e, dall'altro lato, attraverso l'ordinamento delle sue ricerche per discipline, ebbe un'enorme influenza su tutta la cultura posteriore e sull'organizzazione degli studi. 

 

Purtroppo della sua immensa produzione - sembra abbia scritto oltre 490 libri - si sono salvati Libri tres rerum rusticarum (che scrisse a 80 anni), sei libri dei 25 De lingua latina, pochi frammenti e non poche tracce del suo insegnamento e dei resultati delle sue ricerche in quasi tutti gli autori posteriori. 

 

Cos{ sembra che tra le opere piu lette e sfruttate siano state le Antiquitates rerum humanarum et divinarum (in 41 libri) e gli Anna/es (in 3 libri) - certo anche il De poematis, il De poetis, il De scaenicis originibus, il De actio- nibus scaenicis, i Quaestionum Plautinarum libri V, il De jure civili, i Logistorici - mentre notevole influenza, rispetto all'organizzazione degli studi e degli insegnamenti, mediante cui costituire il "cur- 124    riculum" che formi l'uomo, che lo liberi con una cultura fondata appunto sulle discipline liberali, hanno avuto i· Dùciplinarum libri IX, cosi suddivisi: de grammatica, de dialectica, de rhetorica, de geometria, de arithmetica, de astrologia, de musica, de medicina, de architectura. Varrone era convinto, si come il suo amico Cicerone, della impor· tanza della cultura per la formazione dei "cittadini." 

 

Solo che Cicerone fu piu preso nel giuoco politico che non Varrone. 

 

Varrone ebbe, certo, uffici importanti (fu triumviro capitale, questore nell'86, pro- pretore di Pompeo nel 76, tribuno della plebe, pretore nel 68, partecipò alla guerra civile dalla parte di Pompeo), ma, piu portato agli studi e alle ricerche, pacificatosi con Cesare, al quale nel 47 dedicò. le Antiquitates, abbandonò ogni velleità politica, proponendosi soprat- tutto l'organizzazione degli studi (Cesare lo incaricò di mettere in- sieme una pubblica biblioteca). Riusd a sfuggire alla proscrizione di Antonio (43 a.C.). Purtroppo le sue biblioteche andarono completa- mente distrutte. 

 

Altro il temperamento di Cicerone. 

 

Senza dubbio piu ambizioso, egli, fin da giovane, fu attratto dalla carriera politica. 

 

Fu, anzi, in funzione di questa che Cicerone venne elaborando una concezione, che, riprendendo motivi circolanti nella cultura contemporanea, servisse a mantenere un ordine e una misura che fossero salvaguardia, nei gravi conflitti, nella lotta per il potere di singoli individui (popolari o aristocratici) - quando si tenga poi presente che in effetto non esi- steva un "popolo" - della libertas della res-publica. 

 

Studioso fin da ragazzo di retorica, in funzione di una possibile carriera politica, e degli aspetti diversi della cultura propria del suo tempo (egli ascoltò in Roma lo stoico Diodoto, l'epicureo Zenone, fu particolarmente attratto da Filone di Larissa e dal retore Apollonia Molone), preso dagli esempi di grandi oratori come Sulpicio, di giuristi come Scevola, di uomini politici corne Cotta, della funzione, dive- nuta oramai ideale, di Scipione Emiliano, Cicerone tese per suo conto a trasformare la figura del retòre, divenuto oramai solo maestro di retorica, precettista, nell'antica figura del retore uomo politico, dell'orator, nel senso di un Demostene, che, tuttavia, deve inserirsi in una situazione politica e sociale assai diversa, per la quale perciò si dove- vano far funzionare altri ideali, costituire una diversa concezione, alla quale potevano servire certi recuperi di Platone e degli Stoici, assunti entro i termini di una discussione dialettico-retorica delle diverse ipo- tesi elaborate nelle scuole, mediante la tecnica dei pro e dei contra, optando per quella tesi che piu sostenibile di altre (piu probabile) servisse a convincere della validità e della superiorità di un certo or- dine politico e giuridico. 

 

Per questo Cicerqne, non accettando la tesi varroniana che le questioni piu strettamente filosofiche si debbano discutere in privato o nelle scuole, affermava· anzi ch'è necessario co- noscere e vagliare tutte le ipotesi, farle conoscere, latinizzarle, sf che poi, caso per caso, a seconda del conflitto politico in cui ci si trovi, mediante le arti del dire si possa convincere (duttilmente assumendo di volta in volta sia il tipo di eloquenza detta atticistica sia il tipo di eloquenza detta asianica) a quel certo ideale politico, in funzione se- natoriale, che salvi il "cittadino," la "res-publica," fondata sulla mi- sura della ragione, per cui ciascuno abbia il posto che gli compete. 

 

Di qui la paura continua di Cicerone (e il compromesso) nei__confronti di chi potesse assumere, o a nome del Senato o in nome del popolo, potere personale. - Cicerone fu pompeiana finché Pompeo si dimostrò difensore del Senato, ancora pompeiana durante la guerra civile, ché in Cesare egli vedeva il possibile tiranno e non il princeps tipo Scipione Emiliano; riti- ratosi dalla vita politica durante il periodo in cui Cesare ebbe in mano il potere, Cicerone riprese la sua attività politica alla morte di Cesare (15 marzo 44), in appoggio di Ottaviano, che gli sembrò il piu moderato, il difensore dei diritti del Senato, moderatore della "res-publica," contro Antonio. Incluso nelle liste di proscrizione allorché Antonio, Ottaviano e Lepido si trovarono d'accordo (secondo triumvirato), Cicerone fu ucciso dai sicari di Antonio nella.sua villa di Formia il 7 dicembre 43. 

 

Cicerone se da un lato appare come un conservatore, un senatoriale, dall'altro lato, certo, mediante la sua visione platonico-stoicheggiante di un tutto ordi- nato, ove tutto ha il suo giusto posto, in una ragionevale misura, ove lo stesso universo si costituisce legalmente ed ove lo stesso uomo politico per eccellenza (cfr. Somnium Scipionis) è colui che rappresentando il l6gos del tutto diviene una specie di anima mundi del mondo politico, Cicerone attraverso le sue opere,- da quelle retoriche a quelle dette filosofiche e giuridiche, ha preparato il fondamento giuridico e filoso- fico di quella che sarà la concezione imperiale-repubblicana di Ottaviano Augusto. 

 

Entro questi termini si vede bene la linea - anche cronologica - del pensiero ciceroniano, dal De inventione (85-80) al De officiis (44-43), che passando attraverso il De Oratore (55), il De republica (54), il De Legibus (52), le Partitiones oratoriae e il Brutus (46), si compie nel senso di un affinamento delle tecniche di persuasione e dello studio di quelle tecniche stesse, mediante l'Orator (46), i Paradoxa stoicorum (46), i Topica cui convincere, ponendo in discussione le varie ipotesi, per avviare - tale è per Cicerone la funzione protrettica della filosofia, e sembra che questo fosse il contenuto del perduto Hortensius (46) - a certi presupposti valori, dialetticamente enunciati e retoricamente discussi che siano a fondamento della condotta civile quale veniva affrescata nella Repubblica e nelle Leggi (Academica, De finibus, Tusculanae disputationes, De natura deorum, Cato maior de senectute, De divinatione, De fato, De gloria, Laelius de amicitia, De otficiis: opere da Cicerone composte tutte al tempo della sua forzata inazione politica, tra il 45 e il 44-43). Inutile ripetere, ora, quanto ab- biamo detto cercando di ricostruire quelle che fuorono le componenti culturali del II-I secolo a. C., e che per necessità di documentazione abbiamo rintracciato attraverso Cicerone stesso (per la concezione ci- ceroniana della legge, della r.es-publica, del decoro, dei doveri medi, dell'honestum, dell'humanitas, del consensus gentium, cfr. sopra). 

 

Certo, con Cicerone, attraverso la dialettica (in senso soprattutto accademico-filoniano e tecnicamente stoico: "la dialettica è l'arte che insegna a distribuire una cosa intera nelle sue parti, a,spiegare una cosa nascosta con una definizione, a chiarire una cosa oscura con una interpretazione, a scorgere prima, poi a distinguere ciò che è ambiguo e da ultimo a ottenere una regola con la quale si giudichi il vero e il falso e se le conseguenze derivino dalle assunte premesse": Brutus, 41, 152), si determina il t6pos della filosofia intesa come discorso reto- rico-protrettico in funzione di una certa forma di vita civile e legale, in una opzione dell'ideale platonico-stoicheggiante di un tutto ragio- nevolmente (piu che razionalmente) costituito. 

 

Filosofia, condottiera dell'esistenza! indagatrice della virtu! vittoriosa avversaria deì vizi! Senza di te che ne sarebbe non dico della mia vita, ma di quella del genere umano? Tu hai fatto nascere le città; hai chiamato a raccolta gli uomini che vegetavano dispersi; li hai uniti nella convivenza sociale, ottenendo il reciproco rispetto tra vicini ed insegnando alle fami- glie a federarsi con patti nuziali; tu. hai rivelato agli uomini le possibilità comunicative del linguaggio e della scrittura. 

 

Hai inventato le leggi, hai suscitato le comunanze, hai dettato i doveri... Meglio vivere un giorno a norma di filosofia, che tutta un'immortalità da dissennato. E chi saprebbe aiutarci meglio di te? A te sola dobbiamo la tranquillità del vivere; tu ci hai salvato dal terrore della morte... (Tusculanae, V, 2, 5-6). E che si tratti di opzione, di un ordine posto piu che come essere coine dover essere, di un fine cui convincere e convincersi mediante la dialettica e il discorso mitico, sembra si chiarisca bene quando si tenga presente la polemica di Cicerone nei confronti della divinazione, del fato e della simpatia universale, nei termini in cui derivavano da una massiccia e naturalistico-razionale interpretazione dello stoicismo teologico. Sotto questo aspetto Cicerone sembra che rovesci la visione del tutto ordinato e necessariamente articolato in una simpatia universale, per cui tutto ciò che avviene, avviene come è bene che sia (Provvidenza), necessariamente (fato), onde si rende possibile la divi- nazione, ch'era visione propria di certe posizioni stoiche. 

 

La questione di come allora si possa sostenere la possibilità del libero atto umano, era questione su cui già gli stessi stoici avevano a lungo discusso (in particolare Crisippo), e su cui gli avversari avevano dato risposte opposte: e si era assolutamente negato - almeno su di un piano logico - la conciliabilità tra destino e libertà (si ricordi l’argomento principe di Diodoro Crono, che, contro Aristotele, giungeva a negare, accettato che tutta la realtà è in atto, il contingente e il possibile); oppure, negata la possibilità della conoscenza della strutturazione del tutto (Carneade) o negato che il tutto sia razionalmente costituito, sca- turendo anzi da un incontro casuale di atomi (Epicuro), si giungeva ad accantonare la questione dell'ordine in sé, per sostenere che l'ordine e la misura sono dovuti alla stessa attività e alle iniziative umane, mediante cui si sfuggiva al cosiddetto "argomento pigro" (ignava ratio), ch'era la conclusione cui secondo i megarici (probabilmente i seguaci di Diodoro Crono) doveva giungere chi sosteneva che il tutto è provvidenzialmente e fatalmente ordinato. 

 

Se per te è destino di guarire da questa malattia, guarirai; sia se ricorrerai a un medico sia se non ricorrerai. 

 

Egualmente se per te è destino non guarire da questa malattia, non guarirai, sia se ricorrerai a un medico sia se non ricor- rerai. 

 

Ora il tuo destino è l'una o l'altra di queste cose, dunque non serve a niente ricorrere al medico" (Cicerone, De fato, 12, 28). 

 

Non a caso Cicerone, particolarmente nel D e fato (cfr. anche D e divina- tione), ripropone la lunga discussione sul destino e sulla libertà, pro- spettando sia le concezioni antologiche (da Crisippo a Epicuro), sia quelle logiche che negando il possibile e la libertà sul piano.logico (Diodoro), non escludono su altro piano (allorché si dimostri con Carneade che strutture della ragione e strutture della realtà possono non coincidere) che sia possibile da parte umana volere quell'ordine che, col criterio della probabilità, si pone come termine di realizzazione, solo miticamente e idealmente posto dietro le spalle, lasciando all'uomo la possibilità di costituire quell'ordine idealmente presupposto, a cui con- vincere mediante le tecniche della persuasione. 

 

Tale sembrò allora a Cicerone - nel periodo di pace fredda con Cesare e di inazione politica diretta - la sua funzione politica ("la filosofia rimase trascurata fino ad ora, né mai brillò nella letteratura latina; dobbiamo noi darle vita e splendore, e, se nella mia attività politica io fui utile ai miei concittadini, lo sia, per quanto è possibile, anche ora che mi sono ritirato a vita privata": Tusc. disp., l, 3, 5). 

 

Nella Repubblica e nelle Leggi egli aveva delineato quale doveva essere lo stato nella sua fondazione e nella sua costituzione giuridica, tenendo presente l'ideale figura di Scipione, non imperator, non rex, ma princeps, moderatore e reggitore dell'ordine ragionevole della res- publica, si come la divinità lo è del cosmo. Ora, a quell'ordine e a quella misura si doveva convincere per altra via. Non assunta dogma- ticamente alcuna posizione o concezione già data - ad ogni posizione come tale si può opporre altra posizione, - si determina il metodo del- l'opzione per una qual certa ipotesi, a seconda della sua probabilità e del suo possibile successo in funzione di una certa concezione che serva alla vita politica e associata (Accademici). Tale atteggiamento scettico, rispetto alla struttura della realtà, portava Cicerone in una, volta a volta, rigorosa discussione ed esposizione delle tesi opposte, ad assu- mere quella certa tesi che servisse a quel certo scopo, attraverso una retorica convinzione (De fìnibus, Tusculanae disp., De natura deorum), si che l'ordine e la misura prospettati (ch'erano poi l'ordine e la misura genericamente stoici e platonici) divenissero termini di volontà, azione per combattere chi volesse rompere quell'ordine politicamente e giuri- dicamente costituitosi, in un equilibrio sociale, che, d'altra parte, esclu- deva l'accettazione supina di un ordine necessario che, alla fine, poteva portare all'indifferenza per tutto ciò che avvenisse, appunto alla pigra ragione (De divinatione, De fato, De otficiis). 

 

In effetto l'opera di Cicerone presenta costantemente due aspetti: un Cicerone piu intimo, che, in fondo, non crede in nulla, angosciato - in un'epoca in cui morire era facile, in cui le vecchie tavole dei valori erano travolte - dall'idea della morte, che attraverso il successo e l'azione e l'opera personale spera nella gloria, unica eternità ("breve è la vita che da natura abbiamo ricevuto; ma se nobilmente la ren- diamo, essa lascia sempiterna memoria. Se tale memoria non durasse piu della stessa vita, chi sarebbe tanto folle da cercare, al prezzo delle piu grandi fatiche e dei piu grandi pericoli, di raggiungere la lode e la gloria- supreme?... 

 

E cosi, in cambio della. vostra condizione mortale avete ottenuto l'immortalità": Filippiche, XIV, 12, 32: e sono le ultime parole di Cicerone), che delinea per sé e per gli altri del suo gruppo, della sua classe, una specie di modus vivendi, un'etica che si risolve in un giusto mezzo di tipo aristotelico, e per cui, appunto, la virtu sta, di volta in volta, in un saper dominare se stessi e le cose con misura, con distacco, in una convenienza che si rivela fin nel tratto, nella voce, nel modo di vestire e di parlare, in un vivere civile, che si delinea alla fine in un tipo di morale da "signori," e, perciò, per cosi dire, in un "galateo"; e un Cicerone pubblico, uomo politico, orator, che, in funzione della classe degli optimates, tende a difendere un tipo di res- publica, e per cui, su di un piano retorico vale la pena di ricorrere  129   anche ai piu consunti t6poi dell'ordine e della misura del tutto, del- l'armonia dei cieli, delle leggi stellari, dell'influenza degli astri (non si scordi che Cicerone aveva. tradbtto parte del Timeo e i Fenomeni di Arato),.della funzione civile degli àuguri, onde per il popolo servono la teologia poetica e la teologia civile delineate da Varrone. 

 

Non a caso cosi Cicerone che, per altro verso (e perché fosse possibile l'azione da parte di chi aveva le capacità di governo, di con~ro al pericolo del tiranno o di chi assumesse potere personale), negava la divinazione il fato, ponendo l'ordine e la misura come termini di realizzazione, poteva sostenere invece nelle Leggi: Credo che effettivamente esista la divinazione, che i Greci chiamano mantica (II, 13, 32). Lo Stato e il popolo hanno sempre bisogno del con- siglio e dell'autorità degli ottimati... 

 

La istituzione e l'autorità degli àuguri è di vitale importanza per lo Stato, e dico ciò non perché io sia uno di loro, ma perché è di vitale importanza mantenere questa· opinione... C'è un privilegio maggiore della possibilità di interrompere una impresa d'interesse pubblico solo che l'àugure dica: "Un altro giorno?" C'è cosa piu meravigliosa che potere imporre le dimissioni di un console? Cosa vi è di piu religioso che poter dare o rifiutare il diritto di presentarsi al popolo o alla plebe, che potere abolire una legge ingiusta? (II, 12, 30-31). "Con Cicerone, come con Platone,".commenta il Farrington, "biso- gna sempre porsi la domanda: queste sono le parole del legislatore o del filosofo?" (Scienza e· politica nel mondo antico, trad. it., p. 217, n. 33, Milano, 1960); e prosegue: "questa era l'attività delle due piu rilevanti figure di letterati (Varrone e Cicerone) nella Roma degli anni immediatamente precedenti e seguenti alla morte di Lucrezio. Inoltre la loro elaborata teoria sul problema di salvare la società conservando e inculcando la superstizione non è un fenomeno isolato, ma è in armonia con la pratica del governo romano testimoniata da Polibio e con la teoria politica formulata dai maestri stoici della classe dirigente romana, dopo che Polibio e Panezio ebbero aperto allo stoicismo il nuovo mondo d'Occidente" (cit., p. 187). 

 

Entro i termini della problematica ciceroniana, sembra chiaro l'atteggiamento costantemente polemico di Cicerone nei confronti dell'epicureismo o edonismo. 

 

Cicerone non combatte tanto l'ipotesi epicurea quale possibile ipotesi con cui spiegare la pensabilità del reale, quanto gli esiti a cui quell'ipotesi conduce sul piano politico-sociale, particolarmente per quel che riguarda la tesi dell'ordine razionale e unico del tutto, e la tesi della religiosità della legge naturale, messe iri forse dalla filosofia edonistica di Epicuro, donde deriva anche la polemica di lui contro la cultura ufficiale, contro la superstizione usata come strumento politico, ma soprattutto la conclusione che l'uomo, ciascuno, è responsabile del proprio mondo, della costruzione del rapporto umano, indipendentemente da elaborate discussioni sul divino, sui processi conoscitivi, sulla dialettica e sulla retorica, che sembravano finire in esercitazioni puramente scolastiche. 

 

Va, dunque, ora, tenuta presente la forza rivoluzionaria dei motivi dell'edonismo epicureo e cioè il deciso sganciamento dell'uomo da un ordine precostituito e razionale per sé.

 

Il mondo umano costituito storicamente dagli stessi uomini entro l'arco della vita umana (e non si scordi il motivo della convenzionalità del diritto e della giustizia); 

 

la liberazione degli uomini da preconcetti e pregiudizi religiosi e teologico-politici (da cui la polemica di Epicuro contro un tipo di cultura e di politica); 

 

l'appello di Epicuro ad intendere la natura per quello che la natura è, ascoltando la "voce delle cose"; 

 

la razionalità dovuta alla stessa attività della ragione nella costruzione del pro- prio mondo in un equilibrio e in una misura che sono conquista e non dati; 

 

il risolversi della realtà, umanamente, nel linguaggio (per cui, poi, in effetto, semanticamente la logica epicurea poteva coincidere, escluso che il segno evochi la cosa coincidendo con la cosa stessa, con la logica stoica del tipo di quella di Zenone di Cizio). 

 

Non solo, ma di qui anche, per i non addottrinati (Epicuro si rivolgeva a tutti, uomini e donne, non barbari e barbari), l'appello di Epicuro alla semplicità dell'insegnamento, a dare quelle poche nozioni non contraddittorie e intuitive sulla costituzione della realtà che rendano capace l'uomo di pensare con la propria testa, liberandosi da pregiudizi e paura, dal mistero della natura, di cui solo pochi eletti possono parlare (altro aspetto della polemica di Epicuro contro la cultura), e l'appello di Epicuro all'amicizia, all'isolarsi da un certo mondo politico, in un rapporto di uomini, che, comprendendosi, trovino nel con-vivere (amicizia) il significato di un mondo costruito dagli uomini stessi, in equilibrio e serena armonia (cfr. per quanto sopra, vol. 1).

 

Degli Epicurei di Atene e scolarchi del giardino dopo Epicuro sappiamo, in realtà, solo i nomi, e che seguirono e diffusero il pensiero del maestro. 

 

Ne abbiamo l'elenco dal primo scolarca dopo Epicuro all'anno in cui, sembra, l'Areopago di Atene concesse al romano Memmio di edificare sull'area occupata dalla Scuola di Epicuro. 

 

Essi sono: Ermarco, Polistrato, Basilide, Demetrio di Laconia, Apollodoro Tiranno del Giardino, Zenone di Sidone (ascoltato da Cicerone),  131   

 

Gli esiti, dunque, dell'ipotesi epicurea e ~ella propaganda epicurea preoccupano Cicerone. 

 

Egli è preoccupato perché, spezzato il pregiudizio (politicamente utile) di un ordine già dato, di una divinità che è legge e dell'immortalità dell'anima, mediante un insegnamento fondato su poche e semplici nozioni - possibili di essere comprese da tutti, - si poteva liberare il popolo dalla catena del divino e dalla paura dell'aldilà, donde ne sarebbe derivata, disancorata da una razionalità costituita, un'irrazionalità pericolosissima per quella res-publica difesa da Cicerone.

 

Non a caso Cicerone insiste contro gl'indifferenti dèi di Epicuro, messi "a riposo" (cfr. De nat. deorum, I, 44, 123), non pio elementi perturbatori dell'operare umano, e contro l'ipotesi dell'incontro fortuito degli atomi e del clinamen (cfr. De nat. deorum, I, 25, 69-70; De finibus, I, 6, 19), da cui secondo Cicerone deriverebbe la stessa irrazionalità del mondo umano: 

 

"Come non dovrei meravigliarmi," esclama Cicerone, "che vi sia un uomo capace di credere che elementi solidi e indivisibili, movendosi di propria forza e aggregan- dosi a caso fra di loro, diano origine a questo nostro mondo, pieno di tanta armoniosa bellezza? 

 

Chi crede possibile questo, non capisco perché non creda possibile ançhe che, seminando alla rinfusa una certa quantità di lettere dell'alfabeto, impresse in oro o in qualsiasi altro Fedro (ascoltato da Cicerone), Patrone (scolarca dal 70 al 51 a. C.). 

 

Cosl, poco o nulla sappiamo della diffusione dell'epicureismo in Roma, sicura da prima del 173 a. C., se di quell'anno è l'espulsione da parte del Senato di due epicurei venuti dalla Grecia Alceo e Filisco (cfr. Ateneo, XII, 68, 547a; Eliano, V.v. hist., IX, 12) e dei primi epicurei romani, che avrebbero diffuso la dottrina di Epicuro in latino. 

 

Essi sono: Amafinio, Rabirio e Cazio, di cui non altro sappiamo se non ciò che riferisce Cicerone. 

 

Furono in Roma e nel circolo epicureo, formatosi a Napoli e a Ercolano, Filodemo di Gàdara e Silone. 

 

Nato a Gàdara (Strabone, XVI, 754), discepolo di Zenone di Sidone, venuto a Roma, Filodemo entra in dimestichezza di Pisone e con lui, nella villa di Pisone ad Ercolano, fonda un vero e proprio cercolo epicureo. 

 

Tra i molti libri epicurei ritrovati in papili nella casa di Pisone ad Ercolano, molti sono frammenti e testi dello stesso Filodemo. 

 

Sono pubblicati: 

 

"L'ordinamento dei filosofi" (andato sotto il nome di Intlez Herculanensis, comprendente un Indice degli Accademici, uno degli Stoici, uno dei Socrtllia); Su Epicwo (llcpl 'Emxoòpou) i Sulla morte (llcpl &«v<iwu) i Sugli tln (llcpl &c6iv) i Sulla religio- sitìj (llcpl ~lccç) i Sulla musica (llcpl IJ.O~) i Sugli Stoici (llcpl -r6iv:E-rtn- x6iv); Sui segni (llcpl cnJILII(c,)" X4l cnJILII~");.Atluersus Sophisttu. 

 

Molto poco sappiamo di Silone, se non che avrebbe fondato, in Napoli, un vero e proprio cilcolo epicureo, assai vivo durante la metl del 1 secolo a. C. 

 

Di lui parlano Cicerone che lo dice uir optimus et tloctissimus e Vilgilio che lo avrebbe avuto maestro a Napoli. 

 

Su di lui si cfr. Papiro Ercolanmse 312 pubblicato dal Cronert in Colotes unti Menetlemos, Lipsia, 1906. 

 

Il Papiro ercolanense l 044 dA poi alcune notizie biografiche di ·Filonide epicureo, vissuto nella prima metl del 1 secolo a.C., morto a Laodicea, e, perciò, detto di Laodicea, il quale avrebbe diffuso in Oriente l'epicurei~mo, convertendo ad esso, me- diante il peso di ben 125 ofiUScoli (~T«) il re Antioco Epifane. ] metallo, queste si disporrebbero in terra in modo da comporre lcggi- bilmcnte il testo degli Annali di Ennio. 

 

Non so davvero se il caso riu- scirebbe a tanto da formare un solo verso. 

 

Ma se il concorso degli atomi è da tanto, che dà origine a un mondo, perché non dovrebbe dare ori- gine anche a tante altre produzioni meno faticose c meno complicate, come un portico, un tempio, una casa, una città? 

 

Mi pare insomma che chi tanto infondatamente sragiona sul mondo, non abbia mai get- tato un'occhiata alla meravigliosa bellezza dci cieli. Per me io rinuncio ad ogni altro troppo elaborato tentativo di spiegazione; mi basta con- templare con gli occhi la bellezza di tutto ciò che noi affermiamo sta- bilito dalla divina provvidenza" (De_nat. deorum, Il, 37-38, 93-94, 98: ove va ricordato che è Balbo a parl~re, esponendo la tesi stoica sostc- nua da Posidonio nel Ilept.&e&v- Sugli dèi, - in contrapposizione alla tesi ecipurea sugli dèi, esposta da C. Velleio sulla linea del IIept.&e&v - Sugli dèi - dell'epicureo Fedro di Atene, nel I libro del De natura deorum). 

 

Non solo, ma Cicerone era preoccupato anche perché il motivo epicureo dell'ordine c della misura dovuti alla stessa attività umana, indi- pendentemente da ogni legge già data e naturale, poteva portare alla rottura della legge costituita da parte di uomini, che, avendone la capacità, tendessero ad assumere potere personale (forse anche di qui la fama di Cesare epicureo), ed infine perché l'epicureismo poteva dive- nire presso chi s'era nauseato della vita politica quale si svolgeva in Roma, evasione da quella stessa politica, in conventicole di amici, che sembravano tradire l'azione civile cui si appellava Cicerone, ma che, per altro verso, potevano essere d'accordo con Cicerone, contro la tiran- nide (come fu il caso dell'epicureo Cassio, che uccise Cesare). 

 

Sembra, in tal senso, molto indicativo che Cicerone sostenga di non avere mai letto un rigo degli epicurei latini che avevano diffuso la dot- trina epicurea tra il popolo, affermando che sono troppo facili, rozzi, plebei (cfr. Va"o, 2; Tusc. disp., l, 3, 6; Il, 3, 7-8; IV, 3, 5-7); ch'egli non discuta·mai a fondo le tesi di Epicuro, apponendogli altre tesi (ad esempio l'immortalità dell'anima, supinamentc accettata dal Pedone, il motivo dell'ordine e della legge del tutto, dell'ordine e della perfe- zione dei moti stellari, rivelanti la divinità che tutti accettano, consensus gentium: cfr. Tusc. disp., I, 11 sgg.; De natura deorum, Il, 37 sgg.); ch'egli pur ammiri la personalità e l'esempio della virtu di Epicuro ("e chi nega ch'Epicuro sia stato un uomo buono, gentile, ben edu- cato? in queste discussioni l'indagine verte sulle sue idee, non sulla sua condotta; lasciamo alla frivolezza dei Greci codesta moda bizzarra di far della maldicenza sul conto di quelli da cui dissentono nella ricerca del vero...; non solo, ma molti Epicurei furono e sono al presente fedeli  133   nelle amtctzte, equilibrati e sen m tutta la vita... ma...": D~ finibus, Il, 25, 80-81); e che, infine, decisamente affermi che le posizioni epi- curee e il loro linguaggio "dovrebbero essere proibiti da un c~nsor~ piuttosto che rifiutate da un filosofo" (D~ finibus, II, 10, 30). 

 

Le stesse ragioni che muovevano Cicerone a condannare le tesi epicuree, aveva mosso nel 173 o nel 154 (a. seconda che il console ricordato, L. Postumio, sia quello del 173 o quello del 154 a. C.) il Senato romano a espellere da Roma due epicurei venuti dalla Grecia, Alceo e Filisco (cfr. Ateneo, XII, 68, 547a; Eliano, Var. hist., IX, 12). 

 

"Per avere introdotto costumi licenziosi," si legge in Ateneo: cioè dottrine che, rispetto al costume romano, sembravano immorali. 

 

Entro questi termini può essere significativo ricordare un testo della Bibbia, cioè un passo del Liber sapientiae, composto circa in questa stessa età in ambiente ebraico-alessandrino, in cui sono espressi gli stessi timori nei confronti dell'epicureismo - o comunque di posizioni che con l'epicureismo potevano essere affini per la loro intonzione mondana - rela- tivamente, anche se per altra via, al pericolo che per i costumi comporta la negazione dell'immortalità dell'anima e l'annullamento del pregiudizio che Dio sia signore e legge del tutto. 

 

Gli empi con i fatti e con le parole chiamarono a sé la morte, e cre- dendola amica si consumarono e contrassero con lei alleanza: perché sono degni di appartenerle. Essi, infatti, non giudicando rettamente, dissero fra di loro: breve e noioso è il tempo della nostra vita e non v'è refrigerio alla fine dell'uomo, e non si sa che alcuno sia tornato dall'inferno. 

 

Perché noi siamo nati dal nulla e poi saremo come se non fossimo stati, perché il fiato delle nostre radici è un fumo: e la parola è una scintilla che viene dal movimento del nostro cuore. Spenta questa, il nostro corpo sarà cenere, e lo spirito si disperderà come aura leggera e la nostra vita passerà come la traccia di una nuvola, e si scioglierà come la nebbia battuta dai raggi del sole e sopraffatta dal suo calore. 

 

E il nostro nome sarà dimenticato col tempo, e nessuno avrà memoria delle nostre opere. Perché il nostro tempo è un'ombra che passa, e finiti come siamo non si torna a capo, si mette il sigillo, e nessuno torna indietro. 

 

Venite dunque e godiamo dei beni pre- senti, e profittiamo delle creature, come della gioventU con sollecitudine. Empiamoci di vino squisito e di unguenti: e non si lasci sfuggire il fior(della stagione. Coroniamoci di rose prima che appassiscano: non vi sia pratò, per cui non passi la nostra cupidità. Nessuno di noi sia escluso dai nostri sollazzi: lasciamo in ogni luogo i segni della nostra allegria, perché questa è la nostra parte e la nostra sorte (Libro d~lla sapienza, l, l, 16, 2, 1-9). 

 

In tal senso verrà sempre interpretato, dagli avversari dell'epicureismo, il "piacere" epicureo e in tal modo verranno giudicate le lorc riunioni amichevoli e conviviali, i loro sodalizi di amici che, sappiamo 134    si diffusero in Oriente e in Occidente. 

 

E cosr sembra assumere un significato ancora maggiore la lotta degli ebrei di Palestina contro Antioco Epifane, quando si pensa che probabilmente la diffusione dell'ellenismo in quel paese ad opera di Antioco, la sua lotta contro. la superstizione ebraica (cfr. Maccabei, I) fu, in effetto, dovuta all'epicureismo cui si era convertito il re Seleucida, se diamo valore ad un frammento in cui si dice che Filonide di Laodicea, epicureo, era riuscito a piegare, in Antiochia, il re Antioco all'epicureismo: "piegato dall'aggre~sione di·almeno centoventicinque opuscoli, Antioco dovette soccombere" (cfr. V. E. R. Bevan, The house of Seleucos, II, pp. 276-7; anche B. Farrington, cit., p. 147). 

 

Ad ogni modo sappiamo, attraverso Cicerone, che circa nella seconda metà del 11 secolo a. C., l'epicureismo, ad opera dei latini Amafinio, Rabirio, Cazio, si era diffuso in Roma e in Italia, soprattutto presso il popolo (plebs, dice Cicerone, che è termine preciso e che ha un suo significato giuridico). 

 

Sono, appunto, i testi di questo epicureismo facile, plebeo, che evade da discussioni tecniche, che non si preoccupa di dialettica e di retorica, sono questi i testi che Cicerone finge di non aver mai letti, e nei quali ci si sarebbe impegnati, attra- verso un'esposizione della fisica epicurea, a liberare gli uomini dalla superstizione. 

 

Lo studio della sapienza, ovvero filosofia, è certamente antico presso di noi [romani}, però non riesco a trovare nomi da citare per il periodo ante- riore a Lelio e Scipione Emiliano. Quando questi erano giovani, mi ri- sulta che furono mandati dagli Ateniesi, come ambasciatori presso il senato, lo stoico Diogene e l'accademico Carneade; essi non si erano mai occupati di politica, uno era di Cirene e l'altro babilonese: certamente non sarebbero stati tolti al loro insegnamento e scelti per quell'incarico, se in quei tempi certi nostri personaggi in vista non avessero dimostrato interesse per la cultura filosofica. 

 

Essi però affidavano allo scritto gli altri loro studi, chi il diritto civile, chi i propri discorsi, chi le memorie degli antenati: ma pre- ferirono attendere a questa dottrina, che insegna a vivere bene ed è la piu nobile di tutte le arti, con la loro vita piu che cori i loro scritti. Pertanto quella vera e otti~a filosofia che, iniziata da Socrate, trovò finora i suoi continuatori nei P~ripatetici ed anche negli Stoici che sostenevano le stesse idee in modo diveJ1So, mentre gli Accademici facevano da arbitri nelle loro controversie, non è rappresentata da quasi nessuna o da ben poche opere in latino, sia perché l'impresa era grande e gli uomini troppo affaccendati, sia anche perché pensavano che tali studi non potevano essere apprezzati da gente del tutto profana. Frattanto, mentre quelli tacevano, prese la parola Gaio Amafinio, e la plebs sotto l'influsso dei libri da lui pubblicati si rivolse soprattutto a quella dottrina, sia perché era molto facile da capire, sia perché le dolci attrattive del piacere erano invitanti, sia anche perché, -non essendosi prodotto nulla di meglio tenevano quel che c'era. Dopo Amafinio molti seguaci della medesima dottrina lo imitarono scrivendo molte opere, e inva- sero tutta l'Italia; e mentre la miglior prova della grossolanità di quelle idee sta nel fatto che sono cosi facilmente apprese e approvate dagli igno- ranti, essi credono che questo confermi la verità della loro dottrina (Tusc. disp., IV, 3, S-7). 

 

C'è una categoria di persone che vogliono essere chiamate filosofi, e si dice abbian scritto davvero molti libri in latino: io non li disprezzo· in quanto non li ho mai letti, ma poiché·quegli stessi che li scrivono dichiarano apertamente di scrivere senza conveniente determinazione e ordinata disposizione della materia e senza alcuna accuratezza né eleganza di stile, io trascuro una lettura che non offre alcun diletto. 

 

Nessuno infatti, sia pur di modesta cultura, ignora che cosa dicono e pensano i seguaci di quella tale scuola. 

 

Perciò, poiché no!

 

Y'si preoccupano essi stessi della maniera di esprimersi, non capisco perché" debbano essere !ehi se non fra di loro che hanno le medesime idee. 

 

In realtà, tutti leggono Platone e gli altri della scuola socratica e tutta la serie dei filosofi che da questi derivarono, li leggono anche coloro che non accettano o. non si entusiasmano per quelle teorie; ma quasi nessuno prende in mano Epicuro e Metrodoro, tranne i loro seguaci. Allo stesso modo leggono questi Latini soltanto quelli che ritengono giuste tali teorie (Tusc. disp., Il, 3, 7-8). 

 

Pertanto quei tali leg- gono i loro libri con quelli del loro ambiente, e nessun altro li prende in mano se non coloro che pretendono la libertà di scrivere allo stesso modo (Tusc. disp., I, 3, 6). Amafinio e Rabirio, non seguendo alcuna tecnica, trattano con stile volgare (vulgari sermone) di ciò che cade sotto gli occhi di tutti. 

 

Non sanno definire nulla, nulla dividere, nulla concludere con retta interrogazione: ritengono, infine, che non vi sia alcun'arte, né per la parola, né per il ragio- namento.

 

In fisica, se approvassi Epicuro, cioè Democrito, potrei esprimermi con piu facilità di Amafinio. È, difatti, cosa grande, respinte le cause efficienti, parlare del concorso fortuito dei corpuscoli (cosi chiamano gli atomi)?... (Varra, Il, S-6). 

 

Ogni volta che ci penso, mi fa spesso mera- viglia la stranezza di alcuni filosofi [Epicurei J che ammirano la conoscenza della natura ed esultando ringraziano chi per primo la scopri e lo vene- rano come un dio; si proclamano infatti liberati per merito suo da gravi padroni, cioè da un terrore continuo ed eterno e da un timore che giorno e notte li tormenta. 

 

Da quale terrore? da quale timore? 

 

Quale vecchierella è tanto pazza da temere codeste fole, che voi evidentemente temereste se non aveste studiato la scienza della natura, e cioè i "templi acherontei nel profondo dell'Orco, luoghi pallidi di morte, oscurati da tenebre?'' (Tusc. disp., I, 21, 48). 

 

Su testimonianza dello stesso Cicerone, l'Epicureismo, nelle sue linee di fondo, nella sua polemica contro un certo tipo di cultura ("lo studio della natura non forma un tipo d'uomo bravo a van- 136    tarsi e a straparlare e a sc10nnare quella cultura che è tanto ricer- cata dai piu": Gnom. Vat., 45), nella sua semplicità d'interpretazione della natura, opposta alla complessa interpretazione platonico- stoica, si diffuse, nonostante la censura senatoriale del 173, in Roma e in Italia, particolarmente presso il popolo; tuttavia non abbiamo sufficienti testimonianze e documenti per potere affermare il successo politico che avrebbe avuto l'epicureismo presso quel popolo medesimo in contrapposizione alla classe senatoriale e degli ottimati, in una ribellione contro la superstizione e il timor degli dèi, imposto da chi aveva in mano il potere, in un'interpretazione di tesi platoniche, aristoteliche e stoiche. 

 

In effetto, a Roma, c'era un popolo (plehs), ma non esisteva un popolo organizzato, cioè non esisteva un'educazione popolare, tale da dare al popolo una certa ideologia. 

 

Si capisce perciò perché, in Roma e nel mondo latino, piuttosto che l'epicureismo abbia avuto>Ìn ambienti popolari, piu successo l'Orfismo, il Pitagorismo (che anzi proprio ora si sarebbero costituiti a dottrine della salvazione dell'anima, mediante certe pratiche e riti), alcuni aspetti mistico-irrazionali del platonismo di origine orientale. 

 

Tanto piu chiaro si fa, allora, in Roma, al prin- cipio del 1 secolo a. C., sia di fronte alla cultura ufficiale, sia di contro alle superstizioni proprie di certo Orfismo e Pitagorismo, l'appello appas- sionato di Lucrezio (99-95/55-51 circa), la ·sua interpretazione latina del "libro" epicureo (De rerum natura, ·in 6 libri). 

 

A tal proposito sembra, anzi, interessante ricordare che Cicerone, il quale pare sia stato l'editore dell'opera di Lucrezio (o per lo meno rivide alcune parti del poema, forse su invito del fratello Quinto e su proposta di Pomponio Attico, il primo editore di Roma, cognato di Quinto), che del valore della sua poesia parla al fratello in una sua lettera privata del 54, forse quando mori Lucrezio (Il, 9: Lucreti poemata, ut scribis, ita sunt: multis luminibus ingeni, multae tamen artis"), mai, in tutta la sua produzione, faccia direttamente cenno a Lucrezio (anche se per sottinteso piu di una volta), da un lato fingendo di non avere mai letto i piu antichi epicurei latini (il che poi non è adatto vero, se in una lettera a Cassio, Ad. fam., XV, 16, l, 19, l, poteva scher- zosamente discutere dei termini tecnici usati da quegli scrittori: e la lettera a Cassio è proprio dello stesso anno in cui Cicerone scriveva le Tusculanae, in cui è detto, appunto, della sua ignoranza di quei testi); dall'altro lato, cercando di minimizzare l'opera di Lucrezio, non solo tacendone, ma cercando di ridurla a un lavoro scritto per igno- ranti, non degno d'essere letto da uOmini di cultura e inutile per il popolo, per il quale invece è necessaria la "costante guida e l'autorità degli ottimati" (non sembra un caso che proprio là dove Cicerone cerca di minimizzare il significato della fisica epicurea, sostenendo che è tesi sragionevole e assurda, tenga presente, mediante citazione indiretta o chiaramente allusiva, proprio certi passi dell'opera di Lucrezio). 

 

Tutto questo, in effetto, rovescia la prospettiva dell'attività ciceroniana. 

 

Cicerone, in privato, poteva benissimo condannare la super- stitio e la religio, che, tuttavia, ritiene utilissime per ordinare lo Stato verso un certo modello; ma tende a ridurre la carica rivoluzionaria del libro di Lucrezio, ad annullarne l'efficacia e il pericolo, relegan- dolo tra le concezioni oramai superate, inconsistenti e da ignoranti, insistendo sulla popolarità dell'epicureismo, sull'irrazionalità dell'ipotesi fisica degli epicurei, sul fatto che pnì: essendosi diffuso in ambienti plebei non ha avuto alcun successo politico. 

 

A ben guardare, qui ci troviamo di fronte ad altro: al pericolo rappresentato da alcuni gruppi di seguaci dell'epicureismo, scaturiti non dal popolo, ma da certi aristocratici, in contrasto con la politica di Roma, che trovando nell'epicureismo una valvola di sicurezza e costruendosi, insieme agli amici, mondi a parte e certo piu sereni e meno drammatici del quotidiano mondo che si viveva in Roma, lontani da Roma, nelle proprie ville, potevano destare il sospetto di congiurare, in quelle loro riunioni, contro la res-publica, contro la morale ufficiale, in una vita - era l'accusa - dedita al "piacere" e depravata, una volta che s'erano sganciati dall'ordine del tutto (cfr. in particolare l'In Pisonem di Cicerone). 

 

Entro questo tes- suto prende voce Lucrezio, cercando di ·rendere davvero popolare - e perciò stesso pericolosissimo - quel verbo di Epicuro, che poteva veramente diventare il principio di un'educazione del popolo, in maniera assolutamente opposta a quella prospettata da Cicerone in funzione del- l'equilibrio e dell'armonia legale della res-publica. 

 

Di sicuro sappiamo che sulla fine delu e il principio del 1 secolo a. C. furono presso grandi signori romani alcuni epicurei (Sirone, Filodemo di Gàdara), che altri furono ascoltati dai ricchi giovani romani, che si formavano alla carriera, ad Atene. Ad Atene capiscuola del "giardino" erano stati, dopo Epicuro, Ermarco, Polistrato, Basilide, Demetrio di Laconia, Apollodoro (detto il "tiranno del giardino": x~p«Wo~, kepotirannos), dei quali non sappiamo quasi nulla. Ad Apollodoro suc- cessero Zenone di Sidcine (morto sul 79J78, ascoltato da Cicerone, maestro di Filodemo di Gàdara), Fedro (anch'egli ascoltato da Cicerone, e da cui Cicerone riprende la tesi epicurea sugli dèi, svolta nel I libro del De na- tura deorum ), Patrone, capo del giardino tra il 70 e il 51 a. C., e dopo il quale non abbiamo piu notizie di scolarchi epicurei ad Atene. Può essere a tale proposito interessante ricordare che Cicerone proprio nel 51 scriveva a un certo C. Memmio - lo stesso a cui Lucrezio aveva dedicato il De rerum natura? - per pregarlo, a nome di Attico e a ricordo di Fedro e dell'amico Patrone ("cum Patrone epicureo mihi omnia sunt, nisi quod in philosophia vehementer ab eo dissentio"), appellandosi anche al fatto che per diritto il "giardino" apparteneva alla scuola di Epicuro (cosi suonava il testamento di Epicuro), di non fare speculazioni edilizie sul terreno del "giardino" da Memmio stesso comperato, anche se l'Aeropago gli aveva dato il permesso (Ad. fam., XIII, 1). 

 

Evidentemente la Scuola epicurea di Atene andò dispersa, dopo il 51. 

 

Cicerone sostiene ch'egli aveva conosciuto Epicuro di cui cita libri e massime, attraverso Zenone di Sidone, "corifeo" di Epicuro secondo Filone di Larissa (Cic., De nat. deorum, I, 21, 59) e Fedro, anch'egli ripetitore del verbo epicureo ("di Fedro e di Zenone ho seguito le lezioni, benché null'altro riuscissero a dimostrarmi tranne il loro zelo e tutte le opinioni di Epicuro mi sono sufficientemente note": De fin., l, 5, 16. Quando ero ad Atene ero assiduo alle lezioni di Zenone che il nostro Filone soleva chiamare corifeo degli Epicurei e lo facevo per suggerimento dello stesso Filone...": De nat. deor., I, 21, 59). Non sap- piamo quanto di nuovo, rispetto all'originario epicureismo, abbiano detto gli epicurei di questo tempo. Senza dubbio Zenone, per quel che possiamo ricavare da alcuni frammenti del suo discepolo Filodemo di Gàdara, approfondi e chiari la genesi della conoscenza, secondo la linea epicurea, sottolineando il significato ipotetico della condizione della pensabilità della realtà, in quanto che a porre gli atomi si giunge per analogia prendendo le mosse dall'analisi sperimentale delle cose stesse (cfr. Filodemo, Sugl'indizi e sul modo di servirsene: 7te:pt a"rj(.LE:(Cùv xcxt 01)(.LE:~~ae:Cùv). 

 

Del ragionamento per analogia, fondamento dell'indu- zione, cosi diceva Filodemo: "Quando giudichiamo: 'poiché gli uomini che sono a nostra portata sono mortali, tutti gli uomini sono mortali,' il metodo dell'analogia sarà valido solo se assumiamo che gli uomini che non sono in condizione.di esserci manifesti sono, sotto tutti i ti- spetti, simili a quelli che sono alla nostra portata, sicché si deve assu- mere che anch'essi siano mortali. Senza questo presupposto il metodo dell'analogia non è v.alido" (Degli indizi, Il, 25). 

 

Di qui, forse, induttivamente e per analogia, l'ipotesi che l'incontro fortuito degli atomi, donde nascono i possibili mondi e il mondo degli uomini (gratuitamente, per cui allo stesso uomo è data la libertà di costruire il proprio mondo umano), sia dovuto al clinamen.(sulla que- stione del "clinamen," di cui non v'è traccia in ciò che oggi leggiamo di Epicuro, cfr. I vol.). Certo, Cicerone, subito dopo avere citato Zenone e Fedro, discute e critica come un'assurdità il motivo del "clinamen," affermando che tale motivo è l'aspetto piu nuovo - e se ci poniamo dal punto di vista stoico-platonico, piu contraddittorio - dell'epicurei- smo, che per il resto Cicerone - si come fa per l'epicureismo romano che riporta a tempi piu antichi in cui ancora non era conosciuta a Roma la tesi stoico-platonica - tende a riportare al piu antico demo- critismo (cfr. in particolare De finibus, I, 5, 18-20). 

 

Senza dubbio l'insistenza di Cicerone sul termine "fato," l'insistenza di Lucrezio sulla "catena necessaria," a cui si contrappone il "clinamen," fa sospettare un'interpretazione del testo epicureo dovuta alla polemica nei confronti del "fato" stoico, che, tuttavia, era posi- zione già implicita nell'antiteleologismo di Epicuro (cfr. I vol.). 

 

Nulla vieta, perciò, di pensare. che il motivo del "clinamen," nei termini in cui lo conosciamo attraverso Lucrezio, Cicerone (piu tardi Diogene di Enoanda), sia stato formulato, in una coerente interpretazione di Epi- curo, proprio all'epoca di Zenone, Fedro, Filodemo di Gàdara, tutti e tre in polemica contro il sistema stoico e particolarmente contro la fata- lità che da esso derivava. Se i moti tutti - dice Lucrezio - fossero concatenati, se il nuovo sem- pre con ordine fisso sorgesse dal vecchio, e non si desse dai primordia, col deviare, principio a nessun moto che rompa le leggi imposte dal fato, s{ che, all'infinito, non segua una causa dall'altra, donde, io domando, qui in terra, donde verrebbe mai ai viventi questo libero potere, sciolto dal fato, per cui andiamo ognuno là dove ci conduce la nostra propria volontà? (Il, 253 sgg.). E Cicerone, dopo avere esposto il tema del "fato," proprio degli stoici, oppone ad esso, anche se polemicamente, il tema· del "clinamen" epicureo: Ma Epicuro pensa di evitare la necessità del fato mediante la declina- zione dell'atomo: oltre il peso e l'urto, vi è dunque un terzo movimento [e qui è chiara la citazione da Luc:rezio: "Bisogna ammettere che esiste negli atomi oltre la spinta e il peso, un'altra causa del moto e che di qui, dal clinamen, ci derivi...": Lucrezio, II, 286 sgg.], allorch~ l'atomo devia dalla verticale dello spazio il meno possibile (eltJchiston, dice): tale declinazione, se non in termini propri, almeno in realtà, egli è costretto ad ammet- terla senza causa, poich~ l'atomo non devia sotto l'urto di un altro. 

 

Come potrebbe infatti urtare un altro, se sono tutti trasportati in linea retta dal peso, come vuole Epicuro? E se l'uno non è mai spinto dall'altro, ne segue ch'essi neppure si toccano. D'onde risulta, se l'atomo esiste e se declina, che declina senza causa. Epicuro ha prospettato questa dottrina, temendo, se l'atomo fosse sempre trasportato da un peso necessario e naturale, che non vi fosse alcuna libertà in noi, eh~ la nostra anima sarebbe mossa solo perch~ costretta dal moto degli atomi. Democrito, l'inventore degli atomi, ha preferito ammettere che tutto avviene necessariamente, piuttosto che togliere agli atomi i loro movimenti naturali (Cic., De fato, X, 22 sgg.). 140    Certo il piu noto degli epicurei vissuti m Italia fu Filodemo di Gàdara, che, se anche in circoli ristretti, fece conoscere direttamente Epicuro, ne propagandò le idee, costitu1 una· vera e propria comunità di amici di Epicuro, intorno al suo protettore Pisone (il console del 58, nemico di Cicerone: cfr. In Pisonem), nella celebre villa di Ercolano, ove raccolse una non indifferente biblioteca di libri epicurei. Filodemo, nato nel 110 a.C., a Gàdara, in Siria (ove sappiamo che mediante Filonide di Laodicea, che aveva convertito Antioco Epifane all'epicureismo, s'era diffusa una forte corrente epicurea), proba- bilmente venuto a Roma nel 78, alla morte del suo maestro Zenone di Sidone, visse fin dopo il 40 a. C., non oltre il 30 (cfr. Strabone, XVI, 754). 

 

Il Comparetti, da quando furono ritrovati i papiri della villa ercolanense dei Pisoni, ha sostenuto che quei papiri dovevano costi- tuire la biblioteca di Filodemo: gran parte sono opere dello stesso Filo- demo, di cui molti testi sembrano, piuttosto che lavori destinati· al pub- blico, veri e proprii appunti, schede (cfr. D. Comparetti, La villa erco- lanense dei Pisoni, i suoi Monumenti e la sua biblioteca, Torino, 1883; Ch. Jensen, Die Bibliothek von Herculanum, in "Bonner Jahrb.," pp. 49, 61; R. Philippson, s. v. Philodemos, in Pauly-Wissowa, XIX, 2, col. 2444-2449). 

 

Nella villa dei Pisoni, oltre la biblioteca epicurea fu ritrovata una serie di statue e tra esse quattro busti con iscritto il nome: Demo- stene, Epicuro, Ermarco epicureo, Zenone di Sidone. Anche questo è indicativo, ed è. indice della presenza di una vera e propria comunità epicurea. Intorno a Calpurnio Pisone, illustre nobile romano, la cui figlia fu la moglie di Cesare, s'era formato, pernio Filodemo, un cir- colo epicureo. Ed epicureismo significava, tenendo presenti i fondamenti della dottrina, vivere umanamente, liberarsi dai pregiudizi, trovare, eva- dendo dalla quotidiana vita politica e dagli affari, sereni rapporti di amicizia. Dolce è guardare da terra - esclama Lucrezio - quando i venti scon- volgono l'ampia distesa del mare, l'altrui gravoso travaglio; non perché faccia piacere che qualcuno si trovi in sofferenze, ma perché è dolce scor- gere i mali di cui siamo liberi. E dolce è assistere, senza che tu partecipi al pericolo, agli aspri scontri di guerra in campo aperto. 

 

Ma nulla è pio dolce dello starsene nei ben muniti luoghi, edificati dalla serena dottrina dei saggi, donde è concesso guardare gli altri dall'alto, e vederli qua e là vagare, e sbandati cercare la via della vita e manovrare con l'ingegno e far valere la propria nascita e faticando sforzarsi a gara il giorno e la notte di giungere alla ricchezza e di acquistarsi il potere. Oh tristi menti degli uomini, oh ciechi petti1... Pure assai vivo diletto... è ristorar la persona alle· gramente tra amici, con una spesa non grande, stesi su di un soflice prato, lungo un ruscello corrente, sotto le fronde di un alto albero specie se il tempo è bello e primavera cosparge le verdeggianti erbe di fiori (II, 1-14, 29-34). E Filodemo, indirizzandosi al suo Pisone, nella festa delle [cadi, dedicata a Epicuro, nel ventesimo giornò di ogni mese, lo invitava nella sua modesta casa: Domani, nella sua modesta casetta, canss1mo Pisone, all'ora nona ti invita l'amico amante delle Muse, per il banchetto dell'annuale vigesima: se perderai manicaretti e brindisi col vino di Chio, troverai in cambio amici sinceri e ascolterai discorsi molto piu belli di quelli sulla terra dei Feaci (in Antol. palatina, Xl, 44). Sappiamo- fin dal tempo del primo epicureismo - di queste riu- nioni tra amici, di come, non solo ad Atene, ma a Lampsaco, a Miti- lene, in Siria, si fossero formate delle comunità epicuree (veri e propri tian), di come in esse si trovasse un rifugio dalla quotidiana vita poli- tica e dalla cultura ufficiale, intorno al nome di Epicuro, considerato l'umano dio della liberazione umana,· la divina umanità che sostituiva i vecchi dèi paurosi o il fato divino l6gos, in una umanizzazione della ragione e· della scienza (donde il prevalere della fisica sulla aritmetica e la geometria). Di qui, entro queste comunità, il culto di Epicuro. 

 

"Un dio, fu un dio...": dirà nel suo poema Lucrezio. 

 

E lo stesso Epicuro aveva affermato: "Agisci sempre come se Epicuro ti vedesse"; e nel testamento aveva lasciato scritto: "Sia festeggiato secondo il con- sueto il mio genetliaco ogni anno il decimo giorno del mese di Game- lione e l'adunanza dei discepoli il ventesimo giorno di ogni mese [la cosiddetta festa delle lcadi], stabilita in memoria mia e di Metro- doro" (Diogene Laerzio, X, 18 sgg.). E su testimonianza di Plinio il Vecchio (Nat. hist., XXXV, 5) sap- piamo che ancora nel 11 secolo d. C., in Roma, si celebravano queste feste: "Epicurei vultus per cubicula gestant et circumfei:unt secum. Natali eius sacrificant, feriasque omni mense custodiunt vicesima luna quas icadas vocant" (sul culto di Epicuro cfr. A. J. Festugière, Epicure et ses dieux, Parigi, 1946; anche P. Boyancé, L'épicurisme dans la société et la littérature romaines, in "Bulletin Ass. Budé," Suppl. Lettres d'Humanité, 4, 1960). E già Epicuro aveva scritto a Meneceo: "Tutti i miei insegnamenti e tutti quelli della stessa natura, meditali giorno e notte ed anche con un compagno simile a te" (Lett. a Menec., 134); e aveva detto: "l'uomo sereno procura serenità a sé e agli altri" (Gnom. Vat., 79). Con il commento dei Libri di Epicuro, con tl suo approfondimento di certi aspetti della dottrina epicurea, particolarmente per ciò che riguarda le passioni e le condizioni della conoscenza, Filo- demo istitui in Roma e ad Ercolano, appoggiato da Pisone, un con- tubernium epicureo (come dirà Seneca: piu che la dottrina di Epicuro, fu il suo contubernium a educare gli epicurei: Ep., I, 6), una comunità di amici il "cui accordo tra loro," sosterrà Numenio, "era simile a quello che deve regnare in una repubblica ben ordinata" (in Eusebio, Praep. ev., XIV, 5). 

 

Secondo il De Witt (Organisation and procedure in Epicurean groups, in "Class. philology," 1936; Epicu- rean contubernium, in "Trans. and Proc. of the Philol. Assoc.," 1936), seguito dal Boyancé (cit.), anzi, il llepl. 7t«pplJa(«ç (Sul libero parlare) di Filodemo chiaramente indicherebbe l'attività di Filodemo volta a organizzare la scuola in forma conventuale, costituendo un modello d'ideale vita politica, di libera vita associata, da opporre alla politica imperante in Roma, sia pur come esigenza di crearsi mondi a parte, rifugi, appunto, dalla tragica sorte, dall'inutile e assurdo morire, che ogni giorno poteva colpire chi si dibatteva nelle lotte politiche della Roma del tempo. Non a caso si deve a Filodemo (Herc. vol., 1005, 4) la coniazione del termine "quadrifarmaco" (-re-rp«<pcXp(.L«Xov: tetrafdrma- con) - la medicina composta di quattro elementi - con cui egli indicava la funzione liberatrice della filosofia epicurea, mediante la quale l'uomo si cura dal timore della divinità (1. non si tema la divinità, che la divinità non si occupa dell'uomo), dal tiinore della morte (2. non si tema la morte, ché quando v'è l'uomo non v'è la morte, quando c'è la morte non c'è l'uomo), sapendo che facile è il piacere (3. tieni presente la facilità del piacere), e che breve è il dolore (4. tieni presente la brevità del dolore). 

 

Tutti e quattro gli elementi si trovano approfonditi in Epicuro (cfr. in particolare Ep. a Menec., 123, 124, 183), ma è senza dubbio assai indi- cativa la formulazione in massima da parte di Filodemo, il puntare, ora, soprattutto, sull'aspetto terapeutico della concezione epicurea della natura e sul rifugio ch'essa offre: sia nei convivi, sia nelle libere discus- sioni fra amici, sia mediante poesia, con cui ci creiamo dilettevoli mondi a parte. Tale il significato dato alla poesia da Filodemo e tale l'epicu- reismo - non dottrinario - di Orazio, che sappiamo aver frequen- tato il gruppo intorno a Pisone, e, se vogliamo, di Catullo e di tutto il complesso dei poeti muovi. Sembra facile ora capire cosa intendesse Filodemo quando sosteneva il valore edonistico della poesia e della musica, si come, per altro verso, di contro a Diogene di Babilonia (cfr. sopra), la capacità mediante la retorica di costruire mondi umani, ché non scienza è la retorica, ma un'arte pratica, cioè l'arte di agire (prasst) in un mondo che non è già dato, ma è dovuto alla stessa atti- vità dell'uomo, rivelantesi attraverso il linguaggio che ha, sempre, una  143   realtà storica, si come la stessa giustizia e il diritto (ch'era, poi, tesi squisitamente epicurea: cfr. I vol.). 

 

Entro questi termini sembra,' cosi, assumere non poco significato l'ultima parte del V libro del De rerum natura di Lucrezio,6 in cui, mediante Epicuro, riprendendo l'antica linea che risale a Empedocle, ad Anassagora, a Democrito, a Protagora, a certe posizioni sofistiche e socratiche, teofrastee, si sottolinea con forza la storicità della natura e del mondo umano, di una natura che scaturita dall'accozzo fortuito di infi- niti atomi, - sottolineiamo che Lucrezio mai usò il termine "atomo," - s1 come ha dato luogo ad infiniti possibili mondi, ha dato luogo al mondo degli uomini. 

 

E s1 come non v'è perché al sorgere delle cose, se non gli ipotetici atomi-spérmata e il vuoto, il peso e il "clinamen," cui si giunge attraverso l'analisi delle cose, condizioni non contraddit- torie che rendono pensabile la molteplice e viva realtà, senza ricorrere ad allotri e superiori principi razionali, proiezioni a posteriori (si come gli dèi o il divino l6gos) delia umana razionalità, anch'essa, in effetto, Il Poco sappiamo della vita di Tito LucrC7.io Caro. Non sappiamo a che famiglia appartenesse, dove sia nato, quali le date esatte della sua nascita e della sua morte. Seoondo San Gerolamo, che probmilmente deriva dal perduto De viris illuslribtu di Svctonio, Lucri!Zio sarebbe nato nel 95 a. C.; impazzito per avere bevuto un filtro amatorio, nei' momenti di lucidi~ avrebbe scritto il,suo poema; si sarebbe suicidato all'~ di 44 anni. 

 

Donato, invece, nella Viu di Virgilio, anch'egli derivando da Sv~­ tonio, afferma che Virgilio, nato nel 70, prese la toga virile a sedici anni ncllo stesso anno in cui Lucrezio mori. Seoondo S. Gerolamo, dunque, Lucrezio sarebbe nato nel 95 e morto nel 51; secondo Donato sarebbe nato nel 98 c morto nel 54. Ad ogni modo, in una lettera di Cicerone al fratello, Quinto (11, 93}, che ~ senza dubbio del febbraio del 54, si legge un giudizio su Lucrezio relativo alla pubblicazione del De rerum IIIIIUI'a che sappiamo essere avvenuta dopo la morte di Lucrczio, ad opera di Cicerone stesso. C'~ chi ha sostenuto che Lucrczio sia di Roma c chi della Cam· pania (un circolo epicureo era allora fiorente in Napoli): in rea!~ non sappiamo, cosf come non si può dire se Lucrczio appartenesse a nobile o a plebea famiglia. La gente Luac2:ia era allora assai dillusa in tutte le classi, in tutta Italia. Senza dubbio il poema di Lucrezio ~ incompiuto c ciò dovuto probabilmente alla•sua morte. 

 

Sulla notizia di San, Gerolamo che Lucrczio sarebbe impazzito per un filtro amatorio (certo tali pozioni erano molto in uso nella Roma del tempo), che avrebbe scritto il poema nei momenti di lucidi~ alternati da momenti di cupa' depressione c angoscia (alcuni testi del poema rivelano depressione, incubi visionari,, allucinazioni, d'altra parte pre· senti anche in Epicuro: cfr. IV, 1125 sgg.; lll, 1055 sgg.; l, 127; IV, 35 sgg.}, che si sarebbe suicidato, si ~ molto discusso c fanwticato. Il De rerum n/llura, in sci libri, formalmente incompiuto, fu dedicato da Lucrczio a Mcmmio. Sembra che il Mcmmio di Lucrczio sia Gaio Mcmmio, questore nel 77, pretore nel 58, che amante della letteratura greca, non di quella romana, colto, intel- ligente, piacevole conversatore, pigro c impaziente di lavoro intellettuale (cfr. Cice- rone, Brutus, 247}, oondussc con sé (57-56) quando fu proprctorc della Bitinia alcuni poeti, tra i quali Catullo. 

 

E sarebbe quello stesso Mcmmio che quattro anni piu wdi, esiliato da Roma per brogli elettorali, ad Atene, ottenuto il diritto dall'Areopago di costruire sull'arca ovc sorgeva la casa c il giardino di Epicuro, rifiutò a Pauonc, allora scolarca del Giardino, il favore di non profanare quel luogo sacro agli Epicurei (cfr. Cicerone, Ad fam., XIII, 1)] scaturita nel tempo, cosi, di fatto, ci sono gli uomini. E se ipotetica- mente gli uomini scaturiscono da incontri e particolari disposi~ioni di "semina," per cui dapprima si può mitizzare una certa genesi del- l'uomo ancora non uomo, finché in una qualche organizzazione dei "semi," come sono nati certi mondi e certi animali, nella lotta per la vita oggi estinti, ed altri tipi di bestie, rimaste bestie (cfr. V, 773-924), nasce il primo mondo 1egli uomini, piu che di uomini ancora di "bestioni," viventi in istatc ferino, alla fine, sempre per una qualche for- tuita aggregazione dei semi vitali, scaturisce la razionalità e, ad un tempo, il linguaggio, e attraverso il linguaggio, questo o quel lin- guaggio, l'uomo reale, e solo da allora la sua storia, il processo me- diante cui è l'uomo che r;~.zionalizza la realtà. Perché cosi e non altri- menti? 

 

Non sappiamo, risponde Lucrezio: "non è possibile sapere ciò che avvenne prima, se non per quel tanto che il raziocinio ne scopre" (V, 1445). L'unica ipotesi è l'ipotesi epicurea, sostiene Lucrezio, me- diante la quale ci rendiamo conto non solo del costituirsi sdrammatiz- zato della realtà, ma anche di come l'uomo è uomo entro i termini della sua stessa realtà umana (ché prima del nascere e di là dalla soglia del morire, è umanamente il nulla, è altra realtà) tutt'uno di anima e di corpo, di come per rispondere alle proprie esigenze sono nate le verità degli uomini, dalle verità dell'uomo· primitivo e ferino, vivente nelle selve, alle verità dell'uomo razionale e sociale, che ha proiettato tali verità oltre sé in cielo, perdendo alla fine se stesso (donde poi la superstizione del divino signore, del divino che come padrone si occupa delle cose umane, la superstizione dell'anima immortale, che avrà premi o castighi nell'aldilà). Al modo erratico delle fiere, volgendosi il sole per molti lustri nd cielo, menavano lunga vita... Stavano nei boschi, ndle caverne dei monti, nelle foreste... Non conoscevano l'uso di costumanze e di leggi: ciascuno pren- deva di proprio istinto la preda messagli innanzi dal caso, assuefattosi a vivere e a campare da sé solo. Entro le selve all'amplesso Venere univa gli amanti... 

 

Si procurarono in seguito capanne e pelli e fuoco e si ridusse la donna, congiunta all'uomo, ad u·n solo connubio, e i padri videro nascere i propri figlioli... Poi, con gesti e suoni inarticolati fecero capire il [loro] giusto... Ma chi spinse gli uomini a foggiare con vari suoni il linguaggio fu la natura, e il vantaggio produsse i nomi delle cose. Quasi allo stesso modo in cui l'impotenza evidente a formulare la parola induce i bambini a gestire, come fanno quando col dito segnano le cose evidenti: perché ciascuno capisce di che si possa servire... Pensare che qualcuno abbia asse- gnato alle cose i loro nomi e che di H gli uomini abbiano appreso i primi vocaboli, questo è un uscir di cervello [cfr. in particolare il Cratilo di Platonel· Come poteva costui indicare tutto con le voci, e modulare vari  145   suoni, se, nel contempo, nessun altro era in grado di farlo? E poi, da dove a costui venne l'idea del vantaggio, da dove ebbe, sin dall'origine la facoltà di sapere ciò che voleva e di scorgerlo perfettamente distinto, se fino allora nessuno aveva usato il linguaggio? 

 

E non poteva, uno solo, piegare i molti e costringerli, vinti, a imparare di buon animo i nomi posti alle cose; non si istruiscono i sordi né si convincono con la logica a fare quanto debbono: e poi non lo soffrirebbero, né lascerebbero mai che troppo a lungo ed invano voci dal suono inaudito rintronino loro le orecchie. Infine, è proprio cosi strano che l'uomo, in cui voce e lingua erano in piena efficienza, usasse per indicare le cose, varie secondo le percezioni, la voce?... Se le diverse impressioni fan che le bestie, che pur non hanno la parola, emettano voci diverse, quanto è piu ovvio che l'uomo abbia cosi, con le varie voci, potuto iÌidicare la varietà delle cose! (V, 930, 956, 960, 1011, 1020, 1028-1034, 1041-1059, 1089-1090). 

 

Lascia che lottando lungo lo stretto sentiero dell'ambizione, si logorino a vuoto e sudino sangue, essi che parlano per bocca d'altri, ed apprendono le cose piuttosto da ciò che sentono, che dalla propria esperienza, oggi non meno di ieri, non meno d'oggi, domani... Piu facile ora è capire come l'idea degli dèi si sia diffusa tra i grandi popoli, e abbia stipato delle are sue le città, ed abbia indotto a introdurre i sacri riti del culto, solenni, quelli che ancora oggi sono in auge fra tanto progresso e in centri si grandi, onde ancora oggi negli uomini è insito quello spavento che erige in tutta la terra nuovi delubri agli dèi, e vi fa correre nelle festività tutti quanti. Sin da quei tempi, in effetti~ gli uomini vedevano da svegli, ma piu nei sogni, col corpo mirabilmente ingrandito numi d'aspetto stupendo. 

 

E poi che, a quanto appariva, essi movevan le membra ed emettevano terribili voci, ap- propriate alla enorme forza e allo splendido aspetto, a loro, dunque, per questo, attribuivano il senso e li facevano eterni, giacché se ne rinnovava sempre la vista, e la forma restava sempre immutata, e poi perché giu,di- cavano che, tanto forti com'erano, nessuna forza potesse agevolmente sop- primerli. E giudicavano che avessero ben piu propizia la sorte, perché il timore di morire non li affliggeva, e compivano - cosi vedevano in sogno - molte e mirabili imprese senza che mai li prendesse stanchezza alcuna. Scorgevano inoltre che i movimenti del cielo e le diverse stagioni si avvicendavano con successione uniforme, e non potevano conoscere per quali cause. Ne uscivano dunque affidando agli dèi tutto, e facendo che tutto fosse guidato dal cenno divino. E posero in cielo le sedi e i templi dei numi, perché si vedono evolv,ere la notte, in cielo, e la luna: la luna, il giorno e la notte, ed i severi notturni segni, e le erranti notturne faci del cielo, e i volanti fuochi, le nubi, le piogge, la neve, il sole, la grandine, i venti, i fulmini, i rapidi fremiti e i minaccevoli vasti fragori. 

 

Ah, da quando fece dipendere dagli dèi tali fatti, e vi aggiunse il fiero sdegno, infelice umanitàl Da quel tempo quanti lamenti a lei stessa, quante ferite a noi, quali lacrime ai nostri nipoti, essi non hanno partorito! Ed ostentar di girare, velato, intorno ad un sasso, ed accostarsi agli altari tutti, e cader faccia a terra davanti ai templi dei numi,.e alzar le palme, e del sangue di 146    numerosi quadrupedi sparger le are ed appendere voti su voti, codesto pro- prio non è religione: ma religione è saper penetrare a cuore tranquillo i fenomeni. Quando, in effetto, osserviamo i doni del firmamento immenso, e l'etere immobile sopra le stelle che brillano, e ripensiamo al cammino che fanno il sole e la luna, comincia allora a destarsi e a levare la testa nel cuore oppresso dagli altri mali anche quella inquietudine, se per noi forse non sia l'onnipotenza dei numi quella che volge con vario moto le candide stelle: perché ci rende perplessi l'oscurità del problema, se ci sia stato un principio generatore del mondo e sino a quando potranno durare le mura del cielo a questa loro fatica del movimento affannoso: o se, per caso, non possano, scorrendo con l'infinito volo del tempo, dotate d'eternità dagli dèi, sfidare invece le salde forze del tempo infinito. D'altronde a chi non si agghiaccia l'animo per la paura dei numi?... Sino a tal punto una occulta forza cal- pesta le umane cose, e si vede che vilipende e beffeggia per proprio conto gli splendidi fasci e le terribili scuri (V, 1130-1135, 1161-1235). 

 

Ma, prima assai che potesse foggiare col suono politi canti e dar gioia agli orec- chi, l'uomo imitò con la voce il limpido gorgheggiar degli uccelli, e il vento che sibila nei vuoti calami apprese ai campagnoli per primo come soffiare nelle vuote canne. Impararono in seguito poco per volta i soavi lamenti ch'escono dal flauto quando lo toccano con le dita, sonando, dal flauto che si trovò dai pastori per i boschi impervi e le selve, e i monti e i luoghi deserti durante gli ozi beati. Cos{ pian piano col tempo si manifesta ogni singola cosa e il raziocinio la poeta al lume del giorno. 

 

Accarezzavano lo spirito quei suoni e lo dilettavano...: hanno anche appreso a tenere distinti i ritmi... Ma non è possibile sapere ciò che avvenne prima, se non per quel tanto che il raziocinio ne scopre. L'uso ed insieme i continui sforzi dell'alacre ingegno all'uomo che progrediva passo per passo insegnarono a poco a poco la nau- tica, l'agricoltura, il diritto, l'arte di fare le fortezze, le strade, le armi, e cose simili, gli agi e i conforti, quanti ve n'è della vita, la poesia, la pittura e la ingegnosa scultura. Grandemente, in tal modo, il tempo svela ogni cosa singola e il raziocinio la porta al lume del giorno. Perché scoprivano che un vero prendeva luce dall'altro, finché con le arti non ebbero raggiunto l'ultimo vertice (V, 1377-1389, 1406-1407, 1445-1456). 

 

Questo, sembra, il motivo chiave dell'epicureismo di Lucrezio, questo suo appello, di contro alla filosofia teologica ed ai pericoli insiti in essa per il libero farsi degli uomini, per la stessa comprensione della natura (vera religione è "saper penetrare a cuore tranquillo i fenomeni": V, 1203), il suo appello all'esperienza e alla ragione, all'umanizzazione della scienza, mediante cui l'uomo può creare il suo mondo, conside- rare la natura per quello che la natura è, operando su di essa, diremmo in una libera "inter-azione," per un fine che non è dato, ma che è di volta in volta dovuto alla stessa razionalizzazione umana, operante, con le tecniche, su di una realtà non già preordinata, ma spontanea e feconda di tutte le possibilità. Questo il sentimento dell'epicureismo di Lucrezio, e perciò la sua venerazione per Epicuro che "purgò gli animi con i suoi precetti veridici, e al desiderio e al timore prescrisse un limite e fece chiaro qual fosse il supremo bene a cui tutti tendiamo e additò per quale via vi si può giungere diritti, con poca strada, onde è neces- sario che non i raggi del sole, non le lucide frecce del giorno spazzino via questo terrore dell'universo con le sue tenebre, ma la conosunza razion.ale della natura: sed naturae species ratioque" (VI, 24 sgg.: ove va notato che gli ultimi tre ·versi tornano nei proemi ai libri l, Il, III, oltre che nel VI). E qualora si tenga presente il modo con cui, da Varrone a Cicerone, si venivano recuperando certi aspetti di Platone, di Aristotele, dello stoicismo, nella costruzione di una religio, in funzione di una certa classe politica - anche se in efletto, e Cicerone n;è testi- monianza, i loro autori credevano in altro, - in un'epoca drammatica, in un'epoca in cui la morte eta davvero.sempre gratuitamente presente, si capisce bene da un lato l'appello ad Epicuro salvatore (" mentre l'umanità conduceva sulla temi una vita infame e abietta a vedersi, op- pressa dal peso di una religione il cui volto mostrandosi dall'alto delle regioni del cielo, minacciava i mortali con il suo orribile aspetto, per primo un uomo greco [Epicuro] osò levare il suo sguardo mortale contro di essa e per primo contro di essa insorgere: né lo trattenne ciò che si diceva degli dèi, né i fulmini né il cielo con il suo rombo minac- cioso ": l, 62-69); dall'altro lato l'esigenza e il dovere di far conoscere a tutti il libro di Epicuro: 

 

Venere, stringiti a Marte, mentre giace, con l'intatto tuo corpo, implo- rando, inclita, per i romani una pacifica tregua; che con la patria turbata, né noi con cuore tranquillo potremmo attendere all'opera, né per seguir tali cose, l'illustre germe di Memmio [cui il poema è dedicato], negar potrebbe se stesso alla salt~ezza di tutti (1, 37-44)... Né mi nascondo ch'è opera estremamente difficile esporre in versi latini le ardue scoperte dei Greci, specie perché dovrò spesso usare vocaboli nuovi - tanto il nostro lessico è povero, e cosi nuovo è il soggetto. Eppure l'animo tuo e il gaudio, che mi prometto, di una soave amicizia mi persuade che non debbo badare a fatiche di sorta, e che le notti serene io vegli cercando con quale canto, con quali parole, ti faccia splendere nella mente h vivida fiaccola, onde tu penetri a fondo i piu reconditi veri. E veramente bisogna che non i raggi del sole, che non le lucide frecce del giorno spazzino via questo terrore dell'animo con le sue tenebre, ma la razionale conoscenza della natura: sed naturae species ratioque (l, 136-148). 

 

E cosi non vanno scordati del "De rerum natura" due altri punti fondamentali. 

 

Bisogna tener presente, innanzi tutto, l'insistenza ancora maggiore che non in Epicuro, sull'atomo, condizione perché sia pensabile la realta, non come atomo geometrico o matematico, ma come centro di vita, come seme vitale, onde in ogni cosa è insito uno speciale potere: il che, non solo spiega meglio l'affermazione prima che "nulla si genera dal nulla," cioè da una pura quantità che all'infinito è zero, ma anche il fatto che le qualità si costituiscono dal modo in cui le potenze seminali si organizzano e si dispongono mediante gl'incontri. 

 

Viene da questo la paura che opprime gli uomini tutti.

 

Scorgono in cielo ed in terra prodursi vari fenomeni, fatti, dei quali non possono scorgere punto le cause, e che riportano quindi alla potenza del divino. 

 

Ma se tocchiamo con mano che non può nascere nulla dal nulla, allora piu chiaramente sapremo comprendere quello che andiamo indagando.

 

Donde ogni cosa si generi e come ognuna si generi, senza l'intervento del divino.

 

Se non vi fosse per ogni singola specie il suo germe, come si avrebbe un'origine certa e distinta per gli esseri? 

 

Ma poiché viene ciascuno d'essi da un germe specifico si forman là, di là balzano fuori alla luce del giorno dove sono insiti i primi corpi e la loro materia, né può ciascuno prodursi da ciascun seme, per questo: ché in ogni cosa è insito uno speciale potere. 

 

Perché vedremmo prodursi di primavera la rosa, d'estate il grano, se non perché cofluendo, al tempo giusto, certi semi, erompe quanto si fa dal fecondante connubio.

 

A poco a poco crescono gl'esseri tutti, da un germe specifico (1, 151 sgg.). 

 

In secondo luogo, bisogna tener presente la distinzione, nell'uomo, tra la forza vitale (anima), che unisce le membra e ovunque è diffusa, e la sua organizzazione in quella che diciamo razionalita (animus), o mente (III, 94 sgg.), che, insieme, costituiscono l'Anima, ch'era il modo d'interpretare epicureamente il motivo di un tutto vitale e fecondo implicito nel motivo dell'anima mundi di origine stoico-platonica. 

 

Come, negli esseri vivi, in ogni viscere suole trovarsi un succo, un odore, un colore speciale.

 

Ma dall'insieme di tutti si forma un solo organismo, si forma una sola essenza, cosf,_ commisti, il calore, l'aria e la occulta potenza del vento, aggiuntavi quella nobile forza che a loro compane il moto d'inizio, donde dapprima negli organi si desta il moto del senso, che si cela riposta nelle tenebre dell'essere, e di cui nulla piu addentro nel corpo a noi non s'immilla, diremmo, che è l'anima stessa dell'anima tutta. 

 

E come, occulta, è commista nel nostro corpo e negli arti tutti la forza dell'animo e la potenza dell'anima perché risulta composta d'atomi piccoli e rari, cosi, formata di minimi, ti si nasconde questa energia senza nome, l'anima stessa di tutta l'anima, quasi, che domina nel corpo intero. 

 

In tal guisa il vento e l'aria e il calore debbono, mischiati negli arti, darsi reciproco slancio, e soggiacer gli uni agli altri, e sovrastarsi a vicenda, cosf però che risulti di tutti un unico tutto, onde il calore ed il vento e la potenza dell'aria, ciascuno per sé, non distruggano il senso e non lo disgreghino, cosi distaccati (III, 267-289). 

 

L'insistenza di Lucrezio sulla seminalità specifica degli atomi, sulla ricchezza potenziale di ogni seme e sulla vitalità feconda d'onde si generano sempre infiniti mondi, questi mondi, e tra essi il mondo degli uomini dà il metro di come Lucrezio interpreta Epicuro. 

 

Il ragionamento è lo stesso di Democrito fino a porre a condizione della pensabilità della realtà gli atomi e il vuoto.

 

Dalle cose visibili, divisibili, agli atomi invisibili, elementi primi non piu divisibili, ma, appunto perché tali (altrimenti giungeremmo allo zero, al nulla inconcepibile), si postula la condizione epicurea degli atomi-semi (libro I).

 

Per il resto, dal rapporto atomi vuoto, dalla spontaneità del movimento degli atomi, precisato come "clinamen," al concetto del peso e del costituirsi delle cose e delle qualità, dei mondi e del mondo dell'uomo (libro Il), da cui comincia - perché è un fatto - la razionalità e l'opera dell'uomo, che è natura, nella natura, in un unico processo, dalla concezione dell'anima, costituita di atomi leggeri, tutt'uno con il corpo alla dottrina della sensazione e degl'éidola (libri III e IV), alla concezione della mortalità dei mondi creati e della caducità del mondo, alle possibili molte ipotesi su ciascun fenomeno celeste e al sorgere della vita sulla terra (donde poi la storia del mondo umano, dall'uomo ferino all'uomo razionale e padrone delle arti) (libro V), alla spiegazione dei fenomeni meteorologici e dei morbi e delle epidemie (libro VI), Lucrezio segue la traccia del "De natura" di Epicuro (di cui è trovata una copia in 37 libri, ad Ercolano, nella biblioteca della villa dei Pisoni). 

 

Ma, dietro, sempre, rimane in Lucrezio la meraviglia della scoperta, che dovrebbe essere chiara a tutti, che dovrebbe definitivamente scacciare ogni alambiccata costruzione metafisico-teologica, ogni timore in una suprema legge, negli dèi o in un astratto logos.

 

Allorché si tenga questo per verità, si fa chiaro che la natura, da sola, in tutto priva di despoti superbi e libera in tutto, agisce in ogni sua cosa d'iniziativa propria, senza interventi del divino (II, 1094 sgg.). 

 

Scientificamente, cioè razionalmente, possibile l'ipotesi di Epicuro, ne vien fuori da un lato che il fondamento della natura -- natura naturans -- non è sottoposto ad alcuna legge, ad alcuna necessità razionale a priori, a nessun proiettato rapporto di causa ed effetto, ivi implicita la necessità di porre cause prime (efficiente, formale, materiale, finale), ma che l'ipotetico fondamento, cui si giunge induttivamente per analogia, è una infinita ricchezza, una fluidissima spontaneità; e, dall'altro lato, che la realtà quale è, quale si costituisce (natura naturata), è ad un tempo la stessa "natura naturans" sempre possibile di cangiamento e di modificazioni qualitative (di qui il motivo del farsi comtinuo: II, 293-336), su cui è possibile operare (di qui l'inno a Venere genitrice, che apre il poema), ché, in effetto, atomi-semi, vuoto, peso, clinamen, sono postulati, sono i fondamenti, ma non esistono.

 

Esiste la natura.

 

Esistono gl'infiniti mondi, le loro genesi, le loro storie, la genesi degli animali, la loro evoluzione, la loro lotta per la vita, la loro estinzione o la loro sopravvivenza, la genesi e l'evoluzione dell'uomo, e poi la storia dell'uomo, da quando l'uomo è uomo, quest'organizzazione di semi che ha dato luogo alla ragione; e ad un tempo, insieme, esistono i semi e le loro connessioni e organizzazioni. 

 

Da un lato, come dietro le cose e i mondi quali sono nelle loro organizzazioni, si vede mentalmente questo pullulare vitale, instabile, di semi (atomi), il cui complesso è ciò che Lucrezio chiama "materia," i loro incontri spontanei e infiniti (" clinamen "), il loro organarsi, donde questo o quel mondo, questa o quella cosa, questa o quella specie e qualità; dall'altro lato si vedono nascere le cose stesse e i mondi, la spiegazione naturale e razionale delle cose, dei mondi, dell'esserci naturale dell'uomo - indipendentemente da ogni miracolistico intervento, e da quella stessa vitalità (anima), nell'uomo, la mente, l'animo, la razionalità che è un modo con cui si è venuta organando quella vitalità. 

 

La razionalità stessa, perciò, è "storica," positiva, si come i linguaggi e i costumi, le tecniche, mediante cui l'uomo istituisce il proprio mondo, costituisce quell'equilibrio di anima e corpo, quell'equilibrio tra uomini, che non ha nulla di già dato dietro le spalle, ma è dovuto all'attività dell'uomo. 

 

La felicità dell'uomo non sta, dunque, nell'adeguarsi a un ordine già dato, ma nel volere, di volta in volta, quell'equilibrio e quella misura (il "piacere"), che è una sua conquista, in una prosecuzione razionalizzata dell'opera della natura, che è serenità, in una comprensione e in un rispetto della natura ("religio"), per cui, alla fine, la virtu sta proprio in questo comprendere la natura, in questa critica della religione cosmica e dei miti, in questa umanizzazione e razionalizzazione della scienza, mediante cui nella costruzione della propria società, si effettua un'armonia, un giusto mezzo tra anima e corpo.

 

E in tale armonia consiste il "piacere," di là da ogni estetizzante "eroismo," oltre ogni educazione basata sul culto della virtus, degli exempla, dei mores maiorum. 

 

Si vede bene, cosi, come il piacere e la misura lucreziano-epicurea non siano né la virtu eroica dello stoico, né il "conveniente," il decoro, la "signorilità" prospettate da Cicerone.

 

Cicerone per il popolo, per la plebs vuole la superstitio, l'ordine imposto dagl'ottimati, in nome del divino e delle leggi, o l'equilibrio dovuto alla capacità di un uomo, di un princeps, di cui si potesse dire che è l'incarnazione della legge suprema, della legge cosmica, e perciò stesso salvatore, correttore dello stato romano, mentre per un verso la filosofia si risolve in retorica e, per altro verso, in forme consolatorie o di edificante conforto sacerdotale-religioso. 

 

Proprio di qui il conflitto tra ciceronianesimo e lucrezismo, tra due concezioni che, alla fine, non ammettono alcun discorso comune, si diverso e opposto è il fondamento, l'ipotesi da cui prendono le mosse l'uno e l'altro, non in un punto, nella comune consapevolezza di una disperata e drammatica situazione storica, in un terror della morte, che rende tutto vano, nell'un discorso risolta in un coraggioso appello all'uomo e alla sua razionalità, in un appello alla scienza, in un risolversi dell'uomo entro il suo stesso mondo umano; nell'altro discorso, nella speranza di un ordine proiettato retoricamente nei cieli, che si delineerà, poi, in una salvazione che non dipenderà neppure dalla capacità umana di adeguarsi all'eterno ordine della legge divina, ma sarà dovuta o a forze magiche e irrazionali (certo pitagorismo, gnosticismo, certo neoplatonismo e ermetismo), o ad un gratuito intervento dello stesso dio, della persona di Dio. 

 

Per secoli, certo, si è taciuto di Lucrezio, e perduto è andato, anche, il "De rerum natura" di Egnazio, che e un seguace di lui. 

 

Non va dimenticato, comunque, che ciò che noi ancora leggiamo è quello che la stessa censura della storia ha salvato. 

 

Ad ogni modo, a parte ii· rigo di Cicerone nella citata lettera al fratello Quinto, gli accenni di Cornelio Nepote (Biografia di Attico, 12), di Vitruvio (IX, Proemio, 41), di Ovidio (Am., l, 15, 23-24; Trist., Il, 425-26) e di Papinio Stazio (Silv., Il, 776: "docti furor arduus Lucreti"), l'unica fonte biografica è quella celebre di Girolamo, in cui si dice che Lucrezio sarebbe morto suicida per pazzia a causa di un filtro amoroso, e che avrebbe composto alcuni libri del poema durante gl'intervalli della sua follia.

 

Titus Lucretius poeta nascitur: qui postea amatorio poculo in furorem versus, cum aliquot libros per intervalla insaniae conscripsisset, quos postea Cicero emendavit, propria se manu interfecit anno aetatis XLIV.

 

-- Chron. Euseb., VII, 1.

 

Non altro sappiamo della vita di Lucrezio, e incerte sono anche le date della nascita e della morte.

 

Girolamo usa per tali notizie il "De viris illustribus" di Svetonio, il che da attendibilità alla notizia. 

 

Certo si conosce bene il "De rerum natura" (cfr. Arnobio, Lattanzio) e di esso discuteno in forma polemica, si come - in fondo per le stesse ragioni - il poema lucreziano e discusso e minimizzato da Cicerone, il quale non poche volte afferma che gl'epicurei sragionano. 

 

Di qui a sostenere, ricostruendo la vita di Lucrezio all'uso dei biografi antichi, che Lucrezio era folle, il passo è breve. 

 

Non si è forse detto (Vita Vergiii di Donato), ad esempio, che Virgilio, il cantore dei campi, nacque in un maggese? (ed anche questa notizia di Donato non è forse ricavata dal serissimo Svetonio?). 

 

In effetto, Lucrezio sembra che non ha, sul piano della formazione di una paidèia popolare, alcun successo, anche se certamente Lucrezio e in polemica con il suo tempo e cerca di operare almeno attraverso certi uomini (forse Memmio, Attico) che, per la loro posizione, ne avrebbero avuto la possibilità. 

 

E proprio sotto questo aspetto non va sottovalutata la polemica di Cicerone nei confronti dell'epicureismo, e, ancora una volta, l'affermazione ciceroniana che gl'argomenti degl'epicurei non vanno discussi filosoficamente, ma eliminati con un decreto legge. 

 

È stato detto - Farrington, p. 194 - che il fatto essenziale è che in un'età in cui lo scrittore piu colto (Varrone) e lo statista piu eloquente (Cicerone) sono d'accordo sulla utilità d'ingannare il popolo in fatto di religione, Lucrezio rivolge le forze della sua cultura e della sua eloquenza a sostenere l'opinione contraria. 

 

Lucrezio manifesta apertamente l'intenzione di fare quanto è possibile a un uomo per liberare la mente umana dai vincoli della religione, e scongiurare i suoi compagni di non macchiare la loro anima con quell'abominio.

 

Eppure, non va sottovalutato, accanto al Cicerone uomo politico e legislatore, la cui opzione per un certo modello filosofico e culturale assume un significato preciso quando lo si veda in funzione di una certa politica e di una certa difesa, l'altro aspetto di Cicerone, problematico e scettico, la funzione da lui data alla filosofia come possibilità di proporre un ordine che è dover essere, e, alla fine, sia pur per altra via, un rifugio dalla tristezza della vana vita quotidiana. 

 

Quella decina d'anni fu ancora peggiore di quella in cui Lucrezio scrive il suo poema, ancora piu pericolosa. 

 

Si chiarisce allora come l'influenza lucreziana, insieme a quella di Sirone e di Filodemo di Gàdara, si sia piuttosto sviluppata in senso negativo, cioè in una giustificazione dell'abbandono dalla vita politica attiva, in un rifugio in conventicole di amici, o nel crearsi mondi a parte mediante la poesia. 

 

Sembra, perciò, di non poco interesse il fatto che proprio coloro che sappiamo essere stati i maggiori epicurei romani sono morti vittime delle lotte civili, o, a poco a poco, si sono tutti ritirati dalla politica attiva. 

 

Poco o nulla sappiamo -- dopo Amafinio, Rabirio, Cazio -- dei primi.

 

T. Albucio, ritenuto un grecomane, che per un certo periodo e pro-pretore a Sardegna, e che, condannato per estorsioni, si rifugia ad Atene, abbandonando ogni velleità politica, detto da  Cicerone "perfectus epicureus," (Cic. Brutus, XXXV, l) e autore di scritti a carattere epicureo.

 

C. Velleio, senatore e tribuna della plebe, a cui Cicerone, nel "De natura deorum" fa difendere la tesi epicurea.

 

Tito Pomponio Attico, di nobilissima famiglia, compagno di studi di Cicerone e, poi, sempre, suo amico (ad Attico Cicerone dedicò il De amicitia e il De senectute, e a lui scrisse moltissime lettere, raccolte in 16 libri), evita la vita politica.

 

Per sfuggire alle lotte interne visse ad Atene.

 

Tornato in Roma, rimase neutrale durante le guerre civili, facendosi editore, il primo editore romano. 

 

E cosi, lontano da Roma, ad Atene, dedito agli studi, visse un altro epicureo, Lucio Saufeio, cdsf L. Calpurnio Pisone - intorno a cui, presso la sua villa di Ercolano, si forma il notissimo circolo epicureo, avversatissimo da Cicerone (cfr. In Pisonem), il quale a fosche tinte dipinge il suo gregge epicureo, il suo porcino circolo, ma anche la sua semplicità di vita - che console e censore, s'era adoperato per impedire la guerra tra Cesare e Pompeo, e rinnova i suoi sforzi per impedire nuove guerre civili,  definitivamente abbandona ogni azione, rifugiandosi nella sua villa di Ercolano, insieme agli amici epicurei. 

 

Vibio Pansa, amico di Cicerone, tribuna e console, mori a Modena, combattendo contro Antonio.

 

L. Manlio Torquato, pretore, console, pro-console, senatore, pompeiana, si uccise.

 

Statilio mori a Filippi.

 

Cassio, che insieme a Bruto, stoico, uccise Cesare, si suicida a Filippi.

 

Egnazio, seguace di Lucrezio, che tenne in Roma una scuola di retorica e di grammatica, abbandona Roma e, insieme a Rutilio Rufo, si reca a Smirne. 

 

Papirio Peto è posto da Cicerone (Pro Sestio, 20-23) tra i combibones epicurei. 

 

Ad uomini tormentati dalle miserie di guerre civili atroci," scrive Boyancé -- L'épicurisme, p. 514, -- dal crollo delle tradizioni ancestrali, la vita epicurea offre una specie di porticciolo e di rifugio. 

 

L'ambizione scatenata face l'infelicità ad un tempo di coloro che n'erano presi e di coloro ch'erano condannati a servire loro da strumenti. 

 

Tale ambizione era gravida di scacchi e di rischi mortali. 

 

Quanti pochi tra gli uomini illustri di questo tempo sono in effetto pacificamente morti nel loro letto! 

 

Nessuno dei triumviri del primo triumvirato, né Crasso ucciso in una guerra lontana, ove lo trascina la sua ambizione, né Pompeo assassinato a Farsalo da un re satellite, né Cesare crivellato di colpi in pieno Senato. 

 

Dei due piu grandi avversari dei triumviri, l'uno, Catone, si suicida a Utica, l'altro, Cicerone, e messo a morte dai sicari di Marc'Antonio. 

 

Si comprende che la vita non era mai apparsa piu minacciata nelseno stesso della città e mai l'insegnamento di Epicuro sul timore della morte non era apparso piu attuale. 

 

Né tanto piu, anche, era sembrato, in presenza delle incoerenze e dei crimini della storia, che gli dèi si disinteressassero degli uomini. 

 

O se ci s'immagina che intervenissero nei loro affari, quali mai dèi sarebbero stati! 

 

Quali dèi crudeli e gelosi! 

 

Il messaggio di Epicuro si fa ascoltare in tale atmosfera, in virtu di filosofi come Filodemo o Sirone, in virtu anche di Lucrezio.

 

Non solo, ma se Lucrezio sottolinea con forza l'aspetto rivoluzionario dell'epicureismo, anche traccia il modello di una "vita" epicurea, che, a parte i fondamenti dottrinari, si avvicina non poco al modello di "vita" stoico, sganciato anch'esso dai suoi fondamenti dottrinari e rispondente, piu tardi, quando dopo Ottaviano Augusto e Tiberio il principato si trasforma davvero in impero e in dispotismo, all'esigenza di fuga dal mondo, per cui un Seneca puo essere stoico accettando in gran parte certi aspetti del modello di vita epicureo, mentre i circoli epicurei, in Roma, assumeranno sempre di piu il carattere di chiese, di isole, di rifugi. 

 

Dunque canta Lucrezio: 

 

E tu potresti, talora, dire anche questo a te stesso.

 

O miserabile, chiuse gli occhi persino il buon Anco, che fu migliore di te per tanti aspetti; e in gran numero di poi morirono re, principi, gente potente che in mano ebbe le sorti di grandi popoli. 

 

Ed anche colui [Serse] che un giorno apri per l'ampio mare una strada, e sull'acqua fece passar le legioni.

 

E il fulmine di guerra, lo Scipionide che fu il terror di Cartagine, rimise l'ossa alla terra, come il piu vile dei servi. 

 

Aggiungici i pensatori, gli artisti e quanti han seguito le Muse.

 

Finito il lume mortale, muore lo stesso Epicuro.

 

Saresti dunque tu ch'esiti e che ti crucci al morire?

 

Quando potessero gli uomini, al modo come nell'animo sentono il peso che con la propria gravezza li opprime, cosi sapere da che causa ciò avvenga, e donde la macina, direi, si grande del male ci sta sul petto, vivrebbero non come i piu vivono oggi, che ignorano quello che vogliono e non domandano di meglio che mutar sempre di luogo, come se fosse possibile, cosi, deporre il fardello. 

 

Questi, venutogli a noia lo stare in casa, esce fuori dai sontuosi palazzi e torna subito indietro, perché non trova affatto che si stia meglio fuori. 

 

Quello, sferzando i puledri, corre di furia alla villa come dovesse salvare il fabbricato che brucia, e già sbadiglia che ancora non ne ha toccato la soglia, o casca morto dal sonno e cerca a letto il riposo, oppure volta e rientra di gran carriera in città. 

 

A se stesso cosi ciascuno sfugge; ma, contro voglia, a se stesso ciascuno resta legato, al sé cui non si sfugge; e, com'è logico, lo odia, perché non vede il malato qual è la causa del male. 

 

Se la vedesse, ciascuno, lasciata ogni altra faccenda, si sforzerebbe anzitutto di penetrare la natura, perché v'è in giuoco lo stato del tempo· eterno, non quello di un'ora sola, e la sorte in cui dovranno trovarsi, per il tempo eterno che avanza dopo la morte, i mortali (III, 1028-1074). 

 

E proprio per questo, al principio del secondo libro, Lucrezio dice, delineando la possibile vita del saggio epicureo: 

 

Dolce è guardar dalla riva, quando i venti sconvolgono l'ampia distesa del mare, l'altrui gravoso travaglio, non perché faccia piacere che uno si trovi a soffrire, ma perché scorgere i mali di cui siamo liberi è dolce: e dolce è assistere, senza che si partecipi al rischio, agli aspri scontri di guerra in campo aperto: ma nulla è dolce piu dello starsene nei ben muniti luo- ghi che edificò la serena speculazione dei saggi, donde è concesso guardare gli altri dall'alto... (Il, 1-9). 

 

Tale, anche per le sempre piu gravi vicende politiche, fu, dopo Lu- crezio, la linea su cui si posero i gruppi degli epicurei della nuova generazione. 

 

A parte Orazio, particolarmente interessante e indicativa sembra la doppia faccia di Virgilio, che, epicureo (almeno come atteggiamento), vicino al circolo napoletano di Sirone e di Filodemo, si venne poi indirizzando a una visione del mondo e delle vicende umane (anche se non dottrinariamente) di carattere stoicheggiante.

 

Nel V componimento del Cataleptqn, Virgilio, giunto a Napoli, dopo il suo soggiorno a Roma, dove s'era iniziato agli studi di retorica, ed entrato in contatto con Sirone e con quella scuola, dichiara di avere volto le spalle alle "ampullae rhetorum" (v. 1), a quella cultura che, in Roma, doveva avviarlo alla carriera politica (inanis cymbalon iuventutis: v. 5), per abbracciare, contro la "natio scholasticorum" (v. 4), gl'insegnamenti di Sirone.

 

Nos ad beatos vela mittimus portus, magni petentes docta dieta Sironis, vitamaue ab omni vindicabimus cura (8-10). 

 

Le Bucoliche, se da un lato indicano ancora l'influenza epicurea nell'ideale di una pacificante natura, in cui rifugiarsi ("Tityre, tu patulae recubans sub tegmine fagi, silvestrem tenui meditaris musam avena..:": l, l sgg.), dall'altro lato mostrano (cfr. IV, V, VI), di contro alla possibile disperazione epicurea (il mondo umano lasciato a se stesso), la speranza nell'immortalità dell'anima, che port all'uomo una serenità piu alta, l'esigenza di comprendere la natura come un tutt'uno con l'uomo (con accenti molto vicini all'anima mundi di Lucrezio, alla sua umanizzata e vivente natura, ma già reinterpretata in senso stoico), onde nelle Georgiche (e su invito di Mecenate e di Augusto), e tanto piu, poi, nell'"Eneide", riappare il motivo della provvidenza, della pietas, della purificazione dell'anima immortale attraverso il dolore e la morte, della speranza in un al di là in cui saranno premi o pene (la descrizione dell'Ade orfico è in genere ricavata dal VI dell'Eneide), del destino di Roma, dell'imperium di Roma che, mediante il suo princeps (il simbolico pio Enea), porta pace, ordine e civiltà nel mondo, compiendo la ragion d'essere, la legge del tutto.

 

Tu regere imperio populos, romane, memento 

hae tibi erunt artes - pacique imponere morem, parcere subiectis et debellare superbos (Aen., VI, 851-53). 

 

Se è, senza dubbio, vero, com'è stato detto e si ripete che Virgilio parte da posizioni epicuree, attraverso la meditazione del dolore come retaggio comune all'umanità, è giunto ad intendere provvidenzialmente il destino e a ravvisare nel mondo la legge di una superiore giustizia che è legge di superiore bontà" (L. Alfonsi, s. v. in Enciclopedia filosofica), è altrettanto vero che non va scordata l'ascesa al potere di Augusto, di quell'Ottaviano del quale già nelle Bucoliche Virgilio aveva detto: 

 

"un dio, oggi, a noi dette questi ozt" (1, 6). 

 

Se il modello di vita, assunto da Orazio, entro i termini dei rifugi epicurei, si scoloriva in un atteggiamento di pacato intimismo e di sorridente umiltà (forse la celebre dichiarazione di Orazio d'essere un "porco del gregge di Epicuro," Epist., l, 4, 16, va veduta nel significato che gli antichi davano a porco, l'animale che si contenta di poco: cfr. Platone, Repubblica, 372d; ma non va scordato peraltro il Carmen saeculare), il modello di vita virgiliano finisce in unl.accettazione del supremo ordine, dell'equilibrio nuovo, della rinnovata pietas, della religio, voluti da Augusto, e identificantisi in lui - in un compimento del ciceroniano ideale scipionico - correttore e salvatore della patria, princeps della res-publica, pater patriae. 

 

Cesare e ucciso e dopo anni di lotte terribili, di proscrizioni e di gratuite morti, di alleanze e rotture, dopo la battaglia di Azio, Ottaviano rimase arbitro della situazione. 

 

Sembra, certo, che solo attraverso Ottaviano e la sua abile e privata politica e possibile ricostituire l'equilibrio e l'armonia, avere la pace.

 

Ottaviano apparve cosi come un patrono, protettore dei sudditi e, perciò, moderatore e princeps. 

 

Si sarà veduta, in Ottaviano, non solo la possibilità di salvare la res-publica, ma, dando ad Ottaviano il patronato universale, l'unica possibilità di una pax e di una libertas, anche se relativissime, che pur sono molto, rispetto al terrore di prima. 

 

Paolo Frezza, commentando come Ottaviano presenta il suo potere nelle Res gestae: (l l, Annos undeviginti natus exercitum privato èonsilio et privata i m pensa comparavi, pel" quem rem publicam [ a do ]minatione factionis oppressam in libertatem vindica[vi]. - XXV 2. Iuravit in mea verba tota Italia sponte sua et me he[lli], quo vici ad Actium, ducem depoposcit. Iuraverunt in eadem ver(ba provi]nciae Galliae Hispaniae Africa Sicilia Sardinia. - XXXIV l. 

 

In consulatu sexto et septimo, p[ostquam bella civil]ia extinxeram, per consensum universorum (potitus rerum omni]um, rem publicam ex mea potestate in senat[ us] populique Romani arbitrium transtuli); e richiamando la cosiddetta lex de imperio Vespasiani.

 

La legge ricorda ad uno a uno i poteri straordinari conferiti da senato e dal popolo a Vespasiano.

 

Ciascuno di questi poteri o facoltà eran stati esercitati anche da Augusto: e il documento si riferisce a questo fan. come precedente della concessione attuale"); ha finemente sottolineato il duplice aspetto con cui si determina potere d'Ottaviano e il possibile conflitto tra il principe e le magistrature della città-stato, donde l'esigenza da parte del legislatore di dete minare la "costituzionalità del potere del principe: la sua commensurbilità con la conformazione dei poteri costituiti ed attribuiti in ser all'ordinamento della città-stato" (Frezza, Per una qualificazione istituzionale del potere di Augusto, in" Atti e Memorie dell'Accad. Tosca.t di Scienze e Lettere la 'Colombaria'," XXI, Firenze, 19: pp. 112-3). 

 

Da un lato Augusto, privatamente salvatore della res-publica, del stato-città (e, dunque, di tutte le sue magistrature), perciò stesso p· essere acclamato patrono protettore, onde i cittadini si assoggettano lui come clienti; dall'altro lato Ottaviano ritrasferisce le potestà su di assunte, con un atto di sua volontà, all'arbitrio del senato e del popolo romano. 

 

Solo che Ottaviano, proprio perché acclamato universalmeJ princeps e patrono (non particolarmente, come nel caso del rappo cliente patrono) e ritrasferendo al Senato e al Popolo, con un atto propria volontà, la potestà assunta, rimaneva arbitro dello stato proclamandosi ragion d'essere (heghemonikon, princeps) dello stesso stato, svincolava da ogni legame giuridico-istituzionale, e assumeva cosi in tutto il potere, essendo egli cioè l'istituzionalità medesima, egli al là del Senato e del Popolo, con il suo potere esplicantesi attraverso il Senato e il Popolo, egli, appunto, princeps rei publicae. 

 

Con ciò, evidentemente, la città-stato cessa d'essere tale, mentre i cittadini cesseranno d'essere cittadini per divenire sudditi e i magistrati magistrati pèr divenire via via funzionari dell'impero e del sovrano. 

 

L a necessità che il principio polarizzatore delle istituzioni dello stato-città, e il principio regolatore delle istituzioni del principato, rimane l'uno all'altro opposti, ed insieme la necessità di ottenere da una sintesi dei due opposti principi, le soluzioni dei problemi in cui si presenta il contenuto della nuova esperienza dello Stato.

 

Questa è, se non m'inganno, l'antinomia da cui si genera l'evoluzione storica del principato, ed in cui si puntualizza il limite della consapevolezza che gli artefici dell'ordinamento nuovo ebbero dell'esperienza di cui essi stessi erano i modellatori. 

 

Del quale ordinamento il carattere fondamentale è dunque la duplicità. 

 

Da una parte il primordiale sistema istituzionale del potere del principe, che si riassume nella elementare affermazione di un sol soggetto di tutto il potere di fronte ad una totalità di sudditi, nella quale tende a scomparire la differenza fra il suddito e il civis. 

 

Da un'altra parte il raffinato. ma non piu autonomo, sistema istituzionale dello stato-città, in cui, come in un prisma, il totale e totalitario potere del principe si scompone in una molteplicità di settori di azione, di competenze, di limiti istituzionali all'esercizio del potere medesimo.

 

Lo sviluppo della storia del principato, di cui la storia giuridica è un aspetto, si incarica di dimostrarci che, a misura che il potere del principe si va consolidando come ordinamento, ossia come sistema di rapporti costanti, lo stato-città, come soggetto compresente nella formula dell'equilibrio dinamico della costituzione del principato tende a scomparire. 

 

L'allontanamento dei cittadini dall'esercito, e dei senatori dai comandi militari, l'accesso dei provinciali al trono imperiale, e l'immissione sempre piu massiccia di provinciali nelle file della classe dirigente, la formazione di una nuova solida gerarchia di alti ufficiali dell'impero, ai quali soltanto incombe la funzione di governo, agli ordini del sovrano, sono i fenomeni complementari del progressivo scomparire del senato e della magistratura di Roma dalla direzione politica dell'impero (Frezza, cit., pp. 139-30). 

 

Ci siamo un momento soffermati, da un lato sulla situazione psicologica che ha potuto determinare l'accettazione del potere di Ottaviano, e, dall'altro lato, sulla stessa determinazione della qualificazione istituzionale-giuridica del suo potere, perché sembra che tutto questo possa servire a spiegare - attraverso le componenti culturali, di cui si è veduto il confluire e l'intrecciarsi il prevalere di posizioni stoico-platoniche, entro la linea che abbiamo visto svilupparsi con Cicerone, e che esattamente rispondevano e servivano a ben precise situazioni politiche, particolarmente quali si erano venute determinando con il prevalere di Augusto e con la sua linea tattica. 

 

Non sembra cosi un caso che Ottaviano riprende il termine di "princeps," che si proclama "primus inter pares," proprio per il motivo, che sopra abbiamo visto, di porre sé al di sopra (donde il titolo di "augustus") e al di là del Senato e del Popolo, assumendo in tal modo un potere extra res-publica, per cui davvero si costituiva un'egemonia dei due termini e delle magistrature, dei quali Ottaviano rimane l'egemone, il princeps. 

 

Il termine heghemonik_6n, già da Cicerone reso in latino con "principatum", indica, nelle posizioni stoiche di questo periodo, la ragione universale, non come principio ma come atto unificante una molteplicità, secondo un ordine, ed esplicantesi mediante diverse funzioni, onde si poteva dire che la ragione del tutto (il 1ogos) viene a porsi prima inter pares, in sé riassumendo le parti e dando alle parti. il loro giusto posto nell'ordine del tutto. 

 

E tale, si come Cicerone aveva fatto apparire l'Emiliano, Ottaviano, anche se con abile sottinteso, voleva fare apparire sé, ragion d'essere dello Stato, principio d'ordine e di equilibrio, non uomo del senato e del popolo (cui rende la res-publica), ma di ambedue correttore e principe. 

 

E si badi - anche questo è indicativo - che nei paesi ellenistici (non in Roma) Ottaviano e chiamato "basiléus," re, e ciò tanto piu si chiarisce quando si pensa al significato che al re si era venuti dando nelle monarchie ellenistiche.

 

E cosi non è, forse, solo un caso che il filosofo di corte, assunto d'Ottaviano, suo consigliere e consigliere (una specie di confessore) della moglie di Augusto, e uno stoico, Ario Didimo di Alessandria (Diels, Dox., 80). 

 

E qui è forse interessante riferire un estratto dell'Epitome di Ario Didimo, riportato da Eusebio (Praep. ev., XV, ·15, 1-9), in cui Ario Didimo, in sintesi, delinea la concezione generica dello stoicismo.

 

Chiamano dio l'intero cosmo con le sue parti. 

 

E dicono che il cosmo è unico, limitato, vivente, eterno e divino. 

 

In esso infatti sono contenuti tutti i corpi, e nessun vuoto esiste in esso. ~ chiamato cosmo non 5olo il qt~ale costituito da tutta la sostanza esistente; ma anche ciò che secondo un'ordinata disposizione ha una struttura di tal genere. 

 

Perciò, secondo la prima definizione, dicono che il cosmo è eterno; secondo l'ordinata disposizione, lo definiscono generato e mutevole secondo infiniti periodi, passati e futuri. 

 

E la qualità costituita da tutta la sostanza esistente è il cosmo eterno e divino. 

 

Ma è detto cosmo anche l'insieme costituito di cielo, aria, terra, mare e delle nature che sono in ciascuno di questi elementi. t detto cosmo anche il domicilio degli dèi e degli uomini, ovvero l'insieme costituito (dagli dèi e dagli uomini), e dalle cose che sono nate in vista di quelli. 

 

Infatti, a quel modo che diciamo città in due sensi, come domicilio e come insieme degli abitanti e dei cittadini, cosi anche il cosmo è come una città costituita di dèi e uomini, in cui gli dèi hanno il governo e gli uomini sono i sudditi. 

 

Tra gli uni e gli altri v'è comunione, perché partecipano della ragione, che è legge di natura. 

 

Tutte le altre cose sono nate in vista di quelli. 

 

E in accordo con tutto ciò bisogna ritenere che degli uomini si prenda cura dio che governa l'universo [si confronti anche Platoae, Leggi,. 899d sgg., 903b sgg.], che è benefico, buono, amante degli uomini, giusto,, e che ha tutte le virtu. 

 

Perciò il cosmo è detto anche Zeus, essendo per noi l'autore della vita (z~n). 

 

In quanto dio fin dall'eternità governa tutte le cose ineluttabilmente con una ragione concatenata, è detto Fato. t detto Adrastea,. poiché niente può sfuggirgli [apodidrtiskein]. t detto Provvidenza, perché ha cura di ciascuna cosa secondo i singoli interessi. 

 

Cleante crede che parte dominante [egemonica] del cosmo fosse il sole, perché è il piu grande degli astri e quello che massimamente contribuisce al governo dell'universo, dando origine al giorno, all'anno e alle altre divisioni di tempo.

 

Crisippo identifica questa parte con l'etere purissimo e semplicissimo, perché è il piu mobile di tutti gli elementi e trascina in giro l'intera traslazione del' cosmo (Dossografi greci, a cura di L. Torraca, Padova, 1961, pp. 249-50).

 

Certo bisogna tener presente che quando si dice stoicismo o platonismo, o stoicismo platonico, o anche aristotelismo stoicheggiante o platonizzante, in effetto diciamo qualcosa di molto vago, se non intendiamo una vaga visione d'insieme, uno sfondo culturale, ormai cristalizzatosi ed estremamente diffuso sia nelle scuole, sia in manualetti di. massime, sul tutto e sulla vita pratica, circolanti presso il popolo, com'è· largamente testimoniato.

 

Tale visione d'insieme e legale di un universo vivente, poteva poi servire, sia sul piano del diritto e del potere politico, sia sul piano dei singoli insegnamenti e dell'avviamento nelle scuole, da un lato ad una morale comune e religiosa, dall'altro lato alle tecniche formali del dire (grammatica, retorica e dialettica) e alle singole tecniche pratiche (le cosiddette singole scienze); essa risulta compendiata in manuali che, usando cognizioni e notizie acquisite, assumono l'aspetto di repertori e di centoni. 

 

Se ciò si vede bene, nel suo aspetto particolare, ad esempio nel tipo di geografia descrittiva e umana di Strabone, a carattere enciclopedico e informativo, ove non v'è piu nulla degli interessi matematico-scientifici che avevano mosso un Eratostene e piu tardi Cratete di Pergamo e Agatarchide di Cnido, altr.ettanto bene ci rendiamo conto di tutto questo anche dalle testimonianze e dai pochi frammenti che poS5ediamo di Eudoro di Alessandria e di Ario Didimo. 

 

Il primo piu vicino a forme platonizzanti tipo Antioco di Ascalona (ad Antioco successero nello scolarcato dell'Accademia, mantenendosi sulla stessa sua linea, Aristone di Ascalona, ascoltato da Bruto e da Cicerone, e Teomnesto di Naucrati), il secondo a forme stoicheggianti (sembra che lo stoicismo ufficiale della scuola di Atene si sia mantenuto, con gli scolarchi successi a Panezio, Mnesarco, Apollodoro di Atene, Dionisio, Antipatro di Tiro, sulla linea di Panezio), l'uno e l'altro hanno scritto dossografie, opere filosofiche a carattere enciclopedico, commenti al Timeo, di Platone, alle Categorie e ad alcune parti della Metafisica di Aristotele (Eudoro: cfr. Simplicio, Schol. in Arist., 6la, 25; Plutarco, De anim. procr. in Tim., III, 2; Alessandro, Metaph., 44, 23), epitomi (Ario Didimo: cfr. Doxographi del Diels). 

 

Entro, appunto, questa concezione comune platonico-stoica, con venature proprie alla scepsi della nuova Accademia, in senso ciceroniano (cfr. sopra: e Ario Didimo in Stobeo, Ecl.; Diels, Dox.), si determinava un tipo di cultura enciclopedica, per cui poteva servire Aristotele (particolarmente i libri di logica, usati come introduzione all'arte del retto ragionare, e i libri naturalistici, biologici, zoologici, meteorologici), sr come Panezio o Posidonio, e, in specie, i commenti scolastici ai grandi testi, e, insieme, le dossografie, le epitomi, le raccolte di questioni trat- tate per problemi e divise per scuole, secondo un capostipite nella cui linea si facevano rientrare i successori (tale metodo s'era diffuso, sull'esempio di Teofrasto, tra il 111 e il u secolo a. C., mediante la Successione dei filosofi: dtcx3o:x,~ -rClv cpr.ì.oaO<p(J)V, del peripatetico Sozione originario di Alessandria, che aveva distinto due scuole, l'ionica e l'italica, e che fu una delle fonti maggiori cui attinsero i compilatori posteriori, fino a Diogene Laerzio). 

 

Un esempio di tali motivi è rappresentato dall'edizione che delle opere scolastiche di Aristotele, ritrovate nel 133 a.C., a Scepsi (cfr. sopra, I vol.), consegnate dagli eredi di Neleo al libraio Apellico (che dal 100 circa, portatele ad Atene, le offrf in pubblica lettura) requisite da Silla nell'86 a. C., fece, insieme al grammatico Tirannione, Andronico di Rodi (scolarca: dopo Critolao erano stati scolarchi Diodoro di Tiro ed Erimneo, dei quali poco o nulla sappiamo). 

 

Basta ricordare quel che Porfirio dice del criterio usato da Andronico.

 

Egli divise le opere di Aristotele e di Teofrasto in argomenti (1tpor:yjL«u(~), mettendo insieme sotto titolo comune le speculazioni che trattavano argomento affine (-r~Ì4; o!x&tcxç 01to-&éaetç etç -rcxù-ròv auvcxycxyci>v) (Vita di Plotino, 24, 138); e 162    basti pensare all'ordine con cui si venne a costituire il corpus aristotelico (Organon, Fisica, De coelo, De genesi et corruptione, Meteorologica, De anima, Parva naturalia, libri sugl'Animali, Metafisica, Etica Nicomachea, Magna moralia, Etica Eudemea, Politica, Retorica, Poetica). 

 

Se da un lato è chiaro l'intento di volere istituire il libro della scuola peripatetica (altrettanto sintomatico è che proprio in quest'epoca venga edita, a cura di Attico e di Dercillide, sulla linea dell'edizione di Aristofane di Bisanzio, l'opera di Platone, divisa in tetralogie, da cui riprese poi Trasillo, vissuto sotto l'imperatore Tiberio, il cui "Corpus platonicum" sarebbe poi quello giunto fino a noi), dall'altro lato è chiaro l'intento di offrire una enciclop.edia delle scienze unificate, in un unico sistema. 

 

E ciò non significa affatto che, a cornice del quadro aristotelico, della divisione della filosofia (come cultura di fondo) in logica, fisica, etica, non potesse servire la struttura generale dell'universo, entro i termini teologico-ontici e del tutto vivente, dell'ultimo Platone, di certi stoici e dell'Aristotele di alcune parti della Metafisica, oltre quello ch'era stato il platonismo, il primo stoicismo, l'aristotelismo. 

 

Di qui, anche, l'importanza delle introduzioni alle visioni totali di un cosmo ordinato e, perciò, all'astronomia; e le relative sinopsi scolastiche. 

 

Edizioni di testi, dunque, introduzioni generali, sillogi. 

 

Certo quel che colpisce, e che rivela tutto un modo di pensare rispondente a certe precise esigenze, è ciò che si pubblica, sono i testi che circolano e si commentano: Platone, Aristotele.

 

Il complesso della visione stoica quale si conforma nel tempo; per altra via si costrui- scono testi pitagorico-matematici, testi religiosi che vanno sotto l'etichetta di testi orfici, particolarmente si commenta, e non è poco indicativo, il Timeo di Platone, le Categorie di Aristotele, testi di astronomia; mentre si vanno perdendo, o si accantonano, almeno ufficialmente, le altre linee che avevano costituito altre filosofie e concezioni. 

 

Non è forse senza interesse ricordare a tale proposito il nome di Boeto di Sidone (detto " peripatetico, " per non confonderlo con Boeto di Sidone stoico), discepolo di Andronico di Rodi, amico di Strabone, successo, sembra, alla morte di Andronico nello scolarcato del Peripato di Atene. 

 

Boeto di Sidone scrive una serie di commenti, a carattere interpretativo e divulgativo, alle opere di Aristotele, con particolare riguardo alle "Categorie" (cfr. Ammonio, In Cat., 5). 

 

Fondamentàli testimonianze di tutto questo sono tre opere, di non alto valore scientifico:

 

"L'introduzione ai fenomeni" (Eta«y(J)yYJ et<; -.a ql«tV6fUV«), di Gemino di Rodi, 

 

la "Teoria circolare dei corpi celesti" (Kux).~x1J.3-e:(J)pt« (l&-r&6:ip(J)v) di Cleomede (1 a.C.), e, infine, il 

 

"De mundo" (Ilept x6a(lOU), che andato sotto il nome di Aristotele e inserito nel Corpus aristotelico, venne compilato tra la seconda metà del I secolo a.C. (certo dopo l'edizione di Aristotele da parte di Andronico -- risulta già noto nella Dialexeis di Massimo di Tiro, ma già contro di esso avevano polemizzato Taziano, e Atenagora, mentre nel De mundo si rilevano chiare influenze di alcuni testi di Filone l'Ebreo. 

 

Ma su tutto questo, e sulle varie tesi cfr. Festugière, cit., vol. Il, pp. 477 sgg.). I primi due testi sono vere e proprie introduzioni scolastiche all'astronomia, ove, in effetto, non v'è nulla di nuovo, ma dove colpisce il tentativo di inquadrare le descrizioni dei fenomeni celesti (si badi che si resta sempre sul piano descrittivo) entro una piu ampia conce- zione dell'universo, che è, poi, quella stoico-aristotelica, con non pochi spunti ripresi dalla tradizione che proveniva dal Timeo platonico, dall'Epinomide e, probabihnente, da alcune ricerche di Posidonio, ch'era pur sempre un tentativo di razionalizzazione dell'Universo. 

 

Il "De mundo" ha maggiori velleità, e si presenta come delineazione compiuta e sistematica dell'ordine del tutto, una specie di libro sapienzale, in cui se da un lato si sfruttano le conclusioni aristoteliche sul piano fisico-meteorologico (mondo superiore, immobile e ordinato, regione sublunare corruttibile e disordinata, etere quinto elemento, eternità del mondo), dall'altro lato si sfruttano certe tesi stoiche (il pneuma, la Provvidenza, Dio legge dell'universo, l'universo come l'insieme del cielo e della terra con tutti gli esseri ivi contenuti), e certe tesi platoniche (Dio principio, mezzo e fine), in funzione di una unità sistematica, mediante cui si po~eva - sul piano di un Antioco - vedere in Aristotele e nello stoicismo un compimento del platonismo. 

 

Sotto questo aspetto, il "De mundo", che si apre con un elogio della sapienza (I), per passare quindi a descrivere la struttura dell'universo, i suoi elementi, le regioni di tali elementi, i fenomeni propri a ciascuna regione (11-IV), sostenendo l'unità ed eternità del Cosmo, il suo ordine, la sua unica ragion d'essere (V), che è la stessa divinità, trascendente (l'altissimo) e immanente a un tempo, che tutto governa e donde provengono tutti gli effetti, Dio, platonicamente principio, mezzo e fine del tutto (VI-VII), poteva assumere, davvero, la funzione di libro di scuola, ov'era, in linee chiare e facili, esposta quella cultura di fondo di cui abbia,mo parlato. 

 

Altri punti del "De mundo", sottolinea Festugière (cit., pp. 513-14), avranno un gran posto nella letteratura teologica dei due primi secoli dell'Impero, e particolarmente nell'ermetismo, e cioè: l'eminente dignità di Dio; l'unicità di Dio; la polionimia di Dio. 

 

Dirà Seneca. 

 

Gli Etruschi, antenati dei romani, hanno riconosciuto lo stesso Giove, come noi, moderatore e guardiano dell'universo, anima e soffio vitale del mondo, signore e architetto di tale produzione, colui al quale ogni nome si addice. 

 

Vuoi chiamarlo Destino? 

 

Non t'ingannerai.

 

Da lui tutto dipende, egli causa delle cause. 

 

Vuoi chiamarlo Provvidenza? 

 

Sarà detto bene.

 

Per suo consiglio si è provveduto ai bisogni di questo mondo, s1 che nulla ne turba il cammino ed egli senza ostacolo svolge il corso delle proprie azioni. 

 

Vuoi chiamarlo Natura? 

 

Non è errato.

 

Da lui tutto è nato, il soffio di lui ci anima. 

 

Vuoi chiamarlo Mondo? 

 

Non avrai torto.

 

Egli è questo Tutto che vedi, che penetra ciascuna delle sue parti, che è a fondamento di sé e di tutto ciò che è in lui.

 

-- Naturales quaest., II, 45). 

 

Dice Varrone:

 

 "Bisogna tener presente che tutti gli dèi e le dèe sono il solo Giove, o che, come vogliono alcuni, tutte queste cose siano parti di Dio, o che siano potenze di Dio, secondo l'opinione di coloro che fanno di Dio l'anima del mondo."

 

"Tutta la vita universale è la vita d'uno stesso essere vivente, che contiene tutti gli dèi che sono potenze, membri, o parti" (fr. 15 b Agahd). 

 

Il "De mundo" si colloca, anche cronologicamente, tra questi testi di Varrone e di Seneca, rispecchiando assai chiaramente la koinè culturale-politica quale si venne configurando e l'importanza, piu che scientifica teologi~politica, assunta dagli studi di astronomia e di questioni naturali, che, per il resto, usando notizie acquisite, si delineano in manuali di volgarizzazione e in repertori scolasticamente utili, in summe di un sapere ormai istituzionalizzato. E cosi sembra di non poco interesse il termine "architetto" usato da Seneca per indicare la divinità, che se da un lato richiama la moralità come architettura di aristotelica memoria, dall'altro lato dà il significato esatto di questa visione misurata e normativa dell'universo, cui ha da adeguarsi l'uomo e la società e l'opera stessa dell'uomo, indipendentemente ormai, in una certa atmosfera culturale acquisita, da dimostrazioni e da prove, valida, invece, come dato di fondo su cui poi ciascuno deve svolgere il proprio mestiere, mettere a frutto le proprie particolari cognizioni. 

 

E qui, in ispecie, pensiamo alla prima scuola filosofica che si apre in Roma, fondata da Quinto Sestio, cui successe, nella direzione, il figlio Sesto (forse Sertius Niger, indicato da Plinio quale fonte dei libri dodici, tredici, ventuno-trenta, trentadue-trenta- quattro, della sua Storia naturale) e, perciò, detta poi la "Scuola dei Sestii." 

 

Breve fu la durata della Scuola dei due Sestii. 

 

Per quel poco che sappiamo di essa, attraverso Seneca, che e discepolo di Sozione di Alessandria, aderente alla Scuola dei Sestii; e di Fabiano Papirio, anch'egli della Scuola, e di cui Seneca dice che non e "filosofo cattedratico, ma vero filosofo all'antica" (De brevitate vitae, X, l) e per qualche testimonianza di Stobeo, possiamo indicare la Scuola dei Sesti come configurantesi entro i termini del piu generico stoicismo, che soprattutto dove servire da fondamento all'insegnamento etico, alla formazione del cittadino, e da fondamento all'insegnamento di materie particolari: questioni naturali, politiche, retoriche, di medicina.

 

Ricordiamo di Fabiano i titoli pervenutici di alcune sue opere: 

 

Libri cau- sarum naturalium, De animalibus, Libri t:ivilium

 

di cui abbiamo un esempio nell'opera di Aulo Cornelio Celso della Scuola dei Sestii. 

 

Celso, vissuto tra Augusto e Tiberio, scrive una grande enciclopedia, di cui non è rimasto che il volume "De re medica," già esso estremamente indicativo di un metodo e di un tipo di richiesta.

 

Gl'altri volumi erano dedicati all'agricoltura, all'arte militare, alla retorica, alla filosofia e al diritto.

 

Il De re medica (in otto libri) non è affatto opera originale - si pensa anche che sia la traduzione di un'opera medica in greco, torse, secondo Max Wellmann, Celsus, in "Philol. Untersuch.," Berlino, 1913, di un certo Cassio, andata persa - ma, a parte il suo valore come fonte per la storia della medicina e delle scuole mediche, è una preziosa opera divulgativa e descrittiva, che poteva servire non poco ad una preparazione specifica, soprattutto per la sua precisione nella descrizione dei sintomi delle malattie e dei mezzi di guarigione (11-IV), tanto dietetici che farmaceutici (V-VI: veri e propri trattati di farmacologia), degli interventi chirurgici (VIi: è per la prima volta descritta l'operazione della cateratta) e delle malattie delle ossa (VIII). 

 

D'altra parte non va qui scordato il medico Asclepiade di Prusa, in Bitinia, che fonda in Roma la prima, privata, scuola di medicina.

 

Pubblicamente una Schola medicorum venne eretta in Roma solo dopo. 

 

Asclepiade, che aveva studiato ed esercitato. in molte città di Oriente e in Alessandria, che aveva risentito le influenze delle teorie di Erasistrato, ritenne, ed è ciò che qui interessa, che la dottrina epicurea degli atomi (da Asclepiade detti 6nco1) e della formazione delle cose e loro costituzione a seconda della disposizione e organizzazione degli atomi stessi, fosse l'unica dottrina che poteva permettere al medico di operare sulla natura del corpo umano, ristabilendo, di volta in volta, certi equilibri, o determinandone, mediante un'intelligente esperienza, altri migliori, curando, appunto, "mediante la stessa natura," soprattutto per mezzo della dieta, s(da ricostituire la simmetria degli atomi mediante mezzi sicuri, rapidi, piacevoli (cfr. Plinio il Vecchio, Nat. hist. XXVI, 7, 3 sgg.). 

 

Non è un caso, tuttavia, che Asclepiade, in epoca piu tarda, al tempo in cui anche in medicina prevalse la teoria pneumatica, di chiara ispirazione stoica, sia stato detto un ciarlatano (Plinio, Galeno), e accomunato al suo discepolo Temisone di Laodicea, che abbandonata ogni teoria generale, dette avvio alla cosiddetta scuola dei metodisti, assumendo come metodo (donde il nome della scuola) l'osservazione, mediante cui determinare i caratteri propri a ciascuna malattia, e fondandosi sulla "tensione" dell'organismo rivelantesi attraverso il battito del polso. 

 

Certo egli cerca soprattutto di compiacere alla sua ricca clientela, mentre i medici piu seri, da Eraclide di Taranto ad Apollonia di Cizio, appartenuti ambedue alla scuola empirica, cercano soprattutto di descrivere le acquisizioni da essi fatte mediante la pratica e la somma delle loro esperienze, sottoposte a verifica, poco dopo la pubblicazione dell'opera di Celso, avremo che anche la medicina si ispirerà, per lo stesso fondamento teorico dell'arte, per il fondamento della fisiologia e della patologia, al sistema stoico (la scuola pneumatica, rifacentesi ad uno scritto del Corpus hippocraticum, il De flatibus, fu fondata d'Ateneo d'Attalia). 

 

Ad ogni modo, se, come pare, gli altri volumi dell'enciclopedia di Celso avevano gli stessi caratteri del volume dedicato alla medicina, sembra esattamente confermato quanto sopra dicevamo. 

 

E ciò tanto piu risulta vero, quando pensiamo alla stessa attività degli scienziati che, sempre meno teorici, o meglio usando teorie già acquisite, appaiono soprattutto come dei tecnici, dei meccanici, degli ingegneri, dei pratici, che perfezionano strumenti e operano, a cominciare dai tecnici di Alessandria (Ctesibio, Filone di Bisanzio) a finire ai tecnici romani, costruttori di strade militari, di monumenti, di porti, di fognature, di macchine belliche (cfr. l'Architettura di Vitruvio), rispondenti alle esigenze politiche, militari, urba- nistiche di Roma (cfr. Prefazione di Vitruvio), al grande alessandrino Erone (vissuto nella seconda metà del I secolo d. C.), anche se mantenendo quella visione d'insieme, quello sfondo culturale, quella credenza in un tutto ordinato e architettonico, quale anche si rivela nel celebre De architectura del grande tecnico e architetto Vitruvio Pollione, vissuto tra il tempo di Cesare e di Augusto e a loro legato. 

 

Vitruvio era convinto che la misura delle costruzioni umane ("l'architettura è costituita: dall'ordinamento, che in greco si dice -r&~r.ç, e dalla disposizione che i greci dicono 8t&.&eatc;; e dal- l'euritmia, la simmetria, il decoro, la distribuzione detta in greco o[xovo!J.(ot, l'ordine"; l, 2, l), deve essere adeguata alla misura del tutto, espressione di una certa umana cultura e civiltà, di cui l'espres- sione è l'architettura (cfr. Prefazione e I libro cap. 1), d'onde, anche per Vitruvio, l'importanza di una cultura enciclopedica, non solo  167   perché l'architetto possa realizzare tecnicamente le proprie opere (per cui l'architetto deve avere cognizioni di geometria, di prospettiva, di disegno, di meccanica, dei materiali, dei climi, delle situazioni delle città, di storia, delle acque, e cosf via), ma perché tale cultura sta a fondamento di ogni scienza, s1 come di ogni consapevole opera umana. 

 

La scienza dell'architetto si accompagna a molteplici conoscenze e a istruzioni varie.

 

Essa nasce dalla pratica e dal ragionamento (e.r fabrica et ratiocinatione). 

 

La pratica: è una continua e minuziosa meditazione dd- l'uso, che si ottiene mediante le mani, con l'aiuto di un q1,1alche genere di materia buona per essere plasmata. Quanto al ragionamento: è ciò che può dimostrare ed esplicare, mediante la penetrazione della ragione, le cose che si eseguiscono... 

 

Né l'ingegno senza la scienza, né la scienza senza l'ingegno può fare un compiuto artefice. 

 

L'architetto deve essere letterato, abile nel disegno, istruito in geometria.

 

Deve conoscere le leggende, deve avere con zelo ascoltato i filosofi, sapere di musica, non essere ignorante di medicina, sapere le decisioni dei giureconsulti, conoscere l'astrologia e le leggi dd cielo. 

 

Potrà, forse, sembrare curioso agli inesperti che la natura possa approfondire e contenere nella memoria si gran numero di scienze. Ma quando si saranno resi conto che tutte le scienze hanno tra loro una connessione e uno scambio di contenuti, capiranno come ciò possa facil- mente avvenire. 

 

La scienza universale (encyclios disciplina), infatti come un sol corpo ~composta di queste membra. 

 

Cosi coloro che fin dalla tenera età vengono avviati a conoscenze molteplici, riconoscono in tutte le branche delle lettere gli stessi caratteri e le mutue relazioni di tutte le scienze, donde giungono piu facilmente alla nozione di tutte le cose (1, l, 1-2, 9, 44-45). Di Enesidemo sappiamo molto poco. 

 

Sappiamo che nacque a Cnosso, nell'isola di Creta (cfr. Diogene Laerzio, IX, 116) - secondo Fozio, Myriobiblon o Bibliotheca, 170a, sarebbe nato ad Egea;- che per un certo periodo insegnò ad Alessandria (Aristocle, in Eusebio, Praep. ev., XIV, 18, 22) - il che può essere abbastanza interessante relativa- mente alla conoscenza che Filone di Alessandria poteva avere del- l'opera di Enesidemo; - che dapprima seguace dell'Accademia se ne sarebbe poi distaccato, ritenendo che in effetto i nuovi accademici piu che accademici fossero degli stoici (Fozio, cit.): il che fa pensare che, secondo anche la testimonianza di Sesto, Pyrrh. hipot., l, 235, il quale sostiene che Antioco di Ascalona aveva ridotto l'istanza scettica del- l'Accademia a un neo-stoicismo, la polemica di Enesidemo e il suo polemico prodamarsi pirroniano, per cui dette alla sua opera princi- pale il titolo Discorsi pi"oniani, fossero rivolti proprio contro l'equi- voca posizione di Antioco e la diffusione afilosofica del suo insegna- mento nella cultura romana. 

 

Secondo Fozio, Enesidemo avrebbe dedi- cato i Discorsi pirroniani "a un certo suo collega accademico, di nome Tuberone, romano di nascita, di famiglia illustre, che aveva avuto ma- gistrature civili non volgari" (Fozio, Myr., 169b). 

 

A parte un Tu- 2 

 

Di Enesidemo sappiamo che nacque a Cnosso, nell'isola di Creta, che insegnò ad Alessandria, e che scrisse un'opera intitolata Discorsi pi"oniani, di cui abbiamo un sunto nel Myriobiblon (o Bibliotheca,Bt(3Àto~~x-~) di Fozio (Fozio dice Enesidemo na- tivo d.i Egea). 

 

Fozio dice anche che Enesidemo dedica il suo saggio a un certo Tuberone, uomo noto per famiglia e per cariche. 

 

Sulla questione dell'epoca in ctJi sarebbe vissuto Enesidemo (il 1 sec. a. C. o il 1 sec. d. C.) cfr. sopra nel testo. 

 

Altri titoli di opere perdute di Enesidemo sono: Contro la saggezza, Intorno alla ricerca, Schizzo introduttivo al pir- ronismo, Elementi, Prima introduzione. 

 

Si veda nel testo anche la questione dei discepoli di Enesidemo (Zeucsippo di Poli, Zeucsis, Antioco di Laodicea, Apelle), insieme al problema della loro cronologia ed a quella di Agrippa, di cui non abbiamo alcuna notizia biografica.  179   

 

Tiberone piu antico, della illustre famiglia conosciamo Lucio Elio Tu- berone, amico di Cicerone, legato di Q. Cicerone (proconsole in Asia nel 61-58), culturalmente vicino all'ambiente ciceroniano, e il figlio di Lucio, Quinto Elio Tuberone, che,' insieme con il padre, fu pompeiano e avversario di Cesare, ma che, riconciliatosì con Cesare, abbandonata la diretta vita politica, visse in Roma, occupandosi di studi storici, fin verso la fine del 1 secolo. 

 

Nulla vieta di pensare che il Tuberone cui fa cenno Fozio sia Quinto Elio, che, vissuto nell'ambiente ciceroniano, poteva benissimo essere considerato accademico, ma che poi, anche per influenza di Enesidemo, avrebbe potuto liberarsi dall'Accademia stessa, divenuta eccessivamente dogmatica e stoi- cheggiante. 

 

In effetto, dal lucido sunto che Fozio dà degli otto libri dei Discorsi pirroniani appare con chiarezza che la polemica di Enesi- demo è soprattutto volta contro i neo-accademici, "stoici contro altri stoici" (Pozio, cit.), in un appello al pirronismo, quale termine ideale di un piu serio e consapevole modo di ~osofare, volto non tanto alla costruzione di una qualsivoglia concezione della realtà, ma alla com- prensione critica delle capacità e delle possibilità umane, in uno studio dei modi mediante cui l'uomo, ciascun uomo, a seconda della sua situazione (fisica e sociale), costituisce una certa concezione che viene poi spacciata per unica e vera. 

 

E di tale atteggiamento che, attraverso la polemica nei confronti della Nuova~Accademia, va oltre la Nuova Accademia, in una radicale e sistematica discussione di ogni cultura conformisticamente cristallizzatasi, è testimonio anche Sesto Empirico, sulla fine del I I secolo d. C. (" Antioco introdusse la Stoà nell'Acca- demia, talché si disse di lui che nell'Accademia trattava la filosofia stoica": Pyrrh. hypot., l, 235). 

 

Sesto Empirico, per altro, distinguendo tra scettici "piu antichi" e scettici "piu recenti" (Pyrrh. hypot., I, 36, 164), sostiene che spetta ai piu antichi di avere classificato dieci modi (tropi) mediante cui non si può nòn giungere alla "sospensione del giudizio" (cit., I, 36), mentre spetta ai piu recenti di averne clas- sificati cinque (cit., l, 164). E siccome altrove Sesto afferma (Adv. math., I, 345) di avere esposto nelle lpotiposi pirroniane i dieci tropi "secondo Enesidemo," si è di qui arguito che Sesto ponga Enesidemo tra gli scettici piu antichi. 

 

Una testimonianza di Aristocle pone, invece, Enesidemo tra i pensatori "recenti" (in Eusebio, Praep. ev., XIV, 18, 22). 

 

Questo e la constatazione che Cicerone non citi Enesidemo (un testo del Lucullus, X, 32, tuttavia, è sembrato al Couissin, Le stoicisme de la nouvelle Académie, p. 263, un accenno, anche ·se sprezzante, alla posizione di Enesidemo) hanno messo in dubbio l'epoca in cui Enesidemo sarebbe vissuto (primo secolo avanti 180    o primo secolo d. C.?). 

 

Che Cicerone non citi Enesidemo è sembrato grave allo Zeller, il.quale sottolinea che Cicerone, molto vicino ai neoaccademici Filone di Larissa, Antioco di Ascalona e a Lucio Elio Tuberone, cui Enesidemo dedica i Discorsi, avrebbe dovuto discutere il pirronismo di Enesidemo, mentre invece afferma che il pirronismo era da tempo passato (De Oratore, III, 62). 

 

Si può, d'altra parte, far l'ipotesi che Cicerone, come non cita Lucrezio riducendolo al piu an- tico epicureismo, cosi si sgombri il terreno da Enesidemo che discute la validità scientifica del "probabilismo," mediante cui Cicerone riprende la concezione generale dello stoicismo, riducendo Enesidemo ai piu antichi pirroniani. 

 

Non solo, ma bisognerebbe essere sicuri che il Tuberone di cui parla Fozio sia Lucio Elio e non, invece, il figlio Quinto Elio (Fozio non precisa), perché in tal caso i Discorsi pirro- niani potrebbero essere stati scritti dopo la morte di Cicerone. 

 

Quanto, infine, al "recente" di Aristocle e all'"antico" di Sesto (ma, in fondo, quel "piu antichi" è molto generico e sta ad indicare la conclusione di un processo di sistemazione dei tropi scettici, rispetto ad altre piu recenti sistemazioni, tanto è vero che Sesto non fa nessun nome, mentre cita, Pyrrh. hypot., I, 180-181, Enesidemo per dire che suoi sono gli otto tropi mediante cui sovvertire i ragionamenti intesi a spie- gare le cause, su cui si fonda la superbia dei dogmatici), si è giusta· mente pensato che Enesidemo "avrebbe potuto apparire recente ad Aristocle che lo raffronta con Pirrone e antico a Sesto che lo raffronta con filosofi a lui posteriori" (M. Dal Pra, Lo scetticismo greco, Milano, p. 278). 

 

I Discorsi pirroniani sembra, dunque, che siano stati scritti nella seconda metà del 1 secolo a. C. Essi rinnovano, in un'atmosfera cul- turale, adagiatasi, attraverso Antioco e Cicerone, in una generica concezione stoico-platonica, accettata dogmaticamente come sfondo di una cultura comune e conformisticamente scolastica, anche se posta da al- cuni come verità "probabile," una corrente scettica (come atteggia- mento critico che " a ogni ragione oppone una ragione di egual valore": Sesto, Pyrrh. hypot., l, 8, "senza dogmatizzare, nel significato che altri dànno alla parola dogma, cioè assentire a qualcuna delle cose che sono oscure e formano oggetto di ricerca da parte delle scienze": Sesto, cit., I, 13), che non si sarebbe mai spenta é che, secondo Diogene Laerzio (IX, 115-116), dopo Timone di Fliunte, avrebbe avuto i suoi maggiori rappresentanti in Tolomeo di Cirene, Sarpedonte, Eraclide, dei quali in realtà non sappiamo nulla (Eraclide sarebbe stato maestro di Enesi- demo: ma quale Eraclide, il medico Eraclide di Taranto, il medico Eraclide di Eritrea?).  

 

Ad ogni modo, ammesso ch'Enesidemo sia vissuto piu tardi, bisognerebbe allora sostenere che prima di Filone l'Ebreo già vi fosse stato un pensatore che ha ripreso e diffuso gli antichi argomenti di Pirrone e di Timone, in polemica contro i neoaccademici e lo stoicismo generico, contro il diffuso dogmatismo scolastico. Egli,.tuttavia, trasportando questi elementi su di un piano gnoseologico e logico, piu vicino a Carneade e ad Arcesilao che non a Pirrone, avrebbe criticamente ordinato i tropi (dei cosiddetti tropi di Enesidemo in Filone ne rintracciamo almeno otto), mediante cui mostrare la necessità della "sospensione del giudizio" (epochè), anche nei confronti del "probabilismo," forse praticamente e politicamente utile, ma teoreticamente e scientificamente un compromesso, al servizio dello stesso stoicismo, tropi, che come furono ripresi da Filone l'Ebreo, sarebbero stati ripresi e organicamente sistemati da Enesidemo, anche se con un fine assai diverso. 

 

In effetto, sia attraverso Filone l'Ebreo, sia attraverso il sunto che degli otto libri dei Discorsi pirroniani dà Fozio, sia attraverso ciò che di Enesidemo dice Sesto Empirico (anche Diogene Laerzio), ricaviamo che sulla fine del I secolo a. C. e sul principio del I d. C., come da un lato si venivano compilando le "summe" del sapere stoico, platonico, aristotelico, o piu generici manuali ove si delineavano concezioni d'insieme, cosi, dall'altro lato, si vennero ordinando in un complesso organico gli argomenti propri alla tradizione scettica, che, appunto, di contro alle evasioni ed alle acritiche costruzioni di certo stoicismo platonizzante e aristotelizzante, dimentico dei piu complessi e scientifici problemi di logica e di gnoseologia, rappresenta l'aspetto piu scientifico e validamente filosofico di quest'età. 

 

"In origine, lo Scetticismo mirava," ha scritto il Robin, "alla salute nella saggezza; ma ·a poco a poco la sua dialettica assunse un signi- ficato prevalentemente metodologico... Analisi rigorosa e infaticabil- mente esauriente di tutti gli aspetti di un problema; abilità dialettica senza pari; probità intrattabile di uno spirito ché rifiuta d'ingannarsi da sé; risoluta ostilità contro la teoria e gli apriorismi di qualsiasi genere; rispetto del fatto puro, insieme con la sollecitudine di notarne scrupolosamente le relazioni e di utilizzarlo per la pràtica.

 

In origine il suo metodo era una discipìina morale, il cui fine era la tranquillità dell'animo; in seguito, fu anche, e soprattutto, una disciplina dello spi- rito scientifico. 

 

Mai si atteggiò a ribelle, né cercò lo scandalo; l'umiltà del suo quietismo gli fece accettare la vita qual è; il suo rispetto del fatto lo condusse a trattare i fatti collettivi, costumanze e leggi, alla stregua di fatti naturali. 

 

Di fronte all'intolleranza dottrinale ed alla tirannide dei pregiudizi di scuola, il suo atteggiamento critico espresse uno sforzo audace per rendere autonoma la scienza, chiedendole di applicarsi soltanto a detèrminare con rigore i suoi procedimenti tecnici, in vista della pratica utile" (Robin, La pensée grecque et les origines de l'esprit scientifique, trad. it. Storia del pensiero greco, Milano, pp. 553, 554-55). 

 

Tale il nerbo delle argomentazioni di Enesidemo, che, di contro all'atteggiamento platonico-stoico, cui con Antioco di Ascalona si era risolta l'Accademia di Arcesilao e di Carneade, si appella al primo scetticismo pirroniano, anche se, in effetto, la sua istanza critica assume un ben diverso colorito svolgendosi sul piano dell'indagine critica delle condizioni che permettono il giudizio, in un'analisi del linguaggio filo- sofico e in una discussione della liceità del passaggio dal discorso umano (che può essere molteplice e di volta in volta diverso) al discorso dd tutto. 

 

Non a caso Enesidemo ripercorre criticamente le tappe su cui si fonda il "criterio" stoico. Innanzi tutto, pur ammesso che i dati del giudizio siano la presenza alla coscienza delle impressioni, proprio perché nulla giustifica l'affer- mazione che l'impressione, l'apparire (fenomeno) alla coscienza di qualcosa corrisponda ad una presunta cosa in sé quale è in sé, né che l'una impressione sia piu vera dell'altra - ogni animale, ogni uomo può avere impressioni diverse, anche a seconda della sua costituzione fisica, -'- nulla giustifica che il giudizio, o come affermazione o nega- zione di una rappresentazione - tenendo presente che ogni rappresentazione presa a sé non è un giudizio, per cui ciascuna non è né vera né falsa, - o come discorso fra le rappresentazioni, corrisponda all'oggetto che ci rappresentiamo o allo strutturarsi della realtà in rap- porti di inerenza. 

 

Di qui scaturisce la critica sia alla logica propo- sizionale di tipo stoico (in cui l'uso predicativo dell'essere sarebbe dovuto ad un rapporto di identità) sia all'analitica di tipo aristotelico (in cui l'uso predicativo dell'essere sarebbe dovuto;~ un rapporto di inerenza). I celebri dieci. tropi, che sembrano elaborati da Enesidemo, sono diretti, appunto, a determinare che le impressioni in quanto tali non sono giudizi, che è dubbio corrispondano all'oggetto rappresentato, e che, pertanto, neppure servono come dati del discorso, né in senso aristotelico, perché dovremmo prima ammettere un rapporto di ine- renza reale tra il soggetto e il predicato, rispondenti a oggetti per sé, né in senso stoico perché dovremmo prima ammettere che, almeno nel· l'uomo, in tutti gli uomini, la rappresentazione a richiama sempre la rappresentazione b e cos1 via.  

 

Dagli scettici piu antichi - scrive Sesto Empirico - sono comunemente tramandati i dieci modi [tropi], per mezzo <{ei quali pare effettuarsi la sospensione del giudizio [epochè], che chiamano anche, con vocaboli sino- nimi, regole [16goi] e figure [t6poi]. E si riferiscono: l) alla varietà che si nota negli animali; 2) alle differenze che si riscontrano negli uomini; 3) alle diverse costituzioni dei sensi; 4) alle circostanze; 5) alle posizioni, agl'intervalli, ai luoghi; 6) alle mescolanze; 7) alle quantità e composizioni degli oggetti; 8) alla relazione; 9) al verificarsi continuamente o di rado; IO) alle istituzioni, costumanze, leggi, credenze favolose e opinioni dogma- tiche. 

 

Accettiamo questa serie dandole un.valore convenzionale... Dicevamo essere la prima regola quella secondo la quale le stesse cose non producono le medesime rappresentazioni sensibili, in conseguenza della differenza degli animali. Questo lo deduciamo dal modo differente del loro generarsi e dalla differente costituzione dei loro corpi... Se le medesime cose appaiono dif- ferenti ai differenti animali, potremo, sf, dire quale noi percepiamo l'og- getto; ma quale esso sia in realà, ci asterremo dal giudicare (Pyrrh. hypot., I, 36-78; cfr. anche Filone l'Ebreo, De ebrietate, 170-171; Diogene Laerzio, IX, 79-80)... Il secondo modo, come dicevamo, riguarda le differenze che si riscontrano negli uomini. Infatti, anche se, per ipotesi, si ammette che gli uomini sono piu degni di fede degli anÌir'..ali, troveremo che si arriva alla sospensione del giudizio pure per quanto si riferisce alle differenze che sono tra di noi. Delle due parti di cui si dice che consta l'uomo, anima e corpo, per l'una e per l'altra· noi differiamo l'una dall'altro.

 

Pertanto è necessario, anche in forza delle differenze che sono tra gli uomini, arrivare alla sospensione del giudizio (Pyrrh. hypot., l, 79-89; cfr. anche Filone l'Ebreo, De ebrietate, 175 sgg.; Diogene Laerzio, IX, 80-81). Terzo modo è quello che dicevamo riferirsi alla diversità delle sensazioni. Che le sensa- zioni differiscano tra loro è manifesto.

 

Ciascuno dei fenomeni sensibili impressiona variamente. i nostri sensi; cosi la mela ci si mostra liscia, profu- mata, dolce, gialla. t oscuto; pertanto, se essa possieda, effettivamente, que- ste sole qualità, o se possieda una qualità unica e.ci appaia differentemente in conformità della differente costituzione degli organi del senso, oppure se possiede piu qualità di quelle che app~ono, e alcune non cadano sotto i nostri sensi (Py"h. hypot., I, 9I-95; anche Diogene Laerzio, IX, 81).

 

Il quarto modo è quello che si denomina dalle circostanze (chiamiamo cir- costanze i diversi modi di essere). E diciamo ch'esso va considerato nel fatto di trovarci in uno stato naturale o innaturale, nell'essere svegli o addor- mentati, in rapporto all'età, all'essere in moto o in quiete, all'odiare o amare, al versare nell'indigenza o esser sazi, all'essere ubriachi o sobri, alle predisposizioni, all'essere coraggiosi o paurosi, addolorati o contenti.

 

Noi assentiamo maggiormente a ciò che ci sta davanti e c'impressiona nel pre- sente, che a ciò che non ci sta davanti... t impossibile dirimere questa discre- panza di rappresentazioni. 

 

E invero, chi preferisce una rappresentazione a un'altra, una circostanza a un'altra, o lo fa senza giudicare e dimostrare, o giudicando e dimostrando. 

 

Ma non lo può fare n~ con l'intervento né senza l'intervento di un giudizio o di una dimostrazione: in questo secondo caso non sarebbe degno di fede. Se recherà un giudizio sulle rappresenta- zioni, lo farà, indubbiamente, sulla base di un criterio. 

 

Ora questo criterio egli dir~ che è vero o falso; se falso, egli non meriterà fede; se, invece, dirà che è vero, o affermerà che il criterio è vero senza recare una dimostra- zione, oppure lo sosterrà in base ad una dimostrazione. Se lo affermerà senza recare dimostrazione, non meriterà fede; se in base a una dimostra- zione, sar~ assoll'tamente necessario che anche la dimostrazione sia vera, se no, non meriter~ feè~. Ora dirà egli la vera dimostrazione assunta per la conferma del criterio, in seguito a un giudizio o senza di questo? 

 

Se senza, non meriterà fede; se in seguito a un giudizio, è manifesto ch'egli dir~ di aver giudicato in base ad un criterio, del quale criterio cercheremo la dimostrazione e il criterio di questa, poiché sempre la dimostrazione, per essere confermata, avrà bisogno di un criterio, e il criterio avrà bisogno di una dimostrazione, per essere dimostrato vero; né la dimostrazione può essere vera, se non è preceduta da un criterio vero, né il criterio può essere vero, se la dimostrazione non è riuscita, prima, a convincere. Cosi, criterio e dimostrazione cadono nel diallele, in cui si scopre che né l'uno né l'altra meritano fede: l'uno, infatti, attendendo conferma dall'altra, e questa da quello, resta che entrambi non meritino, ugualmente, fede. Se, pertanto, né senza dimostrazione e criterio, né in base a questi può uno preferire rap- presentazione a rappresentazione, non sarà possibile decidere tra le rappre- sentazioni sensibili, che sono differenti secondo le differenti disposizioni. Talché, anche per quanto si riferisce a questo modo, si arriva alla sospen- sione del giudizio sulla natura degli oggetti esteriori (Pyrrh. hypot., l, 100-117; anche Filone l'Ebreo, De ebrietate, 178 sgg.; Diogene Laerzio, IX, 82). 

 

Il quinto modo è quello che si riferisce alle posizioni, agl'intervalli e ai luoghi; e invero, secondo ciascuno di questi, le stesse cose appaiono differenti... Ora, poiché tutti i fenomeni si percepiscono in un dato luogo, a una tale distanza, in data posizione, onde deriva una grande differenza nelle rispettive rappresentazioni sensibili..., necessariamente, anche per questo modo, riusciremo alla sospensione del giudizio (Pyrrh. hypot., l, 118 sgg.; anche Filone l'Ebreo, De ebriet., 181 sgg.; Diogene Laerzio, IX, 85-86, che dà questo tropo come settimo)... 

 

Il sesto modo è quello che si riferisce alle mescolanze, per il quale si conclude che, poiché nessuno degli oggetti cade sotto i nostri sensi di per sé solo, ma insieme con qualche altra cosa, forse è possibile dire quale sia la mescolanza formata dall'oggetto esteriore e dall'altra cosa insieme a cui viene percepito, ma non potremo dire quale sia l'oggetto esteriore nella sua realtà pura... A causa delle mescolanz_e, i sensi non percepiscono quali siano, esattamente, gli oggetti esteriori. E nemmeno l'intelletto, perché i sensi, sue guide, lo ingannano. Ma forse lo stesso intelletto effettua una sua propria mescolanza nell'intendere ciò che viene annunziato dai sensi (Pyrrh. hypot., l, 124-127; cfr. Diogene Laerzio, IX, 84-85, che dà questo tropo come sesto)... 

 

Il settimo modo è quello che si riferisce alla quantità e costituzione degli oggetti, intendendo comunemente per costituzione, la composizione. Che anche per questo modo si sia co- stretti a sospendere il giudizio intorno alla natura reale delle cose, è mani-  185   festo. Per esempio, la raschiatura di corno caprino, guardata cosi sem- plicemente, fuori del composto, appare bianca, guardata, invece, nel com- posto del corno appare nera... Il rapporto quantitativo e costitutivo confonde la percezione della realtà esteriore (Pyrrh. hY,pot., l, 129 sgg.; anche Filone l'Ebreo, De ebrietate, 189 sgg.; Diogene Laerzio, IX, 86, che dà questo tropo come ottavo)... L'ottavo modo è quello della relazione, e per esso in- feriamo che, tutto essendo relativo, noi dovremo sospendere il giudizio sulla reale natura delle cose. 

 

Bisogna notare che anche qui, come altrove, noi adoperiamo la voce "è," in luogo di "appare," intendendo dire, appunto: "tutto appare in maniera relativa." Ora questa relatività si afferma in due modi: in un primo modo rìspetto al giudicante (poiché l'oggetto esterno e giuditato appare relativamente al giudicante), in un secondo modo rispetto a quello che si percepisce insieme con l'oggetto, come ciò che è a destra rispetto a ciò che è a sinistra. Come tutto sia relativo, ab- biamo discorso anche precedentemente; cosi, rispetto al giudicante, ab- biamo detto che ogni cosa appare cosi o cosi, relativamente a questo ani- male e a quest'uomo e a questo senso e· a quella tale circostanza. Rispetto a quello che si percepisce insieme con l'oggetto, abbiamo detto che ogni cosa appare cosi o cosi relativamente a questa mescolanza, a questo luogo, a questa composizione, a questa quantità e posizione. 

 

Ma anche con ragio- namento proprio si può concludere che tutto è relativo, in questa maniera. Ciò che è assoluto differisce da ciò che è relativo, oppure no? Se non differisce è anch'esso relativo; se differisce, poiché tutto ciò che differisce è relativo (si dice, infatti, che differisce relativamente a ciò da cui diffe- risce), anche l'assoluto è relativo... Tutto appare relativamente a qualche cosa. Ne segue che dobbiamo sospendere il giudizio intorno alla natura delle cose (Py"h. hypot., l, 135-140; Filone l'Ebreo, De ebrietate, 186 sgg.; Diogene Laerzio, IX, 87-88, che dà questo tropo come decimo)... Il nono modo è quello che concerne gli incontri continui o rari di una cosa... Le cose rare paiono preziose, quelle abituali e abbondanti nient'affatto (Pyrrh. hypot., I, 141, 144; cfr. anche Diogene Laerzio, IX, 87, che dà questo tropo come nono)... Il decimo modo, che ha attinenza, specialmente, con i fatti morali, è quello che si riferisce agl'indirizzi, ai costumi, alle leggi, alle credenze favolose e alle opinioni dogmatiche... Opponiamo ciascuna di queste cose, ora a se stessa, ora a ciascuna delle altre. Per esempio, oppo- niamo costume a costume: alcuni Egiziani tatuano i bambini, noi, invece no... Opponiamo legge a legge: presso i Romani chi ha rinunciato alla sostanza paterna, non paga i debiti del padre, invèce presso i Rodiesi li deve assolutamente pagare... 

 

Opponiamo indirizzo a indirizzo (per indi- rizzo s'intende una scelta di vita o di altro) quando l'indirizzo di Diogene contrapponiamo a quello di Aristippo, o quello dei Laconi a quello degli ltalici. Opponiamo credenza favolosa a credenza favolosa, quando diciamo che talora è Zeus che è denominato il padre degli dèi e degli uomini, talora, invece, Oceano... Le opinioni dogmatiche (accoglimento di qualche cosa, che sembra essere confermata da un ragionamento o da una dimo- strazione) opponiamo le une alle altre, quando diciamo che, secondo alcuni, 186    uno solo è l'elemento delle cose, secondo altri, invece, infiniti sono gli ele- menti; che per gli uni l'anima è mortale, per gli altri immortale; ché per gli uni le cose umane sono governate dalla pro-. v1denza degli dèi, per gli altri questa provvidenza non esiste. [Si opp~ngono poi costumi a leggi; leggi a condotta; costumi a credenze favolose; costumi a opinioni dogma- tiche, e cosi via]... Se tanta discordanza v'è nelle cose, non potremo affer- mare quale sia nella su:~ rc::altà l'oggetto, ma solo quale esso appaia in rap- porto a questo indirizzo, a questa legge, a questo costume, e in rapporto a ciascuno degli altri fatti. Anche per questo è per noi necessario sospen- dere il giudizio... (Pyrrh. hypot., I, 145-163; anche Filone l'Ebreo, D~ ~bri~­ tate, 193 sgg.; Diogene Laerzio, IX, 83-84, che dà questo tropo come quinto). 

 

Secondo Sesto Empirico i dieci tropi possono, in effetto, ridursi a tre ("ci sono tre modi che comprendono tutti questi: quello che di- pende dal giudicante - i primi quattro, poiché ciò che giudica è ani- male o uomo o sensazione o si trova in una qualche circostanza - quello che dipende dal giudicato - il settimo e il decimo, - e un terzo che dipende da entrambi- il quinto, il sesto, l'ottavo e il nono"), e, in ultima analisi, ad uno solo: "a loro volta questi tre si riducono a quello della relazione, talché questo sarebbe il piu generico: gli altri tre, invece, e i dieci, in questi compresi, specifici" (Pyrrh. hipot., I, 38-39). I tropi di Enesidemo non hanno alcuna pretesa positiva. "Abbiamo opposto ai dogmatici ragionamenti che paiono persuasivi, non per assi- curare che siano veri..., ma per condurre alla sospensione, col fare appa- rire l'uguale forza persuasiva di questi discorsi e di quelli dei dogma- tici" (Sesto Empirico, Pyrrh. hypot., Il, 79). Attraverso essi Enesidemo constata che ogni costruzione e ogni discorso che presumono d'essere "veri" e, perciò, unici, basandosi su rappresentazioni, sempre relative e cangianti, e che, dunque, non sono giudizi, ma puri enunciati, non sono in sé né veri né falsi. 

 

Sono sempre costruzioni e discorsi, validi "storicamente," insignificanti e senza senso teoreticamente, donde l'im- possibilità di un sapere assoluto. Tutta la difficoltà - insormontabile - sta nel dubbio che la rappresentazione, o idea, che è tale in quanto sia "parola" significante un'affezione, corrisponda a ciò di cui è rappre- sentazione e parola, per cui, poi, lo stesso discorso, in quanto articola- zione di rappresentazioni, è dubbio che corrisponda al discorso della realtà, tanto piu che sia il "senso," fonte delle rappresentazioni, sia la "ragione" (l6gos), intesa come attività unificatrice e giudicatrice del complesso dei "veri" (enunciati), afferrante la "verità," dovrebbero prima giustificare se stessi, trovare cioè in sé il criterio per cui si può essere certi del "vero" e della "verità." E qui va tenuto presente che la polemica si rivolge al concetto che di "vero" era stato sostenuto dagli stoici, cioè nei confronti del Vi!'ro inteso come munciato (incor- poreo), distinto dalla verità, intesa come scienza avente in sé il com- plesso dei veri, e dovuta all'attività egemonica (razionale), che è cor- porea (cfr. Sesto Empirico, Pyrrh. hypot., Il, 80-84). 

 

Resta, perciò, dubbia qualsiasi tesi sulla struttura della realtà, e, pur a.ttunessa una qualsivoglia realtà, resta in dubbio sia il vero sia la verità. L'uomo non ha altro mediante cui giudicare... se non il senso e l'intel- letto...: solo che i sensi non comprendono gli oggetti esterni, ma, se mai, solo le proprie af!ezioni, e la rappresentazione dunque sarà dell'af!ezione del senso, che differisce dall'oggetto. E poi i sensi sono impressionati i n modi opposti dagli oggetti: ora, ciò che è discorde e contrastante non è criterio, ma ha bisogno esso di un giudice... (Sesto Empirico, Pyrrh. hypot., II, 48, 73-74; Adv. math., VII, 346). E quanto all'intelletto: donde saprà se le af!ezioni del senso siano simili agli oggetti sentiti, non imbattendosi mai con oggetti esterni né rivelandogliene i sensi la natura, ma solo le proprie af!ezioni?... Non solo, ma se neppure vede se stesso esattamente, ma è in divergenza sulla propria essenza, il modo della generazione, il luogo in cui è, come potrebbe comprendere con esattezza alcun che d'altro?... Essendoci tante divergenze sull'intelletto..., se osiamo giudicare con u n intelletto... togliamo via l'oggetto·della ricerca: se con altro, non è piu vero che con l'intelletto s'abbiano a giudicare le cose (Pyrrh. hypot., II, 73-74, 57-60). 

 

Enesidemo, poi, propone anche le seguenti aporie. Se vi è qualcosa di vero o è sensibile (atla31yt6v) o intelligibile (vo'l)'t'6v), o intelligibile e sensibile, oppure né sensibile né intelligibile, né l'una cosa e l'altra ad un tempo... Che non vi sia il sensibile cosi lo argomentiamo: dei, sensibili alcune cose sono generi, altre, invece, aspetti singoli (c(3Tj); i generi sono qualità comuni inerenti ai singoli oggetti, si come certe qualità deij'uomo ineriscono ai singoli uomini e certe qualità del cavallo ai singoli cavalli; gli aspetti sono proprietà dei singoli, come di Dione, di Teone, di altri. Se, dunque, il sensibile è vero, ciò sarà af!atto comune ai molti, o insito in ciò che è proprio,dei singoli; solo che non può essere né comune né inerente alla proprietà, per cui il vero non è sc;nsibile. Inoltre, come ciò che è visibile può essere compreso con la visione, e l'udibile è conosciuto con l'udito, l'odorabile con l'odorato, cosi anche il sensibile si conosce con il senso. Il vero non si conosce comunemente con il senso: il senso è infatti arazionale (~Àoyo<;), e il vero non si conosce senza la ragione, onde il vero non è sensibile. Ma neppure è intelligibile, ché nulla sarà vero dei sensibili, il che è, di nuovo, un assurdo. Infatti, o l'intelligi- bile potrà essere percepito comunemente da tutti o individualmente da alcuni. 

 

Ma non può accadere che il vero sia percepito intelligibilmente da tutti in forma comune, né da alcuni individualmente: non può essere in nessun modo compreso da tutti comunemente e se compreso individual- mente da uno o da altri, ciò non è degno di fede ed è oggetto di contestazione. Il vero, dunque, non è intelligibile. Ma neppure è, ad un tempo, sensibile e intelligibile: il vero è o affatto sensibile e affatto intelligibile, o in parte sensibile e in parte intelligibile. Ma dire che il vero è affatto sen- sibile e affatto intelligibile, è cosa che non può avvenire: i sensibili sono, infatti, in contrasto con i sensibili, gl'intelligibili con gl'intelligibili, e, vice- versa, i sensibili con gl'intelligibili e gl'intelligibili con i sensibili, e sarà necessario se tutte le cose sono vere, che ogni cosa sia e non sia, sia vera e sia falsa, per cui, di nuovo, bisognerà ritenere che sia un'aporia affermare che parte del sensibile sia vero e che vero sia parte dell'intelligibile. Ci si domanda, infatti, se sia non contraddittorio dire che tutte le cose vere o tutte le cose false siano sensibili: sono ugualmente sensibili e non una di piu l'altra di meno. E, cosi, ugualmente intelligibili sono gl'intelligibili, e non uno piu l'altro di meno. Non solo, ma non tutti i sensibili possono essere detti veri, né tutti falsi. Non vi è, dunque, il vero... (Sesto Empi- rico, Adv. math., VIII, 40, 48). 

 

In altri termini, ogni definizione (enunciato) e ogni discorso, che presumano significare l'essenza e il discorso della realtà, sono, in effetto, insignificanti, senza senso, sono cioè non giudizi (di qui la "sospensione," l'epochè). 

 

Da questa serie di argomentazioni (i dieci tropi, le aporie sul "vero"), che Fozio nel suo sunto dei Discorsi pi"oniani, dice facevano parte dei primi tre libri, si vede bene come Enesidemo passi ad altre due serie di argomentazioni: le prime volte a mostrare l'impossibilità di giungere alle cause per via indiretta, ossia mediante i segni, giungendo cioè a porre le cause attraverso i fenomeni significanti quelle cause stesse, ché non v'è criterio per cogliere la coincidenza tra significante e significato, ch'era, com'è noto (cfr. I vol.), un grosso pro- blema a lungo discusso nella scuola stoica ("nel quarto libro Enesi- demo mette in discussione i segni delle cose oscure...": Fozio, cit.); le seconde (che Sesto Empirico raccoglie in otto trop•) volte a sovvertire i ragionamenti intesi a spiegare le cause per via diretta ("nel quinto libro... propone argomenti per dubitare delle cause, dicendo che nes- suna cosa è causa dell'altra...": Fozio, cit.). Nell'una e nell'altra serie di argomentazioni è evidente la critica non solo al passaggio proprio degli stoici dal logico all'antico, ma anche il passaggio dal visibile all'invisibile proprio dell'ipotesi atomistica dell'epicureismo. 

 

Già in Crisippo la dottrina dei segni si prestava a una doppia interpretazione.

 

Posto che l'impressione non è un puro calco che direttamente stampa nell'anima l'immagine della cosa, ma che ogni rappresentazione è una modificazione, che ci a.fferra a seconda della sua evidenza, e a cui diamo l'assenso, non tanto perché corrisponde o meno all'oggetto (che già dovremmo conoscere per sapere se corrisponda o no all'impressione). ma in quanto fortemente presente, ogni rappresentazione è un segno, da un lato "rammemorante" una impres- sione, dall'altro lato "rammemorante," data quella rappresentazione, altra rappresentazione, che si lega alla prima (" rammemorativo è quel segno che, osservato già insieme con il significato, per esserci dato insieme con tutta evidenza... ci conduce al ricordo della cosa osservata insieme, che ora non ci si dia con evidenza, com'è del fumo e del fuoco, vedendo una ferita si dice che c'è stata una ferita": Sesto Empirico, Pyrrh. hypot., Il, 97-102). Sotto questo aspetto, la dottrina del segno poteva sfociare in una chiara " logica proposizionale" e scientificamente in una ricerca fondata, appunto, sui segni rammemorativi (come av- venne per l'indirizzo medico ~mpirico e metodico, ai quali, piu tardi, si rifecero proprio gli scettici), ove la veracità o meno del discorso non presume affatto significare il discorso stesso della realtà. 

 

Non possiamo dire se già in Crisippo (cfr. I vol.), ma; certo, subito dopo di lui, nella scuola stoica la rappresentazione venne interpretata in quanto segno indicativo dell'oggetto stesso, rispecchiante l'oggetto che ha provocato l'impressione; non solo, perciò, lo stesso discorso significherebbe il di- scorso della realtà, ma una impressione-rappresentazione verrebbe a significare, per analogia, una verità nascosta di cui non si è avuta im- pressione, una cosa oscura per natura, da cui, gradatamente si giunge a porre cause e principi primi ("indicativo, invece, dicono il segno non osservato insieme con la cosa designata in maniera evidente, ma che per la propria natura e costituzione segnala ciò di cui è segno: cos~, per esempio, i movimenti del corpo sono segni dell'anima": Sesto Empirico, Pyrrh. hypot., Il, 101). È chiaro che la critica degli scettici piuttosto che all'interpretazione del "segno" come rammemorante, si rivolgesse al segno interpretato come indicativo e significante da un lato la cosa per sé, dall'altro lato la causa e la causa dèlla causa. 

 

Noi ~ dirà Sesto Empirico - non parliamo contro ogni segno, ma solo contro l'indicativo, come quello che sembra essere state inventato dai dogmatici (Pyrrh. hypot., Il, 102)... Il segno indicativo è inconcepibile, poiché dicono che è relativo al significato e-mdatore di esso. Se è rela- tivo deve assolutamente esser compreso insieme con il significato, come il sinistro con il destro, il sopra con il sotto, ecc. Se invece è rivelatore del significato, deve assolutamente esser compreso prima di esso, perché, conosciuto prima, possa poi condurci alla conoscenza della cosa resa nota da lui. 

 

Ma è impossibile conoscere una cosa, che non può essere conosciuta prima di quella, per mezzo della quale dovrebbe invece essere compresa: impossibile quindi concepire un relativo, che sia anche rivelatore della cosa relativamente alla quale si concepisce... Impossibile dunque concepire il segno indicativo... (Pyrrh. hypot., II, 118-120).. Sembra che questa già fosse stata la critica di Enesidemo, se Sesto Empirico (cfr. Adv. math., VIII, 49 sgg.) può sostenere che Enesidemo a coloro che affermavano che la causa si coglie non attraverso i sensi immediatamente, ma per analogia attraverso i segni indicativi, rispon- deva che ciò è contraddittorio, posto che la rappresentazione è dall'im- pressione, ché mai si può avere rappresentazione di ciò di cui non vi è impressione; poiché, d'altra parte, questa o quell'impressione non modifica tutti allo stesso modo, pur dando valore al segno rammemo- rativo, resta in dubbio la sua universalità, su cui si fonda la pretesa ch'esso segno indichi e significhi l'universalità oggettiva delle conse- cuzioni. 

 

In realtà - obbietta lo scettico - il segno è solo un fatto che ne ricorda un altro di cui è stato in passato il concomitante (passato) o ce ne fa aspettare un altro (futuro) (cfr. L. Robin, cit., p. 553), senza pretendere ad alcuna verità. Enesidemo, nel IV libro dei Discorsi pirroniani cosi dice: se le rappre- sentazioni delle cose [fenomeni] ugualmente appaiono a tutti coloro che sono stati ugualmente modificati e i segni indicano quelle attuali rappre- sentazioni, è necessario che anche i segni appaiano a tutti coloro che sono ugualmente modificati. Ma i segni non appaiono ugualmente a tutti coloro ugualmente modificati, per cui i segni non sono segni delle rappresenta- zioni (Sesto Empirico, A d v. math., VIII, 215 sgg.). La critica scettica si rivolge cosi all'illusione che l'argomentazione per analogia abbia validità scientifica sul piano della verità oggettiva, si rivolge cioè alla gratuita trasformazione di una constatata "conse- cuzione" in una concatenazione causale risalente a ipotetiche cause prime per sé, agenti e costituenti la realtà. 

 

Di qui gli otto tropi di Enesidemo mediante cui mettere in dubbio la possibilità di passare dai dati dell'esperienza alla loro causa di cui non si ha affatto espe- rienza, per, poi, viceversa dimostrare i dati mediante quelle cause. Come enunciamo i modi della SO)ipensione del giudizio, cosi, anche, alcuni espongono i · modi, per i quali, dubitando delle spiegazioni delle cause particolari, si arresta la superbia dei dogmatici, dovuta, particolar- mente, a queste spiegazioni. Enesidemo insegna a tal proposito otto modi, per i quali, confutando qualunque dogmatica spiegazione di cause, egli crede di farla apparire difettosa. 

 

E sono, secondo lui: l) quello per il quale il genere della spiegazione della causa, aggirandosi tra le cose che non cadono sotto i sensi, non ha una conferma palese dalle cose che cadono sotto i sensi; 2) quello per il quale, essendo largamente consentito di spie- gare in molte maniere la causa cercata, alcuni la spiegano in una maniera sola; 3) quello per il quale di fatti che accadono ~on un ordine, adducono cause che non ammettono ordine alcuno; 4) quello per il quale, percependo come accadono le cose sensibili, credono di aver percepito, anche, come accadano quelle che non cadono sotto i sensi, mentre le cose che non cadono sotto i sensi, forse, si compiono in modo uguale alle cose sensibili, e, forse, in modo non uguale, ma proprio e distinto; 5) quello per cui tutti, per cosf dire, spiegano le cause seguendo ce~e loro proprie ipotesi intorno agli elementi primi, piuttosto che una via comunemente ammessa e accettata; 6) quello per cui spesso accolgono quello che si spiega con le loro proprie ipotesi, tralasciando quello che è contrario ed ha la medesima forza di persuasione; 7) quello per cui spesso adducono delle cause che contrastano, non solo con i fenomeni, ma anche con le loro proprie ipotesi; 8) quello per cui spesso, essendo ugualmente incerto e quello che sembra· apparire in un dato modo e quello che è oggetto dell'indagine, sulla base di nozioni incerte costruiscono le loro dottrine ugualmente incerte. Soggiunge, poi, che non è impossibile che alcuni, nel rendere ·ragione delle cause, falliscano secondo altri modi misti, dipendenti da quelli che abbiamo enumerali (Sesto Empirico, Pyrrh. hypot., l, 180-184). 

 

Se mediante gli otto tropi, riferiti da Sesto come propri di Enesi- demo, è messa in discussione la possibilità dell'inferenza dall'effetto alla causa - ed è evidente qui la polemica non solo contro gli Stoici, ma anche contro l'epicureismo e l'induzione aristotelica, - per cui si giunge alla sospensione del giudizio anche relativamente alle cause, tanto piu semplice diveniva ora la discussione che <;onduce al dubbio sulla possibilità di spiegare gli effetti, partendo da cause che pur si sono dimostrate puramente ipoteùche, di dimostrare che l'una causa possa pro- durre un effetto e che, alla fine, il rapporto di causa ed effetto sia proprio della stessa struttura della realtà e non dovuto ai rapporti ram- memorativi tra le impressioni ricevute. Anche queste sembrano argo- mentazioni svolte da Enesidemo, che Sesto Empirico, il quale appunto cita Enesidemo, approfondisce (Adv. math., IX, 218-266), insieme a tutta una serie di argomentazioni contro la sillogistica aristotelica e la dia- lettica stoica (cfr. Pyrrh. hypot., II, 113-118, 134-166, 199-197; Adv. math., VIII, 300-315, 367. sgg., 391-395; anche Dal Pra, op. cit., pp. 308-312). Veniva di qui, infine, entro i termini della sistemazione in un sol corpo delle argomentazioni degli scettici, la problematica delineata da Enesidemo sulla possibilità di definire l'essenza del Bene e delle con- dizioni che permettono una vita virtuosa (secondo Fozio, cit., del bene e delle virtu Enesidemo parlava negli ultimi libri, VI, VII e VIII, dei suoi Discorsi pirroniani). Secondo Sesto Empirico (Adv. math., X, 42) 192    Enesidemo avrebbe escluso l'esistenza del Bene, almeno nel senso di un bene per sé quale veniva definito dai dogmatici, sostenendo - come risulta da Diogene Laerzio, IX, 107, e da Aristocle, in Eusebio, Praep. ev., XIV, 19, 4 - che il bene, non avendo una sua essenzialità, consiste in uno stato d'animo dovuto alla sospensione del giudizio (Diogene Laer- zio, cit.), che determina un certo piacere (Aristocle, cit.). 

 

Ipoteticamente possibile ogni discorso sull'essenza della realtà (tanto è possibile dire che il fondo della realtà è costituito di atomi, quanto dire che, al limite, sono da porre una materia passiva e un principio attivo), ipoteticamente possibile ogni discorso sull'essenza dd Bene, teoreticamente è da sospendere ogni giudizio sulla realtà e sul bene, cercando, piu umilmente, di non ingannare se stessi e gli altri, ricon- ducendo l'indagine sul piano umano, entro i limiti del mondo e del linguaggio umani. Le conclusioni di Enesidemo tendono a mostrare non tanto che l'una o l'altra concezione filosofica è falsa, ché, allora, si sarebbe dovuto delineare quale fosse la "verità,• ma che tutte le concezioni si dimostrano alla fine indimostrabili, cioè non giudicabili e perciò stesso senza senso, assurde, contraddittorie, qualora pretendano d'imporsi, l'una o l'altra, come "verità," e, quindi, su questo piano, inutili. Certo, entro questo quadro, è difficile vedere come Enesidemo abbia potuto affermare che l"'indirizzo scettico è una via che conduce alla filosofia eraclitea, in quanto," commenta Sesto, "l'apparire dei fatti con- trari circa lo stesso oggetto precede l'esistere di fatti contrari circa lo stesso oggetto, e gli Scettici dicono, appunto, che fatti contrari appaiono intorno allo stesso oggetto, mentre gli Eraclitei, partendo dall'appru;:ire, arrivano anche alloro esistere" (Sesto Empirico, Pyrrh. hypot., l, 210). 

 

Sesto, e si capisce, vede in questo una contraddizione da parte di Ene- sidemo ed esclude assolutamente che una posizione scettica p<)ssa sfo- ciare in una posizione di tipo eracliteo, che, proprio perché pone a fondamento dell'essere il divenire e i contrari, è anch'essa una posi- zione definitoria di una realtà non fenomenica e perciò è una posizione dogmatica. Né Fozio, che riassume i Discorsi pirroniani, né Diogene Laerzio, né Aristocle accennano a una fase eraclitea del pensiero di Enesidemo. Di una posizione dogmatica di Enesidemo (l'anima sepa- rata dal corpo e in esso infusa dopo la nascita, in senso stoico) parla Tertulliano (De anima, 25). Certo un riflesso dell'eraclitismo scettico si trova in Filone l'Ebreo, che sfrutta l'argomento dell'eraclitismo in funzione scettica, ricavandolo, sembra, da Enesidemo. In realtà, di un presunto eraclitismo di Enesidemo parla solo Sesto, che, nel testo sopra citato, dice solo che secondo Enesidemo l'indirizzo scettico poteva ribal- tarsi in una posizione dogmatica di tipo eracliteo, trovandovi un proprio fondamento ontico, e questo sembrerebbe avvenuto piu che in Enesidemo nei seguaci di Enesidemo ("se arrivassero all'asserzione che intorno allo stesso oggetto esistono fatti contrari, partendo da qualcuna delle espressioni scettiche, per esempio 'nessuna cosa si può compren- dere,' oppure, 'niente do per certo,' potrebbe essere vera la conclusione dei seguaci di Enesidemo. Solo che...": Sesto Emp., Py"h. hyp., l, 211). Tuttavia Sesto, in altri testi, anche se. per incidenza, dice come propria di Enesidemo una o altra tesi eraclitea (si veda, ad esempio, A.dv. math., V, 349-50: "segaendo Eraclito, Enesidemo affermava che la dianoia è fuori del corpo"; A.dv. math., X, 216-217: "seguendo Eraclito Enesi- demo disse che il tempo è corpo... Cosi nella Prima Introduzione..."; A.dv. math., X, 233: "Enesidemo dice che per Eraclito l'essere è aria"; cfr. anche IX, 337; VIII, 8), alcune delle quali risultano però piu vicine allo stoicismo·che all'eraclitismo, altre come piu proprie dei seguaci di Enesidemo. D'altra parte lo stesso Sesto non discute quelle tesi eraclitee come facenti parte dì un sol corpo di pensiero, ma, dicevamo, inciden- talmente, come testimonianze di quello che poteva essere l'eraclitismo di Enesidemo. 

 

Non solo, ma Sesto non dice mai che quelle tesi eraclitee fossero svolte da Enesidemo nei Discorsi pi"oniani, mentre una volta accenna a un'altra opera di Enesidemo, per noi perduta, la Prima Introduzione. Tutto ciò ha dato l'avviò a una lunga discussione sull'eraclitismo eli Enesidemo e a una molteplicità di ipotesi. C'è chi ha sostenuto che lo scetticismo di Enesidemo sarebbe sfociato in una posizione dogmatica di tipo eracliteo, o ch'egli avrebbe trovato nell'eraclitismo il fonda- mento dello scetticismo, e c'è chi ha sostenuto che Enesidemo sia pas- sato da una prima fase eraclitea, anch'essa rivelataglisi dogmatica a. una seconda fase accademica, per giungere infine a un accentuatC] scettici- smo, alla "sospensione" definitiva, riallacciandosi alla posizione car- neadiana. Certo, quest'ultima ipotesi (Sesto nelle lpotiposi pi"oniane, l, 210, non dice affatto che Enesidemo sia passato dallo scetticismo all'eraclitismo: cfr. sopra), sostenuta dal Dal Pra (op. cit., pp. 314-330, al quale rimandiamo anche per la minuta esposizione e discussione delle varie ipotesi sostenute: dal Saisset, allo Zeller, al Diels, al Pap- penheim, all'Arnim, allo Hirzel, al Natorp, al Patrick, al Goedeckemeyer, al Brochard, al Capone-Braga), è, forse, la piu probante. 

 

In effetto nulla vieta di pensare che certe tesi eraclitee siano state accettate da Enesidemo non nei Discorsi pi"oniani, ma in altra opera, come appare da Sesto, la quale potrebbe essere stata composta da Enesidemo in età giovanile. A parte l'episodio dell'eraclitismo, sembra; in realtà, ch'Enesidemo, nella sua polemica nei confronti dei "dogmatici," abbia raccolto e siste- 194    mato gli argomenti e i tròpi già delineatisi attraverso l'esposizione che della "sospensione del giudizio" aveva offerto Clitomaco, il discepolo di Carneade, andando sino in fondo, cioè evitando - per non cadere nel possibile dogmatismo della nuova Accademia - il "probabile" e l'"ipotesi"; o l'opzione, per rendere possibile l'azione e il discorso, di una qualche opinione, fondata sul criterio della "probabilità" (dr. s<r pra), Enesidemo cosi poteva dichiarare fallita ogni presunzione della filosofia, costretto, in effetto, a rimanere su tutto in silenzio (afasia), in un ritorno, davvero, all'originaria posizione di Pirrone, che, in realtà, veniva ad essere una critica ed un'analisi del linguaggio. 

 

Duplice è- l'interesse che presenta, storicamente, la posizione di Enesidemo: da un lato, sulla fine del 1 secolo a. C., egli, pienamente innestandosi nell'atmosfera_ culturale di quel tempo, viene sistemando in un corpo unico il complesso dei tropi, delle aporie, dei problemi, propri delle posizioni scettiche, che probabilmente s'erano'già venuti delineando con Tolomeo di Cirene, che avrebbe ripreso le-fila della posizione scettica rifacendosi ad Arcesilao (Diogene Laerziò, IX, 115); dall'altro lato, entro i termini di una certa cultura, oramai, cristallizza- tasi, divenuta patrimonio comune, comune concezione, dogmaticamente accettata, Enesidemo mette in crisi, proprio attraverso la sua stessa sistemazione, quella cultura, quella coni:ezione di fondo. Preso a sé Enesidemo non ha l'importanza che viene ad avere, se considerato entro i termini della cultura quale si er,a venut:t determinando tra la fine del 1 secolo a. C. e il principio del 1 d. C. 

 

E ciò tanto piu sembra esàtto. quando si tenga presente che Enesidemo non fu un fenomeno isolato. Innanzi ttttto sappiamo ch'egli ebbe dei seguaci (ai seguaci di Ene- sidemo, senza farne il nome, accenna anche Sesto Empirico). Di essi fa il nome Diogene Laerzio (Zeucsippo di Poli, Zeucsis, Antioco di Laodicea: IX, 106, 116): non piu che il nome, perché per il resto Dio- gene li allinea tutti sul piano della posizione di Enesidemo, volti tutti, cioè, alla sistemazione dei tropi mediante cui giungere alla sospensione del giudizio, alla constatazione che ogni proposizione che presuma indicare un'essenza o un ne~so di essenze è un non-giudizio, basandosi soltanto sull'esperienza, o meglio sul fenomeno. ' Di Zeucsippo di Poli, nella Locride, non sappiamo nulla. Di Zeucsis, suo seguace, che avrebbe conosciuto l'opera di Enesidemo, Diogene Laerzio (IX, 106) dice che' scrisse un'opera intitolata Duplici discorsi (titolo significativo, già usato, non a caso, da un sofista del v secolo a.C.}, che testimonierebbe un'attività simile a quella di Enesidemo, in una raccolta di ragioni pro e contro questioni molteplici, mediante cui eli- mina~e ogni pretesa di giungere all'affermazione di un'unica verità, e che richiama la definizione data da Sesto Empirico dello scetticismo.

 

Lo scetticismo esplica il suo valore nd contrapporre i fenomeni c le percezioni intellettive in qualsiasi maniera, per cui, in seguito all'ugual forza dei fatti e delle ragioni contrapposte, arriviamo, anzitutto, alla sospen- sione del giudizio, quindi, all'imperturbabilità (Py"h: hypot., I, 8). Di Zeucsis fu, a sua volta, seguace Antioco di Laodicea e di lui un certo Apelle che avrebbe composto un libro, intitolato Agrippa ("Apdle, nd suo Agrippa, e Antioco di Laodicea, pongono solo i feno- meni": Diogene Laerzio, IX, 106). Sappiamo inoltre che la fonte da cui attinge Diogene Laerzio, per ricostruire il pensiero di Timone di Fliunte, fu il grammatico Apollonide di Nicea (dr. Diogene L., IX, 109), che compose un commento ai SiUi di Timone dedicato all'imperatore Tiberio. 

 

Anche questa è una notizia interessante, che dimostra la dif- fusione del rinnovato scetticismo sul principio dd I secolo d.C. e che può essere indicativa dd periodo in cui vissero e operarono i seguaci di Enesidemo. Come sembra (dr. A. Goedeckemeyer, Die Geschichte des griechischen S!(eptizismus, Lipsia, p. 137; anche Dal Pra, op. at., p. 333), Zeucsis e Antioco di Laodicea furono contemporanei di Apollonide di Nicea; infatti, da un lato, Diogene Laerzio (IX, 116) subito dopo Antioco cita Apelle autore di un'opera su Agrippa, e dice che seguace di Antioco di Laodicea fu Menodoto di Nicomedia, che, medico, rifacendosi allo scetticismo dette un fondamento scientifico e metodico alla medicina, in un atteggiamento strettamente empirico, riallacciandosi ai medici della tradizione empirica, vissuti, appunto, nel I secolo d. C., e dall'altro lato sappiamo anche che Menodoto visse tra 1'80 d.C. e il 150 circa. 

 

Cosi, evidentemente, Apelle dovrebbe avere scritto la sua opera entro queste date, per cui dovremmo, anche se approssimativa- mente, collocare l'attività di Agrippa (già noto e che deve avere avuto un'importanza di primo piano sul rinnovato scetticismo, se Apelle de- dicò al suo pensiero un'opera) sulla metà del I secolo d. C. Sesto Empirico non cita mai il nome di Agrippa, anche se ne rife- risce i cinque tropi, che sappiamo essere stati da lui formulati attraverso quanto ne dice Diogene Laerzio (IX, 88-89), che, per altro, attinge nel- l'esposizione dei cinque tropi, a Sesto Empirico. 

 

In realtà Agrippa - ddla cui vita, nascita, luogo di origine, insegnamento, nulla sap- piamo - non avrebbe aggiunto niente di nuovo alle linee fondamen- tali dell'atteggiamento scettico che tra Enesidemo e Agrippa si venne ordinando e, soprattutto, si venne costituendo in un appello alla criticità della ricerca, in un netto rifiuto della filosofia intesa come concezione universale, in una programmatica indagine mediante cui la filosofia viene intesa come metodologia delle condizioni che permettono un pos- sibile sapere. 

 

Sotto questo aspetto si capisce perché Sesto, pur esponendo i cinque modi di Agrippa, o meglio delineando i momenti mediante cui si sono venuti istituendo gli argomenti principali della posizione metodologica, non faccia il nome di Agrippa, e parli, invece, di scettici piu "recenti" rispetto ai "piu antichi," delineando l'arco entro il quale, da Enesidemo ad Agrippa, lo scetticismo ha assunto la sua fisionomia di empirismo critico-logico. I. cinque tropi di Agrippa prendono, in tal senso, un particolare rilievo, ché, con estrema chiarezza, riassumono e sistemano tutto il lavorio di precisazione dei modi con cui rimettere in discussione le conclusioni di una concezione, frutto di tutta una cultura e di una tradizione, con cui rimettere in discussione ogni soluzione metafisica. "Tali modi gli Scettici piu recenti espongono, non già perché respin- gano i dieci, ma per confutare, con maggior verità, con questi e con quelli, la temerità dei dogmatici" (Sesto Empirico, Pyrrh. hypot., 1,177). Gli Scettici piu recenti tramandano questi cinque modi della sospen- sione del giudizio: l) quello che dipende dalla discordanza; 2) quello che rimanda all'infinito; 3) quello che dipende dalla relazione; 4) l'ipotetico; 5) il diallele.

 

Il modo che dipende dalla discordanza è quello per cui troviamo che intorno a una cosa proposta esiste una discordia insolubile, nella vita e nei filosofi; onde, non essendo in grado né di preferire né di resping::re nessuna opinione, finiamo col sospendere il giudizio. Il modo per il quale si cade nell'infinito, è quello in cui ciò che si reca a prova della cosa pro- posta, noi diciamo che ha bisogno, a sua volta, di prova, e questo~ a sua volta, di un'altra prova, all'infinito; si che non avendo noi da dove comin- ciare un'argomentazione, ne consegue la sospensione del giudizio. Il modo che dipende dalla relazione è quello in cui diciamo che l'oggetto ci appare cosi o cosi, in rapporto al giudicante e al resto che insieme con esso oggetto viene. percepito, e ci asteniamo dal giudicare quale esso sia real- mente. Si ha il modo ipotetico, quando i dogrp.atici, rimandati all'infinito, cominciano da qualche cosa che essi non concludono per via di argomen- tazione, ma pretendono di assumere, cosi semplicemente, senza dimostra- zione, per una concessione. 

 

Nasce il diallele, quando ciò che deve con- fermare la cosa cercata, ha bisogno, a sua volta, di essere provato dalla cosa cercata: allora, non potendo assumere nessuno dei due per concludere l'altro, sospendiamo il giudizio intorno ad ambedue (Sesto J!.mpirico, Py"h. hypot., I, 164-169). Il commento piu pertinente sui cinque tropi di Agrippa è quello di Sesto Empirico, che merita il conto di riportare, insieme ai due tropi che Sesto dice elaborazione ultima dovuta sempre agli ~cettici piu recenti. Dice, dunque, il testo relativamente ai cinque tropi:  197   Che ogni ricerca si possa ricondUrre a questi tropi, lo dimostreremo brevemente cosi. La cosa proposta o è sensibile o è intelligibile: qualunque essa sia, v'è intorno ad essa discordanza. Infatti alcuni afferJBjllO che solo il sensibile è vero, altri, solo l'intelligibile, altri, in parte il sensibile, in parte l'intelligibile. Ora che si dice? che questa discordanza è solubile o insolubile? Se insolubile, affermiamo che bisogna sospendere il giudizio, ché intorno a ciò in cui v'è insolubile dissenso, è impossibile pronunciarsi. Se solubile, domandiamo sulla bl!se di che si risolverà. 

 

Cosi, per esempio, il sensibile... si giudicherà sulla base di un sensibile o di un intelligibile? Se sulla base di un sensibile, poiché appunto la nostra ricercà verte sui sensibili, anche questo avrà bisogno di altra cosa che lo comprovi. Se anche questa è seJ:lSibile, a sua volta, essa pure avrà bisogno di un'altra cosa che la comprovi, e cosi all'infinito. Che se il sensibile dovrà essere giudicato sulla base di un intelligibile, poiché anche sugl'intelligibili vi è discordanza, anche questo intelligibile avrà bisogno di giudiziQ e Ji prova. E sulla base di che sarà provato? Se sulla base di un intelligibile, si ricadrà, ugualmente, nell'infinito; se sulla base di un sensibile, poiché a prova di un sensibile è stato assunto un intelligibile, e a prova di Wl intelligibile è stato assunto un sensibile, si induce il diallele. 

 

Se, poi, colui che con noi disputa, per fuggire questa difficoltà, credesse di assumere, per concessione, e senza dimostrazione, qualche cosa, a dimostrazione di ciò che segue, farà capo al modo ipotetico, che non può dare risultato. E invero, se colui che suppone merita fede, noi, anche, supponendo il contrario, non saremo meno degni di fede. Se, poi, colui che suppone, suppone qualche cosa di vero, lo renderà sospetto assumendolo per ipotesi, senza accompagnarlo con una argomentazione; se qualche cosa di falso, il pun- tello dell'argomentazione sarà marcio. 

 

Che se il supporre giova in qualche modo per provare, supponga egli senz'altro ciò che è oggetto dell'indagine, e nòn qualche altra cosa, per mezzo della quale··argomenti quello su cui vette il discorso. Se; invece, è assurdo supporre quello che è oggetto d'in· dagine, sarà assurdo supporre, anche, ciò che lo trascende. Che poi tutti i sensibili siano, anche, relativi, è chiaro: sono, infatti, relativi al senziente. Dunque, è manifesto che qualunque cosa sensibile ci sia proposta, è facile ricondurla ai cinque modi. Alla stessa maniera si ragiona per l'intelligibile. Se si dice che la discordanza è irrisolvibile, ci si concederà che bisogna sospendere su di essa il giudizio. 

 

Se si tenterà di risolverla, e lo si farà in base a un intelligibile, spingeremo il ragionamento all'infinito; se in base a t:n sensibile, al diallele: poiché essendo, a sua volta, il sensibile oggetto di discordanza, né potendo esso in base· a un sensibile venir giu- dicato (ché, per tal modo, si cadrebbe nell'infinito), avrà bisogno di un intelligibile, come l'intelligibile di un sensibile. 

 

Chi, poi, in conseguenza di ciò, assumesse qualche cosa per ipotesi, metterà, nuovamente, capo all'as- surdo. Ma anche relativi sono gl'intelligibili: ché si dicono intelligibili relativamente all'intelligenza, e se fossero, in realtà, tali, quali si dicono, non ci sarebbe discordanza di opinioni. Dunque anche l'intelligibile è 198    stato ricondotto ai cinque modi. Perciò è necessario che assolutamente si sospenda il giudizio intorno alla cosa proposta... 

 

Tramandano anche due altri modi di sospensione. Perché, tutto ciò che si comprende, o pare essere compreso di per sé, o si comprende in base ad altro... Ora, che nulla si comprenda di per sé, dicono evidente dal disaccordo tra i fisici su tutte le cose sensibili e intelligibili: disaccordo indirimibile, non potendo noi valerci di criterio, né sensibile né intelli- gibile, per essere ciascuno, quale che pigliamo, non degno di fede, perché controverso. 

 

Perciò neppure da altro ammettono che si possa comprendere alcunché. 

 

Ché se l'altro, da cui si comprenda, abbisognerà sempre d'essere compreso da altro, si mette capo al diallele o all'infinito; se invece si volesse assumere alcunché come compreso di ·per sé, e da esso comprendere un altro, s'oppone il non poter nulla comprendersi di per sé, per le ragioni già dette (Sesto Empirico, Pyrrh. hypot., l, 169-179). "Agrippa," scrive il Dal Pra, "nei confronti di Enesidemo, presta meno attenzione agli aspetti analitici della discordanza ed ha una mag- giore preoccupazione sistematica; egli è mosso principalmente da un intendimento di sintesi e, si direbbe, di deduzione. Muove dalla ricerca delle maniere tipiche fondamentali in cui può tentarsi la fondazione di un sistema dogmatico, nel tentativo non soltanto di abbracciare nella sua critica il maggior numero possibile di posizioni dogmatiche stori- camente definite, ma anche di includere quelle future e possibili. La sistematica della sospensione insomma obbedisce in Agrippa a criteri molto piu rigorosi e universali che non in Enesidemo. Agrippa ha anche conservato qualche cosa dei tropi di Enesidemo; ha infatti con- siderato la questione della discordanza esistente sia nella filosofia che nella vita (tropo primo da raffrontare col secondo di Enesidemo) come anche la questione della relatività (tropo terzo da raffrontare con l'ot- tavo di Enesidemo); già nella formulazione di questi tropi appare la maggiore vigoria di Agrippa, la maggiore incisività e comprensività della sua delineazione; entrambi i motivi conservati sono tali che di fronte ad essi si può essere già indotti alla sospensione; ma siamo qui soltanto ad un primo passo della considerazione sistematica della sospensione; bisogna vedere come i dogmatici, superando questo punto, si accingano alla costruzione dei loro sistemi e quali tipi di giustifica- zione essi siano soliti addurre di essi; bisogna vedere, anzi, in quante diverse maniere sia possibile a un dogmatico tentare la giustificazione del suo sistema. Ora queste maniere, secondo Agrippa, sono tre: o una giustificazione che risultando apparentemente autonoma, finisce per svolgersi in due direzioni: o verso un processo all'infinito o verso una ipotesi iniziale; oppure una giustificazione che, rinunciando all'auto- nomia, ricorre alla eteronomia, aprendosi inesorabilmente verso_ il dial-  199   lde. Se pertanto il dogmatico non vorrà accogliere il rilievo degli infi- niti contrasti che si verificano nella filosofia e ndla vita, e vorrà pro- cedere oltre, si troverà nella necessità di avviarsi per una di queste tre strade: processo all'infinito, ipotesi gratuita, diallde; ed ognuna di queste tre strade conduce alla sospensione dd giudizio. 

 

In tal modo Agrippa ha abbozzato una sistemazione delle condizioni formali del dogmatismo, in termini non empirici, ma universali. La paJ;"te forse piu importante dd suo discorso è quella che mostra il dogmatico, di- remo cosi, in azione, alla ricerca della strada su cui fondare il suo sistema: la pri!Da tappa è costituita dal riconoscimento eventuale che il contrasto, da cui si muove, non è dirimibile; la seconda tappa è costi- tuita dal tentativo di fondare il sensibile sul sensibile e l'intelligibile sull'intelligibile (processo all'infinito per la sostanziale omogeneità dei termini su cui si vorrebbe costruire la prova); la terza tappa è data dal tentativo di fondare il sensibile sull'intelligibile e l'intelligibile sul sensibile (diallele ed eterogeneità dei termini su ~ui si vorrebbe gio- care per la prova); la quarta tappa finalmente è data dal tentativo di uscire sia dal processo di rinvio omogeneo, sia da quello a. diallele, mediante l'assunzione, senza dimostrazione di una ipotesi; e questa quarta tappa si ricongiunge alla prima, in un circolo dal ·quale il dog- matico non ha via di uscita. Agrippa ha pertanto articolato la sua sfi- ducia nella costruzione dogmatica, prospettando tutte le forme fonda- mentali in cui essa poteva organiizarsi; tale sfiducia si è venuta cosi differenziando ed è diventata rispettivamente: affermazione del con- trasto, vanità dell'allargamento su terreno omogeneo a sfere sempre piu larghe d'un'affermazione che, allargandosi, non perde la sua arbi- trarietà; vanità del cosiddetto processo logico o dimostrativo, con la persuasione che esso non è mai altro che un circolo, senza alcun pro- gresso possibile; vanìtà dell'evidenza e sua relatività. L'istanza critica espressa in questi termini da.Agrippa risulta dunque piu ampia, pi6 forte, pi6.organica e precisa di quella espressa da Enesidemo; Agrippa è riuscito a staccarsi con maggior sicurezza dalla considerazione con- tingente; di questa o quella posizione dogmatica, per inv.::stire pi6 diret- tamente il dogmatismo nella sua generalità" (op. cit., pp.. 339-41). 

 

Di non poca importanza è poi ricordare che, entro i termini Enesi- demo-Agrippa (seconda metà del I secolo a. C., prima metà del I d. C.), 1'indirizzo scettico che si viene costituendo in metodo, si incontra con l'indirizzo della medicina empirica. 

 

Certamente separati in principio (l'indirizzo medico teorico e l'indirizzo medico empirico, in contrasto tra di loro, risalgono a Ippocrate: sappiamo già il significato filosofico e metodologico che la medicina assunse proprio dai tempi di lppocrate: cfr. I vol.). 

 

Probabilmente la denominazione • medici teorici" (loghil(6t), 200    risale a un'opera in sei libri del medico Eraclide di Taranto, del I se- colo a. C., intitolata La scuola empirica. Eraclide di Taranto, che fu discepolo di Tolomeo di Cirene, con il quale, sembra, si sia, di contro all'Accademia, restaurato l'originario pirronismo, avrebbe metodologi- camente fondato l'indirizzo empirico della medicina, rifacendosi a Filino di Cos (metà del I I I sec. a. C.), Serapione di Alessandria (fine del III, inizio del n a. C.), Glaucia di Taranto e Apollonio il Vecchio (n sec. a. C.) (dr. I vol.). Serapione - scrive Celso - primo fra tutti professò che la medicina non ha nulla a che fare con la scienza razionale, ponendola soltanto nella pratica e nelle scienze sperimentali... Coloro che prendono il nome di em- pirici, a motivo dell'esperienza, tengono conto delle cagioni manifeste, come necessarie; e però sostengono essere ozioso disputare intorno alle cause occulte e alle funzioni •naturali, essendo la natUra incomprensibile. Non potersi poi comprendere è chiaro per le discordi opinioni di coloro che ne hanno discorso, non avendosi potuto ottenere consenso in tale que- stione, né tra filosofi, né tra gli stessi medici. 

 

Se si considerano le ragioni, tutte possono sembrare probabili; se si considera la cura, ciascuno vanta le sue guarigioni: non è perciò possibile negar fede alla disputa o all'au- torità di alcuno (Celso, De re medica, l, proemio). Anche se non possiamo dire se l'Eraclide, maestro di Enesidemo, di cui parla Diogene Laerzio (IX, 116), sia Eraclide di Taranto, certo è che dopo Eraclide ed Enesidemo l'indirizzo scettico e l'indirizzo della medicina empirica s'influenzarono vicendevolmente, finché con Meno- doto i due indirizzi confluirono in un unico metodo di ricerca scienti- fica. Sappiamo che dopo Eraclide di Taranto, proseguirono sulla sua linea, durante la prima metà del 1 secolo d. C., Diodoro che compose un'opera intitolata Questioni empiriche, Lico di Napoli, Zopyro di Alessandria, Archibio, Apollonio di Cizio e un certo Zeucsis. Il Robin (Pyrrhon et le scepticisme grec, Parigi, p. 188; anche Dal Pra, op. cit., pp. 354 sgg.), tenendo presente il sunto che dell'opera intito- lata Dictyaca di Dionigi di Egea, vissuto sulla fine del 1 secolo d. C., offre Fozio (Myriobiblion, 211, 168b, sgg.), in cui "dialetticamente," d4:e Fozio; su di una stessa: questione di medicina si avanzano cin- quanta argomenti pro e contra, e ricordando che Diogene Laerzio nel- l'elenco dei seguaci di Enesidemo (IX, 106, 116) pone uno Zeucsis, detto dai "piedi a squadra" (goni6pus), dicendolo autore di un'opera inti- tolata Duplici discorsi, in cui evidentemente si mettevano in discus- sione varie opinioni con il metodo dei pro e dei contra, suppone che lo Zeucsis medico sia da identificare con lo Zeucsis scettico. Non sa- premmo certo dire. Certo è che la vicinanza tra medici empirici e indi-  201   rizzo scettico, senza dubbio chiarissima in Menodoto, è indicativa dell'atteggiamento metodologico assunto nel I secolo d. C. dallo scet- ticismo, di contro alla filosofia verbosa, in una precisazione di quelli che sono i limiti e le possibilità della ricerca, che non può non svol- gersi, per essere utile e scientificamente valida, sç non sul piano umano, nella determinazione di nessi e rapporti che si possono cogliere solo entro i termini dei "segni rammemorativi," ragionando sui dati del- l'esperienza, donde i tre punti fondamentali del metodo empirico della medicina, del resto già presenti nel tripode empirico di Serapione di Alessandria: autopsia (osservazioni e ricerche del medico fatte in per- sona), historie (raccolta sistematica delle osservazioni fatte ~a altri medici), mimesi o, se vogliamo, semiotica (dall'un segno di una ma- lattia, simile ad altro segno, determinare volta per volta il quadro cli- nico della malattia e il rimedio pratico da adottare), indipendente- mente dallà ricerca di cause fondate sù concezioni generali e filosofiche (su cui si fondavano i medici dogmatici), per cui poteva servire la polemica e l'appello all'autonomia del discorso scientifico, mai chiuso in una dottrina definitiva, sempre aperto a nuova ricerca (sképsis), de- lineati dall'indirizzo del neo-scetticismo, che, pur per polemica rifa- cendosi al primo scetticismo di Pirrone e di Timone, assume di fronte alla cultura quale si era venuta configurando tra la fine del I secolo a. C. e il principio del I d. C~ ben altro atteggiamento piu strettamente logico-metodologico. 

 

La conclusione sull'insignificanza e l'illogicità di qualsiasi discorso, che voglia significare il discorso del reale (quale ch'esso si creda dimostrare che sia), poneva in·crisi tutta una cultura acquisita, la fiducia nei risultati di certe scienze (fisica, astronomia) e perciò stesso i fondamenti di un'educazione enciclopedica; si rivelav, inoltre, la presunzione di poter stabilire quella stessa educazione su basi precostituite, in un passaggio gratuito dal logico all'ontico, richiamando ad una consapevolezza critica che spezzasse ogni istitu- zionalizzazione del sapere. 

 

Certo, pur discusse criticamente le possibilità umane di cogliere (di là da ciò che si presenta nella rappresentazione dei sensi e della ragione e in ciò che mediante l'attività soggettiva si viene costruendo) l'essenza delle cose e la ragion d'essere del tutto, il discorso della realtà, negato che sul piano ontologico si possa dire il "vero," che perciò non esistono né il vero né la verità, proprio nella negazione di un qualsiasi passaggio dal logico all'ontico, restava fissata e presupposta l'esistenza di una realtà, ignota e oscura, oltre le possibilità dell'umano discorso e dell'umana comprensione, ma senza dubbio essa, in quanto realtà, se. afferrabile, fondamento della verità e della condotta della vita. 

 

Si sarebbe potuto, sul piano scettico, andare piu in là: una cosa è giungere a negare la possibile conoscenza della realtà (il· che presuppone già una realtà: materia, anima, Dio), altra cosa, non presupponendo alcuna realtà, vedere come si pongono, discorrendo, le realtà. In altri termini, giunti alla sospensione del giudizio sulla realtà, si sarebbe po- tuto, rovesciando il discorso, fermi restando gli argomenti scettici nei confronti del dogmatismo, vedere come si costituisce la realtà attra- verso il giudizio stesso, come, attraverso il giudizio, e la storia dd giudizio, si costituisce questa o quella fisica, questa o quella matematica, questa o quella condotta di vita: non vere se si presuppone una realtà - sia pur ignota e acatalettica, -vere se si possono vedere, nel tempo, come costruzioni, in cui si annulla la dualità soggetto-oggetto. 

 

Di fatto ciò non avvenne. Di. fatto il richiamo, fondamentale, dello scet- ticismo a una piu approfondita consapevolezza critica, si risolveva, nelle sue conclusioni estreme, da un lato in un'esatta dimostrazione che ogni pretesa filosofica a significare la realtà è un non-giudizio, una proposizione senza senso, dall'altro lato in una assoluta "sospen- sio~e dd giudizio," ché, accantonando la realtà (e perciò presuppo- nendola) e negando verità e significanza a ogni giud,izio - proprio perché ritenuto sul piano della realtà, - portava alla negazione di qualsivoglia "fisica" o di qualsivoglia ipotesi che potesse rendere pen- sabile e costruibile la realtà (donde.anche la critica al cosiddetto dogmatismo dell'ipotesi epicurea),.e; per le stesse ragioni, l'accanto- namento, nell'imperturbabilità, raggiunta appunto con la "sospensione del giudizio," di ogni tipo dì condotta morale, onde l'accettazione, in una rinnovatasi pigra ratio, di qualsiasi costume storicamente de- terminatosi ("lo scettico, senza preconcetti dogmatici si attiene all'os- servanza della vita comune, e, perciò, nelle cose opinabili si mantiene impassibile, e in quelle che sono di necessità mediocremente patisce": Sesto Empirico, Py"h. hypot., III, 235). Tutto ciò non solo dimostra l'influenza del neoscetticismo, ma sembra anche spiegare in che senso, accantonata appunto la pretesa di cogliere mediante i sensi o la ragione l'essenza della realtà e la verità, ma sempre presupposta la realtà, si tentino altre vie che possano giustifi- care la presenza di quella realtà umanamente ignota e nascosta, che permettano, anche se su altro piano, di cogliere quella realtà, o di es- serne còlti; la realtà allora, sciolta da ogni razionalità, poteva benissimo essere intesa come assoluta trascendenza, oltre i sensi e la ragione, essa stessa fonte di razionalità, o come assoluta libertà e perciò assoluta persona, e su essa e per essa conformare la propria condotta· di vita (di qui il prevalere dell'esperienza detta religiosa). 

 

D'altra parte, le possibili vie imboccate, a cominciare da quella assunta da Filone l'Ebreo, che ebbe poi grandissi1,11a influenza, non si possono vedere bene, se non si tenga presente anche la storia di Roma e dei paesi assoggettati a Roma, particolarmente dalla morte di Tiberio ìn poi, soprattutto per ciò che riguarda la pOlitica individuale e assolutistica dei singoli imperatori e la situazione sociale, o, gia prima con Filone l'Ebreo, la situazione storica in cui, con l'avvento dell'Impero, s'era trovato; in Alessandria, n·"popolo ebreo.•l. 

 

Il corso dd 1 secolo d.C. presenta, evidente, una crisi morale, che, ad un tempo, risponde ad una piu profonda crisi politica e sociale. 

 

Se le strutture e la potenza dello Stato romano rimangono forti, se la sua cultura istituzionalizzatasi apparentemente risponde ai fini dd- l'Impero quale si era costituito con Augusto, in effetto, da Tiberio in poi, i contrasti interni si fecero sempre piu drammatici. 

 

Alcuni imperatori giustificarono il proprio potere assoluto mediante la propria proclamazione a divinità (onde la loro simpatia per certi culti e misteri orientali, dalle religioni di Iside e &rapide, a quelle di Cibele, di Attis, di Sabazia e di Mitra) ed il loro contrasto, in particolare, con lo Stoicismo, in cui si vedeva la concezione di uno Stato universale e di.un diritto, l'opzione per una condotta di vita e per una cultura che potevano minare la politica stessa dei singoli imperatori. 

 

Sono dati precisi. 

 

Già con Tiberio fu bandito da Roma lo stoico Attalo e messo a morte, perché repubblicano, Cremuzio Cordo ("egli loda Bruto e dice C. Cassio l'ultimo dei romani": Tacito, Annali, IV, 34 sgg.), mentre Caligola fa uccidere Giulio Cano, e Seneca, perseguitato da Claudio, fin! poi per uccidersi sotto Nerone, mentre venivano mandati a morte Trasea Peto, anch'egli ritenuto emulo di Bruto (Tacito, Ann., XVI, 22) e Rubellio Plauto, accusato, come riferisce Tacito (XVI, 57), d'esser seguace della "arrogante setta degli Stoici, che rende turbolenti e desiderosi di disordini." 

 

Musonio Rufo e Cornuto vennero esiliati. 

 

Sotto Vespasiano, tutti i filosofi vennero espulsi da Roma, mentre Dione Crisostomo, ancora insegnante di retorica, scrive il Discorso contro i filosofi, "peste della città e dei governi," e Domiziano espulse di nuovo da Roma i cultori di filosofia preoccupato per gli effetti della retorica, qualora questa non rimanesse sul piano puramente scolastico, di esercitazione. 

 

Il potere, d'altra parte, si restringe sempre piu nelle mani di pochi, cultura e retorica dovevano servire ai funzionari dello Stato (e appunto per essi si apriranno in Roma e nei suoi domini le scuole, che verranno poi sempre in forza maggiore controllate dall'imperatore), le popolazioni divennero sempre piu povere e la schiavitu strumento economico, mentre in tutto l'impero schiavi e militari circolano, provenienti dai paesi piu diversi, recando con sé esperienze, culti e culture, religioni diverse. 

 

Cosf, entro tale atmosfera generale, entro i diversi sostrati sociali in cui ci si muove, a seconda anche dell'imperatore e della sua corte entro la quale per sorte si vive, si capisce come la filosofia potesse soprattutto esser coltivata, da un lato come guida alla vita, rifugio, consolazione, dall'altro lato come riflessione su esperienze religiose, quale indice di salvazione, di liberazione dal guaio di esser nati uomini. 

 

Di qui, sempre, entro l'ambiente greco=romano, fin dal principio del 1 secolo d. C., la ripresa di certi asP-C=tti dello stoicismo, del pitagorismo, del platonismo stoicheggiante, e, in altri sostrati sociali, il recupero di suggestioni magiche, teurgiche, oracolari, di certe posizioni che si configurano nel cosiddetto gnosticismo, il costituirsi, accanto al commento dei libri del passato (Platone, Aristotele), dei testi ermetici, orfici, il riapparire dei misteri.

 

Sotto questo aspetto, la critica scettica, fin da Enesidemo, sembra abbia avuto una notevole influenza e funzione. 

 

Ad esempio, proprio rifacendosi a Enesidemo (o almeno ad argomentazioni scettiche che furono poi sostenute da Enesidemo), dando a lui ragione nei confronti dei superbi ed atei dogmatici, un Filone l'Ebreo poteva rimettere in discussione il problema della verità, ma inserendosi, sotto tutt'altro aspetto, in tutt'altra esperienza e tradizione, delineando il motivo della "rivelazione," mediante cui, poi, recuperare certi motivi della vecchia cultura. 

 

Per altra via, un Seneca, in una situazione politica cangiata, entro i termini di una crisi di una cultilra, poteva, proprio riallacciandosi alla polemica scettica, trovare i fondamenti della condotta della vita in uno stoicismo, che, in realtà, non ha piu nulla a che fare con lo stoicismo della scuola. 

 

In certe esperienze religiose di origine orientale si cerca, di là dalla ricerca razionale, di fronte al suo fallimento, di trovare il fondamento della vita e della propria salvazione. 

 

Pur accettando l'istanza scettica, pur convinti che inafferrabile è l'essenza e la struttura della realtà, si accantonava anche la via dell'ipotesi probabile, utile a determinare di volta in volta, non solo una possibile fisica, ma una possibile condotta di vita, cui convincere (com'era stato il caso di Filone di Larissa e di Cicerone), e per cui era necessaria una retorica in senso ciceroniano. 

 

Essa avrebbe avuto bisogno però di un foro, di una piazza, di un'assemblea, Ove fosse stato possibile discutere e convincere, foro e piazza che non esistevano piu.

 

Non si scordi che molti filosofi, un Seneca, ad esempio, sotto Caligola, un Giunio Rustico, sotto Domiziano, furono perseguitati o condannati a morte, per certi loro discorsi pubblici. 

 

La retorica perciò si venne trasformando di nuovo in esercitazione o in tipo di insegnamento scolastico, come si vede bene in Quintiliano, il cui ciceronianesimo e estremamente istituzionale (non a caso l'autore del Dialogo degli oratori, attribuito a Tacito, ma certo contemporaneo di Quintiliano, puo sostenere che la verace efficacia della retorica si era venuta perdendo con il prevalere del dispotismo.

 

E cosi si capisce ché insieme alla retorica, entro l'ambito scolastico, si sviluppassero discussioni di grammatica e di dialettica; da qui, soprattutto, il commento dei libri logici di Aristotele, la cui applicazione poteva, poi, essere ben lontana dai contenuti aristotelici, tanto che il commento ai libri della logica aristotelica poteva incontrarsi, formalmente, con certi aspetti della logica stoica. 

 

Per altro verso, invece, si poteva far di nuovo viva l'istanza cinica e l'ultima retorica rimasta: la presentazione·di esempi, di modelli di vita. 

 

Particolare interesse assume ora, entro questi termini, il delinearsi della interpretazione, in chiave stoico-platonica, dei molti aspetti con cui erano penetrate nel mondo occidentale - fin da Platone con certezza - le concezioni astronomico-teologiche di origine orientale, ove non vanno scordati i nomi di Beroso, di Asclepiade Mirleano, l'opera dello pseudo Nechepso-Petosiride, attraverso i cui scritti sappiamo che circolano in ambiente alessandrino molti dei piu impres- sicmanti motivi magico-astrologici. 

 

Sul piano delle concezioni astrono- miche, è abbastanza facile scorgere, fino a:l principio del I secolo d. C., due grandi linee, che, por, nel corso del I secolo, vennero fondendosi, dando luogo a esiti piu strettamente magici. 

 

Da un lato vediamo Ia linea, scaturita dall'interpretazione dei movimenti, dei significati e fini delle stelle, che risale ai secondi pitagorici, al Timeo e all'Epinomide (in cui chiara appare la sostituzione del vecchio culto degli dèi olimpici con il nuovo culto degli astri, manifestazione dell'ordine e delle leggi della suprema ragione divina) e che prosegue con l'interpretazione cleantea del logos spermatikos, che, fuoco supremo, si realizza attraverso i fuochi e le luci stellari (Inno a Zeus), con i Fenomeni di Arato e poi con i manuali di origine stoica sui segni celesti e sulle influenze delle stelle sulla terra. 

 

Dall'altro lato vediamo la linea scaturita dallo sforzo di rendersi conto dei movimenti stellari in termini razionali, "salvando i fenomeni," e che, se anche d'origine pitagorico-platonica, venne svolgen- dosi su di un altro piano, su di un piano fisico in traduzione geometrico- matematica, perché fossero possibili calcoli e misure, e in ipotesi che rendessero conto degli apparenti errori, indipendentemente dal ricercare supreme ed allotrie ragioni (e pensiamo qui ad Eudosso di Cnido, Eraclide Pontico, e poi ai grandi astronomi di Alessandria, fino a Ipparco di Nicea e, almeno parzialmente, a Posidonio, nel suo tentativo di "fami- liarizzare l'universo"). 

 

Si capisce bene, d'altra parte, come a quella che dicevamo la linea platonico-stoica potessero servire i calcoli e le misure deil'altra linea, che determinando, appunto mediante i calcoli, la neces- sità dei movimenti, le risultanti dei loro rapporti e cosi via, razionaliz- zava e rendeva possibile la divinazione, giustificando la necessità entro cui si scandiscono il ritmo e l'ordine divini. 

 

Anche se indirettamente ed in forma alquanto sospetta, sappiamo che Posidonio (cfr. sopra) cercò di inquadrare certi risultati fisici e matema- tici entro i termini dell'ipotesi fisica dello stoicismo. 

 

Secondo Simplicio (In Phys Arist., Il, 2, p. 291, 34 sgg. Diels), che riprende un testo di Gemino (Epitome dei Meteorolog•), riportato da Alessandro Filopono, Posidonio, occupandosi del sole e degli astri, ne avrebbe determinato il movimento, valendosi del metodo geometrico e matematico. 

 

Egli cioè avrebbe considerato pesi, grandezze e tempi di movimento, per formulare ipotesi che servissero a spiegare i fenomeni del cielo, ad esempio l'irregolarità del movimento del sole (cfr. Simplicio, Fisica di Arist., cit.). Sembra, anzi, che Posidonio per spiegare ed illustrare i moti degli astri abbia costruito una sfera. (cfr. Cicerone, De natura deorum, Il, 34, 88: "La sfera, che re- centemente ha costruito il nostro caro amico Posidonio, riproduce in ogni sua rivoluzione gli stessi fenomeni relativi al sole, alla luna e ai cinque pianeti che avvengono ogni giorno e notte in cielo: chi dubiterà, ve- dendo tale sfera, ch'essa è dotata di una ragione perfetta?"). D'altra parte, se la sfera rendeva conto delle apparenze e permetteva calcoli e misure, non permetteva di rendere ragione dei movimenti stessi. Biso- gnava per ciò, sostiene sempre Simplicio, rifacendosi a Posidonio, "muo- vere dai principt generali delle qualità del movimento, dal principio della 7tOL'Jj'rLX1j 8uvcx(Lr.t;, determinando l'essenza del cielo e degli astri" (Sìm- plicio, Fisic. Arist., cit.). Ora, accanto all'ipotesi stoica, probabilmente formulata da Cleante, secondo cui la ragion d'essere del tutto è un prin- cipio attivo, un fuoco vitale, ragione seminate che ovunque si diffonde, costituendo un tutto necessariaemnte ordinato, "ragione, unica di tutti, che si svolge e vive per l'eternità," "comune ragione che in tutti pene- tra, ugualmente toccando il grande [sole] e i minori lumi" (Inno a Zeus, 21 sgg., 16 sgg.), non vanno scordate le ipotesi aristotelica ed epi- 232    curea. Se da un lato Aristotele, nella sua sistemazione cosmologica, era ricorso all'ipotesi di un primo motore immobile, dall'altro lato Epicuro, di contro al teleologismo platonico-aristotelico, aveva sostenuto l'impos- sibilità, sul piano sperimentale, di formulare qualsiasi ipotesi generale, sottolineando, di contro all"'unica spiegazione," il valore delle "molte- plici spiegazioni." "I segni dei fenomeni celesti ce li forniscono i feno- meni che accadono presso di noi e che si vede bene come e dove acca- dono, e non i fenomeni celesti stessi, che possono avvenire in molte maniere" (Epicuro, Lettera a Pitocle, 86, 8; 87, 8). Entro i termini di un meccanicismo casuale si eliminava ogni necessaria determinazione, ci si liberava dal concetto della provvidenza divina. "E non si chiami in causa la natura divina... Se non si farà cosi, ogni indagine sulle cause dei fenomeni celesti sarà vana, come è avvenuto a certuni che ignorando il metodo delle possibili spiegazioni caddero in vuote argomentazioni, perché credevano al metodo dell'unica spiegazione" (Epicuro, Lettera a Pitocle, 97, 4, 12). 

 

Proprio di contro alla tesi epicurea - di cui sappiamo le preoccu- •pazioni che suscitò per i suoi esiti politici, sganciando l'uomo e le cose da ordini precostituiti, da una ragion d'essere universale, per cui e cieli e mondi e uomini apparivano scaturiti a caso, onde si accusò Epi- curo di sragionevolezza e di empietà di contro a Epicuro, dunque, sembra che Posidonio abbia avanzato l'ipotesi del tutto animato e vi- vente, secondo la tesi della "simpatia universale." Egli si sarebbe cosi riallacciato, · relativamente agli ordini e ai movimenti stellari, a certi testi del Timeo e dell'Epinomide, interpretati mediante la concezione fisico-animistica di Cleante e di Arato, in una visione cosmologica in cui poteva rientrare anche la sistemazione aristotelica, una volta che il motore immobile, Dio, non fosse piu concepito come un concetto, una condizione logica, ma come forza attiva, l6gos spermatik6s, che non esiste se non nel suo manifestarsi, e di cui, fin dalle stelle, cominciando dal sole, tutte le cose sono aspetti e determinazioni. Si vede bene cosi come Achille Tazio, discutendo il significato dei Fenomeni di Arato, interpretasse la tesi posidoniana come l'unica ipo- tesi valida da potersi sostenere contro l'ipotesi degli Epicurei, secondo cui gli astri non sono affatto animati ("Posidonio polemizza con gli Epicurei, i quali negano che gli astri siano animati, perché racchiusi nei corpi. Secondo Posidonio non sono i corpi a racchi.udere le anime, ma le anime i corpi, ché le anime son come la colla che tiene unita se stessa e le cose di fuori": Achille Tazio, Isagoge in Phaen. Arati, 13, ed. Maas). 

 

Sotto questo aspetto, dando ad anima il significato di forza, di calore vitale, organizzante, sembra chiaro in che senso si potesse, sia pur analogicamente, spiegare il movimento in sé ponendo, al limite, un  233   princip10 di vita, una forza attiva, non a caso.detta fuoco, inesistente in sé se non appunto nella sua stessa estrinsecazione. I movimenti de~li astri costituiscono perciò ·gli stessi moti d,ell'intelligenza divina, e gli astri sono essi stessi fuoco (secondo Stolieo Posidonio scriveva che gli "astri sono a&JL«.&ei:ov, corpo divino, fatti di etere splendente e infuo- cato, mai in.quiete, ma sempre in movimento circolare": Stobeo, Ecl., I, 24, 5 W.), corpi divini, come fuoco è Dro, onde tutte le cose, avendo ciascuna la propria ragione seminale, il proprio fuoco, la propria luce, la propria anima, sono, sia pur ìn gradi sempre piu affievoliti, riper- cussioni e riflessioni dei fuochi, delle luci siderali. Già qui si saldano le due linee di cui sopra parlavamo, e..se da un lato ·si ren<;leva possibile lq sfruttamento. dei risultati geometrico-mate- matici, dall'altro lato si potevano rendere razionali le suggestioni di certa magia astrologica, di origine sacerdotale, che si era venuta dif- fondendo attraverso i cosiddetti Caldei, per cui, in fine, al vecchio impe- rativo "vivi secondo natura," si poteva sostituire l'imperativo "vivi secondo le stelle," secondo la tua stella, ché ciascuno, ·concepito' sotto il riflesso di un certo fuoco stellare, in una certa situazione e congiun- zione di stelle, assume per riflesso quel fuoco, quella figura siderale, ha il suo destino che è destino divino, comprensibile da parte di chi conosce l'ora (oroscopo) delta ct>ncezione e.Ja posizione delle stelle, e sa, seguendo il moto delle stelle, fare i giusti calcoli, prendere le giuste misure, ché l'istante della nascita determina quello della morte: "Na- scentes morimur, finisque ab origine pendet";. "Fata regunt orbem, certa stant omnia lege" (Manilio, Astronomicon, IV, 16, 14; cfr. F. Cu- mont, Les religions orienta/es, Parigi, pp. 196 sgg.). 

 

Da un lato, dunque, di contro alla libertà di Epicuro che fa l'uomo responsabile del suo morido, lanciato in una infinità·di mondi, si tende, "familiarizzando" l'universo, di ricondurre l'universo a una sola unità e a una sola legge, di cui, "microcosmo" nel "cosmo," l'uomo è parte in una cospirazione di parti in funzione del tutto ("simpatia"); dal- l'altro lato, entro i termini di questa concezione, si tende, recuperando calcoli e misure dell'astronomia, recuperando la simbolica dei numeri e la geometria dei pitagorici, a· razionalizzare il costituirsi e il destino di tutte le cose, compreso l'uomo. Si veniva cosi:· a delineare la possibi- lità di uria scienza della. natura e di una teologia scientifica, che risol- veva in sé l'aspetto pragmatico-magico di molte credenze astrologiche diffuse dai cosiddetti Caldei, ed ove si poteva considerare la stessa divi- nazione e predizione del futuro non solo rispetto all'universo, ma all'uomo, come frutto di una serie di conoscenze e' come vero e proprio possesso di un complesso di tecniche. 

 

Abbiamo di proposito lasciato nel vago l'apporto delle. credenze astrologiche, delle pratiche magiche, delle superstizioni religiose, di certe concezioni e misteri, provenienti dall'Oriente, proprio perché tutto questo è estremamente vago, e perché, in realtà, non possediamo docu- mentazioni precise. Possiamo dire solo questo, che con il termine Caldei, sia in Roma sia in Grecia (in Grecia fin dal tempo di Platone) si sole- vano indicare quei sapienti, indipendentemente ormai dalla loro origine, che soprattutto sfruttarono sul piano del sapere da un lato, almeno in principio, concezioni astronomiche di origine babilonese, dall'altro lato gli esiti che tali concezioni potevano avere sul piano della divina- zione e della previsione basate sui fenomeni celesti (cfr. Diodoro Siculo, Il, 29 sgg.). Che naturalmente molti di costoro, giuocando sulle superstizioni popolari, fossero rimasti quei tali mendicanti, sacerdoti imbroglioni e indovini di cui parla Platone (cfr. Repubblica, 364b), è certo, come risulta da non poche testimonianze. D'altra parte è senza dubbio vero che notevole, entro l'àmbito di tali ricerche astrologiche, fu l'influsso di certe religioni (pensiamo qui particolarmente al maz- deismo e al mitracismo) e di certe raccolte relative alle influenze delle piante, delle pietre, degli astri, di provenienza orientale (da Ostane, da Zarathustra), diffuse in Egitto da Petosiride (sembra di lui un'opera di astrologia del n secolo a. C.: cfr. Catai. codd. astrologorum graec., VII, 129-151) e da Beroso, sacerdote babilonese di Bel, autore di Babilonicà, dedicati ad Antioco I Sotèr (tra il 280 e il 260 a. C.), ad un tempo interprete di antiche teorie babilonesi. 

 

Ricordiamo qui, per la sua vicinanza con certe concezioni stoiche (e perché è un chiaro indice di come sia difficile distinguere provenienze e separazioni precise) la dottrina, di origine siriaca, dei grandi cicli annui che si scandiscono sulle rivoluzioni celesti dando luogo al concetto dell'eternità divina che, operando mediante le stelle e le loro influenze, è onnipotente su cose, uomini, popoli (cfr. Catai. codd. astro/. graec., V, l, p. 210). "Il primo postulato dell'astrologia caldea è che tutti i fenomeni e gli avve- nimenti di questo mondo sono necessariamente determinati dalle in- fluenze siderali. I cangiamenti della natura come le disposizioni degli uomini sono fatalmente soggetti alle energie divine che risiedono nel cielo. In altri termini, gli dèi sono onnipotenti; sono i padroni del Destino che sovranamente governa l'universo. Tale nozione della loro onnipotenza appare come lo sviluppo dell'antica autocrazia che si rico- nosceva ai Baal. Costoro erano concepiti ad immagine di un monarca asiatico, e la terminologia religiosa si compiaceva di sottolineare l'umiltà dei loro servitori rispetto ad essi. Non Si trova in Siria nulla d'analogo a ciò che esisteva in Egitto, ove il prete riteneva di poter costringere i suoi dèi ad agire ed osava perfino minacciarli" (F. Cumont, Les reli- gions orienta/es dans le paganisme romain, p. 155). 

 

Sotto questo aspetto,  non vanno dimenticate le suggestioni di certi rituali egiziani, che mediante la precisione delle parole sacre incantano ed obbligano le potenze superiori, donde il valore dato alle parole evocatrici e a certi gesti dd rituante, di cui non pochi lasciti ritroviamo in quei testi che poi riflui- rono nel Jilorpo ermetico (cfr. Boll, Sphaera, p. 372; Cumont, cit., pp. 114 sgg.; Festugière, cit., vol. I), mentre per altra via si poté intra- vedere la possibilità d'inventare tecniche mediante cui operare su quella stessa fatalità astrologica, spezzandone la catena (donde, poi, nel n se- colo d. C., la teurgia e la magia scientifica). E cosi, entro quest'àmbito della astrologia, va ora sottolineata l'importanza che vengono assu- mendo, non pìu in senso mnemonico, non piu solo lasciti di totem e dì primordiali magie amuletiche, le figure delle stelle (la vergine, i gemelli e cosi via) e le figure delle stelle di provenienza persiana, in un insieme di animali fantastici (la cosiddetta "sfera barbarica"),-donde, poi, l'aspetto mimetico della magia, l'imitazione della figura e della ragione del proprio astro. 

 

Tutti questi aspetti, in principio senza dubbio separati, di provenienze diverse, operanti in ambienti sacerdotali, sulla fine del I se- colo a. C. vengono diffondendosi - non sembra un caso la polemica di Filone l'Ebreo nei confronti dei Caldei che riducono il divino al complesso delle stelle, s(come non è un.caso l'ironia degli scettici, già fin da Carneade, nei confronti delle pretese dell'oroscopia, - vengono laicizzandosi e, interpretati in chiave stoica, si risolvono in una vera e propria teologia razionale, scientifica, nel tentativo di una spiegazione della fatalità. 

 

Sotto questo aspetto si vede bene come l'astrologia sul principio del 1 secolo d. C. potesse penetrare e fosse accettata in Roma nell'ambiente stoicheggiante di Augusto e di Tiberio. Testimonianza precisa di questo incontro di tradizioni diverse astro- logiche, interpretate e sistemate entro i termini dello stoicismo, sembra essere il poema in cinque libri (Astronomicon) di Manilio,l composto l Nulla ~ stato tramandato della vita di M. Manilio. Ch'egli sia vissuto ed abbia composto il suo poema A.stronomicon, in 5 libri, tra Augusto e Tiberio lo si oonget- tusa da alcuni accenni che si ritrovano nella sua stessa opera. 

 

Nel proemio vi ~ un chiaro accenno ad Augusto, si come di Augusto anoora vivo Manilio parla nel libro II, 509, affermando che il Capricorno rifulse nel giorno in cui Augusto uaoque. t ricordata la disfatta di Varo, avvenuta nel 9 d. C., come avvenimento recente. 

 

Nel IV libro si accenna chiaramente a Tiberio come da poco succeduto ad Augusto (Au- gusto mori nel 14 d. C.). 

 

Nel V libro, infine, sembra si accenni all'incendio del teatro di Pompei, avvenuto nel 22 d. C. Poich~ il V libro appare chiaramente interrotto si ~supposto che Manilio sia morto, appunto, nel 22. A proposito degli interessi per un certo tipo di questioni astronomiche occorre qui fare il nome di C. Giulio Cesare Germanico, nato nel 15 a. C. da Nerone Claudio Druso ~anico e da Antonia Minore, adottato nel 4 d. C. da Tiberio contemporaneamente, a sua volta, adottato da Augusto, morto nel 19 d. C. Uomo di ampia cultusa, autore di contra il 9 e il 22 d. C., a Roma, in un riconoscimento, talvolta commosso e pieno di stupore di fronte alla fatalità del tutto, dell'architettura del- l'Universo e della sua razionalità (del cui scandirsi fatale incarnazione è l'imperatore: si vedano gli accenni ad Augusto, e a Tiberio), in una netta contrapposizione allo sconcertante e libero costituirsi degli infi- niti mondi epicurei, alla libera mater, feconda e libera materia da cui tutto liberamente si genera, di lucreziana memoria (non a caso alla struttura esterna del poema di Lucrezio si avvicina in antistrofe il poema di Manilio). 

 

Sorge ogni astro secondo la propria luce e osserva un ordine preciso nel suo nascere e nel suo tramontare. Nulla v'è di piu meraviglioso, in s1 gran massa, che questo razionale ordine e il fatto che ogni cosa obbedisce a leggi fisse... Chi potrebbe credere che tutto questo avvenga senza· uo nume e che il mondo sia stato creato da minime particelle [gli atomi], unite alla cieca? Non è opera del caso, questa, ma ordine che proviene da un nume possente (Manilio, I, 476-479, 492 sgg.). Difficile è dire, relativamente alla costruzione che dell'Universo offre Manilio, sia per l'aspetto piu propriamente geografico, sia per quello piu strettamente astronomico, quanto egli si sia servito delle opere di Posidonio - in par.ticolare, si è detto, delle Meteore, del Protreptico, dell'Oceano. - Certo, abbastanza evidentemente si rintraccia la linea che va dal Timeo, all'Epinomide, ai Fenomeni di Arato, in una inter- pretazione genericamente stoica, in chiave teologica. Ma v'è di piu: in Manilio è indubbia una traccia di motivi astrologici di origine orien- tale. In un codice Angelico (grec. 29, sec. xv, c. 120: cfr. Cumont, Cat. cod. astrol., VI, p. 188; F. Boll, Sphaera, p. 53), è esposta una dottrina di Asclepiade Mirleano (del 1 sec. a.C.: cfr. B.A. Miiller, De Asclepiade Myrleano, p. 22) sulle costellazioni della sfera barbarica e sull'influsso che tali costellazioni hanno sugli uomini nati sotto di esse, dottrina che ritroviamo in Manilio (V, 262 sgg.); non solo, ma, se- condo Firmico Materno (Proemio, III libro, 4), alcuni motivi Manilio li avrebbe ripresi dagli scritti di Nechepso e Petosiride; in realtà in un frammento di Nechepso e Petosiride (Riess, 363) ritroviamo proprio gli stessi motivi trattati da Manilio (III, 190 sgg.) sulla Fortuna e l'oro- scopo, risolti mediante la disposizione dei segni siderali, i dodekate- moria, le sorti dei dodici luoghi. 

 

Ma ciò che piu colpisce è la sistema- medie in greco e di epi8fammi in latino e in 8fCCO, ottimo oratore, Germanico liberamente rielaborò iJIOeDli di Arato: abbiamo 700 versi del rifacimento dei Fenomeni, modifi· c:ati in funzione delle nuove scoperte in campo astronomico; e circa 200 versi di un'oJ)era sempre di argomento astronomico, probabilmente un rifacimento di Prognostica da inclu- dere nei Fenomeni, a loro completamento.  237   zione del tutto entro i termini di un ordine razionale, di cui appunto tutto - dai cieli, alle influenze stellari, ai conflitti tra le costellazioni - è rivelazione, manifestazione di una unica ratio gubernans. 

 

In tal senso, già notevole come indicazione, è una pur breve traccia della struttura e del contenuto del poema, che, per la morte dell'autore (22 circa d. C.), rimase interrotto (il V libro è incompiuto): I libro: forma e origine del mondo, i quattro elementi (fuoco, aria, acqua, terra), posizione della terra nel cosmo; cielo, zodiaco, asse del mondo, stelle artiche, natura delle costellazioni, distanza tra lo zodiaco e la terra, grandezza delle dodici parti dell'eclittica, circoli paralleli, meridiani, oriz- zonte, eclittica, via lattea. - Il libro: dodici segni zodiacali (~cf>3tot) loro na- tura, loro posizione, loro subordinazione ai dodici dèi (Minerva, Venere, Apollo, Mercurio, Giove, Cerere, Vulcano, Marte, Diana, Vesta, Giunone, Nettuno), loro dominio sulle membra umane, rapporti reciproci tra di loro, amicizia e discordia nelle costellazioni, simile a quella che v'è sulla terra, influssi dei sidera cognata su chi è nato sotto di essi, dodel{atemoria, gli otto luoghi. - III libro: le dodici sorti, tra cui la Fortuna che determina le loro combinazioni coi dodici segni, oroscopia, i segni tropici (Cancro, Capricorno, Ariete, Leone). - IV libro: figurazioni dei segni zodiacali, a seconda delle quali si determinano i costumi, la condotta, il destino degli uomini, sistema geometrico dei decani, in una ripartizione ternaria dei segni zodiacali; sorgere dei segni, località ordinate sotto il potere dei do- dici segni (geografia astrologica), conflagrazione universale, cosmo e micro- cosmo (l'uomo). - V libro: sistema del sorgere degli astri (paranatéllonta), visione ordinata del tutto, anche nel conflitto degli astri, ché su tutto do- mina una piu profonda ragione, in un solo scandirsi, in cui l'universo appare fatto sul modello dello Stato augusteo. "Non è opera del caso, questo, ma ordine che proviene da un nume possente" (1, 492); "questo dico e questa ragione, che tutto governa, trae dalle eterne stelle gli esseri animati della terra" (Il, 82-83). 

 

E l'uomo, microcosmo nel cosmo, poiché l'anima umana emana dagli astri, essi stessi fuoco del divino fuoco, principio di vita del tutto, attra- verso la contemplazione dell'universo e delle sue leggi, dispiegamento del divino e della sua fatalità, l'uomo può, ripercorrendo le ragioni del tutto, accettare il proprio fato, serenamente. "Soltanto nell'uomo di- scende Dio e vi alita e vi ricerca se stesso. Chi potrebbe conoscere il cielo se non per dono del cielo? Chi potrebbe trovare Dio, se non chi è parte lui stesso, di Dio?" (II, 108 sgg.). 

 

Lo sforzo di Manilio appare consapevolmente rivolto a risolvere su di un piano razionale la fatalità, a far rientrare tutto nell'ordine, siste- mando in unità e ragione, in un unico impero, i diversi aspetti con cui era penetrata in Roma l'asttologia e l'oroscopia, ch'egli svuot~ del 238    suo mordente magico e operativo. 

 

Sotto questo aspetto non sembra un caso che il discorso intorno alle stelle e alla loro fatale influenza (se vo- gliamo astrologia) si risolva entro i termini di una descrizione delle "leggi" degli astri (astronomia), manifestazione del divino ordine e della divina ragione, non "nascosti," non "volontari," e sui quali per- ciò non v'è alcuna possibilità di operare, nessuna possibilità mediante evocazioni di modificarne la volontà, ché la divina ragione è tutta rive- lata a chi sappia contemplarla: 

 

Lo stesso Dio non vieta al mondo il volto del cielo e i suoi aspetti e il corpo svela, e sempre volgendosi s'imprime e si offre perché possa essere ben conosciuto, perché a chi contempla insegni come si muova e lo costringa ad osservare le sue leggi. Lo stesso mondo gli animi nostri chiama alle stelle, né soffre che i suoi legami rimangano nascosti, poiché svelati essi sono. 

 

Chi mai potrà credere ch'empio sia conoscere quello che ci è concesso di contemplare? Non disprezzare le tue forze perché sono in un piccolo corpo: ciò che vale è immenso. Sf come poche quantità d'oro valgono piu di molti cumuli di bronzo, sf come il diamante, un punto di pietra, è ancor piu prezioso dell'oro, sf come la piccola pupilla ha la capacità di abbracciare il cielo tutto, e minimo è ciò che gli occhi vedono, mentre guardano le massime cose; cosi la sede dell'animo, posta sotto il tenue cuore, domina per tutto il corpo da un angusto limite. 

 

Non chiedere la quantità della materia, ma considera le potenze che la ragione domina, non il peso: tutto la ragione vince - ratio omnia vincit (IV, 920-32). Fata regunt orbem, certa stant omnia lege (IV, 14). Divinità svelata il Tutto, il discorso sugli astri, incarnazioni delle leggi, diviene $Cienza, studio dellç. rifrazioni e riflessioni dei lumi stel- lari: la stessa oroscopia e divinazione divengono calcolo, studio di rapporti geometrici e matematici. 

 

Di qui il recupero di molti aspetti della sistemazione della cosmologia di origine pitagorica (con particolare riferimento al fuoco), che si vien componendo con la cosmologia della fisica stoica, in una strutturazione dell'universo che poteva essere benissimo quella offerta dal sistema aristotelico. 

 

In Manilio, effettivamente, c'è in forma quanto mai massiccia, l'esito di uno degli aspetti della fisica e della teologia stoiche, in una sistema- zione, manualistica, dei momenti con cui si erano venute determi- nando, in linee diverse, le ricerche astronomico-astrologiche. E tale esito è la matematizzazione del fatalismo in una coraggiosa consequenzialità - che sembra essere la novità che Manilio si gloria di introdurre in Roma, - che se toglieva ogni possibilità sia alle cose che agli uomini,  239   senza alcuna preoccupazione per i problemi impliciti nella soluzione di una universale casualità, cosi presenti e acuti· in Crisippo e ancora in Cicerone (cfr. De divinatione), giustificava,' per altro verso, il signi- ficato dell'impero di Augusto e di Tiberio, di quell'impero che appa- riva realizzazione della ragion d'essere del tutto, di quella ragione che il tutto ordina, fatalmente governando. Sotto questo aspetto di non poco momento sembrano i versi con cui si apre il poema maniliano: Mi accingo, in poesia, a derivare dal cosmo le divine arti e lç stelle consapevoli del fato che rendono diversi i casi degli uomini, secondo celeste ragione: e, primo, con nuovi carmi, commuovo l'Elicona e le selve che ondeggiano pei verdeggianti vertici, recando inconsueti sacri- fici da nessuno mai prima ricordati. Ma tu, Cesare, principe e padre della patria, che reggi questo mondo obbediente ad auguste leggi e che assumi la dignità di Dio in una terra che ti si è affidata come a un padre, dammi animo, dammi forze per cantare tema sf alto (1, 1-10). E, sempre sotto questo aspetto, altrettanto indicativi sembrano i versi, sottolineati dal Farrington (Scienza e politica nel mondo antico, cit., trad. it., pp. 200-201), che si trovano sulla fine del V libro, con cui s'interrompe il poema, ché, appunto, conclusasi la sistemazione del- l'universo in un ordine fatale, in cui ai gradi e alle gerarchie stellari corrispondono i gradi, le gerarchie, i privilegi della società terrena, Manilio esclama: 

 

Ma se fosse stata concessa al popolo che costttutsce la maggioranza, una forza proporzionata al suo numero, tutto l'universo sarebbe andato in fiamme (V, 742 sgg.). Entro i termini di tale necessità, di tale ferrea causalità, l'astrologia e la teologia scientifica, potevano da un lato risolvere io ìina disperata accettazione consapevole l'inesorabile situazione umana, in un'adeguazione, da parte di ciascuno, al giuoco delle proprie sorti; dall'altro lato esse sembravano, dal punto prospettico di chi aveva io mario il potere - essendo nato in una felice congiunzione stellare - giustificare agli occhi dei piu quel potere stesso, rompendo il quale si sarebbe rotto con- tro la medesima ragione divina. E non era, questo, argomento di per- suasione politica da scartare, mentre era ancora da scartare l'esito opposto alla fatalità, cioè la possibilità, presupposta una volonta nelle stdle e perciò stesso nella divinità, di operare mediante culti e simboli, rituali e tecniche su queste volontà, modificandole. Se, dunque, ancora al tempo di Augusto e di Tiberio si videro di malocchio, da parte della classe al potere, certi riti e culti d'origine 240    egiziana, si capisce, invece, l'importanza data all'astrologia caldea, in- terpretata in chiave stoico-platonica, l'importanza data alla divinazione, l'introduzione nelle corti degli astrologi, di chi, sapendo fare i calcoli, poteva giustificare certe azioni, anche una cèrta politica. È stato finemente sottolineato (Cumont, op. cit., pp. 217-18) che se un Destino irrevocabile s'impone, nessuna supplica può cangiarne la volontà; il culto è inefficace e le preghiere non sono altro, per riprendere un'espres- sione di Seneca, che le "consolazioni di un animo ammalato, ché irre- vocabilmente il fato consuma il proprio diritto [ius suum, ove assume un suo particolare significato il termine diritto], né può essere smosso da alcuna preghiera" (Nat. quaest., II, 35). 

 

"E, senza dubbio, alcuni adepti dell'astrologia, come l'imperatore Tiberio, accantonano le prà- tiche religiose, persuasi che la Fatalità governa tutte le cose ('circa deos ac religiones neglegentior, quippe addictus mathematicae plenu- sque persuasionis cuncta fato agi': Svetonio, Tiberio, 66)...Si erige a dovere morale l'assoluta sottomissione alla sorte onnipotente, la gioiosa rassegnazione all'inevitabile, e ci si accontenta di venerare, senza chie- derle nulla, la superiore potenza che regge l'universo... Le masse, tut- tavia, non s'elevarono a quest'altezza di rinuncia" (Cumont, cit., p. 218). È vero, ma non bisogna schematizzare. In realtà qui si pone un problema meno semplice. 

 

L'altro aspetto dell'astrologia, la possibilità di operare sul destino e sulle cose, sugli dèi, anche se già da tempo presente in certi culti d'origine egiziana o in sistemazioni fisiche che, recuperando suggestioni magiche sul potere di piante, di pietre, di colori~ si muovevano sul piano dell'atomismo seminale (vedi sopra, Bolo di Mende), si viene diffondendo in forma laicizzata in epoca pio tarda, dalla seconda metà circa del n secolo d. C. in poi; e, sempre in epoca pio tarda (seconda metà del 1 secolo d. C.) si diffondono, di con- tro all'accettazione di un inesorabile fato, anche quei culti e riti egi- ziani, quei culti mitriaco-solari, che spezzavano la razionalità e la cau- salità, propagati proprio da certi imperatori (la cui politica e il cui fondamento di potere erano ben diversi da quelli di Augusto e ancora di Tiberio). E allora duplice diviene la questione, considerata storica- mènte. 

 

La magia e il suo diffondersi in ambienti popolari se dapprima può essere indicazione di una sia pur inconsapevole rivolta alla impo- sizione di un inesorabile fatalismo, viene poi accolta da certi imperatori proprio in contrasto con quella visione causale e necessaria di un tutto che limitava, e non poco, il loro assoluto ed arbitrario potere, onde certi ritorni ad un naturalismo razionalistico-teologico hanno il sapore di una ribellione a precise situazioni storiche, in un appello ad un tipo di moralità in contrapposizione ad altri, ove l'opzione per una certa concezione (la stoica, come sarà per Seneca) ripropone la possibilità di una scelta entro un complesso di condizioni date, di mosse date, ma pur sempre possibili; mentre, per· altro verso, la razionalizza- zione di certe forme teurgiche, mimetiche, alchimistiche, la cui linea si vede bene da Plotino a Proclo, assume un significato in un tentativo scientifico di risolvere il rapporto uomo-necessità e fatalità del tutto, in un serio accantonamento della teurgia magica e irrazionale. 

 

Infine, se teniamo presente l'aspetto piu strettamente matematico-logico del- l'astrologia, in uno sforzo di risolvere in calcoli e misure i rapporti tra le stelle e delle stelle con la terra, donde la possibilità della divina- zione e dell'oroscopia in termini scientifici, per cui, liberata dal suo alone sacerdotale, l'astrologia assume il carattere di un'ipotesi fisico- matematica in termini causali, ci rendiamo conto del perché Vettio Valente (n sec. d. C.) dicesse che "l'astrologia è la regina delle scienze" (Anthologiarum libri, ed. Kroll, Berlino, p. 241), e perché, ancora una volta, astrologia e astronomia potessero risolversi in unità con Claudio Tolomeo (u sec. d. C.), il grande sistematore dei risultati del- l'astronomia (Almagesto) e dell'astrologia (Tetrabiblos). 

 

A tal proposito, anzi, come indicazione del significato scientifico dato allo studio degli astri, per determinarne le leggi e la loro influenza necessaria sul mondo e sugli uomini, mediante calcoli geometrico-mate- matici, sembra interessante riferire le seguenti parole del Cumont: "Se i teorici [da Carneade in poi, i cui argomenti furono ripresi, ripro- dotti e sviluppati sotto mille forme dai polemisti posteriori: gli uomini che muoiono insieme in una battaglia o in un naufragio sono tutti nati in uno stesso momento avendo avuto la stessa sorte?...] non giun- sero a dimostrare la falsità dottrinale dell'apostelesmatica, !~esperienza doveva provarne il vano sforzo. Senza dubbio numerosi hanno dovuto essere gli errori e provocare crudeli disillusioni. 

 

Avendo perduto un bambino di quattro anni, al quale era stato predetto un brillante de- stino, i ~uoi genitori "stigmatizzano nel suo epitaffio il 'matematico mentitore la cui gran fama ha preso in giro ambedue' (Corp. iscr. lat., VI, 27.140). Ma nessuno pensava di negare la possibilità di tali errori. Abbiamo dei testi in cui gli stessi facitori di oroscopi spiegano candi- damente e dottamente come si sono ingannati, per non aver tenuto conto di un dato del problema (cfr. Palco in Cat. codd. astr., I, 106-7), e, nel u secolo, Vettio Valente amaramente si lamenta dei detestabili imbroglioni, che, erigendosi a profeti senza una lunga preparazione necessaria, rendono odiosa o ridicola l'astrologia che osano invocare (Vettio Valente, V, 9: Cat. codd. astr., V, 2, p. 32, ed. Kroll). Bisogna ricordarsi che l'astrologia non era solo una scienza (~LO"t'ijtJ.TJ), ma anche una tecnica(~), come la medicina" (Cumont, cit., pp. 203-4). 242    3. Lo «stoicismo" nella prima metà del l secolo d. C. Seneca. La figura di Demetrio «cinico" Giunti a questo punto sembra difficile parlare in termini esatti di stoicismo, di platonismo, di pitagorismo, ché ognuna di queste conce- zioni, in effetto, serve oramai non piu che ad evocare certi principt isti- tuzionalizzati, certe scelte e opzioni in favore di problematiche e di esi- genze assai diverse, per cui veniamo ad avere, sia pur sotto il nome di Pitagora, di Platone, o di alcuni Stoici (anche se certi testi sono real- mente ricalcati da testi platonici o stoici) posizioni che, se davvero vo- gliamo rendercene conto, meglio sarebbe spogliare di quelle etichette, riferendoci volta a volta a questo o a quel Platone, a questo o a quello stoico (sottolineando quali testi di Platone o di stoici o di Aristotele o della tradizione pitagorica sono sfruttati) filtrati attraverso questa o quella figurazione storica. Non solo, ma ancora piu difficili appaiono tali schematizzazioni quando si pensa che in realtà, almeno dal prin- cipio del 1 secolo d. C., le stesse scuole (l'Accademia, il Liceo, la Stoà) sono venute meno, o sussistono per inerzia. 

 

Di scolarchi della Stoà, dopo Antipatro di Tiro (morto nel 45 a. C. circa) non abbiamo piu notizia, se non, sotto Adriano e Antonino Pio, di un certo Coponio Massimo; nel I I secolo d. C., di Aurelio Eraclide Euripide e di Giulio Zosimiano; nel m secolo di Ateneo, Miwnio, Calliete. Poi basta. Lo stoicismo con tutto il suo complesso dottrinario costituitosi nei secoli è divenuto altro. E cosi, dopo Teomnesto di Naucrati, fiorito nel 44 circa a. C., poco o nulla sappiamo di scolarchi veri e propri dell'Accademia (Ammonio di Egitto, vissuto sotto Nerone, maestro di Plutarco di Cheronea; Cal- visio Tauro, vissuto al tempo di Adriano e di Antonino Pio; Attico, vissuto sotto Marco Aurelio: il discorso si farà diverso per la scuola Alessandrino-romana, per quella Siriaca e di Pergamo, e per la scuola di Atene e di Alessandria). E lo stesso va ripetuto per il Peripato. Di non poca importanza è sotto questo aspetto la testimonianza dello stesso Seneca,2 che se da un lato denuncia il fatto che piu non 2 Nato a Corduba, in Spagna, nel 4-3 a. C., da Anneo Seneca, letterato di fama, retore, storico dell'eloquenza, e da Elvia, donna di cultura, particolarmente interessata di studi filosofici, Lucio Anneo Seneca, fu condotto a Roma, ancora bambino, da una zia materna, moglie di Vitrasio Pollione, che fu in seguito prefetto d'Egitto per sedici anni, dove soggiornò anche Seneca. 

 

Dei due fratelli di Seneca, il maggiore, Marco Anneo Novate, che adottato dal retore Giunio Gallione, ne prese il nome, percorse la carriera consolare e fu console e proconsole deii'Acaia (dopo la mone del fratello Lucio, al quale era legato da profondo affetto, si uccise: a lui Seneca aveva dedicato il De ira, il De vita beata e il perduto De remediis fortuitorum); il fratello minore, Mela, di cui Seneca parla poco, ebbe per figlio il poeta Lucano. Da giovinetto Lucio Anneo Seneca ebbe a soffrire non poco per la cagionevole salute, minacciata anche  243   esistono le vecchie scuole, dall'altro lato - sia pur riprendendo un motivo ciceroniano, ma per altro fine - confessa che egli, in realtà, non è né stoico, né platonico, né altro, in senso stretto. dalla sua continua applicazione negli studi. In Roma ascoltò dapprima Sozione di Alessandria e Sestio il Giovane, poi Attalo, Papirio Fabiano ~ il cinico Demetrio. Su consiglio del padre che temeva per la salute del figlio, che preso dagl'insegnamenti di Sozione si era dato ad una "vita pitagorica" eccessiva, e che temeva che il figlio fosse accusato di pratiche occulte, Lucio Ann~ Seneca si dedicò alla carriera oratoria ed a quella politica. Nominato questore nel 31 o 32 d. C., anche per aiuto della zia, Seneca entrò in Senato ove fu ammirato per la sua eloquenza e sapienza. Nel 39, una sua troppo libera orazione in Senato irritò l'imperatore Caligola, che avrebbe voluto sopprimerlo. Seneca · si salvò per intercessione di una favorita dell1mperatore, la quale sostenne eh'era inutile uccidere un uomo già vicino alla morte per malattia. 

 

Ritiratasi dalla vita politica attiva, Seneca rimase in contatto con la corte imperiale, godendo, come egli stesso confessa (Cons. aJ Hellliam, V, 4), di potenza, di onori, di denaro. Si legò allora di amicizia con Giulia Livilla, figlia minore di Germanico, sorella di Caligola. Fu proprio la sua amicizia per la dignitosa principessa, che mai volle adulare l'imperatrice Messalina, moglie dell'imperatore Claudio, che, nel 41, rovinò Seneca. Messalina, gelosa di Giulia, per l'influenza ch'ella aveva sull'imperatore Claudio, riuscl a far sospettare Giulia di adulterio, tanto da farla cacciare da corte e, poco dopo, da farla uccidere. Seneca fu coinvolto in ·questa losca faccenda. Forse si disse di lui ch'era stato amante di Giulia. Seneca fu da Claudio condannato al- l'esilio e relegato in Corsica. Nove anni durò l'esilio di Seneca. Egli ne fu richiamato nel 49, dopo la morte di Messalina, da Agrippina, figlia di Germanico, nuova impe- ratrice. Tornato a Roma, Seneca fu assunto da Agrippina in qualiti di precettore e, poi, di consigliere del figlio Domizio che Agrippina aveva avuto da un suo precedente matrimonio con Gn. Enobarbo. Domizio, fatto sposare ad Ottavia, figlia di Claudio c di Messalina, e adottato dall'imperatore Claudio, fu contrapposto dalla madre Agrip- pina, per la successione al trono, a Britannico, figlio legittimo di Claudio c di Messa- lina. Morto Claudio nel 54, avvelenato, a quanto sembra, da Agrippina, Domizio, col nome di Nerone, sal! al trono imperiale (nel 55 Nerone fece uccidere Britannico). Seneca, insieme a Burro, prefetto del pretorio, si sforzò, e in parte riusc!, d'indirizzare, su di un piano di onesti e di dirittura morale e politica, l'azione del giovane impe- ratore, sottraendolo all'infausto potere della madre. In effetto Seneca, tra il 55 e il 60, fu la reale guida della politica imperiale. Dopo la tragica fine di Agrippina, fatta uccidere dal figlio (59 d. C.), Nerone si sottrasse sempre di piu alla benefica influenza di Scneca, nel suo desiderio di un potere assoluto. 

 

Lo stesso Senato, d'altra parte, si oppose a molte delle propOste di riforma, tra cui una finanziaria a favore del popolo, avanzate da Seneca. G~ nel 58 Seneca era stato attaccato dai suoi nemici, attraverso Suillio che lo accusava di avere accumulato in quattro anni esose ricchezze, di essersi incamerate erediti estorte a vecchi incapaci, di avere usato usura sulle province c sull'intera Italia. Seneca riuscl a far esiliare Suillio nelle isole Baleari. Una chiara risposta a tali accuse l'abbiamo nel De vita beata. Dopo la morte di Burro, avvenuta nel 62 - c'è chi ha sospettato per veleno propinatogll da Nerone, - Scneca, avendo compreso che ogni suo tentativo sarebbe ormai fallito, che la sua stessa vita era in pericolo, offerte le sue ricchezze all'imperatore, gli chiese, ad un tempo, di abbandonare la corte. Nerone rifiutll sia le ricchezze sia le dimissioni di Seneca, che, ruttavia, si ritirò a vita·allatto privata, accantonando ogni lusso e fasto e vivendo, soprattutto in campagna, dedito solo agli srudi e a scri- vere. Dopo la morte di Burro e l'allontanamento di Seneca, sempre piu scellerato c terribile divenne il governo di Nerone'. Si ordi allora una congiura, di cui a capo fu il nobile Calpurnio Pisone. Vi aderirono cavalieri, senatori, soldati, donne, tra cui l'eroica liberta Epicari. Sembra che Seneca, sia pur conoscendo la cosa, non abbia avuto alcuna parte attiva nella congiura. I congiurati avevano intenzione di liberani di Nerone e di nominare in sua vece Pisone. Ci fu anche chi pensò a Scneca come  I rami della grande famiglia filosofica si appassiscono per mancanza di polloni. Le due Accademie, l'antica e la nuova, non hanno piu pontefice che le continui. In chi ritrovare la·tradizione e la dottrina pirroniane? L'illustre, possibile imperatore. Scoperta la congiura, molti dei suoi aderenti furono condannati a morte: tra essi Calpurnio Pisone e Plauzio Laterano. Anche Sencca accusato di segreti accordi con Pisone - fu condannato a morte. 

 

La sua morte fu esempio di grandezza morale, l'ultimo appello di Sencca. Era l'anno 65 d. C. Anche se molte, non tutte le opere di Sencca sono pervenute. Alcune sono andate perse (Ad Gallionem fratrem de remediis fortuitorum, ricordato da Tertulliano, di cui, nel Medioevo, si fece una rielaborazione dallo stesso titolo; De matrimomo, di cui si serv{ San Girolamo 'per comporre l'epistola Ad /ouinianum; Villl paJris; Edortationes e De officiis di cui fece uso nel VI secolo Martino di Brancara per la sua Formula honestae vitae o De quattuor virtutibus); di altre abbiamo frammenti o parti (orazioni fatte in lode di Messalina, per Plauzio Laterano; discorsi composti per Nerone ai pretoriani, al Senato, in onore di Claudio, forse anche quello al Senato per giustificare la morte di Agrippina; poesie, epigrammi; De immtllura morte, Quomodo amicitia continenda sit, De superstitione dialogus; probabilmente i Mora/es libri philosophiae non sono un'opera a si: andata persa, ma una citazione per indicare il complesso delle opere morali; De motu terrarum, De situ lndiae, De situ et sacris Aegyptiorum, ' De forma mundi). Nel Medioevo andarono sotto il nome di Seneca florilegi e raceoolte di sentenze (De copia verborum, ricavato dal De officiis e dalle Lettere a Lucilio; Monita Senecae, Liber de moribus, Proverbia Senecae, ricavati dalle opere morali di Sencca; in reald i Proverbia, costituiti di 149 sentenze in ordine alfabetico da N a Q, derivano dal Liber de moribus, e furono redatte per proseguire le Sentenze, in ordine alfabetico· da A a N, di Publio Siro). 

 

Quintiliano divide le opere di Seneca in Orationes, Poemllla, Epistulae, Dialogi. Nei Oialogi Quintiliano faceva rientrare tutte le opere filosofiche, anche quelle non a carat- tere dialogico, tranne le Epistulae ad Lucilium. La tradizione manoscritta, invece, ha raccolto sotto il titolo di Dialogi i seguenti scritti: De prouidentia, De constantia sapientis, De ira libri tres, A d Marciam de consolatione, D e uitll bealll, De otio, De tranquillitllle animi, De brevitllle uitae, Ad Polybir<m de consolatione, Ad Helviam matrem de consollllione. Conosciuta gi~ da San Girolamo e da S. Agostino, senza dubbio apocrifa ~ la corrispondenza tra Seneca e San Paolo, composta da un cristiano; come apocrife sono le Notae Senecae. ln ordine approssimativamente cronologico le opere di Seneca pervenute sono: Consolatio ad Marciam (certo posteriore ·all'avvento al trono di Caligola, sembra. sia stata composta tra il 37 e il 40; 'è scritta per consolare Marcia, figlia dello stoico Cremuzio Cocdo, che, accusato da Sciano di lesa maesd per avere parlato nei suoi Annali con troppa libem, per sfuggire alla condanna, si suicidò; Marcia ottenne da Caligola di pubblicare gli Annali del padre, epurati delle parti pericolose; madre di due figlie e di due figli, Marcia restò profondamente depressa per la morte dei due maschi, particolarmente del secondo, Metilio; la Consolatio è composta, appunto, per dare conforto a Marcia colpita dalla sventura della morte di Metilio); De ira (com- posto certo sotto Caligola, sembra che lo serino, in tre libri, mutilo dell'inizio del primo, dedicato al fratello Anneo Novato, sia stato pubblicato subito dopo la morte di Cali- gola, verso il 41; è un'analisi minuta e precisa delle umane passioni, di cui la piu funesta è l'ira); Comolatio ad Helviam (probabilmente del 42 o 43, per consolare la madre, rimasta vedova, dal dolore per l'esilio del figlio in Corsica); Consolatio ad Polybium (mutila del principio, composta tra il 43 e il 44, in Corsica, per conso- lare il potente liberto di Claudio, Polibio, che avrebbe potuto farlo tornare dall'esilio, del dolore per la morte di un fratello); Epigrammi (alcuni scritti durante l'esilio in Corsica); De bretJitate vitae (sembra del 49, al ritorno dall'esilio; dedicato a Paolino, prefetto dell'annona, forse il padre di Pomponia Paolina che sar~ la seconda moglie di Seneca;· il tema fondamentale dello serino è la "tesi che a torto gli uonini si  245   ma impopolare, scuola di Pitagora non ha ti'Ovato rappresentante alcuno. Quella.dei Sesti, che la rinnovava con un vigore tutto romano, seguita alla sua nascita con entusiasmo, è già morta. Di contro, quale cura, quali sforzi perché il nome di un sia pur minimo pantomimo non vada per- duto! (Nat. quaest., VII, 32). 

 

Chi ci ha preceduto non dev'essere nostro padrone, ma nostra guida. La verità è aperta a tutti e non è possesso di nessuno: molto n'è rimasto ancora per i futuri (Epist., 33, 11). Che male c'è a utilizzare· i filosofi lagnano della brevità della vita, perch~ sono essi che la rendono tale sciupandola con una prodigalità insensata in occupazioni vuote e inutili, ivi comprese per alcuni le ricerche erudite, e nel compiacere alle loro passioni e ai loro vizi"); De elementi~~ (indi- rizzato a Nerone da poco imperatore, sembra sia stato scritto tra il 55 e il 56; secondo il Pr~c, poco coovincentemente, sarebbe stato composto nel 54-55: l'opera è stata divisa in 2 libri; nella prima parte si discute il valore della clemenza, particolar- mente opportuna per un sovrano; nella seconda parte - pervenuta mutila - si defi- nisce la clemenza, distinguendola dalla misericordia, compassione, e dalla venia, per- dono); De constantia sapientis (dedicato ad Anneo Sereno, prefetto tligilum; non si sa esattamente quando sia stato scritto, certo tra il 55 e il 58; vi si dimostra che il saggio non può ricevere n~ in;,.;a n~ eontumeli{l); De beata t1ita (sembra del 58, perché nella risposta ali"accusa che i filosofi non conformano la propria vita alle teorie sostenute, si è veduta una risposta alle accuse rivolte da Suillio contro Seneca; è giunto mutilo dell'ultima parte; vi si disegna il ritratto del saggio ideale ed il conflitto mocale, proprio del saggio reale); De otio (scritto nel 62 circa, è giunto mutilo della prima e dell'ultima parte; vi si difende la tesi dell'opportunità di riti- rarsi dalla vita politica attiva, qualora i casi lo.rendano necessario); De wanquillitate animi (dedicato a Sereno, fu composto nel 62 o nel 63; è una precisa disamina dell'uomo conBitto morale, e del conflitto tra vita attiva e vita contemplativa, tra otium e negotium); De twotlidentia (certo ·dell'ultimo periodo, fu forse scritto nel 62 o nel 63; è dedicato a Lucilio, scrittore, probabilmente autore del poemetto Aetna; Seneca, abbandonàta la questione che il mondo non sottostà al caso ma è retto dalla Provvidenza, qui tenta dimostrare che il corso del tutto è retto da una legge eterna, per rispondere meglio alla domanda di Lucilio perché se il mondo è retto dalla Prov- videnza, tanti guai càpitano agli uomini buoni; il centro dello scritto s'impernia sulla tesi che non vi sarebbe vita morale senza conBitto e senza ostacoli); De bene/ieiis (dedicato ad Ebuzio Liberale, in 7 libri, è dell'ultimo periodo della vita di Seneca, probabilmente del 62 i libri I-IV, del 63-64 i libri V-VI e il VII, che è chiaramente un completamento; vi si discute a fondo, attrave~so l'esame di chi davvero sia beneficante e chi beneficiato, il rapporto servo-padrone); Natfll'ales ()uaestiones (ne sono rimasti 7 libri degli 8 che doveva contenere; sono dedicate a Lucilio e furQno com- poste tra il 62 e il 64, il libro VI certo dopo il 63 perché vi si ricorda il terremO(o di Pompei avvenuto in quell'anno; accanto a una descrizione dei fenomeni naturali non poche volte Seneca cerca d'inquadrare l'opera mediante riflessioni morali); Epi- stulae morales ad Lueilium (sono 124 lettere, divise ora in 20 libri, scritte all'amico Lucilio tra il 60-62 e il 65; rappresentano forse la piu alta opera di filosofia morale del pensiero romano). Notissime sono le tragedie· di Seneca: Hercules, Troades (o Hecuba), Phoenissae (o Thebais), Medea, Phaedra (o Hippolytus), Oedipus, Agamennon, Thyestes, Her- cules Oetaeus. Citiamo infine il Ludus de morte Claudii, da Dione chiamato Apol(oloeynthosis, l'inzueeamento di Claudio, ossia la consacrazione della zucca (alla deificazione, apo- theosis, di Claudio, decretata dal Senato, Seneca, in questa sua satira· menippea, com-. posta in prosa e· in versi, rispondeva che, in effetti, era quella la deificazione di una zucca: lo scritto è del 54 circa). 246    delle altre scuole nella misura in cui sono nostri? (De ira, l, 65). - Non mi lego ~ nessuno dei maestri stoici: ho anch'io diritto di giudicare (De vita beata, III, 2). - Non mi sono dato la legge di non far nulla contro il detto di Zenone o di Crisippo..., ed eco possiamo farci dei comandi di Epicuro in mezzo al campo di Zenone (De otio, III, l; I, 4).- Possiamo discutere con Socrate, dubitare con Carneade; riposarci con Epicuro, vin- cere l'umana natura con gli Stoici, oltrepassarla con i Cinici (De brev. vit., XIV, 2). - Non mi sono alienato nessuno: di nessuno io porto il nome (Epist., 45, 4). 

 

Non parlo con te la lingua stoica...; permettimi di usare parole comuni (Ep., 13, 4; 59, 1). 

 

Le anime piu celebri costituiscono una vera e propria famiglia; scegli quella in cui vuoi entrare (De brev. vit., XV, 3). In realtà l'opzione di Seneca per certi aspetti dello Stoicismo, il suo gusto per commosse rievocazioni di esempi di uomini, vissuti e morti da uomini, per la delineazione di certe figure di pensatori, le cui con- cezioni siano state coerentemente vissute (Epicuro, Demetrio cinico), assumono un senso ed un significato di validità, qualora se ne veda la genesi in certe situazioni precise entro i termini della tormentata vita di Seneca, che ha vissuto e operato in un periodo e in un ambiente estremamente tormentato e drammatico. Sembra cosi di potersi rendere contò del significato dato da Seneca alla "filosofia," intesa non come "concezione" o scienza per sé, ma come cultura, come riflessione cri- cica, formatrice, attraverso la stessa attività del pensiero, della persona umana - diremmo non come "filosofia teoretica" né come "filosofia della morale," ma essa stessa filosofia come moralità - educatrice e, perciò, liberatrice, consolatoria. "La filosofia non sta nelle parole, sta negli atti: forma e plasma l'anima, dispone la vita, regola le azio9i;... senza di lei nessuno pu~ vivere intrepidamente, nessuno senz'affanni" (Ep. a Luc., 16, 3). "Pur concedendo a Posidonio d'aver portato un gran contributo alla filosofia, non posso ammettergli che la filosofia abbia trovato le arti di uso co- mune, né saprei darle la gloria dei mestieri fabbrili... La sapienza sta piu in alto, non delle mani maestra, ma delle anime" (Ep. a Luc., 90, 7, 25-26). 

 

Il pensiero di Seneca e, in conclusione, il suo àppello a una vita ragionevole (non eroica - gli eroi si ammirano e si presentano come esempi, - non puramente passionale, cioè non riflessa) non è scaturito né da un'esercitazione scolastica anche in filosofia ci perdiamo in cose inutili, impariamo per la scuola anzi che per la vita (Ep. a Luc., 106, 12) - né dal gusto per una costruzione non contraddittoria, o perfettamente corrispondente ad analisi logiche e linguistiche, ma da  una continua riflessione su esperienze di vita: dalla presenza, nella vita, del dolore, della paura, da una o da altra precisa situazione umana, in un certo ambiente, in una certa ora, dalla riflessione sulla propria vi- gliaccheria, dall'esperienza - vivissima in Seneca - che l'uomo è non un tutt'uno, ma un insieme di linee spezzate, contraddittorie. 

 

Di qui l'impossibilità di presentare la concezione di Seneca sul tutto e sulla realtà come rispondente o meno a una precostituita • filosofia>" estraendo dalle opere di lui - ognuna delle quali risponde a situazioni precise e individuabili nel tempo, onde andrebbero lette cronologicamente - una specie di sentenziario morale, unico e valido sempre. Tutta questa folla che litiga nel foro - scriveva Seneca in una delle sue prime opere, la Consolazione a Marcia, - che si (diverte] nei teatri e prega nei templi, cammina verso la morte a passi piu o meno· rapidi: un solo cenere eguaglierà le cose che ami e che veneri e quelle che disprezzi. Questo significa il famoso detto che figura tra gli oracoli pitici: "Conosci te stesso." Che cosa è l'uomo? Un fragjle vaso che si può rompere a qual- siasi scossa, a qualsiasi colpo: non è necessaria una grave tempesta per distruggerti: dovunque andrai a sbattere ti infrangerai. Che cosa è l'uomo? Un corpo debole, fragile, nudo, senza difese naturali, bisognoso del soc- corso altrui, esposto a tutte le ingiurie della sorte... Da quando vediamo la prima volta la luce, entriamo nel cammino della morte e ci andiamo avvicinando alla mèta fatale... Niente è piu fallace della vita umana, niente è piu insidioso: nessuno sarebbe disposto ad accettarla, se non gli venisse data quando non è ancora in grado di capire... (Cons. a Marcia, 11, 2-3; 21, 6; 22, 3). E che? 

 

Pretendo di essere un saggio - esclama Seneca in un'altra delle sue prime opere, la Consolazione alla madre Elvia;- nient'af- fatto. Se avessi il diritto di professarmi tale direi che non sono infelice... (5, 2). Io non sono un saggio - dirà ancora Seneca ne La vita felice, venti anni dopo circa - e non lo sarò. 

 

Esigi dunque da me non che stia alla pari con i migliori, ma che sia il migliore dei malvagi: a me basta togliere qual- cosa ogni giorno dai miei vizi e rimprover~rmi i miei errori. Non sono giunto alla perfetta sanità morale e neppure vi giungerò...: io vivo spro- fondato in difetti di ogni genere (De vita beata, 17, 3-4). La riflessione di Seneca si muove, sempre, da si.tuazioni singolari e precise, da fatti di esperienza o da determinate impressioni e condizioni psicologiche: dal tentativo di consolare una madre per la perdita del suo bambino (Ctmsolatio ati Marciam, composta tra il 37 e il 41 circa) a quello di consolare sua madre Elvia per il dolore ch'essa prova per l'esilio cui, per avvenimenti politici, è stato costretto, lui, Seneca (Ctm- solatio ad Helviam, del 42 o 43); dal compromesso di aecattivarsi Po- libio - liberto di Claudio - che può farlo rientrare dall'esilio in Cor- 248    sica, consolandolo per la morte di un suo fratello (Ccmsolatio ad Po- lybium, del 43 o 44); alla riflessione sull'assurdità dell'ira (De ira, com- posta, contro Caligola, certo dopo la morte di lui, 41, in cui Seneca, denunciando la disumanità dell'ira, vede in essa gran parte dei mali della storia, il velen~ che spezza i rapporti umani e scioglie la società: "finché viviamo tra gli uomini rispettiamo l'umanità!": III, 43, 5); alla riflessione sulla brevità della vita {De brevitate vitae, del 49 circa, dopo il ritorno a Roma dall'esilio) e su quella che può essere una vita compiuta (De vita beata, posteriore all'esilio, quando ancora Seneca esercitava la sua funzione di consigliere di Nerone, del 58 circa); al tentativo di delineare per Nerone lo schema di una ideale condotta di vita politica in nome della società umana (De clementia, del 55, poco dopo l'avvento di Nerone); alla riflessione sul proprio fallimento poli- tico che lo ha costretto a ritirarsi dalla vita politica attiva {De constantia sapientis, De otio, De tranquillitate animi, De beneficiis, De provvi- dentia, opere scritte tutte tra il 59 e il 61); all'ultima meditazione sulla natura e sul divino (Natura/es quaesticmes, in VII o VIII libri, composti tra il 62 e il 64); in un continuo approfondimento e colloquio di sé con sé che diviene educazione, costruzione di sé, liberazione e perciò stesso discorso con altre anime, educazione e liberazione degli altri: insieme; ogni volta ricominciando da capo, discendendo ogni volta agli inferi della propria coscienza, in un ·sempre aperto conflitto morale (di qui la stessa forma dialogica di alcune opere di Seneca - Ccmsolatio ad Marciam, Ccmsolatio ad Polybium, Consolatio ad Helviam, De provi- dentia, De constantia sapientis, De vita beata, De otio, De tranquillitate animae, De brevitate vitae, De ira, - che non è solo artificio retorico, e che assume il suo significato piu alto, di ragionamento insieme e di avviamento, nelle bellissime Lettere a Lucilio, composte tra il 63 e il 65, l'anno della morte di Seneca). Seneca, certo, non fu un predicatore. L'opera sua è l'opera di un ~orno tormentato e tormentante, vissuto in un'epoca tormentata, in mezzo a gente (la corte di Caligola e di Claudio prima, di Nerone poi) estre- mamente complicata, di là dal bene e dal male, almeno secondo i vecchi parametri. 

 

Sotto questo aspetto Seneca rappresenta davvero la coscienza di una certa situazione storica, la crisi di un certo complesso di valori, dando voce, appunto, e senso a tutta un'epoca, anche se, di volta in volta, egli ha preso le mosse da particolari situazioni, da singolari com- promessi e dubbi. Parlando in termini di retorica, diremmo che le "tesi" di Seneca sono la conclusione delle "ipotesi" ch'egli, di volta in volta, ha posto in discussione. Non va intanto scordato che Lucio Anneo Seneca era  249   figlio di un celebre uomo di lettere, oratore, storico dell'oratoria, Anneo Seneca di Cordova. Oratore era anche un suo fratello, Marco Anneo Novato,(adottato dal senatore Giunio Gallione, ne assunse il nome), che fu console e proconsole dell'Acaia (a lui Seneca dedicò il De ira, il De vita beata, il De remediis fortuitorum, perso, citato da Tertulliano, Apol., 50). 

 

La madre di Seneca, Elvia, fu donna di cultura, particolar- mente interessata alla filosofia. Ella avviò il figlio a tali studi. Seneca, da bambino, giunto a Roma dalla Spagna - dov'era nato nel 34 a. C., a Cordova - insieme a una zia materna, moglie di Vitrasio Pollione - prefetto per sedici anni dell'Egitto, dove per un certo periodo fu anche Seneca, - se da un lato s'interessò vivamente per gl'insegnamenti prima di Sozione di Alessandrja e di Sestio il giovane e poi di Attalo, di Papirio Fabiano e di Demetrio cinico, dall'altro lato, spintovi soprat- tutto dal padre - che temeva per·la salute cagionevole del figlio, il quale preso dagl'insegnamenti del pitagorico Sozione conduceva un'ec- cessiva morigerata "vita pitagorica," e per i pericoli che in quel tempo correvano i pitagorici, sospetti di pratiche occulte, - si dedicò alla car- riera oratoria ed a quella politica. Nominato questore, nel 31 o 32, anche per aiuto della zia ("dalle -sue braccia fui condotto a Roma, per le sue affettuose e materne cure ritornai alla salutè dopo una lunga malattia, per la mia elezione a questore ella usò la sua influenza, e lei, che non trovava neanche l'ardire di· parlare e salutare ad alta voce, per amor mio vinse la sua timidezza; né la sua vita ritirata, né il suo riserbo campagnolo in mezzo a tanta sfrontatezza femminil!!, né l'indole sua pacifica e solitaria, l'arrestarono: e per me essa divenne ambitiosa": Cons. ad Helv., 19, 2), Seneca entrò in Senato, ove fu ammirato per le sue capacità oratorie. 

 

Narra Dione Cassio che nell'anno 39 d. C. Seneca, 'uomo che i romani tutti del suo tempo ed altri molti superava per sapienza,' corse pericolo di morte non per alcuna sua colpa, ma perché in Senato, al cospetto di Cesare (Gaio, detto Caligola), aveva pronunziato una bella orazione. Ma il principe, pur avendone decisa la morte, lo risparmiò cedendo ai consigli di una favorita la quale assicurava che Seneca, preso da consunzione, sarebbe morto fra poco (cfr. Dione Cassio, LIX, 19, 7). L'aneddoto di Dione è oscuro: ma esso nasconde una qualche dignitosa azione del giovane senatore, che invano chiederemmo quale sia stata alla meschina e acri- moniosa testimonianza di quello storico. [La principale testimonianza sulla vita di Seneca è quella di Tacito: Tacito parla di Seneca con piu avveduto criterio, senza predilezione, con un certo studioso riguardo delle fonti piu ostili e con la sospettosità propria della sua indole. La narrazione di Dione è inquinata dalla palese avversione che egli nutre per Seneca e dalla meditata ed infida malignità delle fonti cui attinge. Perdute sono le Storie civili di Plinio, nemicissimo a Seneca, ed è per- duta l'opera di Fabio Rustico, che Tacito ricorda come lo storico a Seneca piu favorevole, Annali, XIII, 20; poche notizie si ricavano da Svetonio]. Sarebbe infantile credere che una condanna a morte fosse solo dovuta al malumore invidioso di Gaio per una bella orazione di Seneca; un imperatore di Roma, fosse anche Caligola, non può condan- nare a morte un senatore per un successo oratorio, quando questo non sia pure un successo politico; e Seneca dovette allora parlare molto, anzi troppo liberamente in quel consesso a cui invano piu tardi cercò di restituire la perduta e mai piu ripresa dignità. Seneca si vendicò inesorabilmente di Caligola che in tutte le opere ci presenta come il tipo del piu miserabile e bestiale tiranno (cfr. De ira, I, 20; III, 18-20; Ad Helv., 10, 4; Ad Polyb., 17, 3; De tranq. an., XIV; De brev. tlitae, XVIII; De const. sap., XVIII; De benef., IV, 31; Nat. quaest., IV, pref., 17)" (C. Marchesi, Seneca, Messina, pp. 10-12, 3). Seneca, allora, abbandonò l'azione diretta, mediante l'avvocatura, e abbandonò la pubblica carriera politica, sia per il pericolo corso, sia perché si rese conto che molto piu efficace sarebbe stata in quella certa si- tuazione politica la sua azione, mediante altro tipo di convinzione. Sotto questo aspetto sembra chiaro in che.senso si possa dire, che, in realtà, Seneca non abbandonò né la vita politica né l'oratoria. Ogni sua opera, anzi, fu un'intelligentissima e abilissima orazione, in un'ana- lisi minuta e concreta delle passioni umane, nel tentativo di indirizzare, entro i termini di una precisa concezione dell'uomo e della natura umana, coloro cui si rivolgeva, fosse pure se stesso, ad essere uomini sul serio tra uomini, sapendo, d'altra parte, sia per esperienza personale sia conoscendo a fondo uomini e cose del suo tempo, quanto complicato, difficile, non umano ---conflitto di passioni, spezzato, non tutto un blocco - sia l'uomo. 

 

Vicinissimo a Cicerone, soprattutto nell'intenzione di operare mediante la parola su di un certo gruppo di uomini in fun- zione di un certo ideale politico e di un certo ideale di uomo, nel ri- tenere la filosofia cultura con cui formare l'uomo, liberarlo dalle sue paure, dal timor della morte, renderlo uomo (si veda, ad esempio, il topos della filosofia salvatrice, della filosofia senza di cui nessuno può vivere da uomo, senza affanni, senza il terrore della morte: Cicerone, Tusculanae disp., V, 2, 5-6; Seneca, Ep. a Luc., 16, 3; da cui anche il topos della consolatio), in uno sforzo e in una fatica con cui l'uomo costituisce sé razionalmente, volta a volta, in una conquista personale (donde l'avvicinamento di Seneca ad Epicuro); Seneca è da Cicerone lontanissimo nel modo di intendere la funzione retorica dena filosofia,  ché altra è venuta ad essere la situazione.politica, l'ambiente, gli uo- mini su cui operare, altro l'impegno. 

 

Sottilissimo studioso delle passioni umane, Seneca che, su sua con- fessione, aveva sentito profondamente la lezione di Sestio il Giovane, di Sozione, di Fabiano Papirio, di Demetrio, che vide attraverso Cali- gola e Claudio far lentamente naufragio quella respublica, delineata da Cicerone, apparentemente realizzata da Augusto, per ciò che gli fu possibile, tentò di formare sé e gli altri come uomini: uomini che po- tessero, in un reciproco rispetto costituire una verace res-publica, in una misura ed armonia, poste come dover essere. Di qui i due motivi su cui s'intreccia tutta la meditazione di Seneca: da un lato una descri- zione dell'uomo - triste, infelice, combattuto, impaurito degli altri, e perciò desideroso di prevalere sugli altri, ma che anche fugge da se stesso; - dall'altro lato l'uomo quale dovrebbe essere, vincitore di ~ in quanto conflitto di passioni, "con-vinzione" di passioni, in una mi- sura che dovrebbe essere la stessa razionalità, in ciò eguale agli altri uomini, ciascuno a suo modo, in un'armonia e ordine che ci trascende dal di dentro, che si pone come dovere da realizzare, e che trova il suo fondamento in una ideale razionalità del tutto. Già in tal senso si ve- dano le prime due opere di Seneca, la Consolatio ad Marciam, del 39, e il De ira del 41 circa, dedicata al fratello Novato. Scrive Seneca nella Consolatio ad Marciam (XXXI, 6): "A ciascuno viene dato ciò che gli era stato promesso: i fati seguono il loro corso e non aggiungono né tolgono mai nulla a quanto una volta per tutte hanno stabilito... 

 

Da quando vediamo per la prima volta la luce, entriamo nel cam1nino della morte. I destini compiono la loro opera"; e nel De ira (III, 43, l, 5): "Perché non mettere ordine in codesta tua breve vita e renderla tranquilla per te e per gli altri? [L'uomo irato è un folle, chi non sa porre ordine in sé, chi non scopre sé in quanto ragione, cioè misura, è uomo rotto nelle passioni, è in realtà non uonto]...Fin tanto che respiriamo, finché viviamo tra gli uomini, rispettiamo l'umanità." Di qui, anche, due altri motivi dell'atteggiamento senechiano. Una qual certa contraddizione tra l'ordine del tutto stoicamente scandentesi in una necessità fatale, che fa si che ogni aspetto della realtà sia là dove è bene che sia, in un'adeguazione della ragion d'essere di cia- scuna cosa alla ragione d'essere, all'egemonico del tutto, e la possibi- lità da parte umana di adeguarsi volontariamente a quell'ordine. Posto che tutto è fatale, che tutto è come deve essere, anche le passioni, anche l'uomo disarticolato e spezzato nella sua molteplicità, non possono es- sere, nell'ordine, se non come sono. Non si vede bene perciò come l'uomo possa - se già nell'ordine non è scritto - da folle, da sragionevole, da groviglio di passioni, passare all'ordine, rendersi conto, rea- lizzarsi secondo ragione, come cioè possa passare dal male al bene; e anche come, la società rotta, ove predominano queste o quelle passioni, dove predominano questi o quegli uomini, possa trasformarsi in società, come riconoscimento dell'eguale per tutti ordine sociale, fatto a mo- dello del presunto ordine sociale del tutto. 2) 

 

Un conflitto sempre presente in Seneca, tra quel mondo assoluto e come posto dietro le spalle, tra un dovere assoluto, per cui è esclusa ogni possibilità d'azione onde il "saggio" stoico resta avulso da ogni società umana, fuori di qualsiasi sfera d'azione, - è esclusa ogni possibilità di convinzione, di educazione, è escluso lo stesso conflitto morale; e quello stesso ordine e misura, quella uguaglianza, cui si giunge, non in quanto data, e in quanto ad essa ci si adegui per via puramente conoscitiva, ma in quanto essa si scopre, si pone attraverso lo stesso conflitto morale, nell'atto in cui ciascuno oltrepassa _la lotta delle passioni, componendo le pas: si~ni stesse, in un ordine che non c'era prima, ma che, appunto, si troya "nuovo," attraverso la stessa riflessione. La filosofia perciò non è filosofia della morale, ma filosofia morale, che prospetta, non piu dietro le spalle, ma dinanzi agli occhi, termine di realizzazione, l'ordine e la razionalità della stessa natura. Tale razionalità, dunque, non è piu un dato, ma una "invenzione," che permette sia la comprensiòne delle oscillazioni e dei conflitti, sia, attraverso il dialogo e la riflessione comune, la composizione della plu- ralità delle ragioni, l'avviamento, la possibilità della convinzione, in una sempre rinnovantesi apertura. Entro un certo tipo di cultura - l a koiné culturale stoico-platonica, di cui abbiamo parlato, ancora vi- vissima in Roma al tempo della giovinezza di Seneca, tra Augusto e Tiberio, - entro i termini di una precisa situazione sociale,· quale si era determinata tra la fine dell'impero di Tiberio e il periodo in cui ebbero in mano le sorti di Roma Caligola, Claudio e quella terribile donna che fu Agrippina, in tale conflitto stanno il mordente e il signi- ficato della morale senechiana. Non solo, ma anche sembrano emergere di qui molte delle oscilla- zioni di Seneca, sia entro i limiti della sua concezione, sia, per altro verso, relativamente all'ambiente e agli uomini per i quali Seneca ha scritto, fino, pare, a giungere, talvolta, ai piu gravi compromessi in funzione, certo, del tentativo di modificare se stesso e gli altri. E quando si dice altri, bisogna pensare non ad astratti altri, ma a questo o quel- l'amico, in questa o quella situazione: al fratello Novato, cui sono dedicati i l D e ira, i l D e vita beata; a Sereno, cui sono dedicati i l De constantia sapientis, il De otio, il De tranquillitate animi; a Paolino,  cui è dedicato il De brevitate vitae; a Ebuzio Liberale, cui è dedicato il De beneficiis; a Lucilio, cui sono dedicati gli Epistolarum moralium libri e le Natura/es quaestiones; e, per altro verso, soprattutto quando Seneca fu maestro e consigliere di Nerone, a Nerone per il quale Seneca scrisse il De clementia, l'anno dopo l'avvento di Nerone al potere, dal quale dipendevano quegli altri. Non a caso nel Proemio del De Clementia (1,2), Seneca fa dire a Nerone: "Sono io che decido della vita e della morte delle genti; il destino e la condi- zione di tutti sono nelle mie mani; quel che la. Fortuna spartisce a ciascun mortale, lo fa conoscere per, bocca mia; al mio responso è subordinata la letizia delle città e dei popoli; nessuna regione è prospera se non per mia volontà, se non per mio favore... Caduta e nascita delle città si decidono nel mio tribunale." 

 

Sapendo usare certe tecniche, co- noscendo la psicologia di Nerone, si tentava di realizzare in altro modo quello Stato e quella società entro la quale e per la quale Seneca operava. Certo, ogni situazione implica dei compromessi e delle tecniche d'azione diverse, pur di realizzare, anche approssimativamente, certi fini. 

 

Di qui, nel tentativo di educare all'ideale "saggio" stoico, il trasfor- marsi del rigidismo della morale stoica, posta, appunto, non piu come dato, ma come "inventio," dovuta alla stessa capacità (propria del- l'uomo) di costituirsi come ordine razionale, per cui ciascuno può, co· gliendo i propri limiti, le proprie condizioni, senza dubbio dati, entro questi, realizzare se stesso, conoscendo la propria natura, volta a volta scegliere le proprie mosse, anche se esseJ nelle loro possibilità, sono date. Se chi latra contro la filosofia, dirà come il solito: "Perché parli da forte piu di quanto da forte tu non viva? Perché fai la voce sommessa davanti al piu potente e stimi il denaro uno strumento necessario o ti turbi per un danno ricevuto e piangi alla notizia che ti è morta la moglie o l'amico, e ti preoccupi del tuo buon nome e ti offendi delle chiacchiere malevole? Perché i tuoi fondi sono coltivati piu di quanto non richiedano le necessità naturali? Perché non ceni conforme alle regole che predichi? Perché le tue suppellettili sono cosi eleganti? Perché in casa tua si beve del vino che ha piu anni di te?... 

 

Perché hai fatto piantare alberi che da- ranno solo ombra? Perché tua moglie porta alle orecchie il reddito di un ricco casato? Perché i tuoi giovani servi sono vestiti di abiti preziosi? Per- ché in casa tua è un'arte quella di servire a tavola e l'argenteria non è disposta come viene a caso, ma il servizio è cos{ accurato, e ha persino uno scalco specializzato?..." Se vuoi rincarerò la dose dei rimproveri e mi muoverò piu rimbrotti di quel che immagini: ma per ora ti rispondo: "lo non sono un.saggio e non lo sarò. Esigi dunque da me non che stia alla pari con i migliori, ma che sia migliore dei malvagi: a me basta togliere qualcosa ogni giorno dai miei vizi e rimproverarmi i miei errori..." "Però," 254    tu dirai, "in un modo parli e in un altro vivi." Questo rimprovero, o mali- gni, o nemici dei piu virtuosi, fu già mosso a Platone, a Epicuro, a Zenone: tutti quelli predicavano di vivere non come essi stessi vivevano, ma come avrebbero dovuto vivere. Parlo della virtU, non di me, e quando mi scaglio contro i vizi, comincio dai miei: quando potrò, vivrò come dovrei. 

 

Continuerò a lodare non la vita che conduco, ma quella che so che bisognerebbe condurre; continuerò ad adorare la virtU e a seguirla, se pure arrancando a una bella distanza... (De vita beata, XVII-XVIII). Di qui anche un'altra apparente oscillazione di Seneca: da un lato l'esigenza propria del "saggio" stoico di ritirarsi dalla.,vita mondana, dall'altro lato l'esigenza, anche a costo di venir meno alla rigidezza del- l'unica virtu stoica, di operare nel mondo, di modificare, attraverso la parola, l'esempio, anche il compromesso, la societa di fatto. Nella sua altezza, nella sua comprensione che tutto è come deve essere, che tutto è bene e che perciò non vi è nulla da fare, il "saggio" da tutto mona- sticamente si ritira, non piu uomo tra uomini. Solo che cosi: egli viene, alla fine, a disprezzare tutti, nell'orgogliosa affermazione che, tranne il saggio, il resto dell'umanità è folle, sragionevole. In un'evasione da questo mondo, per il "saggio" tutto' è indifferente. 

 

Ma era qui implicita una grave contraddizione, di cui Seneca chiaramente si rende conto. 

 

Il pericolo della "vita stoica" è ch'essa: si risolve in una "pigra ratio," e che nel riconoscimento che tutto è indifferente, che il solo saggio è razionale, di là dalle passioni, in realta, alla fine, non si com- prende piu che tutto, proprio perché è come deve essere, perché è na- tura, è bene (o meglio, in sé né bene né male), e, perciò, che nulla è disprezzabile, nulla indifferente. Se Tizio o Caio, io stesso, siamo piu presi dall'una cosa che dall'altra, patiamo (amiamo o odiamo) una per- sona piu di un'altra, spezzati in tante ragioni o passioni, ché le pas- ~ioni sono, per cosi dire, ragioni in libertà - saremo avari o eccessiva- mente generosi,.irosi, violenti, vili, ecc. - in modi esclusivi ed univoci;:erto, su di un piano polemico, possiamo dire a Tizio o a Caio, a me >tesso, che quelli che si ritengono beni, quell'esclusiva ricchezza, quel- l'esclusivo amore o odio, sono indifferenti. Eppure quei beni che in sé non sono né beni né mali, neppure sono indifferenti se considerati sul piano del conflitto morale. Sotto questo aspetto sembra chiaro in che senso Seneca possa dire che il bene e il male stanno in noi e tocchi a ciascuno di comporre se stesso in unità. 

 

Non solo, ma un altro pericolo, proprio dello stoicismo è che il richiamo a vivere secondo la ra- gione universale, venga, in conclusione, ad annullare l'affermazione, sempre stoica, che; ciascuno viva secondo la sua ragione, cioè secondo ciò che, sia pur nell'ordine totale, a ciascuno compete. L'annullamento della propria ragione nella ragione universale porta a non vivere piu secondo una ragione, a non comprendere piu alcuna ragione, e, perciò, al di- sprezzo per cose e uomini, in un atteggiamentò piu cinico che stoico. In realtà, per Seneca, comprendere cose e uomini, comprendere che ciaseun uomo nasce in una certa condizione e situazione che non dipen- dono da noi, comprendere che l'uomo è non unità, ma molteplicità, implica non una mèra contemplazione di un ordine astratto, ma la volontà di un ordine che si scopre attraverso la stessa riflessione, at- traverso il faticoso tentativo di porre in sé misura, di volta in volta, cogliendo la propria misura entro i nostri limiti e le nostre condizioni, per cui quell'ordine si rifà nuovo ogni volta come termine di realizza- zione, per ciascuno, entro le proprie condizioni e limiti, diverso. Di qui l'esigenza senechiana di agire, di inserirsi, almeno finché ciò è possibile, è utile, non controproducente, in una certa situazione umana, scegliendo di volta in volta i propri mezzi di azione, per avvicinare sé e gli altri, ciascuno per ciò che gli compete, a quell'armonia sociale, specchio della ragion d'essere del tutto, entro cui, una volta rovesciati i terriùni, ognuno non perde se stesso, in un ideale reciproco rispetto, in cui consiste la virtU, cioè l'eccellente realizzazione di ciascuno in quanto uomo, e perciò la piu genuina tranquillitas, onde, appunto, la virtu, insiste Seneca, è premio a se stessa (recte facti fecisse merces est: Ep. a L., 81, 19; cfr. anche De clementia, I, 1). 

 

L'appello di Seneca ad essere se stesso, a non essere presi dalle sin- gole passionì univocamente, a costituire sé e a scoprire sé razionalità, implica l'allontanamento dalla folla, dalla massa degli uomini, ché vi- vere la vita degli altri, della folla, significa perdere se medesimi, vivere ancora una volta secondo passione, in un annullamento nell'anonimo, entro i termini di un'abitudine, significa non vivere socialmente (e folla può anche voler dire un ristretto gruppo di gente). Il che non significa affatto ritirarsi nel deserto: significa anzi, per quel che è possibile, per quel che le circostanze e il destino concedono, tentare di sciogliere gli altri in persone, essere utili agli altri, quando gli altri ne abbiano bi- sogno, senza di cui, in realtà,· non c'è verace società, poiché fin quando v'è folla, v'è solitudine assoluta. Non solo, ma l'appello ad essere se stessi significa anche tentare di realizzare un'autèntica vita associata, nel reciproco rispetto, ché ogni uomo, pur diverso dall'altro, quanto piu è se stesso, è uguale all'altro in quanto uomo (per cui, sotto questo aspetto, non vi sono né servi né padroni); significa, finché è possibile, agire e modificare, attraverso il consiglio e la parola, su ·chi abbia in mano il potere per avviare lo Stato terreno ad uniformarsi alla Città celeste (De otio, IV). Altrimenti, quando tale azione può diventare inutile e controproducente, lo stesso ritirarsi da:lla vita politica in atto insieme agli amici può essere l'indicazione del modello di un'auten- tica vita politica. Ritirati in te stesso quanto puoi l - esclama Seneca, scrivendo a Lucilio, negli anni del suo costretto abbandono della vita politica diretta. - Tratta coloro che ti potranno fare migliore, accogli coloro che tu puoi fare migliori; sono vantaggi reciproci codesti, e gli uomini mentre insegnano, imparano. 

 

Il desiderio vanitoso di fare brillare il tuo ingegno non ti porti in mezzo al pubblico per leggere e dissertare. Ti consiglierei di farlo se tu avessi merce degna di codesta gente; non vi è nessuno che ti possa intendere: uno, forse, o due. Ma, dirai, per chi allora ho imparate tante cose? Non temere, non hai perduto l'opera tua se le hai imparate per te stesso '(Ep. a Luc., 7, 8-9). Chi non ha sollecitudine per alcuna cosa, sa vivere per se tesso. Ma chi ha fuggito gli uomini e gli affari, che le delusioni hanno allontanato dal mondo, chi non ha saputo resistere alla vista degli altri pio felici, chi come animale timido e inerte si è nascosto per paura, costui non vive per sé, ma, turpitudine suprema, per il ventre, il sonno, la libidine: non vivere per nessuno è non vivere neppure per sé (Ep. a Luc., 55, 4-5). E quando Seneca sperava, forse, ancora di potere attwamente agire, cos{ scriveva nel De tranquillitate animi: Ecco quale deve essere la condotta del saggio: quando la fortuna pre- vale e gli toglie la possibilità di agire, non volga subito le spalle e non fugga senza le armi cercando un nascondiglio, quasi ci fosse un luogo in cui la fortuna n~tn·possa raggiungerlo, ma si dia ai pubblici affari con maggior misura e scelga un'occupazione nella quale possa ancora essere utile alla città. Non può fare il soldato: aspiri alle cariche civili. Deve vivere da privato: faccia l'oratore. Gli è stato imposto il silenzio: giovi ai cittadini con la muta assistenza. È pericoloso persino entrare nel foro: in casa, agli spettacoli, nei banchetti, si comporti da buon compagno, da fedele amico, da convitato temperante. Gli sono inibiti i doveri del cittadino: adempia quelli dell'uomo. Per questo, noi [stoici], con animo grande, non ci siamo rinchiusi dentro le mura di una sola città, ma uscimmo al con- tatto dell'orbe intero, e dichiarammo nostra patria il mondo, per potere dare alla virto uri can:tpo pio vasto d'azione. 

 

Ti è stato precluso il tribu- nale e ti si interdicono i rostri e i comizi? Volgiti a guardare quale distesa di ampi spazi si allarghi dietro di te, e quanta folla di popoli: per grande che sia la porzione che ti precluderanno, te ne rimarrà sempre una pio grande... Combatti con la voce, con l'incitamento, con l'esempio, con l'anima. Anche con le mani tagliate trova modo di soccorrere i suoi chi 1 ~siste e aiuta con il grido. Tu fai qualcosa di simile: se la sorte ti ha allont-.'lato dalle prime posizioni della vita pubblica, tieni duro lo stesso e aiuta cvn  la tua voce, e se qualcuno ti comprime la gola, resisti ancora e aiuta col silenzio. Non è mai inutile l'opera di un buon cittadino. Lo si ode, lo si vede. Con lo sguardo, con il cenno, con la costanza silenziosa, con l'ince- dere stesso egli serve... Credi poco utile anche l'esempio di colui che vive bene nel proprio ritiro? La cosa di gran lunga migliore è, anzi, alternare il riposo con gli affari, ogniqualvolta la vita attiva sia preclusa o da circo- stanze fortuite o dalle condizioni della città. Tutte le vie non saranno mai sbarrate al punto che non vi sia spazio per un'azione onesta. Puoi forse trovare una città piu misera di Atene quando i Trenta Tiranni la stra- ziavano?

 

Eppure là, tra il popolo, c'era Socrate, e consolava i padri pian- genti ed esortava coloro che disperavano della repubblica e minacciava ai ricchi, timorosi per i loro beni, il lontano castigo della loro perniciosa ava- rizia, e offriva un grande esempio a· quanti lo volevano imitare, cammi- nando libero tra i trenta despoti. Tuttavia Atene stessa uecise in carcere quell'uomo, e la libertà non seppe sopportare la libertà di colui che aveva impunemente sfidato una schiera di tiranni. ·Questo perché tu sappia che, anche quando lo Stato è oppresso, l'uomo saggio ha occasione di mostrarsi, ma anche quando è prospero e felice poiché regnano la crudeltà, l'invidia e mille altri vizi. A seconda dunque della situazione politica, nel modo che la fortuna lo consentirà, o ci espanderemo o ci raccoglieremo in noi stessi, ma comunque ci muoverc;mo, e non ci intorpidiremo, paralizzati dal timore. ·Anzi, sarà vero uomo colui che, quando i pericoli lo minacciano da ogdi parte, e le armi e le catene gli risuonano d'intorno, non lascerà spezzare dall'urto la sua virtU e non la celerà: seppellirsi non è salvarsi. 

 

Diceva bene, mi sembra, Curio Dentato, quando affermava che preferiva essere morto che vivere da morto: il peggio dei mali è togliersi dal numero dei vivi prima di morire. Ma, se ti imbatterai in un momento della vita pubblica meno facile, dovrai fare in modo di rivendicare piu tempo al ritiro e agli studi e, come durante una navigazione pericolosa, ti dirigerai subito a un porto, e, senza aspettare che gli affari ti congedino, te ne staccherai spon- taneamente. 

 

Dovremmo poi esaminare anzitutto noi stessi, quindi i compiti cui stiamo per accingerci, infine le persone per le quali e con le quali li svolgeremo. Per prima cosa è necessario valutare noi stessi, perché quasi sempre ci sembra di potere piu di quello che in realtà possiamo (De tran- quillitate animi, IV, 2 sgg., V, VI, 1-2). Non a caso, di qui, quando davvero fu preclusa a Seneca l'azione diretta negli affari ddlo Stato, l'avvicinamento ad Epicuro, l'appello di Epicuro all'amicizia, di contro alla falsa politica in atto, a quell'Epi- curo di cui Seneca dice (Ep. a Luc., 6, 6) che piu che la dottrina fu il suo contubernium a educare gli epicurei, in una comunità di amici il "cui acooi:do tra loro era simile a quello che deve regnare in una repubblica bene ordinata" (Numenio, in Eusebio, Praep. ev., XIV, 5, 4); e va sottolineato che sempre piu spesso ritorna il nome di Epicuro nelle 258    opere scritte, appunto, al tempo del suo forzato ritiro (De oiio; De bre- vitate vitae, Epistole a Lucilio). Ancora da. vecchio, Sen;:ca ricordava i suoi primi maestri, confes- _sando l'enornit: impressione che i loro discorsi, la loro vita, il loro esempio, avevano fatto su di lui fanciullo e giovinetto. Quando udivo Attalo parlare.:ontro i vizi, contro gli errori, contro i mali della vita, spesso sentivo compassione dell'umano genere e stimavo sublime quel filosofo, piu alto di ogni altez~a umana. Egli si proclamava re, ma piu che re egli mi sembrava:! Egli che poteva chiamare i re a dar conto della loro condotta. 

 

Quando poi cominciava a raccomandare la po- vertà, e·a dimostrare che, tutto quello che va oltre il nostro bisogno, è un peso inutile a portarsi, spesso avrei voluto uscire povero dalla scuola. Quando cominciava a schernire i piaceri, a lodare la castità, la sobrietà, la purezza.della mente che si astiene non solo dagli illeciti, ma anche dagli inutili piaceri, veniva la voglia di mettere un limite alle esigenze della gola e del ventre. In me, caro Lucilio, qualcosa è rimasta, poiché a tutti quegli inse- gnamenti ero andato con grande entusiasmo; senonché, tornato alla vita cittadina, poco rimase di tanti bei propositi... Poiché ho cominciato a dirti con quanto maggiore entusiasmo comin- ciai da giovane lo studio della filosofia che non lo continuai da vecchio, non mi'vergognerò di confes5àrti quale amore mi abbia ispirato Pitagora. Sozione diceva per quale ragione Pitagora si astenesse dalle carni e per quale ragione poi se ne astenne ·Sestio. I motivi di tale astensione sono diversi per l'uno e per l'altro, ma per l'uno e per !;altro degni di ammira- zione. 

 

Sestio credeva che per alimentarci ne abbiamo abbastanza, anche senza ricorrere a versare sangue e che l'uccisione delle bestie volta alla sod- disfazione dei nostri gusti, diventa una scuola di crudeltà.'.. Pitagora, invece, parlava ·di una parentela esistente tra tutte le cose e dei rapporti delle anime trasmigranti da una in un'altra forma. Secondo lui, nessun'anima si an- nienta... Sozione, dopo aver esposto queste dottrine con ampiezza di argo- menti, "non credi," soggiungeva, "che le a~ime sono distribuite in diversi corpi, e che quella da noi chiamata morte altro non è che un'emigrazione? Non credi che in questi animali domestici o selvaggi o abitanti nelle acque viva un'anima, che altra volta appartenne a un uomo? Non credi che nulla va distrutto in questo mondo e che si tratta solo di un cambiamento di luogo? e che non solo i corpi celesti si volgono per determinate orbite, ma anche gli animali vanno soggetti alle loro vicende, e che le anime sono spinte per i loro cieli? Questa fede l'hanno avuta uomini grandi. Pertanto sospendi il tuo giudizio e lascia indeciso tutto il problema. Se le cose dette sono vere, astenendoti dalle carni ti sarai serbato innocente, se false, sarai stato un uomo frugale. Che ci perdi a prestarvi fede? Ti avrò tolto il cibo dei leoni e degli avvoltoi?". Spinto da questi discorsi, incominciai ad aste- nermi dalle carni e dopo un anno non solo non trovavo difficolt~ in. questa oratica, ma Ci sentivo gusto. Mi pareva di ave!e la mente piu svelta, seb-  259   bene oggi non saprei dirti se tale fosse realmente. Vuoi sapere come fu ch'io smisi quest'uso? la mia gioventu cadde nei primi anni dell'impero di Tiberio, quando i culti stranieri erano oggetto di persecuzione e l'astinenza dalle carni di alcuni animali era considerata come indizio di partecipazione a quelle superstizioni (Ep. a Luc., 108, 13-15, 17-22). Di Fabiano Papirio, oratore e giurista, vissuto sotto Augusto e Tiberio, sempre attraverso Seneca sappiamo che dalla retorica passò alla filosofia pitagorica, interpretata in chiave stoica (Ep. a Luc.; 58, 6; 100, 8 sgg.), che famoso per vita et scientia (Ep. a Luc., 40, 12), condusse una vita da vero "stoico," ritenendo che piu alta di ogni erudizione (De brevi- tale vitae, XIII, 9) fosse l'educazione dell'anima, cui serve da un lato l'esempio della propria vita, dall'altrouna sobria eloquenza (Ep. a Luc., 100, 10-11), cht non deve trasformarsi in insegnamento di tipo profes- sorale, ma determinarsi in una persuasione psicologica e morale. Egli non fu, esclama Seneca (De brevit. vie., X, l) "f;losofo cattedratico, ma vero filosofo all'antica." 

 

Attraverso la figurazione che ne dà Seneca - non abbiamo altre fonti, - di Fabiano Papirio, di Sozione di Alessandria, di Attalo è dif. ficile dire se siano stati pitagorici o stoici. In realtà, ora, il termine stoico sta ad indicare piu un atteggiamento di vita che non una dot- trina; atteggiamento di vita che si fonda su di una concezione generale che assume pochi principi, facili a raggiungere analogicamente, e che potevano essere desunti da certe volgarizzate posizioni, ch'erano state effettivamente ela~rate entro la scuola stoica: un principio attivo e pas- sivo (Dio e la materia), dalla cui tensione scaturisce l'articolarsi e il co- stituirsi in ordine di tutta la realtà, di cui ogni aspetto è un momento dd divino IOgos (si confronti sopra la silloge di Ario Didimo). In tal senso, comunque, potevano essere interpretate anche certe pagine di Platone e di Aristotde (cfr. in tal senso Ep. a Luc., 58 e 65). Non solo, ma entro questi termini, poco importava essere platonici, o aristotelici, o stoici in senso stretto; o meglio, lo si era, per quel che il termine stoicismo, pitagorismo, platonismo evoca in funzione di un tipo di vita da contrapporre al comune modo di vivere irriflesso. Tipico esempio di tale atteggiamento fu l'amico di Seneca, Demetrio, del quale Seneca non poco senti l'influenza. Demetrio, vissuto nd 1 sec. d. C., contemporaneo di Seneca, fu detto • Cinico." ~ stato soste- nuto ch'egli piu che cinico sarebbe stato stoico, per la sua fede in un or- dine provvìdenziale, a cui, abbandonando le cose di questo mondo (indifferenti tutte), l'uomo ha da adeguarsi, in una lieta sopportazione del dolore e delle avversità. 

 

Per ciò che in realtà si può ricostruire del pensiero di Demetrio, attraverso le uniche fonti che abbiamo su di lui, 260    cioè Seneca (De beneficiis, VII, l, 3; 8, Ì; 11; Epi.rt. a Luc., 20, 9; 67, 14; 91, 19; De providentia, 3, 3; 5, 5) ed Epitteto (Dissert., I, 25, 22), possiamo dire che Demetrio fu "cinico" nel senso in cui, portando alle conseguenze estreme la logica di Zenone di Cizio, "cinico" era stato Aristone di Chio (cfr. I vol.). In altri termini, Demetrio, proprio attraverso lo studio della logica stoica, si rese conto dell'impossibilità del passaggio dal discorso umano ad un presunto discors~della realtà, per cui la realtà, presa in sé, resta sempre al di fuori di. noi, e per cui unica realtà è quella umana, o meglio quell'ordine che scaturisce dall'egemonia delle passioni e per mezzo di cui l'uomo si libera dalle passioni stesse; egli, perciò, poteva, ma.solo su di un piano indicativo, postulare, simile all'ordine che la ragione stessa costituisce, un ordine supremo é provvidenziale, presen- tando se stesso, di volta in volta, come esempio di saggio, di uomo libero, appunto, dalle passioni, dalle adulazioni di quella ch'era la quo- tidiana vita della Roma._di Caligola, di Claudio e di Nerone. La natura ha fatto nascere Demetrio in questi nostri· tempi per dimo- strare ch'egli non può essere corrotto da noi, mentre noi non possiamo essere educati da lui, uomo perfetto nella sua saggezza, anche s'egli per primo lo nega, assolutamente coerente nel suo modo d'agire, di un'elo- quenza adeguata ai piu forti pensieri, senza ornamenti, senza faticosa ricerca d'espressione, ma che con superba fieqezza, nella foga della ispirazione, persegue l'esposizione di idee personali. 

 

Se a Demetrio la Provvidenza ha dato simile costume e talento, lo ha fatto perché alla nostra generazione non mancassero: il modello né rudi lezioni. Se un qualche dio offrisse a Demetrio i nostri beni in assoluta proprietà, ma a condizioni che non ne potesse far dono, egli, certo, li ripudierebbe, dicendo: "No, non mi lego ad un simile peso, di;c.."ui non potrei sbarazzarmi, né l;lscio che il mio essere, da tutto s~a'nciato, affondi nel profondo pantano delle ricchezze. Perché offrirmi il male di tutti? Che neppure accetterei per farne dono, ché molte cose vedo le quali sarebbe ingiusto dare... Lasciami libero, lascia ch'io prenda queste altre ricchezze,' le mie •vere ricchezze: il regno ch'io conQsco è il regno della sapienza, grande, sicuro; io, cosf tutto posseggo, tutto ciò che anche gli altri possono avere..." (De benefieiis, VII, 8, 2-9; 10, 6). Quando C. Cesare gli volle far dono di 200.000 sesterzi, li rifiutò ridendo... In tale occasione Demetrio ebbe una parola· di sublime grandezza, parola dettata dalla sorpresà allorché vide Gaio [Caligola] abbastanza pazzo da credere di potere a tal ·pre~zo cambiare un'anitna come la sua. "Se era deciso a provarmi," disse, "non sarebbe stato affatto di troppo per simile esperienza, l'offerta dell'impero" (De benefieiis, VII, 11). Demetrio, i l migliore degli uomini, si accompagna sempre a me, ed io, trascurando la compagnia dei grandi porporati, converso pieno di ammirazione per quel seminudo. E come non ammirarlo? Mi sono accorto che nulla gli manca. 

 

Qualcuno può disprezzare tutto; invece ad avere tutto nessuno ci riesce.  261   La via piu breve per arrivare alla ricchezza è quella di disprezzarla. Quanto al nostro Demetrio, egli vive, non come chi disprezza ogni cosa, ma come chi ne lascia ad altri il possesso (Epist. a L., 63, 3). Non a caso, sotto questo aspetto, furono ritenuti "stoici;" e tali si proclamarono, uomini come Trasea Peto ed Elvidio Prisco, difensori del Senato, assertori della libertas della Res-publica, tantò che l'uno, Trasea Peto, sotto Nerone, l'altro, Elvidio Prisco, sotto Vespasiano, ci rimisero la vita. L'accusa contro Trasea Peto fu ch'egli faceva parte di "quella setta che ha generato un tempo i Tuberone e i Favonio, nomi odiosi anche all'antica repubblica; essi vogliono la libertà per sovver- tire gli ordinamenti dell'impero. Invano avrai tolto di mezzo Cassio, se sopporterai di vedere crescere in potenza gli emuli dei Bruti... Egli non ha mai fatto sacrifici propiziatori per la salute del principe o per la sua divina voce; da tre anni non ha piu posto piede nella Curia... Egli non attende ormai che agli affari dei suoi clienti... 

 

Un tale atteg- giamento è già un'opposizione nel nome di un partito: secessio iam id et pars est (Tacito, Annali, XVI, 22). E Tacito, narrando il momento della morte di Trasea, alla presenza di Demetrio, cosi dice: Trasea, allora, esortò i presenti, che si abbandonavano a pianti e a lamenti, a ritirarsi in gran fretta per non correre il pericolo di compro- mettere la propria sorte con quella d'un condannato... Come il sangue sprizzò fuori, Trasea, spargendolo sul terreno, fece avvicinare il questore e "libiamo," disse, "a Giove liberatore. Tu, o giovane, guarda e fai che gli dèi tengano lontano da te l'infausto presagio. Sei, per altro, nato. in tempi l).ei quali è pur necessario rinvigorire lo spirito con esempi di fermo corag- gio." Dette queste parole, poiché la lentezza della morte gli recava atroci tormenti, volse gli occhi a Demetrio... (Annali, XVI, 34-35). Da Attalo a Fabiano Papirio, da Demetrio a Trasea Peto, si vede bene l'arco del significato assunto dal termine "stoicismo": esempio di vita ordinata e misurata, adeguantesi ad una postulata ragio!l d'essere, ad un postulato ordine del tutto, ancora al principio dell'Impero, oppo- sizione politica, esempio di una vita libera, da Caligola in poi. Entro i termini estremi di quest'arco si muove lo "stoicismo epicureo" di Seneca. Se egli, appunto, da un lato attraverso Sozione, Attalo, Fabiano Papirio, e per altro verso attraverso Demetrio poteva delineare quella che avrebbe dovuto essere la vita ideale dell'uomo, in una particolare accezione (non teoretica) dello stoicismo, dall'altro lato, rendendosi conto che ogni concezione vale per quello che essa ha di successo, in certe ben precise situazioni, cercò, finché gli fu possibile, di convincçre a quell'ideale, operando su amici, e, soprattutto, ripetiamo, su Nerone

 

Formatosi entro i termini di un generico "stoicismo" di sfondo, Seneca si servi di tale concezione per formulare quello che avrebbe do- vuto essere l'"uomo ideale" e, per altra via, lo Stato e la società ideali, indipendentemente dai piu gravi problemi teoretici, impliciti nei vari aspetti assunti dalla posizione stoica. Se altra fosse stata la prima edu- cazione di Seneca, egli avrebbe potuto benissimo accogliere, in funzione della sua polemica morale, anche l'ipotesi epicurea. In realtà Seneca non si preoccupa affatto di quella che sia la struttura in sé della realtà, rendendosi conto anzi - vicinissimo in questo a Demetrio - di come tale questione, dibattuta nelle scuole, sia divenuta una questione logico- grammaticale, e come proprio le analisi logiche, in gran parte condotte proprio dagli stoici e dagli scettici, abbiano portato a dimostrare l'im- possibilità di ogni passaggio dalle parole alle cose. Ora, puntando sulla scolastica distinzione della filosofia in fisica, logica, etica, Seneca taglia via la fisica come scienza a sé - su questo piano egli si riduce a una pura descrizione dei fenomeni fisici e delle opinioni: cfr. N aturales quaestiones - assumendo quella "fisica" che poteva apparire meno contraddittoria quale fondamento di una certa etica, fondandosi su di una logica che rendesse conto che lo stesso ben pensare è ben vivere, per cui vita etica è ad un tempo vita logica. Seneca rifiutava cosi quella logica che tutto risolvendo in sé, in una mèra realtà di parole, si pre- cludeva ad ogni significato e senso delle cose, sofisticamente. Di qui, sembra, la polemica di Seneca nei confronti del diffuso neo-pirronismo e dello stesso stoicismo logico, che davvero potevano finire nel silenzio e nell'inazione, anche se, su di un piano conoscitivo, egli accettava la sospensione del giudizio sui fondamenti primi (decreta) della realtà, se non quando questi potevano servire alla formazione di una vita misu- rata. e razionale, a determinare certi modi di vivere (praecepta). 

 

Sia pur detto fra parentesi, non sembra senza interesse che Seneca, con linguag- gio giuridico, chiami decreta i principi stessi su cui legalmente si costi- tuisce la realtà, e praecepta, appunto, le norme del vivere, i cui limiti sono determinati dai decreta (cfr. Ep. a L., 95). Cosi, ad esempio, dopo avere a lungo discusso, molto acutamente e con molta precisione, sul significato di -rò ISv, tradotto in latino con essentia e con quod est, e su come si debbono assumere i termini genere e specie, e dopo aver fatto vedere il significato di genere, specie, quod est, idea, idos, in Platone, in Aristotele, in alcuni Stoici (cfr. Ep. a Luc., 58), cosi esclama Seneca, rivolgendosi a Lucilio: Dirai: "A cosa possono giovarmi codeste sottigliezze?" Se lo chiedi a me, nulla. Ma come un cesellatore distrae e solleva gli occhi a lungo intenti e affaticati, e, come si suole dire, li ristora, cosf noi dobbiamo di quando in  263   quando concedere riposo al nostro animo e dargli nuove. forze con 't!ualche.divertimento. Ma pur questi divertimenti non siano ozio: anch'essi, se saprai profittarne, potranno offrirti qualche utilid... çhe còsa meno con- tribuisce alla trasformazione dei costumi,.::be i problemi avanti trattati? Come mi possono rendere migliore le idee platoniche?.Che posso cavare da esse, per infrenare le mie passioni? Eppure basta anche questo,. che Pla- tone nega la realt~ di tutto ciò che ·è soggetto ai nostri sensi, e ci infiamma e ci attira. Dunque noi abbiamo da fare con fantasmi, che solo per qualche tempo offrono una certa apearenza, ma non hanno né stabilita né solidiù... Rivolgiamo l'animo a auello che è ~erno..; (Ep. a Lue., 58, 25 sgg.). E ancora, nella lettera 65 a Lucilio, dopo avere discusso il motivo delle cause, esponendo la tesi degli Stoici,· Seneca afferma: • Dicono gli Stoici che nella natura due sono gli elementi, da cUi nascono tutte le cose, la causa e la materia; la materia è inerte, pronta a tutto ciò che se ne '-:uol fare, immobile se nessuno la muove: la causa, invece, cioè la ragione, dà forma alla materia, la elabora a suo piacere e ne trae le opere sue; bisogna, dunque; che vi sia· il principio onde una cosa è fatta e il principio che la fa, questo è la. causà, quello la materia;... le cose tutte sono il risultato dell'elemento.paziente e della forza ·agente; per gli Stoici l'uniça causa è la. forza agente" (Ep... U4C., 65, 2-4); discutendo Aristotele dichiara che quattro sono le cause per Aristo- tele: la materiale, l'efficiente, la formale, la finale (id., 65, 4-7); di Pla- tone, poi, dtce che: • aDe quattro cause Platone ne aggiunge una quinta, che chiama idea, ed il modello che l'artefice ha tenuto di fronte a sé nell'eseguire l'opera, che aveva deliberato di fare; non ha importànza poi se questo modello egli l'abbia avuto sotto gli occhi fuori. di sé, oppure concepito nella suà immaginazione e tenuto cos{ presente: que- sti esemplari di tutte le cose Dio li ha in se.stesso, e di tutte le cote che deve fare abbraccia il numero e la misura: egli è pieno di tutte queste misure, da Platone chiamate idee, iJlUilOitali~ immutabili, instan- cabili; cinque sono dunque, come dice Platone, le ç.ause: quella di che, quella da che, quella in che, quella su che, queU::"pr.r· che; fi.òalmente quella che da tutte queste deriva" (id., f5, t-.ill). 

 

Seneca, dopo aver concluso che pio semplice è ridurre tutta la folla -delle cause ad t-..na sola, a ciò senza di cui nulla è, causa prima pc:l ciò ed oi>erante, Dio, • poiché quelle che avete messo innanzi non sono molte e singole caUse, ma dipendono insieme da una sola, da quella che opera" (id., 65, 12), cosi, alla fine dice: Ed ora pronuncia la tua sentenza, o, co~'è piu comodo in simili. pro- blemi, di' pure che non ci vedi chiaro e rimandaci a nuove indagini. Mi dirai: "Che gusto è il tuo ·a perdere il tempo in siffatli problemi, che no~ 264    ti liberano da nessuna passione, che non scacciano dal tuo animo nessuna cupidigia?• lo, in verità, dò la preferenza a quei problemi che rendono tranquillo l'animo e all'esame di me stesso e soltanto dopo mi occupo di questo Universo. Neppur ora io sciupo, come credi, il mio tempo; poiché tutte le discussioni di tal genere, se non sono spezzettate, se non si disper- dono in queste vane sottigliezze, innalzano e sollevano l'animo... E la filo- sofia conforta l'anima con la contemplazione della natura, innalzandola dalla terra alle regioni celesti... Tale contemplazione non poco contribuisce a liberare l'animo: sicuramente l'Universo consta della materia e di Dio, il quale stando in mezzo ad esso lo governa come signore e come guida.•. Quel posto che tiene Dio nel mondo, lo tiene nell'uomo l'anima... Siamo perciò forti contro i casi della sorte... Che è la morte? O la fine o un paS- saggio. Di non esistere piu non temo, perché è lo stesso che non aver comin- ciato ad esistere; né di passare altrove, perché in nessun luogo potrò stare cos(a disagio (Ep. a Lue., 65, 15 sgg.). Le Lettere a Ludlio sono tarde, di quando già Seneca era stato cO- stretto ad abbandonare la vita politica e sempre pi6 profonda in lui s'era fatta, è stato detto, la "nausea dd secolo,• ma, certo, ancora qui, l'opzione per una divinità reggitrice del tutto, l'ipotesi che tutto pro- venga daii'Uno (Dio), uno Che non è se non nel suo realizzarsi in atto nell'ordine dell'Universo, in una interpretazione stoica del Timeo di Platone ("Dio è la mente dell'Universo, è tutto ciò che vediamo e tutto ciò che non vediamo: egli solo è tutte le cose•: Natur. quaest., l, praef., 13), per cui Dio non è nessuna cosa, ma essendo la ragion d'es- sere di tutte, tutte le trascende, avendo in sé tutte le forme, unità e molteplicità ad un tempo, Uno e intelletto e anima (sotto questo aspetto si può parlare, accanto a uno stoicismo epicureo di Seneca, di un suo stoicismo neoplatonico); ancora nelle tarde Lettere a Ludlio e nelle tarde Questioni naturali, tale ipotesi resta consapevolmente tale, ipotesi: cioè. credibile in quanto utile a vivere da uomini, speranza e non con- clusione scientifica, ché su tale piano, in realtà, l'analisi della logica e del linguaggio, dovrebbero anzi portare a SQSpendere ogni giudizio. Anche gli uomini piu grandi ci lasciarono opinioni, non soluzioni defi- nitive, ma problemi da risolvere... Certo perdettero molto tempo in chiacchiere e cavilli e in sottigliezze sofistiche, inutili esercizi dell'ingegno. 

 

Noi facciamo dei nodi, intrecciamo parole a doppio significato per darne poi la soluzione. Abbiamo poi tanto tempo da impiegare? Sappiamo morire? Bisogna attendere con tutte le forze della nostra mente a guardarci dalle insidie non delle parole, ma delle cose. 

 

Che mi vai facendo distinzione tra vocaboli affini, che possono trarre in inganno soltanto in una disputa? Il nostro errore è intorno alle cose e su queste mi devi illuminare (Ep. a L., 45, 5). Non filologia è la filosofia (Ep. a Luc., 108, 24), non cavilli di parole,  265   capziose dispute, di cui se arrivo a scoprire il segreto del giuoco, non mi ci diverto piu (Ep. a Luc., 45, 8). Nessuno pnò vivere felice, se guarda solo a se stesso, se tutto fa convergere al proprio vantaggio: bisogna tu viva per il tuo vicino, se vuoi vivere per te. Questo vincolo sociale, che unisce gli uomini tra di loro e che attesta esservi una legge che abbraccia tutto il genere umano, se è osservato con diligenza scrupolosa, giova mol- tissi~o anche a mantenere quella piu stretta società, che è l'amicizia, e della quale ti parlavo. 

 

Colui che sente di avere molte cose in comune con un altro, solo perché questi è un uomo, avrà tutto in comune con l'amico. Questo, ottimo Lucilio, vorrei che sapessero insegnarti codesti cavillatori: quali sono i miei doveri verso un amico, quali verso un uomo qualunque, anziché in quanti modi possa esprimersi il concetto di amico e quanti signi- ficati abbia la parola uomo... Invece mi si storce il senso delle parole e mi si dànno delle sillabe staccate. 

 

Ah sf, se non avrò costruiti arguti sillogismi e raccolto entro una falsa conclusione una menzogna scaturente da una premessa vera, non potrò distinguere quello che devo seguire da. quello.che devo sfuggire. Mi vergogno, a questa età, di divertirmi a scherzare in ma- teria cosf grave! Mus (topo) è una sillaba; il topo (mus) rode il formaggio; dunque la sillaba rode il formaggio. 

 

Ammettiamo ch'io non riesca a scio- gliere questo nodo: qual pericolo mi sovrasta da simile ignoranza? Senza dubbio c'è da temere che qualche volta prenda due sillabe nella trappola o che, se sarò trascurato, un libro mi mangi il formaggio, a meno che non sia piu ingegnoso quest'altro sillogismo: mus (il topo) è una sillaba: la sillaba non mangia il formaggio: dunque il topo (mus) non mangia li formaggio (Ep. a Luc., 48, 2~. Si può, certo, dire per il I secolo ciò che, acutamente è stato detto per il xv secolo - senza dubbio, per alcuni aspetti e situazioni storiche vicino al I d. C. - essere falso che la filosofia vada cercata nelle opere dei suoi maestri ufficiali, ossia nei commenti di Aristotele e non nei dialoghi morali, nei trattati politici, nelle discussioni sulla poesia e cosi di seguito. 

 

In realtà, "la ricerca filosofica delle scuole era giunta al limite di un tecnicismo esasperante, ·che attraverso una raffinatezza estrema arrivava si a un culmine, ma senza possibilità di sortl!. La per- fezione di una logica che sostituiva i suoi calcoli e i suoi segni alla realtà dell'esperienza si esauriva in una conclusione. 

 

E quando la via è chiusa, il ritorno alle origini, ai principt, e la ricerca di altre dire- zioni, si impongono... Il rivolgersi a campi diversi da quello logico e fisico, ossia al mondo dell'esperienza morale e artistica; il ritorno dalle esasperazioni teologiche - di una teologia ridotta a dialettica - alla ricchezza della carità, dell'amore come diretto contatto con Dio: ecco le caratteristiche di un momento culturale ben definito" (E. Garin, Cultura filosofica toscana e veneta del secolo X V, "Rinascimento," Seconda Serie Vol. Il, Firenze, p. 65). 

 

Tale, mutando quel che è da mutare, l'esperienza di Seneca, assai vicino, per altra via, di fronte alle chiusure del diffuso scetticismo, nella ricerca di nuove direzioni, che premevano, alla problematica di Filone l'Ebreo, e a quella che, già dal tempo di Seneca, si delinea in una ripresa di certi motivi platonici, pitagorici e stoici, anche se diverse furono le conclusioni di Seneca. <:;ondannato, fin dalla nascita, alla morte, disperso nei suoi fantasmi, che sono, nell'immediatezza, le cose e le passioni, preso da questo o da quel fantasma, s1 come un folle che si fissa su una o altra delle infinite immagini che lo costituiscono, sempre perciò deluso, sempre nel terrore d'essere sopravanzato da altri, chiuso nelle sue stesse parole, dolore, disperato, determinato dalla nascita a una o ad altra situazione, schiavo dei propr~ fantasmi, re o servo che sia, tutti schiavi, illusione tutto, l'uomo, per chi appunto si sia reso conto ch'egli è nulla di fronte al tutto ("chiunque esso sia, o dio possente tra tutti o ragione incor- porea, artefice di tante meraviglie, o divino spirito diffuso con uguale intensità per tutte le cose, le piu grandi come le piu piccole, o infine fato e immutabile concatenazione di cause tra loro connesse": Conso- latio ad Helviam, VIII, 3), l'uomo desta un'infinita pietà. Ma proprio questa uguaglianza universale degli uomini, molteplici e diversi, per quanto molteplici, diverse, disarticolate sono le umane passioni e gli umani fantasmi, è il fondamento comune· per cui, attraverso l'educa- zione di sé (la filosofia in senso senechiano, che non è sapienza), sco- prendo sé come ragione, cioè come capacità di con-vincere la passione, l'uomo si libera da sé, costruendo se stesso uomo ("difendi il posto che ti ha assegnato la natura; quale chiederai: quello di uomo": De constantia sapientis, XIX, 4), in un rapporto articolato con gli altri uomini, costituendo una societas, che rivela e postula ad un tempo l'or- dine razionale del tutto, in una comune razionalità, che rende tutti - quanto piu ciascuno è se stesso, quanto piu misuratamente, cioè razionalmente, compie ciò che gli è proprio - uguali, per cui alla pietà si sostituisce il rispetto, che è rispetto dell'altro, non tanto per ciò che egli è, ma per quello che può essere. 

 

Cosa sacra è l'uomo all'uomo. 

 

Come comportarci con gli uomini? Quali precetti daremo? Di non spargere il sangue umano? quanto poco è non nuocere a chi dovresti giovare! porgere la mano al naufrago, mostrare la via allo sperduto, dividere il pane con l'affamato? Per dire tutto ciò che va fatto ed evitato..., eccoti una formula del compito dell'uomo: tutto quel che vedi, che contiene il divino e l'umano, è tutt'uno; noi siamo tutti mem- bra di un grande corpo. La natura ci generò parenti, dandoci una stessa origine e uno stesso fine. 

 

Essa ci ingenerò un mutuo amore e ci fece socie- voli... E quel verso: "Son uomo, nulla di umano ritengo estraneo a me"  26i   (Terenzio, Heautantimorumenus, l, 54], ci sia nel cuore e sul labbro. Abbia- molo in comune: siamo tutti nati. La nostra società è tale quale una volta di pietre, che cadrà, se le pietre non si appoggiano a vicenda e cosf si sosten- gano (Ep. a L., 95, 33, 51-53}. La riflessione su se stesso, sul proprio dolore,. sull'uomo conflitto di passioni, disperso in una molteplicità di se stessi e di fantasmi, se da un lato porta alla pietà, dall'altro lato, attravero questa, porta a com- prendere che l'uomo, mediante se stesso, in quanto capacità di realiz- zarsi secondo ragione - cioè in una misura che è conquista e libera- zione, - si libera da sé essendo davvero sé. Tra i molti magnifici detti del nostro Demetrio, questo... mi risuona e vibra tuttora nell'orecchio: niente -dice -m i pare piu infelice, che colui cui nessuna avversità mai sia capitata; poiché non ebbe modo di provare se stesso (De provitlmlia, III, 3). Hai passato la vita senza lotta: nessuno saprà mai quel che avresti potuto. Neppure tu stesso. Occorre la prova per conoscersi (De prov., IV, 3-7). Per non adirarti con i singoli individui, a tutti devi perdonare, all'intero genere umano concedere indulgenza... n saggio sa che nessuno nasce saggio, ma tale diventa... 

 

Pertanto il saggio, sereno ed equo verso gli errori, non è nemico, ma correttore dei colpevoli... Non è da uomo di senno odiare chi erra, altrimenti odierebbe se stesso... Quanto è piu vasta la norma morale che q11ella giuridica? Quante cose non esigono la pietà, l'umanità, la liberalità, la giustizia, la fede, che restano tutte fuori della legge?... Piu misurati ci farà il guardare dentro di noi, se ci chiederemo: non ho forse io stesso fatto alcun che di simile? Non ho mai peceato? Posso io condannare codeste colpe? (De ira, II, 10, 14, ~8). Solo attraverso il peceato si giunge all'innocenza (De clemmlia, l, 6). Chi è passato attraverso questa esperienza, chi ha coscienza che l'uomo può realizzare sé non piu in forma dispersa, ma coerentemente, sa che il suo ufficio, il suo dovere è di consolare, attraverso la medita- zione sul dolore, sulle passioni, sulle sitlgole esperienze, sulle illusioni, l'uomo disperato (cfr. le Consolaziont) e di avviare sé e gli altri, pro- spettando quale dovrebbe essere il saggio, a tale saggezza, agendo, entro i limiti delle proprie possibilità, perché si realizzi quella societtu che libera e fa dell'uomo un uomo rispettoso ~ell'altro, della comune ragione, specchio della postulata universale ragione di essere, mediante cui si costituisce la res-puhlica cosmica, il cosmico Impero. Di qui la distinzione senechiana tra sapienza e filosofia: la sapienza è un ideale, la filosofia uno strumento, riflessione sulle proprie espe- rienze di vita e, ad un tempo, per ciò, liberazione dalle proprie unila- teralità, convinzione e persuasione, retorica verace e consolazione, imVC- 268    gno sociale, da distinguere nettamente dalle arti dette liberali, utili, ma nella loro unilateralita, non tali da formare l'uomo virtuoso (cfr. Ep. a L., 88). Sembra chiaro, ora, in che senso da un lato Seneca descriva l'uomo qual è di fatto, in questo mondo, in questa situazione politica, e, dal- l'altro lato, accanto alle indicazioni mediante cui l'uomo può liberarsi da questo suo attuale non essere uomo, prospetti l'uomo quale dovrebbe essere, di volta in volta disegni il ritratto del saggio, del sapiente, dd- l'uomo consapevole di sé, misura, coerenza di sé con sé (constantia tra- duce Seneca l'homologhla zenoniana), e prospetti l'ideale rod~, l'ideale impero universale, che, a sua volta, si scopre adeguato alla postulata ragion d'essere del tutto, per cui, infine, accanto all'uomo quale dovrebbe essere, si pone la divinita qual è, in quanto termine di realizzazione, dovere e impegno. In ogni suo scritto Seneca, o per accenni o rievocando l'esempio di celebri figure o di proposito, disegna e prospetta il ritratto di quello che deve essere l'uomo, il "saggio" - anche nelle Tragedie, in cui il personaggio di Ercole assume la funzione dell'eroe stoico (cfr. R. Che- vallier, Le milieu.rtoiden à Rome au r siècle après J.-Ch., in "Bulletin de l'Association Budé," Suppl. Lettres d'humanité, XIX, 1960, p. 547). Basti qui ricordare alcuni passi del De con.rtantia sapientir ed una pagina della Lettera 66 che sembra riepilogare i peculiari tratti del sapiente. 

 

Gli Stoici, che hanno scelto la via piu degna per un uomo, non si curano che essa sembri piacevole a coloro che la iniziano, ma che al piu presto li liberi e li conduca sull'alta vetta, che si innàlza al di sopra di qualsiasi tiro d'arco e domina persino la fortuna... Libertà è sollevare l'animo al di sopra delle ingiurie, rendersi capaci di ricavare solo da noi stessi le nostre gioie, e staccarsi dalle cose esteriori, per non passare la vita nell'inquietudine come fa l'uomo che teme il riso e la lingua di tutti (De constantia sap., l, l; XIX, 3). Tale il saggio: un animo, che vede il vero, esperto nd conoscere quello che si deve fuggire e quello che si deve cercare, che delle cose fa stima non secondo l'opinione generale, ma secondo il loro valore intrinseco, che osserva tutto l'Universo e ne fa oggetto delle sue meditazioni, sentinella vigile dei propri pensieri e dei propri atti, grande e impetuoso nella giu- stizia, sordo ugualmente alle minacce e alle adulazioni, inconcusso nella buona come nell'avversa fortuna, superiore a tutte le contingenze e a tutti gli accidenti, ~issimo e ben regolato nella sua compostezza e nella sua forza, sano e semplice, imperturbato e intrepido, che non si piega per vio- lenza, che non si inorgoglisce e non si abbassa per vicende di fortuna: un tale animo è la virtU in persona; questo sarebbe il suo volto, se si presen- tasse sotto un'unica forma e in un insieme tutta intera si mostrasse. Del  269   resto essa offre molti aspetti, che si manifestano secondo i diversi casi della vita e le diverse attività. 

 

Il som,mo bene non può decrescere, né alla virtu è concesso andare indietro; ma assume qualità' diverse secondo la natura degli atti che sta per compiere (Ep. a L., 66, 6). E non dire, come dici di solito, che questo nostro sapiente non lo si trova in nessun luogo. Noi non ci foggiamo una gloria vana per l'ingegno_ umano e neanche vagheg- giamo il fantasma ideale di un essere inesistente: come lo descriviamo, cosf l'abbiamo prodotto e lo produrremo, di rado forse e uno solo a lunghi "inter- valli di tempo: del resto io mi domando se Marco Catone [uticense]... non superi addirittura il nostro modello... (De constantia sap., VII, 1). Ora, come Seneca delinea due uomini, l'uomo qual è e l'uomo quale dovrebbe essere (donde, per altro verso, si costituisce il conflitto della vita umana), cosi egli, per la prima volta chiaramente, parla di due Stati, di due res publicae, la Città degli uomini quali sono e la Città degli uomini quali dovrebbero essere, in una prospettiva dello Stato universale, specchio, appunto, dello Stato cosmico, per il quale il saggio deve lavorare, in nome del diritto naturale c che può costituire un saggio e giusto cosmo statale. Convinciamoci che esistono due res publicae: l'una grande e veramente publica, che comprende gli dèi e gli uomini, e nella quale non siamo con- finati in questo o in quell'angolo, ma misuriamo con il sole i confini della nostra città; l'altra è la res publica a cui ci ha iscritto la condizione della nostra nascita (potrà essere quella di Atene o di Cartagine o di qualsiasi altra città) e non abbraccia tutti gli uomini, ma solo determinati uomini. 

 

Taluni lavorano contemporaneamente per ambedue gli Stati, il grande e il piccolo, altri solo per il piccolo, altri infine solo per il grande. Questo Stato piu grande possiamo servirlo anche vivendo ritirati, e forse anche meglio, ricercando che cosa sia la virtu; se una sola o parecchie; se siano la natura o lo studio a rendere buoni gli uomini; se questo insieme di terre, di mari e di tutto ciò che sta tra i mari e le terre, sia unico, o se la divinità ne abbia disseminati altri del genere nell'Universo; se la materia da cui nascono tutte le cose, sia una sola e compatta, oppure diffusa e con parti di vuoto mescolate alle solide; dove risieda la divinità; se contempli inerte o muova la sua opera; se l'avvolga dal di fuori o sia immanente al tutto; se il mondo sia immortale o da considerare tra le cose caduche e nate solo per un certo tempo. Chi riflette su questi problemi, quale servizio rende alla divinità? Evita che la sua opera rimanga senza testimoni. Noi siamo soliti dire che il sommo bene consiste nel vivere secondo natura. La natura ci ha generati per ambedue i compiti: per contemplare e per agire,. (De otio, IV, 1-2). Senza l'azione non esiste contemplazione (De otio, V, 8). Di qui, per una via pio universale e meno legata all'esistenza di una certa classe che non quella di Cicerone, di coptro alla tirannide, di contro al conformismo dettato dalla paura, il richiamo di Seneca al motivo del cosmopolitismo stoico e al diritto naturale, fondamenti di una res publica umana, e, nei confronti dell 'imperatore, alla concezione stoico-platonica del monarca filantropo, per cui l'essere imperatore è un dovere. 

 

Ma di qui anche il delinearsi del motivo del tirannicidio; con il conseguente richiamo a Cassio, e del suicidio politico, donde la sempre maggiore esaltazione della figura di Catone Uticense, e su di un piano di diritto naturale, se non di diritto positivo, la proclamazione dell'abolizione della schiavitu. Poche righe prima del testo del De otio sulle due Repubbliche - ricordiamo che il De otio, insieme al De constantia sapientis e al ·De tranquillitate animi, è dedicato ad Anneo Sereno, che dalle Lettère a Luci/io, composte tra il 62 e il 64, sappiamo essere morto da non moltissimo tempo, Lettera 63, per cui si pensa che le tre operette siano del 61-62 circa: degli anni in cui Seneca fu costretto ad abbandonare la sua diretta influenza su Nerone, - Seneca scriveva: Epicuro dice: "il saggio non si accosterà alla vita pubblica a meno che non intervenga una situazione particolare." Zenone dice: "egli si accosterà allaita pubblica se non interverrà qualcosa ad impedirglielo." 

 

Qui seguirò il parere degli stoici... perché la questione di per se stessa vuole che io segua la loro opinione: seguire sempre il parere di uno solo è proprio della fazione, non del Senato [nel momento in cui Seneca scriveva il De otio è questa una frecciata abbastanza indicativa]. - Epicuro, dunque, vuole l'otium di proposito, Zenone, se interviene un motivo [è anche questo un richiamo assai significativo alla posizione di Seneca]. E i motivi possono essere molti: se lo Stato è troppo corrotto perché ci si possa trovare rimedio, o se è oppresso dai mali, il sapiente non si sforzerà inutilmente e non spre- cherà se stesso senza poter servire a nulla. Se avrà poca autorità e poca forza e lo Stato lo respingerà, se la salute gli sarà di ostacolo, come non metterebbe in mare una nave in avaria, come non si arruolerebbe essendo infermo, cosi non intraprenderà un cammino che sa già impraticabile. Cosi anche colui che è ancora nuovo di esperienza e non si è ancora esposto alle tempeste, può rimanere al riparo e darsi subito allo studio... 

 

In realtà ciò che si esige dall'uomo è che serva agli uomini: se è possibile a molti, altri- menti a pochi, altrimenti ancora a se stesso. Infatti, rendendosi utile agli altri, egli agisce nell'interesse comune: come chi si rende peggiore non nuoce solo a sé, ma anche a tutti coloro che avrebbe potuto giovare essendo mi- gliore, cosi chiunque fa del bene a se stesso giova per ciò solo anche agli altri, perché viene costruendo un essere che potrà riuscir loro di giovamento (De otio, III, 2, l, 3-5). È questo un testo piuttosto importante, perché chiarisce ancora una volta il senso con cui Seneca assume certe posizioni stoiche, il  significato dato da Seneca alla filosofia come riflessione sulle proprie esperienze, attraverso cui ci modifichiamo e ci costruiamo uomini, pro- spettando Ja possibilità di realizzare l'uomo quale dovrebbe essere in rapporto con gli altri uomini, in funzione di una res publica hominum, cui giovano, a seconda delle istituzioni e per esse, modi diversi di azione, sia pure il ritiro dall'azione, o la presentazione di certi esempi di vita; ma anche perché in esso è molto chiaramente indicata la vita morale come problematica, come conflitto, COII}e dilacerazione della coe- renza stessa, ché talvolta la coerenza sta nell'incoerenza, e perché qui, molto chiaramente, Seneca presenta il proprio caso, la sua stessa espe- rienza e problematica, come la problematica dell'uomo, quale che sia la situazione in cui ciascuno, sempre, viene· a trovarsi: ciascuno, sempre, in una sua certa situazione storica diversa. 

 

Già dal tempo della questura e dei suoi primi discorsi in Senato, Seneca fu tenuto in conto di pensatore e di parlatore di razza, il maggior uomo di cultura che avesse Roma in quel tempo. Dopo il pericolo corso per la sua libera orazione in Senato, salvatosi per intervento di una favo- rita di Caligola, Seneca dovette certo comportarsi con molta prudenza e tatto (dirà piu tardi nel De constantia sapientis: 

 

"Talvolta anche, per sdegno contro i potenti, sveliamo i nostri sentimenti con eccesso di libertà! Ma non è libertà il non tollerare nulla: questo anzi è un errore": XIX, 3), se riusc{ a mantenere un posto di non poca importanza presso la corte, particolarmente legato di amicizia con Giulia Livilla, figlia minore di Germanico, sorella di Caligola. 

 

Egli allora godette, senza dubbio, come lui stesso confessa nella Consolatio.alla madre Elvia (V, 4), di potenza, di onori, di danaro. Ma fu proprio la sua amicizia per la dignitosa principessa, che mai volle adulare l'imperatrice Messa- lina, che, nel41, rovinò Seneca. Messalina, gelosa della bellezza di Giulia, e dell'influenza che Giulia aveva sull'imperatore Claudio, riusc{ a fare sospettare di adulterio Giulia, tanto da farla cacciare da corte, e, poco dopo, da farla condannare a morte. 

 

Seneca fu coinvolto in questa losca montatura: forse si disse di lui ch'era stato amante di Giulia. Certo è.-:he Seneca, a causa di Messalina, fu condannato all'esilio e venne rele- gato in Corsica (•Non frutti di autunno né spighe d'estate né ulivo d'inverno; mai di primavera l'ombroso ristoro di un ramo: non pane né un sorso d'acqua né il fuoco per l'ultimo ufficio. Due cose sole son qui: l'esilio e l'esule": Epigramma, II, Haase). Fu durante l'esilio che Seneca scrisse la Consolatio alla madre Elvia, che è, ad un tempo una consolatio a se stesso, e la Consolatio a Polibio, in cui Seneca, con molta dignità, fa il tentativo di farsi richiamare. Uccisa Messalina, nel 48, assurse a potenza Agrippina, figlia di Germanico, che da un suo matri- monio con Gn. Enobarbo aveva avuto un figlio, Domizio. Agrippina, mediante sporche trame, riusd, morta Messalina, a farsi sposare, nel 49, dall'imperatore Claudio, suo zio. Agrippina, allora, fece revocare l'esilio di Seneca, per farlo tornare a Roma, in qualità di precettore del figlio Domizio.:t storia nota. Agrippina riusd, dopo loschi delitti, a far spo- sare il figlio Domizio con Ottavia figlia di Claudio e di Messalina, e, quindi, a fare adottare da Claudio Domizio, divenuto suo genero, con- trapponendo, per la successione al trono, Domizio a Britannico, figlio legittimo di Claudio e di Messalina. Con il nome di Nerone, Domizio passava a far parte della gente Claudia. Nel 51, fu data a Nerone, che non aveva ancora compiuti quattordici anni, la toga virile. Agrippina aveva richiamato Seneca dall'esilio, in parte per fare cosa grata al pub- blico che riteneva ingiustamente condannato da Messalina un uomo di gran valore, in parte perché sperava, legandolo a sé, di averlo consigliere delle sue trame politiche e perché educasse il figlio a seconda dei suoi intenti. Nota è la fine di Claudio, fatto, forse, avvelenare in segreto da Agrippina e note la proclamazione di Nerone a imperatore (nel 54, a 17 anni) e la fine di Britannico, nel 55, fatto uccidere da Nerone. ~Seneca fu lontano da tali intrighi. Tacito che non si arresta, non che dinanzi alle colpe, dinanzi <?-i sospetti delle colpe, non ne fa menzione: ed egli attinge con preferenza alle fonti storiche piu ostili a Seneca. 

 

Seneca, che Agrippina revocò dall'esilio per averlo consigliere delle sue trame poli- tiche e maestro di Nerone, restò maestro di Nerone; consigliere di Agrippina era un uomo in tutto degno di lei, il liberto Pallante. Quale fosse in quelle circostanze il contegno di Seneca non sappiamo. Sappiamo però che piu tardi, morto Claudio e proclamato Nerone imperatore, Agrippina, che già si credeva sovrana assoluta dell'Impero, dovette su- bito accorgersi che il suo ambizioso edificio era crollato: chi l'aveva abbattuto era Seneca" (Marchesi, cit., p. 30). Non pare si possa essere cosf ottimisti come il Marchesi, ma certo è che furono quelli, gli anni in cui Seneca, godendo di un certo ascendente sull'animo del giovanis- simo Nerone (d'altra parte invidioso dello strapotere della madre), avendo cosf, insieme ad Anneo Burro, prefetto del pretorio, uomo misu- rato ed essenzialmente onesto, in mano la possibilità di dirigere in un certo senso lo Stato, si adoperò a migliorarne le condizioni, ad avviare Nerone ad essere principe nel senso stoico di moderatore, di guida, di egemonico di una res puhlica hominum. Sotto questo aspetto assumono un loro preciso significato le pagine violentissime di Seneca contro il tiranno (particolarmente Caligola, già chiaramente discusso nel De ira) e l'operetta, morto Claudio, contro il principe inetto, burattino, strumento di macchinazioni (Claudio, ap- punto, cosf sarcasticamente e comicamente descritto nel Ludus de morte Claudii, da Dione chiamato Apokolocynthosis, l'inzuccamento di Claudio, cioè la consacrazione della Zucca: alla deificazione, apotheosis, di Claudio, decretata dal Senato, Seneca rispondeva che, in effetto, era quella la deificazione di una zucca). Se le pagine, sparse in tutta l'opera di Seneca, contro Caligola e lo scritto contro lo sciocco e inetto Claudio, tendono a dimostrare quello che un imperatore non deve essere, il De cle- mentia, scritto per Nerone, l'anno dopo la sua assunzione all'Impero, quando era consigliere politico e ministro, rappresenta da un lato il tentativo di delineare quello che l'imperatore deve essere, dall'altro lato, com'è stato detto (Marchesi, cit., p. 59), "il programma postivo di un vero uomo di Stato." 

 

Ben consapevole di precise situazioni, di non trascurabili ostacoli, di condizioni, in cui "si fanno cose che ottengono approvazione e che poi vengono punite" (De clementia, l, 4}, in cui "una persona non può andare a un pranzo con animo lieto, sapendo che persino nel brindare ha bisogno di controllare ogni parola" (De clem., l, 36}, nel De clementia Seneca opera con estrema cautela, ma sempre in funzione di realizzare, entro i limiti del possibile, uno Stato armonico, ove vada salvo il rispetto umano, la possibilità di costituire una res-publica hominum, mediante l'opera politica e riformatrice, interna ed estera, di Nerone ("Un saggio non farà l'elemosina s1 come la maggior parte di coloro che vogliono passare per compassionevoli; ma tutto ciò che darà lo darà come uomo che fa parte agli altri di beni comuni a tutti": De clementia, II, 4, 2). Ciò che piu ha colpito del De clementia è stato in genere il suo aspetto formale, l'apparente adulazione di Seneca che presenta un Nerone potentissimo autocrate che, consapevole della sua enorme potenza, sa usarla a fin di bene, per costituire una società ordinata, e che consapevole della sua funzione di principe - in senso augusteo - in cui si assomma la nostra comune umanità, opera secondo il principio del monarca filan- tropo (cfr. sopra), con demenza, che Seneca chiaramerite distingue dalla misericordia (compassione) e dalla venia (perdono}, identificandola con la giustizia sociale. In realtà bisogna tener presente che il De clementia fu scritto quando Nerone aveva diciotto anni appena e che molti dei delitti, fino allora avvenuti, erano stati opera di Agrippina. Presentare Nerone sotto la veste del principe giusto e filantropo clemente (quando ancora vivissimo era il ricordo in Roma della ip.clemenza di Caligola e di Claudio, e il timore per Agrippina), dell'uomo consapevole del suo dovere di sovrano in funzione di una giustizia sociale, fu, proprio nei confronti del giovane e ambizioso Nerone, una mossa politico-retorica estremamente abile, un impegnare Nerone ad un'azione che fosse in contrasto con la pericolosissima linea seguita da Agrippina. In effetto Nerone, nei primi cinque anni del suo regno, si dimostrò clemente, moderatore degli abusi, accortissimo in politica finanziaria, 274    nel tentativo di sollevare le classi meno ricche limitando gli abusi fiscali, fino a giungere alla proposta dell'abolizione di tutte le imposte dirette (proposta che fu bocciata dal Senato: una delle poche volte che il Senato seppe opporsi, rivendicando, per timore di perdere le proprie ricchezze, la sua libertà). 

 

Non solo, ma Nerone si dimostrò rispettoso delle pre- rogative del Senato e delle procedure giudiziarie, mentre cercò di risol- vere, in favore dei libecci, il problema della schiavitu. "Intorno a quel tempo (56), si discusse in Senato"- scrive Tacito- "circa l'arroganza dei libecci e si insistette nel chiedere che fosse data ai patroni la facoltà di revocare la libertà a coloro che si erano resi colpevoli di ingratitudine. Non mancavano i fautori di questo provvedimento, ma i consoli non osarono prenderne l'iniziativa all'insaputa del principe, al quale, tut- tavia, notificarono il consensodel Senato a tale disposizione. Nerone era incerto se dovesse farsi promotore di questa proposta, poiché discordi erano i pareri dei pochi intorno a lui; alcuni si indignavano perché l'irriverenza accresciuta con la libertà si era scatenata a tal punto che ormai i liberti godevano gli stessi diritti dei patroni, ne discutevano da pari a pari le opinioni... [Ci fu chi fece la proposta di revocare a tutti i liberti la libertà]... Altri, invece, pensavano che la colpa dei pochi dovesse esser di rovina soltanto a loro e che non era il caso di meno- mare i diritti di tutti, poiché era evidente che la classe dei liberti era ormai diffusissima. Da essa in gran parte venivano le tribu urbane, le decurie, i dipendenti delle magistrature e dei sacerdozi, ed anche le coorti arruolate in Roma; non diversa origine avevano moltissimi cava- lieri e parecchi senatori, tanto che, se si fossero posti a parte i liberti, sarebbe stata manifesta la scarsezza di uomini liberi. Ben a ragione gli antichi, pur ponendo una gerarchia di ordini sociali, avevano conside- rato la libertà come un bene di tutti... Poiché prevalsero tali opinioni, Cesare rispose per scritto al Senato, ordinando di dar corso ai processi contro i liberti caso per caso..., ma che non si prendesse alcun provvedi- mento generale di deroga..." (Tacito, Annali, XIII, 26-ll). Tacito non fa il nome di chi sostenne di rispettare la libertà dei libecci, sottintendendo che per natura siamo tutti schiavi e tutti liberi. Certamente il consigliere che decise Nerone a favore dei liberti fu Seneca, ché alcune espressioni riferite da Tacito sono molto vicine a quelle sene- chiane, che leggiamo sia nel De beneficiis sia nella Lettera 47 a Lucilio. 

 

Ho provato molto piacere a sentire da quelli che vengono di costf che tu tratti i tuoi schiavi molto familiarmente, e ciò conviene alla tua saggezza e alla tua educazione. Sono schiavi? Uomini sono. Schiavi? Sono compagni di tetto. Schiavi? Umili amici. Schiavi? Compagni di servitu, se consideri che la Fortuna ha ubTUale potere su di essi e su di noi... Quanti di questi  275   schiavi non hanno alla loro mercé il padrone di una volta... Va ora a disprezzare un uomo di tale fortuna, quando.tu stesso potresti cadere in quello stato, nel momento stesso che lo disprezzi! Non voglio cacciarmi in un argomento troppo vasto e venire a ragionare intorno ~ modo come si debbono trattare gli schiavi, verso cui ci mostriamo tanto superbi, crudeli, arroganti, Tuttavia in poche parole ti dico: "Comportati verso gli umili come vorresti che si comportassero i grandi verso di te..." Ti sbagli, se credi che io sia per respingere alcuni perché sono a piu vile opera addetti, come per esempio quel mulattiere o quel bifolco: non li giudicherò dal loro mestiere, ma dai loro costumi. I costumi ognuno se li dà egli stesso, i mestieri li distribuisce il caso... Quel che di servile può aver loro attaccato il commercio con persone volgari, sarà corretto con la compagnia di persone piu educate. 

 

L'amico, caro Lucilìo, non cercarlo solo nel foro o nel senato... Ma è uno schiavo! Che importa, forse è libera l'anima sua._ Mostrami chi non sia schiavo: uno lo è della libidine, l'altro dell'avarizia, l'altro dell'am- bizione, tutti della paura... Nessuna schiavit6 è piu spregevole di quella che si abbraccia volontariamente... Qualcuno dirà ora che eccito gli schiavi alla rivolta e tento d'intl~bolire l'autorità dei padroni per aver detto: nutrano per i padroni piu reverenza che paura... (Ep. a Luc., 47). In queste ultime parole sembra di rintracciare l'eco del ricordo della seduta del 56. Senza dubbio piu preciso è il ricordo di quella seduta e l'approfondimento della questione nel De benefiçiis. Nel De beneficiis, scritto nel 56 circa, l'anno, appunto, in cui Seneca nel Consiglio di Corte difese i liberti di contro agli interessi del Senato e di contro a chi soste- neva che lo schiavo essendo tale per natura non pu~ acquistare alcun diritto verso il padrone né alcun titolo di benemerenza, Seneca dice: Sostenere che uno schiavo non può in nessun caso esser benefattore del padrone, significa ignorare il diritto umano. Ciò che importa è il senti- mento, non la condizione giuridica di colui che dà. A nessuno è preclusa la virtU: a tutti è accessibile, tutti ammette, tutti invita, liberi, liberti, schiavi, re, esiliati: essa non ha preferenze né per case né per censi, si contenta dell'uomo nella sua nudità... t un errore credere che la servit6 penetri in tutto l'uomo: la parte migliore ne è intatta. L'anima è interamente libera. 

 

La fortuna ha consegnato al padrone solo il corpo (De beneficii$., III, 19-20). Noi abbiamo tutti la stessa ~rigine. Nessuno è piu nobile di un altro, se non chi abbia ingegno piu retto e piu adatto alle buone arti. Coloro che espongono nel vestibolo le immagini degli antenati e gli alberi genealogici sono piuttosto noti che nobili. Per gradini, o splendidi o oscuri, ciascuno di noi risale a una sola origine... Chi oserà chiamare schiavo qualcuno quando egli stesso è schiavo della libidine o della gola, anzi servo comune di tutte le femmine adultere?... (De beneficiis, III, 28). [E nella lettera 31, 11, ancora Seneca scriverà: "Esser virtuoso è possibile tanto ad un cava- liere romano, quanto a un liberto, quanto a uno schiavo." "Ma che signi- 276    fica cavaliere, liberto, schiavo? Sono parole nate o dall'ambizione o dal- l'ingiustizia. Da ogni angolo della terra è possibile slanciarsi verso il cielo" j. L'appello di Seneca al sovrano, finché gli fu possibile, e la sua influenza diretta - entro i termini di un'abile convinzione, per riuscire ad un qualche successo - si mossero nel tentativo di determinare una· giustizia civile- obbedienza formale alle leggi. stabilite nel tempo dalle città terrene, - valida nella misura in cui sia capace di far proprio il contenuto di fraterna uguaglianza e di comunione umana che è proprio della giustizia naturale (cfr. E. Garin, Giustizia, in "Revue internati~ naie de philosophie," 41, 1957, pp. 282-283). A parte le reali intenzioni di Nerone.e i compromessi, cui, volta a volta, possa essere addivenuto Seneca, certo è che il motivo fondamen; tale di Seneca è stato quello di rendere gli uomini consapevoli di sé, esseri razionali, ove per "ragione" si intende non un dato, ma la capa- cità comune a tutti, che ci fa tutti uguali, di riflettere sulle proprie esperienze umane, attraverso cui essere ciascuno se stesso in rapporto agli altri, non piu passioni unilaterali, ma articolazione e società, ché tale è l'uomo in quanto razionalità. E questo, per Seneca, deve essere l'impegno dell'uomo, di ciascuno per quanto a ciascuno compete, cia- scuno consapevole dei propd limiti e perciò, entro questi, delle proprie possibilità. 

 

Se sotto questo aspetto sembra chiaro in che senso Seneca interpreti l'affermazione stoica, che la virtU consiste nel vivere secondo ragione" e coerentemente, altrettanto chiara appare la dialettica senechiana tra la tesi che l'uomo è tale in quanto viva socialmente e la tesi che l'uomo è tale in quanto fugga la folla, donde, per altro aspetto, deriva la dialettica tra l'affermazione che siamo tutti schiavi e l'affermazione che sianlo tutti liberi; in conseguenza, se da un lato, sia pure come· estrema ratio politica, come esempio, quando non sia piu possibile vivere da uomini, né avviare - anche attraverso i pio gravi compr~ messi, sacrificando se stesso, ad essere liberi - è valido il suicidio, dall'altro lato suprema forma di viltà è il suicidio in quanto fuga dal proprio impegno umano, dal proprio essere sociale, atto unilaterale, e, ·perciò, irrazionale. Infelice, sei schiavo degli uomini, schiavo delle cose, schiavo della vita: una servitU è la vita, se manca la virtU del morire (Ep. a Luc., 77, 15). Pensare alla morte: chi dice questo, comanda di pensare alla libertà. Chi ha imparato a morire ha disimparato a servire: è al di sopra di ogni potere, certo al di fuori. Quale carcere, guardia o catenaccio c'è piu per lui? ha libera la porta (Ep. a Luc., 26, 10). Chiedi quale sia la via alla libertà? Qualsiasi vena del tuo corpo (De ira, V, 15).  277   Ma anche quando la ragione induca a farla finita, non si deve prendere la spinta all'impazzata e di corsa. L'uomo forte e saggio non deve fuggir... dalla vita, ma uscirne. E soprattutto eviterà quella passione troppo comune..., l'inconsulta inclinazione a morire, che spesso prende anche uomini generosi e di fiera indole, spesso gl'ignavi e gli abbattuti; gli uni disprezzano la vita, gli altri non ne reggono il peso (Ep. a Luc., 24, 24-25). Talora, anche se vi siano cause incalzanti, bisogna, sia pur con tormento, richiamarsi alla vita per amore degli altri... È grandezza d'animo riattaccarsi alla vita per amore degli altri, e spesso i magnanimi l'hanno fatto... 

 

Chi non tenga conto della moglie o dell'amico, per restare ancora in vita..., non è un forte (Ep. a Luc., 104, 3-4). Alcune delle proposte di riforma sociale, suggerite da Seneca, ebbero successo, altre no. Non sappiamo esattamente quale sia stata la parteci- pazione di Seneca nella drammatica lotta per il potere tra Agrippina e Nerone, culminata, com'è noto, con l'uccisione, ordinata da Nerone, di Agrippina (59). Certo è che dopo la morte di Agrippina, Nerone ascoltò sempre di meno Seneca, e dopo la morte di Burro - fatto avvelenare, sembra, da Nerone,- sostituito con l'inetto Fenio Rufo e con il terri- bile Tigellino, Seneca non ebbe piu alcuna voce e fu costretto a ritirarsi, anche se ufficialmente Nerone respinse le sue dimissioni e non volle che Seneca gli facesse dono delle sue ricchezze (si confronti il colloquio tra Seneca e Nerone riferito da Tacito: Annali, XIV, 53-56). "La morte di Burro rese vano ogni influsso di Seneca, perché i piu saggi consigli non avevano piu lo stesso potere, ora ch'era venuta meno, per cosi dire, l'altra guida del principe e Nerone era spinto dalla sua inclinazione verso i peggiori elementi. Costoro cominciarono subito ad attaccare con varie accuse Seneca, affermando che voleva aumentare ancora le sue ricchezze, che aveva già accumulato in modo eccessivo per un privato, e dicendo che faceva di tutto per attirare a sé le sim- patie dei concittadini, osando quasi primeggiare di fronte al principe... e sostenendo che le cose buone dell'lmpero.erano dovute a lui..." (Tacito, Annali, XIV, 52). "Seneca si allontanò dalla vita politica, facendo rare apparizioni in città, come se fosse trattenuto in casa a causa della salute cagionevole, o perché occupato negli studi di filosofia" (Tacito, Ann., XIV, 56). 

 

Furono questi gli anni del De otio, del D~ tranquillitate animi, del De prQtlidentia, del De beneficiis, delle Naturales quaestiones, e delle Epistulae mora/es ad Lucilium. In realtà Seneca, attraverso la sua opera, proponendo se.stesso come esempio di problematica morale e di dubbio (conloquor tecum, unQ scrutabimur: Ep. a L., 67, 2), proponendo la vita come conflitto e dia· lettica, sia pur per altra via proseguiva nel suo insegnamento. "Anche quando lo Stato è oppresso, l'uomo saggio ha occasione di mostrarsi. A seconda della situazione politica, nel modo che la fortuna lo consen- tirà, o ci espanderemo o ci raccoglieremo in noi stessi, ma comunque ci muoveremo e non c'intorpidiremo, paralizzati dal timore" (De tran- quillitate animi, V, 3-4). Ciò che si esige dall'uomo è che serva agli uomini: se è possibile a molti, altrimenti a pochi, altrimenti ancora a se stesso" (De otio, III, 2, l, 4). Particolare interesse assumono ora, anche relativamente alla situa- zione e allo stato d'animo di Seneca in quest'epoca, le Naturales quae- stiones. Chi vada ripercorrendo i vari motivi della riflessione senechiana, senza volere costruire un ben ordinato sistema di Seneca, si rende sem- pre meglio conto che la ricerca di lui si muove tutta entro l'àmbito del mondo degli uomini: da un lato nel riconoscimento che l'uomo è limite, dolore, disperazione, groviglio di unilaterali passioni, molteplicità; dal- l'altro lato nel riconoscimento che l'uomo si rivela a se stesso, attraverso la riflessione sulle passioni, sui propd fantasmi, su se medesimo, capa- cità di rendersi consapevole di sé, di costituire sé come ragione, cioè come possibilità di con-vinzione delle passioni, in un ordine che è misura e coerenza, di volta in volta, misura e coerenza sociali, per cui la rifles- sione medesima (filosofia) costituisce l'uomo come misura, istituisce un costume (mos) che è, ad un tempo, costume sociale, come rispetto e dovere, consapevolezza del proprio compito, entro i propd limiti (mora- lità). 

 

Sotto questo aspetto si vede bene perché, in fondo, a Seneca non interessasse chiudersi in una o altra sistemazione apparentemente scien- tifica, in una o altra ben definita e definitiva concezione dell'Universo e della Natura- una avrebbe potuto essere l'ipotesi epicurea,- se non perciò che l'uno o l'altro aspetto di una o di altra concezione potevano servire a rendere conto della formazione morale e sociale dell'uomo. Cosi, l'opzione di Seneca per l'aspetto piu semplice di certo stoicismo di scuola - tutta la realtà scaturisce quale deve essere dalla tensione del principio attivo e di quello passivo, costituendosi in un ordine, per cui ciascuna cosa assume un suo perché, una sua ragione entro i termini della ragion d'essere universale, la natura naturante- si determina non come dato a priori, ma come scoperta, attraverSQ la stessa scoperta (mediante la riflessione su se stessi) dell'uomo come razionalità. In tal senso la ragion d'essere del tutto si pone piu come ipotesi che come dato, come termine che si coglie attraverso noi stessi e che, perciò, ci trascende dal di dentro. E qui, in realtà, il discorso si fa diverso da quello stoico - se mai piu vicino, forse, a quello di Panezio e di Posidonio, - anche se ven- gono riprese certe argomentazioni, certi t6poi stoici, che, poi, non solo sono degli stoici (ad esempio, accanto alla riflessione su se stessi, la riflessione sul tutto che si rivela ordinato e scandito in leggi, da cui l'ipotesi di una suprema legge che provvede a tutto); e il discorso si fa quello di alcuni stoici, nel senso che quell'ordine, quella legge del tutto, quella stessa provvidenza non sono posti su di un piano antico, ma, ripetiamo, su di un piano etico, cioè si rivelano e si scoprono attraverso la stessa riflessione etica, divenendo termini di speranza, non di dimo- strazione scientifica. Altro è perciò il piano della fisica, altro quello della logica. 

 

E se da un lato la riflessione etica prospetta l'uomo come razionalità, mediante cui l'uomo si libera da se stesso passioni, frantumi e fantasmi; dall'altro lato rende consapevole l'uomo dei suoi stessi limiti, della sua condizione estremamente infelice e determinata, consapevo- lezza senza di cui, comunque, non vi sarebbe moralità, ma ancora una volta passione e tracotanza. Compromettere la realtà ad un ordine già dato e necessario, sostenere che tutto è già fatalmente costituito, sarebbe stato negare la stessa possibilità della vita morale, la possibilità di ren- dersi consapevoli di sé, di educarsi e di correggersi; si come sarebbe stato un negare la moralità, la stessa esperienza umana, sostenere la libertà, la mancanza di un qualsivoglia limite, di una qualsivoglia con- dizione. Non a caso su di un piano ontico e fisico, anche relativamente all'immortalità o no dell'anima, Seneca non conclude mai, sospende il giudizio, ponendo le varie tesi come ipotesi; mentre sul piano di una quotidiana esperienza chiarisce che Jòuomo è limite, è chiusura, è nulla di fronte all'immensità dell'infinito Universo; solo che, appunto, tale sentirsi nulla, tale riflessione sulla propria miseria, sulla infinita natura che circonda e schiaccia l'uomo, fa sorgere nell'uomo - e anche questa è un'esperienza- la consapevolezza di sé come capacità, entro i propri limiti, di costituirsi razionalmente, cioè moralmente. Se da un lato, dunque, poteva scrivere in una delle sue prime opere (Consolatio ad Marciam, 19, 5): '"Liberazione di ogni ambascia è la morte: piu in là non si estende l'umano dolore. 

 

 

Essa ci ripone in quella pace nella quale fummo prima di nascere_, La morte non è né bene né male: quello può esser bene o male che è qualche cosa; ciò che per se stesso è nulla e ogni cosa riduce in nulla non ci rimette a fortuna: non può esser misero chi è nulla"; se ancora molto dopo scriveva: '"Non v'è differenza alcuna tra il non nascere e il morire; ché uno è l'effetto: non essere" (lAt. a Luc., 54, 5); '"l'anima lascia questa vita per una vita migliore, destinata a rimanere nella calma luminosa delle cose divine; oppure esente da ogni incomodo, si ricongiungerà alla sua natura e ritor- nerà nel gran tutto" (lAt. a Luc., 61, 16); dall'altro lato, posto che la realtà della vita umana ha i suoi termini tra la nascita e la morte, giunto alla fine della sua vita, Seneca scrive: '"Mi compiacevo l'altro giorno di pensare, anzi di cr~d"~ all'immortalità dell'anima, e credevo volentieri 280    alla opinione dei grandi uomini che di una cosa tanto consolatrice ci danno piuttosto la promessa che non la prova: e mi abbandonavo a tanta speranza, dabam me spei tantam" (Lett. a Luc., 102, 1-2). Entro questi stessi termini, l'indagine sulla natura non ~ per Seneca un'indagine mediante cui determinare principi che rendono pensabile, cioè scientificamente conoscibile, la realtà, ma è meditazione sulla natura; mediante cui liberarsi dalle umane distrazioni e dispersioni, mediante c;UÌ rendersi conto di quanto misero, nullo, piccolo, sia l'uomo quoti- diano, tutto preso dalle sue passioni, dai suoi fantasmi. 

 

E, ancora una volta, tale visione della natura, infinita, ordinata nelle sue leggi, che smaga l'animo dell'uomo, avvia l'uomo a scoprire sé come ragione, a postulare che tutto sia retto da un'infinita ragione, passando analogi- camente dal noto all'ignoto. Se ti vuoi persuadere che la natura ha voluto essere contemplata e non solo guardata, pensa al luogo che ci ha assegnato: ci ha posti nel suo centro, offrendoci la visione completa dell'universo; e, per rendergli agevole la contemplazione, non solo ha creato l'uomo eretto, ma perché potesse seguire gli astri dal loro sorgere al loro tramontare ·e volgere il suo viso a seconda del moto dell'universo, gli ha dato un capo rivolto verso il cielo e un collo flessibile. Poi, facendo ruotare i segni zodiacali (sei durante il giorno e sei durante la notte), ha dispiegato dinanzi all'uomo tutta se stessa, per ispi- rargli, attraverso la visione delle cose che gli offre, il desiderio di contem- plare anche le altre. Infatti noi non scorgiamo tutte le cose né le vediamo nella loro giusta grandezza, ma il nostro sguardo si apre la via all'investi- gazione e· riesce a gettare le fondamenta del vero, cos{ che la ricerca può passare dal noto all'ignoto e concepire qualcosa di piu antico ancora del mondo... (De otio, V, 4-5). E anche questa è una spertmza e un'esperienza. Una speranza in quanto l'ordine e la razionalità si pongono come un bene da realizzare; una esperienza in quanto la scoperta della presenza in sé della propria razionalità, la capacità di porre in sé misura e armonia ~ tanto lontano dall'essere un fatto umano, che si rivela come presenza di un valore super umano. 

 

Tale il Dio di Seneca: da un lato la ragion d'essere del tutto, del tutto nella sua totalità razionale e ordinata, in senso stoico; dall'altro lato, la possibilità nell'uomo di costituirsi razionalmente, lo stesso sorgere della coscienza come consapevolezza di sé, dei propri limiti ed entro questi del proprio impegno. 

 

Di qui, da una parte, U rifiuto dell'ipotel!i fisica di Epicuro, che smarrisce l'uomo nel caso, dall'altro lato l'appello epicureo ad un annullamento dell'uomo nell'eterno riposo del nulla. Certo, a tale concezione di Dio, immanente e trascendente a un tempo, Seneca chiaramente giunse nell'ultimo periodo della sua medi- tazione, anche se fin dal principio poneva come ipotesi la tesi stoica di un tutto frutto della tensione del Logos (Dio), principio attivo, e della materia (quantità, principio passivo). Nelle ultime opere, dal De bene- ficii.r alle Lettere a Lucilio alle Questioni naturali, sempre piu Seneca insiste sull'esperienza del divino in noi, inteso come la stessa coscienza, e sulla meditazione intorno ai fenomeni della natura (donde le Quae-.rtione.r natura/es, che per il resto sono una descrizione di fenomeni) che, di là dalla nullità dell'uomo, rivelano la presenza di una suprema e provvidente divinità. ~ sembrato cosi che in Seneca vi sia un'oscillazione tra due conce- zioni di Dio: un Dio inteso come natura naturan.r, mente dell'Universo, tutto ciò che si vede e non si vede, rettore e custode dell'Universo, signore e artefice di quest'opera, al quale ogni nome conviene (cfr. Nat. quae.rt., l, praef. 13, 14; Il, 45), sempre in atto ed entro cui si svolgono in pro- cesso circolare tutte le vicende delle cose, il nascere e il perire, neces- sariamente; e un Dio trascendente, esigenza e speranza, posto oltre la natura. 

 

Certo è che la meditazione su Dio di Seneca non è una teologia, né una rivelazione da.parte di Dio come lo sarà nel çristia- nesimo. Si capisce, comunque, in che senso Seneca abbia avuto un'enorme influenza sui pensatori cristiani, tanto che di lui essi potranno dire, Seneca.raepe no.rter; mentre, per altra via, si scrisse, tra il IV e il v secolo, una serie di lettere che si finse essere un epistolario tra Seneca e San Paolo. "Tra la filosofia di Seneca e la religione di S. Paolo," ha scritto il Marchesi, "è un abisso; per Seneca l'uomo redime se stesso con l'opera della ragione, per San Paolo si lascia redimere da Dio nell'abbandono della fede; nel Cristianesimo Dio è il salvatore degli uomini, nella dot- trina di Seneca l'uomo è il salvatore di se stesso... Per Seneca è la.rapientia che distrugge ogni culto positivo, vale a dire ogni supersti- zione, con lo spietato· esercizio della ragione. Dicono che Seneca sia tanto vicino al Cristianesimo coloro che, dimenticando del Cristianesimo l'essenza positivamente religiosa, giudicano soltanto attraverso alcune formule vaghe di moralità e di umanità... [Chi sa quale sarebbe stato] il giudizio di Seneca, se accanto al seggio di suo fratello Gallione in Corinto [che doveva giudicare Paolo] avesse sentito annunciare da San Paolo che Gesu era il Cristo morto e risuscitato per affrancare gli uomini dalla legge del peccato e della morte" (Marchesi, cit., p. 420). In realtà la problematica senechiana sul divino è un altro aspetto della meditazione di Seneca sull'esperienza morale dell'uomo. 

 

Su questa linea sembrano particolarmente interessanti e indicativi due testi di Seneca: l'uno relativo all'indagine scientifica, in cui chia- ramente appare come Seneca, nettamente distingua il tipo della ricerca scientifica dal tipo della: ricerca filosofica (il tipo della ricerca scientifica.si fonda sull'ipotesi e sulla descrizione del fenomeno, lasciando aperta la possibilità di altre ipotesi, di altre ulteriori ricerche; la ricerca filo- Sofica, invece, si fonda sulla meditazione di se stessi, ed è strumento per costruire se stessi, attraverso la meditazione stessa, per cui, appunto, la filosofia non è né la fisica né la logica, né la matematica, ma è da un lato moralità e dall'altro lato consolatio, o, sotto questo aspetto, con- vinzione, cioè retorica e politica); l'altro testo relativo alla meditazione sulla natura come capace di liberare l'uomo dalle sue ostinate illusioni, in una rivelazione a sé del divino come esigenza e presenza di una mancanza, che è la scoperta della stessa consapevolezza e della razio- nalità, della possibilità umana della constantia. Nel primo testo, che si trova nelle Naturales quaestiones, discu- tendo sulla natura delle comete, dopo aver esposto l'ipotesi di Epigene, seguace di Aristotele, secondo il quale le comete si formano come una specie di fuoco trascinato in alto da un vortice, e l'ipotesi di Apollonio di Mindo, suo contemporaneo, secondo cui le comete sono astri sepa- rati come il sole e la luna, e dopo aver rifiutato l'ipotesi di certi stoici secondo i quali le comete son fiamme improvvise, Seneca, che in parte propende per l'ipotesi di Apollonio di Mindo, cosi conclude: Perché dovremmo sorprenderei se un fenomeno cosmico tanto raro come quello delle comete non può venire inquadrato nell'àmbito di leggi regolari, e se non ne possiamo conoscere né l'inizio né la fine, poiché esse compaiono a intervalli di tempo tanto grandi?... 

 

Giorno verrà che le cose ancor celate a noi trarrà alla luce il tempo e la diligenza di piu lungo corso di secoli; a cosf grande ricerca non basta una sola età... Molte cose ignote a noi sapranno le genti delle età future... (Nat. quaest., VII, 25, 30-31). Nel secondo testo, cui àlludevamo, dice, invece, Seneca: Quando ci saremo sollevati alla vera grandezza [la grandezza della natura], quante volte vedremo marciare degli eserciti a vessilli spiegati, e la cavalleria, come fosse gran cosa, ora lanciarsi in esplorazione all'avan- guardia, ora riversarsi alle ali, potremo ripetere volentieri: "Va il nero sciame pei campi" [Virgilio, Eneide, IV, 404]; evoluzioni di formiche sono le nostre: nessuna differenza è fra esse e noi, tolta l'estrema esiguità del loro corpo. Su di un solo punto noi navighiamo e combattiamo e stabiliamo i nostri imperi, minimi imperi, anche se avessero per limite i due oceani; sopra di noi sono gli spazi grandi, che l'anima solo può possedere. t tanto l'errore dei mortali che alcuni di essi guardano il mondo, questo miracolo di bellezza, di armonia e di bontà, come un prodotto fortuito, in balla del caso, e perciò tumultuoso in mezzo ai fulmini, alle nubi, alle tempeste e a tutti gli sconvolgimenti della terra e dell'atmosfera: e non è solo pazzia  283   dd volgo codesta, ma di uomini che hanno professato la sapienza. 

 

Alcuni, pure ammettendo l'esistenZa di un'anima umana previdente e moderatrice, credono che questo grande tutto, del quale anche noi siamo parte, è privo di intdligenza ed è mosso dal caso o dalla natura ignara di· quello che fa [ove è evidente i l rifiuto ddl'ipotesi fisica dell'epicureismo]... Osservare queste cose [se vi sia un dio che abbia fatta la materia o se l'abbia soltanto adoperata, se l'idea preceda la materia o la materia l'idea, se Dio fa tutto ciò che vuole, oppure no, se dalle nubi del grande artefice escano opere difettose non per difetto dell'arte ma della materia ribelle all'arte e cos{ via], osservare. queste cose, studiarle, vegliare su di esse, è oltrepassare i limiti della mortalità e trasferirsi a pi6 alto destino; e se nessun altro frutto rica· veremo da codesti studi, ci basterà soltanto sapere che tutto è angusto allor- ché avremo misurato Dio (Natura/es quaest., I, praef., 10-17). E cos{ Seneca esclama in una Lettera a Luci/io (41, 1-2): Non c'è bisogno d'innalzare le mani al cielo, né pregare il custode dd tempio che ci lasci accostare alle orecchie del simulacro, perché meglio ci esaudisca: vicino a te è Dio, con te, dentro di te... 

 

Un sacro spirito risiede entro di noi, osservatore e custode della nostra malvagità e bontà; e nella Lettera 73, 16: Ti meravigli che un uomo vada verso gli dèi?.Dio va verso gli uomini, anzi, pi6 propriamente, viene negli uomini: nessun'anima senza Dio è vir- tuosa. Semi divini sono diffusi negli umani corpi (Miraris hominem ad deos ire? Deus ad homines venit, immo quod est propius, in homines ve- nit: nulla sine deo mens bona est. Semina in corporibus humanis divina dispersa sunt...). Dopo la morte di Burro (62 d. C.) e l'allontanamento di Seneca, sempre piu scellerato e terribile divenne il governo di Nerone. Le ucci- sioni e i delitti si susseguirono alle uccisioni e ai delitti. Si ordf allora una congiura. Capo di essa ne fu Calpurnio Pisone. Vi aderirono "a gara senatori, cavalieri, soldati e anche donne, tanto accesi da odio contro Nerone, quanto da simpatia per C. Pisone" (Tacito, Ann., XV, 48). La delazione di un liberto e la debolezza di due congiurati che non seppero resistere allo spavento delle torture - mentre la liberta Epicari, torturata, eroicamente si uccise piuttosto che parlare - fece scoprire la congiura. Ci fu chi rivelò che capo della congiura era Pisone - si pensava anzi, se la cosa fosse andata, di proclamare Pisone impe- ratore - e si aggiunse anche il nome di Seneca, "forse per procurarsi il favore di Nerone che odiava Seneca e che cercava ogni mezzo per sopprimerlo" (Tacito, Ann., l.c.). Sembra, comunque, che una parte dei congiurati avesse realmente pensato a Seneca piuttosto che a Pisone come possibile imperatore. Non sappiamo niente di un'azione diretta di Seneca. Di fatto sappiamo che Seneca, accusato di accordi con Pisone, fu condannato a morte, come a morte furono condannati Calpurnio Pisone e Plauzio Laterano. Era l'anno 65 d. C. Nerone comandò di andare da Seneca con l'ordine di morire... Seneca, impavido, chiese che gli portassero le tavole del testamento e, poiché il centurione rifiutò, si volse agli amici dichiarando che, dal momento che gli si impediva di dimostrare la sua gratudine, lasciava a loro la sola cosa che possedeva e la piu bella, l'esempio della sua vita. 

 

Se avessero di questa con- servato ricordo, avrebbero conseguito la gloria della virtU come compenso di amicizia fedele. Frenava, intanto, le lacrime dei presenti ora col sem- plice ragionamento, ora parlando con maggior energia e, richiaD'laJI.dO gli amici alla fortezza dell'animo, chiedeva loro dove fossero i precetti della saggezza, e dove quelle meditazioni che la ragione aveva dettato per tanti anni contro la fatalità della sorte. A chi mai, infatti, era stata ignota la ferocia di Nerone? Non gli rimaneva ormai piu, dopo avere ucciso madre e fratello, che aggiungere l'assassinio del suo educatore e maestro. Come ebbe rivolto a tutti queste parole ed altre dello stesso tenore, abbracciò la moglie e, un po' commosso dinanzi alla sorte che in quel momento si com- piva, la pregò e la scongiurò di placare il suo dolore e di non lasciarsi per l'avvenire abbattere da esso, ma di trovare nel ricordo della sua vita vir- tuosa dignitoso aiuto a sopportare l'accorato rimpianto del marito perduto. La moglie dichiarò, invece, che anche a lei era stata destinata la morte, e chiese la mano del carnefice. Allora Seneca, sia che non volesse opporsi alla gloria della moglie, sia che,fosse mosso dal timore di lasciare esposta alle offese di Nerone colei che era unicamente diletta al suo cuore: "Io ti avevo mostrato," disse, "come alleviare il dolore della tua vita, tu, invece, hai preferito l'onore della morte: non sarò io a distoglierti dall'offrire un tale esempio. Il coraggio di questa fine intrepida sarà uguale per me e per te, ma lo splendore della fama sarà maggiore nella tua morte." Dette queste parole, da un solo colpo ebbero recise le vene del braccio. Seneca, poiché il suo corpo vecchio e indebolito dal poco cibo offriva una lenta uscita del sangue, si recise anche le vene delle gambe e delle ginocchia, e abbattuto da crudeli sofferenze, per non fiaccare il coraggio della moglie e per non essere trascinato egli stesso a cedere di fronte ai tormenti di lei, la indusse a passare in un'altra stanza. Anche negli estremi momenti non essendogli venuta meno l'eloquenza, chiamati gli scrivani, dettò molte pagine, che testualmente divulgate tralascio di riferire con altre parole. Pertanto Nerone, non avendo alcun rancore personale contro Paolina, moglie di Seneca, dette l'ordine d'impedirne la morte perché non si accre- scesse l'odiosità della sua ferocia. All'imposizione dei soldati, i servi e i liberti legando le braccia trattennero il sangue a lei che non sappiamo se di tutto ciò avesse o no la sensibilità... Visse ancora pochi anni, conservando  sacra memoria del marito, nel volto e nel corpo bianco di quel pallore che era segno palese della vitalità perduta. Seneca, frattanto, protraendosi la morte lenta, pregò Anneo Stazio da lungo tempo amico suo e famoso per l'arte medica, di propinargli quel veleno [cicuta] già da tempo provveduto, col quale si facevano morire gli Ateniesi condannati i~ pubblico giudizio. Avutolo, lo trangugiò invano perché il gelo aveva già invaso le membra e il corpo era ormai refrattario all'azione del veleno. Alla fine, entrò in una vasca piena d'acqua, spruzzandone i servi piu vicini a lui\~ dicendo di fare con quel liquido libazione a Giove liberatore. Fu portato poi in un bagno a vapore dove mori soffocato. Fu cremato senza alcuna solenne cerimonia funebre, come aveva prescritto nel suo testamento, quando ancora nel pieno della ricchezza e della potenza aveva dato disposizioni intorno alle sue ultime volontà (Tacito, Annali, XV, 61-64). E non molto tempo prima della sua condanna, certo dopo la sua caduta in disgrazia, quando si era ritirato da quella vita politica che non era piu politica e per la quale non c'era piu nulla da fare, se non con l'esempio di una verace vita ragionevole e perciò stesso, per altro verso, di una verace vita politica, cosi scriveva Seneca a Lucilio (Lett. 26), quasi concludendo il suo discorso, la sua riflessione in cui consiste la stessa moralità: Vicino al momento della prova, vtcmo a quell'ultimo giorno che deci- derà di tutti i miei anni, cosf veglio su me stesso e mi parlo. Fino a oggi, dico, non ho fatto nulla di sicuro né con gli atti né con le parole, indizi lievi e ingannevoli dell'animo. Alla morte affiderò il mio profitto. Pertanto io mi preparo coraggiosamente a quel giorno in cui, messo da parte ogni artificio, giudicherò di me stesso, e farò vedere se il mio coraggio era nel cuore o sulle labbra, se fu simulazione o commedia la mia sfida gettata alla fortuna. Non conta nulla la stima degli uomini: essa è sempre dubbiosa ed è accordata tanto al vizio quanto alla virtu; non contano gli studi di tutta la vita: la morte sola è il giudice nostro. Le dispute filosofiche, le dotte conversazioni, i precetti della sapienza non dimostrano la vera forza dell'animo: anche gli uomini piu vili hanno linguaggio da ero~. Le opere tue appariranno solo all'ultimo tuo sospiro. Accetto questa condizione: non temo il tribunale della morte (Lett., 26, 4-7).  Per chi non si affidi a semplicistiche e nette distinzioni manuali- stiche nel delineare la formazione della cultura nell'arco di tempo che va dalla seconda metà del I secolo agli inizi del m secolo d. C., sembra difficile insistere su precise posizioni, diverse le une dalle altre, chiara- mente distinguibili per èaratteristiche proprie. Parlare di "neopitago- rismo, " di platonismo medio, di stoicismo cinicheggiante, di gnosticismo, di ermetismo e cosi via, come di blocchi avulsi da un comune terreno e da comuni reciproche influenze, che non si scandi- scono nel tempo e non rispondono a comuni esigenze, è falsare il signi- ficato di una viva cultura, di problemi concreti, niente affatto cristallizzati, quali, invece, appaiono a noi nella noia di una tradizione scola- sticizzatasi. Non solo, ma altrettanto fuorvianti sono le stesse denomi- nazioni indicative: platonismo, stoicismo, pitagorismo. Tali denominazioni non indicano nulla: se mai possono evocare uno o altro aspetto di uno o altro platonismo o stoicismo o pitagorismo determina- tisi storicamente. Sappiamo che se già in Platone vi sono molti Platone, se già in Aristotele vi sono molti Aristotele, molti sono stati poi, dopo Platone e dopo Aristotele, i platonismi e gli aristotelismi, s1 come molti, nel tempo, sono stati gli stoicismi, per non parlare dei modi diversi con cui ha giuocato la leggenda di Pitagora. Dopo Platone e dopo Aristotele, di Platone e di Aristotele si sono andati riprendendo, volta a volta, quegli aspetti che piu rispondevano a certe esigenze e problematiche, in funzione di concezioni che con Platone e Aristotele, considerati sto- ricamente, non avevano piu nulla di comune. Abbiamo veduto quale Platone e quale Aristotele abbiano potuto tener presenti certi stoici e come quegli stessi aspetti di Platone o di Aristotele si siano potuti trasfigurare, in interpretazioni che a loro volta  sono venute trasfigurando le originarie posizioni stoiche (si ricordi, ad esempio, la storia dell'Accademia profilata da Filone di Larissa ·e la storia dell'Accademia profilata invece da Antioco di Ascalona: cfr. sopra). Abbiamo cos1 veduto come sul piano del tentativo - d'altra parte già implicito nell'ultimo Platone - di rendere pensabile l'Essere, costitUito dal mondo delle idee, si sia sciolto l'Essere stesso in quantità misurabile e traducibile in termini numerici: di qui, pio tardi, si è potuto rico- struire tutta la realtà scandendola in numeri e figure geometriche. E se questo, per un verso, è stato detto • pitagorismo," per altro.verso quello stesSo pitagorismo, nel suo tradurre le leggi del tutto in numeri, ha potuto servire sia all'astronomia di. tipo stoico sia allo stesso stoicismo, nella sua interpretazione fisico-matematica del Timeo di Platone (si cfr., per esempio, già èicerone, Rep,ubblica, I, 15). Per altra via, la critica acuta e inesorabile delle condizioni, che rendono possibile il ragionare umano, portava a mettere in dubbio l'adeguazione dell'intelletto e della cosa - condizione prima perché sia possibile la conoscenza delle strut- ture ddla realtà in quello che la realtà è, e ch'era stata, sia pur in via ipotetica, la tesi prima di Platone, - in una precisa dimostrazione che ogni concezione del tutto è opinabile e controvertibile. Non si scordi, qui, la linea che va da Arcesilao a Carneade, i quali, non a caso, inter- pretano il platonismo nel suo aspetto problematico e aporetico, socrauco; e piu ancora la linea che va da Enesidemo ad Agrippa tra il I a. C. e il I d. C. Poiché, in fondo, gli stessi scettici presuppongono l'esistenza di una realtà per sé, oltre le possibilità umane, si vede bene di qui, in oppo- sizione al neo-pirronismo che finiva con l'estraneare l'uomo dalla realtà, involgendolo in un puro giuoco di parole, dove tutto è giuoco di parole, la ripresa di certi motivi platonici, pitagorici, aristotelici. Cos(, renden- dosi conto della validità ddla critica scettica, si accetta quella realtà presupposta, giungendovi, per analogia, in termini logici, cioè optando per quelle concezioni che appaiono meno contraddittorie e piu capaci di dare una forma e un senso alla vita (da Antioèo di Ascalona ad Ario Didimo a Seneca, che hanno potuto essere a un sempò stoici e platonici). Oppure, sempre entro i termini di un platonismo e di uno stoicismo di sfondo, che accetta la concezione di un tutto ordinato e scandentesi in ben fisse e precise leggi, la v~sione degli astri e dei mondi regolati da leggi e cos1 via, che è oramai un t&pos, cui poteva servire certo primo Aristotele ç> certo Aristotele fisico, interpretato in chiave stoica (si ricordi lo pseudo aristotelico De mundo, composto appunto nel I secolo d.C.), si poteva sostenere che, proprio perché l'uomo è incapace e limite, proprio perché l'umana ragione resta sul piano umano, è quella stessa verità trascendente che scende all'uomo, che all'uomo si rivela (si pensi a Filone l'Ebreo e, per altro verso, ancora a Seneca). Oppure, ancora - certo in ambienti piu popolari, meno intellettual- mente scaltriti - abbiamo il recupero di Pitagora mago e taumaturgo, di quello che il Dodds ha detto il Pitagora sciamano, egli stesso consi- derato piu che anima in senso greco (forza vitale e unifiéatrice), anima divina, personale, trascendente, che si incarna di volta in volta in uo- mini che, esprimendo perciò il verbo di Pitagora, essi medesimi novelli Pitagora, si presentano come salvatori, facitori di miracoli, profeti. D'altra parte va sottolineato che entro questi termini, entro questa esigenza comune, non è neppure un solo aspetto dell'interpretazione di Platone né un solo aspetto dell'interpretazione del pitagorismo né di Aristotele che vengono assunti. A seconda delle difficoltà, nel tenta- tivo di spiegarsi la realtà e il suo significato in funzione dell'umano vi- vere e della umana condizione, a seconda degli stessi ambienti nei quali e per i quali si cerca di operare, delle tradizioni, delle polemiche in ari ci si viene a trovare, ci si appella a uno o altro aspetto delle inter- pretazioni di Pitagora, o di Platone o di Aristotele. O ci si rifà all'ul- timo Platone dialettico (Teeteto, Parmmide, Sofista, Filebo), puntando su di una certa interpretazione dell'Essere Uno che si costituisce in una molteplicità; o al Plat~me interpretabile come avente posto una relazione con l'Uno, con il divino in termini intuitiv~, mistici. O ci si appella al pitagorismo pi6 strettamente matematico,· capace di rendere conto in ter- mini numerici e di misure (in ciò razionali) della stessa visione plato- nico-stoica di un universo uno e inolteplice a un tempo, sia esso poi do- vuto all'atto proprio di un Dio trascendente e che tale resta o di un Dio che tale si costituisce e si riconosce nello stesso costituirsi della realtà tutta; oppure ci si rifà a un pitagorismo interpretabile come spiegazione della stessa "platonica" unione mistica mediante il motivo della purifi- cazione delle anime divine, distinte e altre dai corpi, dalla materia, in un conflitto fra.i due principi del Bene e del Male, dal quale si sfugge se, ele.tti dal dio, si compiono certi esercizi (ascen), si· conduce una certa vita ("vita pitagorica"), cos1 che non poco suggestivi divengono certi misteri orientali e l'interpretazione in questa chiave dei misteri greci (dionisismo e orfismo) e di quelli egiziani, insieme agli aspetti cultuali operativi dell'astrologia. Di qui la presentazione di esempi di "vita pi- tagorica," di esempi di vita ascetica, oppure di uomini che sostengono di essert Pitagora reincarnato, che compiono miracoli e cos{ via. Ma anche, di qui, in ambienti a pi6 alti livelli, attraverso la ripresa del pita- gorismo matematico-geometrico, del platonismo dialettico, dell'Aristo- tele protrettico e di certe parti piu platoniche della Fisica e della Meta- fisica, ma anche degli aspetti piu formali della logica (Categorie, Topici, Primi tmaliticr), che, innestandosi ad alcune parti della logica stoica, po- tevano servire da esercizio e introduzione, da avviamento alla visione  289   platonico-stoica, insieme agli aspetti piu teologici e ontici della fisica stoica, si fa il tentativo di oltrepassare il mondo umano, per giustificare proprio quel mondo umano che le correnti critico-scettiche ed epicuree abbandonavano a se stesso: le une chiudendo l'uomo nelle sue stesse parole, negandogli ogni contatto e senso della realtà e della vita; le altre dando all'uomo una responsabilità paurosa, in una rivolta al di- vino ch'era, pur sempre, una rivolta alle autorità costituite, in un am- biente, in cui, di fatto, non v'era un popolo, in quanto mancava il concetto e la coscienza della sua realtà, o meglio altra n'era la coscienza. Sono, questi, motivi assai diffusi, tra il I e il 11 secolo d. C., che si intrecciano e si trovano talvolta giustapposti in uno stesso autore. Non solo, ma di essi già chiara traccia si ha, come abbiamo veduto, in Filone l'Ebreo, che certo sfruttava una tradizione interpretativa ormai cristal- lizzatasi; in certi testi magico-astrologici e magico-alchimistici di ori- gine egiziana; in testi che costituiranno poi il corpus ermetico; nell'in- segnamento della Scuola romana dei Sestii (tra pitagorica e stoica); nel diffuso metodo allegorico, nella diffusissima simbolica dei numeri e nelle molte pratiche magico-terapeutiche (cfr. sopra). In altra sede sarebbe ora il caso di riportare tutta una serie di testi (da Cicerone, da Ario Didimo, da Manilio,. da Filone, da Seneca, da passi astrologici e chimici certamente del I a. C.) per confrontarli con tutta un'altra serie di testi ripresi da Moderato di Gade (I d. C.), da Nicomaco di Gerasa (I d. C.), dall'autore dei Theologumma (I d. C.), dalla Tavola di Cebete (I d. C.: opera attribuita al pitagorico Cebete di Tebe, scolaro di Socrate, in cui si dà un'interpretazione allegorico- simbolica di tono pitagorico-stoico delle raffigurazioni dipmte in un quadro), da Apuleio (n d. C.), da Plutarco (n d. C.), da Numenio di Apamea (11 d.C.). Vedremmo coincidenze impressionanti, ma soprat- tutto ci renderemmo conto di come una certa tradizione culturale, par- ticolarmente formatasi tra il 11 e il I secolo a. C. (vedi sopra), sfruttando e ritagliando testi pio antichi (Platone, Aristotele, il •pitagorismo" pla- tonico-matematico, lo stoicismo di tipo Cleante - si veda in tal senso Antioco di Ascalona), giuochi ora, tra il I e il 11 secolo d. C., in fun- zione di una comune esigenza, ma in un approfondimento e sviluppo dell'uno e dell'altro motivo, a seconda non solo dei livelli sociali, ma anche della formazione culturale dell'uno o dell'altro autore e dell'am- biente in cui ciascuno si _è venuto a muovere. Entro questi limiti si possono, forse, riprendere i termini pitagorismo e stoicism in senso molto lato,- qualora con l'uno e l'altro termine ci si riferisca a pio motivi, confluenti, ad ogni modo, in una comune concezione, diversificantesi relativamente ai modi di intendere lo strutturarsi della realtà. Cos(possiamo anche dire pitagori••anli e 290    platonizzanti quelle posizioni che, nel tentativ(\ di rendere pensabile la intuita ragion d'essere del tutto, sulla scia della antica interpretazione di Speusippo e di Senocrate, traducono il discorso del reale in termini numerici e geometrici, donde tutta una simbolica di numeri. Solo che in tal caso, ed è molto indicativo, in realtà non ci si riferisce diretta- mente alla figura di Pitagora, ma al Pitagora quale avrebbe risuonato in Filolao ed Archita, da cui avrebbe, a sua volta, ripreso Platone (par- ticolarmente il Platone del Timeo) e da Platone poi certe posizioni stoiche e lo stesso Aristotele. Non a caso già dal 1 secolo a. C., a parte la notevole diffusione ch'ebbe il Timeo, erano circolati testi sotto il nome di Archita di Taranto (De mundo, De principio, De ente, De intel- lectu et sensu, De sapientia: cfr. framm. in Stobeo, Ecl., I, 41,2 e 5, 48,6; Il, 2, 4 W.; Giamblico, Protr., 3), di Onato di Crotone (De deo et divino: cfr. fr. in Stobeo, Bel., l, l, 39 W.), e un opuscolo Sull'anima del mondo, attribuito a Timeo di Locri, che è, senza dubbio, un'inter- pretazione stoica del Timeo di Platone, e molte altre opere andate sotto il nome di Pitagorici antichi, che vennero raccolte dal re Giuba II di Numidia (50 a. C.-23 d. C.) (si confronti Cicerone, Rep., l, 15 e la sin- tesi di Antioco di Ascalona). Si vede bene come, in questa direzione "pitagorismo," "platonismo," "stoicismo," potevano servire a rendere conto di una visione ordinata e armonica della realtà, tale, appunto, in quanto possibile d'essere mi- surata (razionalizzata) e per cui. i numeri divenivano i simboli stessi delle cose, la ragion d'essere della realtà, e dove assumeva un suo si- gnificato scientifico l'astrologia e la divinazione, lo studio delle rifrazioni dei lumi stellari (da cui anche gli studi di ottica e di diottrica), lo studio di tecniche, mediante cui operare su quei numeri stessi, sulle anime- n!Jmeri, sui dèmoni-numeri, interpretati come leggi intermedie tra la suprema ragion d'essere (la monade) e il costituirsi delle cose sensibili, in un ordinamento (di diade in diade) della informe materia (appunto perché informe, essa non numero, non ragione, non essenza). E qui si ripresentava il grosso problema dell'eternità del mondo uno nell'unità di Dio sempre in atto, ove i cangiamenti sono interni a ciascuna realtà nell'ordine del tutto -per cui in effetto nulla cangia, - o del mondo le cui qualità si scandiscono nel tempo attraverso la·tensione qualificante del principio primo, che agisce, mediante il realizzarsi dei modelli in atto in lui, sulla informe materia, da cui il processo del mondo e una degradazione del mondo fino al limite materia, l'ostacolo che resta e su cui, perciò, si può operare. Entro questi termini ci si rende conto della polemica tra coloro che sostengono l'interpretazione del tutto in chiave stoico-aristotelica (ove forse giuocava ancora una certa tesi di Panezin) e coloro che sostengono la tesi del mondo che ha una realtà  291   temporale, in un conflitto tra il principio attivo e la materia informe e pura quantità dalla cui tensione si costituiscono in gradi le qualità, pensabili in quanto numerabili, numeri che divengono le stesse leggi dell'esserci fisico, geometrico delle cose, oppure in quanto costituirsi di cose, rifrazioni del principio divino, anime divine, in una graduazione fino al limite materia (stoicismo interpretato in chiave platonico-pitago- rica: forse con influenze di Posidonio). Sotto questo secondo aspetto sembrano evidenti il significato e l'im- portanza dati alla magia operativa da un lato e, dall'altro lato, interme- diario il filosofo, che in sé rivive l'anima di Pitagora, egli dèmone, l'im- portanza data all'insegnamento purificatorio, incantatorio, terapeutico, in funzione degli incolti, sui quali piu facile è, mediante certe tecniche, operare una purificazione, sapendo giuocare sulle forze occulte, nervose (demoniache e divine), o sulle diete e abitudini di vita, sulle incanta- gioni musicali, danzatorie, e cultuali. E si badi che in questo secondo caso, invece di rifarsi al pitagorismo razionale, a un modo d'interpretare il Timeo, risalendo ad Archita e a Filolao, ci si rifà direttamente a Pitagora, o meglio al Pitagora della leggenda (che sembra già risalire alla perduta Vita di Pitagora di Aristotele), alla "Vita di Pitagora," di Pitagora "sciamano," anima personale che s'incarna di volta in volta, che si allontana per certi periodi dai oorpi, che compie miracoli, di Pitagora, in realtà, medico e iatrosofista, sr come lo fu Empedocle, a cui, appunto, ora, Pitagora viene avvicinato (cfr. I vol.). Non a caso - sotto questo secondo aspetto - fino dal I secolo a. C. erano circolati un De Pythagora, un De IIÌrtute e un De pietate attribuiti a Theano (d. SudoJ, Stobeo), la leggendaria sc6lara di Pitagora/ mentre si scri- vevano versi, sostenendo ch'erano dello stesso Pitagora. Basti, qui, rileg- gere i 71 versi dei Detti aurei (Xpua« ~).: Onora anzitutto gli dèi, come vuole la legge e rispetta il giuramento. Onora quindi gli eroi gloriosi e i geni terrestri, agendo in conformità delle leggi. Abbi rispetto per i tuoi genitori e per quanti maggiormente ti sono legati da parentela. Fatti amico di chi è migliore di te per virt6... La Potenza abita vicino alla Necessità. Sappi ciò e abituati a dominare le seguenti pas- sioni: il ventre, il sonno, la lussuria, l'ira... Sii giusto nell'agire e nel par- lare... Non ti comportare sconsideratamente. Sappi che è destino di tutti 1 Ricordiamo qui anche un De virtulibus del 1 sec. d. C.,. scritto sotto l'inftucnza di Antioco di Ascalona, attribuito a Theagcs (cfr. in Stobco, Ecl., III, l, 117, W.); un De pnulenlia et felicilllte (cfr. in Stobeo, D, 8, 24), attribuito a Critone; un De animi lrtmquillilllte attribuito a lpparco (Stobco, Ed., IV, 44, 81); un De virtute, attribuito a Mctopo di Sibari (Stobeo, Ed., III, l, 115); un De re publica c un De felicitate (Stobeo, Ecl., IV, 39, 26; IV, l, 93-95; IV, 34, 71) attribuiti a Ippodamo di Turii; un De vita (Stobeo, Ecl., IV, 39, 27) attribuito a Eurifamo. 292    morire. Le riccb,ezze sappi ora acquistarle, ora perderle••• Non si deve tra- scurare la salute del corpo, ma bisogna essere moderati nel bere, nel man- giare, negli esercizi. Chiama misura quella che non ti nuocer~. Abituati a una vita semplice... Ottima è la moderazione... [Attraverso una vita ordi- nata e misurata ci si colloca] sulle orme della divina vimi: sf, per colui che alla nostra anima rivelò la tetraJc.tys, fonte dell'eterna natura... Cono- scerai che in tutto c'è una uguale natura, s{ che nulla tu speri d'impossibile e nulla ti sfugga... Saprai che gli uomini soffrono per mali ch'essi stessi si procurano: infelici, che avendo vicini i beni, non li vedono e non li odono. e pochi sanno come liberarsi dai mali... Oh padre Zeus, ceno tu potresti libe- rare tutti da molti mali, se a tutti mostrassi qual è il loro Dèmone [la pro- pria condizione]. Ma tu stai di buon animo, perché divina è la stirpe degli uomini, ai quali la natura, svelando i suoi misteri, mostra ogni cosa. E se tu in pane apprenderai queste cose, conseguirai ciò che io ti prescrivo, e guarirai e libererai l'anima da questi travagli. Astienti dai cibi di cui -ti parlai; nelle purificazioni e nella liberazione dell'anima agendo con giwti- zia, e considera ogni cosa ponendo in alto la ragione, ottima guida. Che se, lasciato il corpo; giungerai al libero etere, sarai ·un dio immonale e incorruttibile, non piu un mortale. Cosi, d'altra parte, apriva il suo Commmto ai D~ti aurei Ierocle di Alessandria (metà del v secolo): "La filosofia è purificazione e perfe- zione della vita umana; purificazione dalle affezioni della bruta ma- teria e del corpo monale; perfezione in quanto restituisce all'uomo la beatitudine propria della vita e lo riconduce a farsi simile alla divinità (7tpbç ~v.k(«V 6tJ.o(6>atV~" Sembra, infine, interessante ricordare che questo secondo aspetto della ripresa pitagorica, in funzione educativa e precettistica, a cui poteva servire anche la CII vita platonica" e CII stoica" - interpretata in senso purificatorio-terapeutico, - soprattutto lo troviamo nelle aree, di- remmo, culturalmente depresse, piu che nella vecchia Grecia, in quei paesi ove la cultura si manteneva ai livelli delle classi superiori. 2. Tra platonismo e pitagorismo. Da Alessandro Poliistore allo pseudo- OC'ello. Moderato di Gades e NiC'oma&o di Gerasa Rintracciamo, cosi, una netta linea che risale al I secolo a. C. circa, a carattere piu strettamente razionalistico-matematico, in una inter- pretazione di motivi platonico-stoici, in funzione di una comprensione logica del tutto, dell'unica divinità. Tale linea - a parte il fiorire dd complesso di trattatelli pseudo pitagorici cui abbiamo fatto cenno - si scandisce dal pitagorico Alessandro Poliistore di Mileto, vissuto nel  293   I secolo a. C., che compose un'opera sui Simboli pitagorici é una Suc- cessione dei filosofi (sfruttata da Diogene Laerzio), al trattatello Sulla natura del Tutto (mpl Tijç -rou 1tor.vròç cpoaewc;); opera senza dubbio di scuola, certo composta nel I secolo d. C., attribuita al pitagorico Ocello lucano, i cui scritti sarebbero stati conosciuti da Platone attra- verso Acchita (è dimostrato che le lettere che Platone e Acchita si sarebbero scambiate e da _cui si rileva la notizia dell'interesse di Pla- tone per Ocello, furono messe in circolazione proprio tra il I a. C. e il I d. C.; e che non senza significato è il voluto accostamento tra Pla- tone e i pitagorici Archita e Ocello). L'operetta dello pseudo-Ocello si può, per altro verso, avvicinare al De mundo dello pseudo-Aristotele. In ambedue le opere troviamo lo stesso sforzo di risolvere in ter- mini razionali l'unità e molteplicità dell'Universo in una sola unità in cui giuocano - come abbiamo già veduto per il De mundo - motivi stoici, aristotelici, platonici. Opera divulgativa, il trattatello Sulla natura del Tutto riproponeva in termini drastici la questione dell'Uno tutto, tutto in atto, aristotelicamente, o l'altra questione dell'Universo tempo e gradualità. Entro questi termini si svolgerà la linea del "pita- gorismo platonico" e del "pitagorismo aristotelico," in realtà tra di loro molto piu vicini, nel comune sfondo stoico, di quanto possa sem- brare a prima vista, anche se talvolta di contro all'unità che tutto risolve in sé si opporrà una realtà ribelle, una materia, che spieghi di contro al razionale e al comprensibile, e per ciò stesso Bene, l'irra- zionale, l'incomprensibile, cioè l'assurdo, il Male, portando ad estreme conseguenze il rapporto Intelligenza-Necessità del Timeo platonico e la morale tensione stoica tra azione e passione, in cui consiste la virtu come fatica e pena, ed ove è senza dubbio presente una certa ispira- zione del dualismo iranico (cfr. poi Plutarco). Dice, dunque, Alessandro Poliistore, secondo quanto riferisce Dio- gene Laerzio: Alessandro, nelle Successioni dei filosofi afferma di aver trovato anche queste cose nelle Memorie pitagoriche. Principio di tutte le cose è la mo- nade: dalla monade nasce la diade infinita, che sottostà come materia alla monade che è causa; dalla monade e dalla diade infinita nascono i numeri; dai numeri i punti; da questi le linee, da cui le figure piane; dalle figure piane le figure solide; da queste i corpi sensibili, i cui elementi sono quat- tro: fuoco, acqua, terra, aria che mutano e si svolgono per il tutto, e da questi risulta il cosmo animato, intelligente, rotondo che contiene al centro la terra anch'essa rotonda e abitata... Nel cosmo v'è luce e tenebra in parti uguali, e caldo e freddo, e secco e umido; quando prevale il caldo v'è l'estate, quando il freddo l'inverno (quando il seeco la primavera e quando l'umido l'autunno); se il freddo e il caldo sono in equilibrio si hanno le 294    parti piu belle dell'anno... L'aria che è intorno alla terra è immobile e mal- sana e tutto quanto è in essa è mortale; ma l'aria altissima è in eterno moto e pura e salubre e tutto quanto è in essa è immortale e perciò divino. n sole e la luna e gli altri astri sono divinità, ché in essi prevale il caldo che è causa di vita. Vi è affinità tra uomini e dèi, per il fatto che l'uomo partecipa del caldo; ed è questa la ragione per cui la divinità è nostra provvidenza. Il fato governa il tutto e le parti... Tutta l'aria è piena di anime, ritenute dèmoni ed eroi, da cui sono mandati agli uomini i sogni e i segni di malat- tia e di salute e non solo agli uomini, ma anche alle greggi e a tutte le altre bestie. E per essi si fanno le purificaziorii e i sacrifici apotropaici e ogni specie di divinazione e vaticini e simili... La virtu, la sanità fisica, ogni bene e la divinità sono armonia; perciò anche l'universo è costituito secondo armonia. Anche l'amicizia è uguaglianza armonica... La purità si consegue con i riti della purificazione (Diogene Laerzio, VIII, 24-33). Nell'opuscolo Sulla natura del Tutto dello pseudo-Ocello si pone che il tutto è sempre in atto e che il nascere e il perire delle cose è interno all'ingenerato ordine dell'Universo, in una trasmutazione degli elementi. Tutto è perciò calcolabile e riducibile a leggi che co- stituiscono la stessa espressione in atto della Legge suprema, in una tensione tra principio attivo e passivo, che molto chiaramente indica l'ispirazione stoica di origine paneziano-aristoi:elica, risolta in termini pitagorici: A me sembra che il tutto non sia stato prodotto e che sia ingenerato... Chiamo complesso (6Àov) ciò che viene detto tutto ('rò 1tiv). l'ordine nella sua totalicl (-rò x6cr(J.OV). Esso è l'insieme compiuto e perfetto della na- tura e di tutte le essenze. Nulla è al di fuori di lui. Se qualcosa esiste, esiste in lui· e con lui. Comprende tutti gli esseri diversi, gli uni come parti, gli altri come produzioni accidentali. Ne segue che le cose contenute nel mondo hanno afli.nicl e accordo con lui. Il mondo, invece, non ha alcuna aflinità e alcun accordo con se stesso; tutte le altre cose sussistono, avendo una natura non perfetta in sé, avendo ancora bisogno di legame con le cose che esistono fuori di loro, come gli animali con la respirazione, la vista con la luce... t nel tutto o nell'universo che ha luogo la generazione e la causa della generazione... [Entro l'Uno tutto, monade, si distinguono le diaài, le quali si risolvono neWuno stesso, costituendo comunque le parti dell'uni- verso e la loro opposizioneJ•.. Tutto ciò che è, sarà, ché la natura è sempre da un lato attiva e in moto, e, sempre, dall'altro lato, passiva e in riposo; sempre da un lato governa, sempre, dall'altro, è governata... [Entro tale universoJl'uomo, in ciò che lo riguarda, deve essere considerato come avente un rapporto diretto con la struttura dell'Universo stesso, sf ch'essendo parte di una famiglia, di una città, e soprattutto del mondo, deve supplire a ciò che sta per venire meno, se vuole adeguarsi alla società, alla politica  295   e alla divinità... [Di qui, in tale adeguazione alla politèia cosmica, ove tutto è armonia e misura, la virtU intesa come rapporto sociale, misura e armonia] (Ocello, I, 2 sgg., ed. Harder). Entro questi termini assumono un particolare inteiesse le pagine di Sesto Empirico (Adv. math., X, 260-284) sul significato del numero, ove, certo, Sesto si riferisce alla corrente platonico-pitagorica di que- st'epoca, tesa a interpretare in termini numerici (razionali) i termini componenti la realtà e la ragion d'essere del tutto, per cui era neces- sario postulare l'identità tra quelli che sono i modi di funzionare della ragione umana (anima) e le leggi (traducibili in numeri), ragion d'essere delle cose, a loro volta risolventisi nella ragion d'essere dd tutto (l'uno o divinità), per cui l'uomo, avendo in sé il divino numero dell'anima, può ricostruire e percorrere il discorso matematico della realtà, fino a identificarsi, intuitivamente, con quell'uno tutto che è il divino, divenendo appunto simile a Dio, nel suo tendere all'ugua- glianza divina (7tpÒç ~v &&tcxv 6!Lo(waLv). Tale sembra, attraverso i frammenti che possediamo dei suoi Com- menti pit;agorici (ITu&otyopLxotl axoÀot(), in undici libri (in Porfirio, Vita Pythagorae, 48-51; in Simplicio, In Phys; Arist., p. 230, 41-231, 25 Diels; in Stobeo, Ecl., l, 49, 32 W.), la posizione di Moderato,2 nato a Gades (Cadice), vissuto nel 1 secolo d. C., parente di Giunio Moderato Columella, il celebre autore del De rustica. Molto finemente Moderato di Gades pot~va rendere pensabile il rapporto stoico, principio attivo (spirito) e principio passivo (materia), risolvendo i due principt fisici (forze) in principi aritmetico-geometrici. Egli cosr interpretava la ma- teria (certo aveva presente il Timeo di Platone) non come realtà per sé, ma come spazio,.cioè come indefinita estensione logica, condizione perché sia pensabile ogni possibile costruzione, la cui altra condizione è la qualificazione, la misurabilità, ci~ la numerabilità. Si vede bene cosr come per Moderato sia possibile il discorso intorno all'ineffabile Uno tutto, solo se esso viene simbolicamente indicato come un· numero, matrice di tutto il numerabile, esso di là dall'essere e dall'essenza, per cui esso è potenzialmente tutto. Tale, anche secondo Moderato di Gades che raccolse in undici libri i plaeita dei Pitagorici, il significato della dottrina dei numeri... Poiché, con li Iberico, nato a Gades (Cadice}, vissuto nel 1 secolo d.C., Moderato, parente di Giunio Modetato Columella, autore del De re rustica, visse a Roma. Scrisse in greco un'opera in undici libri, intitolata Commenti Pitagorid (Ilu&cxyopucotl axo>.cd), di cui sono rimasti alcuni frammenti in Porfirio (Vita Pytllag.}, Simplicio (In Pllyt.}, Stobeo (Ed.). 296    il discorso, è impossibile spiegare con chiarezza i principi primi, difficilissimi sia ad essere compresi sia ad essere espressi, ci si rifugiò nei numeri per rendere piu esplicita la tesi pitagorica. Si imitarono cosi gli studiosi di geo- metria e i grammatici. I grammatici, infatti; per esprimere gli elementi e le loro possibilità ricorrono ai segni e sostengono che questi sono i primi elementi dell'apprendere. Eppure essi dicono, poi, che quei segni non sono gli elementi, ma che mediante quei segni si possono conoscere i veri ele- menti. Lo stesso fanno gli studiosi di geometria: incapaci di esprimere con parole le forme incorporee, si valgono delle figure disegnate. Essi dicono, ad esempio, che questo che disegnano è un triangolo, solo che non intendono questo triangolo qui, che si vede con l'occhio fisico, ma quello espresso da questa figura, concepibile mediante essa, e mediante cui la mente può rap-. presentarsi il concetto del triangolo. IIl medesimo esempio si trova nella pagina sopra citata di Sesto Empirico, Adv. Math., X, 249, 259-260.] Lo stesso fecero i Pitagorici in relazione alle forme prime... Non potendo espri- mere in parole le forme incorporee e i principi primi, fecero appello alla dimostrazione mediante i numeri. Essi cosi chiamarono uno il concetto di unità, identità, uguaglianza, causa della cospirazione delle cose, della loro simpatia e conservazione dell'universo, che si comporta sempre nel mede- simo modo, secondo ·una stessa legge. Uno è, difatti, ciò che si trova nei particolari e che esiste in quanto unità e cospirazione delle parti, parteci- pando della causa prima (Porfirio, Vita di Pitagora, 48 sgg.). D'altra parte, l'unità o identità o uguaglianza (simbolicamente in- dicate con uno), senza di cui non potremmo parlare di nulla (ciascuna cosa è tale in quanto è una), non sarebbero senza l'alterità, la differenza, la distinzione (simbolicamente indicate con due), per cui ciascuna cosa è una (non potremmo dirla una, se non la opponessimo ad altra). Chiamiamo, invece, due i l dualistico concetto di diversità, disugua- glianza, divisibilità, mutabilità, cangiamento. E tale è, appunto, la natura della dualità nelle cose particolari... Infine, poiché esiste in natura qualcosa che è fornito di principio, di mezzo e di fine, che è uno e due, a tali forme e nature attribuirono il numero tre, per cui qualsiasi cosa avesse un ter- mine medio veniva detto triforme, tre, ovverossia perfetto (Porfirio, Vita di Pitagora, 50-51). Poiché, dunque, l'uno non è senza il due, e la dialettica dei due termini è il tre, l'Unità (Monade), proprio in quanto potenzialmente tutto, non è se non in atto, cioè se non si pone come altro da sé, di fronte a sé (diade), per cui entro l'Unità si pone - in immagine sotto l'Unità che la contiene- la monade seconda, l'Unità della molteplicità, il mondo delle forme intelligibili, delle Idee. In sé non reali né l'uno né il due, le due Monadi sono in quanto presenti all'anima, terza  297   unità che logicamente segue dalla prima e dalla seconda monade, e che, perciò, partecipa della Unità prima e della unità-molteplicità (intelli- gibili). Termine medio l'Anima, iQ essa s'incentra l'Universo: volta da un lato verso le specie e attraverso queste verso l'Uno tutto, dal- l'altro lato, davvero coglie l'Unità prima, in quanto m'Scorre l'Uno mediante le forme, cioè in quanto si volge alla molteplicità che, co- stituendo il discorso delle forme, è la sensibilità, la figurazione, la cui condizione è lo spazio informe, l'estensione pura, la materia, essa stessa dunque essenziale in quanto nell'intelligibile, esistente non per sé, ma come riflesso (ombra) della materia che è ndl'intelligibile. Anche se filtrata attraverso Porfirio, sembra ora di notevole inte- resse la testimonianza di Simplicio sul motivo dell'Uno-Intelletto-Anima- Materia, secondo Moderato di Gades. Moderato, seguendo i Pitagorici, dichiara che l'Unità (1tpé;)-rov lv) è al di sopra dell'Essere (-rò c!vatt) e di ogni essenza (1t«aatV oùatatV), mentre il secondo uno (-rò 3è 3e:U-rcpov lv), in cui consiste ciò che è [che è in quanto è definito] e l'intelligibile (&tep l<JTt -rò ~V't'c.>ç ~v xatl VO'Yj't'6v), dice essere la specie (-ra ct3YJ); il terzo uno, infine, egli sostiene consistere nel principio vitale (-rò ljiuxtx6v), che partecipa dell'uno e della specie, mentre la natura che viene dopo questa, costituita dai sensibili non parte- cipa piu dell'uno e degli intelligibili, ma, per dire cos{, di essi si adorna, ombra riflessa della materia che è negli intelligibili, materia ch'essendo del primo non essere è solo quantità, per cui si trova ancora pi6 in basso (~a xat-r' l!Lql«atv ixctv(J)v xcxoa!Llja&ott, Tljt; lv atÙ't'o'Lç GÀYJt; -rou IL~ ~not; 7tp6>-r(J)t; lv -réj) 1toaéj) ~not; oGaY)t; axtata!L« xatl frt ~ov ~(X­ ~YJxutatt; xatl ci1tò -roU-rou). Anche Porfirio, nel secondo libro de La materia, riproponendo la tesi di Moderato, ha scritto che "volendo la ragione mona- dica (6 b.ltati:ot; Myot;), come dice Platone, costituire da se stessa la genera- zione degli esseri, stabiH la quantità di tutte le cose (-rljv 1tOa6't'YJ't'at 1tM(J)V), come privazione di se stessa, privandola appunto della sua razionalità e intelligibilità. Moderato ha chiamato ciò quantità amorfa, indistinta, senza figura, atta a ricevere forma, distinzione, qualità, e cos{ via. Sembra, egli dice, che Platone abbia dato piu nomi a questa quantità, dicendola ricetta- colo informe e invisibile e 'riluttante al massimo a partecipare dell'intelli- gibile,' afferrabile a stento 'con un regionamento bastardo' e cos{ di se- guito. Tale quantità, dice Moderato, e tale specie (c!3ot;), intuite come pri- vazione della ragione monadica, di ciò che abbraccia in sé tutte le ragioni degli esseri che sono, è,esempio della materia dei corpi, che, diceva Mode- rato, i Pitagorici e Platone chiamavano quantità, ma che in effetto non va intesa come quantità intelligibile (-rò 6>t; c!3ot; 1toa6v), ma come priva- zione, dispersione, estensione e cos(via, come deviazione dell'essere e, perciò, male, in quanto fugge dal bene..." (Simplicio, In Phys., p. 230, 41-231, 25, Diels). In realtà tutto sempre in atto, logicamente l'Unità vivente è affer- rabile entro i termini di una Unità-alterità in cui ripercorrere i mo- menti logici, che si possono scambiare in simboli numerico-geometrici: unità (uno), alterità (due), unità dell'alterità, anima (tre), numerabilità che implica l'indefinita quantità, l'idea dell'estensione non definita (ir- razionale), perché sia possibile la misurazmne (materia-spazio), cioè i termini geometrici, costituenti, mediante i loro rapporti, figure piane e solide, i corpi, che possono dunque cangiare, comporsi e ricomporsi, ma le cui essenze restano sempre i numeri. \ Sembra ora opportuno sottolineare il significato di due motivi, che si ricavano da Moderato, il cui sviluppo avrà grande importanza nella storia dell'interpretazione da un lato del rapporto Essere-Uno e Intel- ligibili, dall'altro.Jato della materia. Posto che l'Essere, in quanto fon- damento e ragione (causa) di tutto non può non essere che Uno, l'Uno in quanto tale è al di là dell'esistere e delle essenze, egli causa delle essenze e delle esistenze. L'Uno perciò ha in sé tutte le possibilità. Entro questi termini, riprendendo il concetto della monade pitagorica e il discorso delle idee-numeri di Speusippo e di Senocrate, sembrava potersi risolvere l'aporia del Parmenide di Platone. Certo, dopo il Parmenide e il Teeteto, anche Platone (Sofista, Filebo) suggerisce la possibilità di interpretare l'Essere non piu come una massiccia realtà, ma come unità dialettica, cm:Ìle pensiero uno che è tale in quanto discorso esplicantesi, per cui le stesse idee tutte potenzialmente nel- l'uno-pensiero, sono in quanto guise (e proprio per questo non piu idee nel senso, ad esempio, del Pedone), leggi - traducibili perciò in numeri - della esplicazione stessa del Pensiero. Una simile interpreta- zione del Parmenide - Teeteto - Sofista - Filebo, filtrata attraverso il motivo della monade-diade, sviluppato dai pitagorici del I secolo a. C., e il motivo del l&gos spermatik6s stoico, rendeva pensabile la ragion d'essere del tutto, il divino uno che ha potenzialmente in sé, se cosr vogliamo dire, il mondo intelligibile (mondo delle idee, perciò non piu inteso come a sé, idee qualità accanto a idee qualità, indiscorribili). Le idee, dunque, appunto perché tutte nell'Uno, nell'Uno-pensiero, nel- l'Uno-pensiero sono- qualora si assuma logicamente l'Uno come a sé, condizione prima - indiscernibili. Proprio perché capacità di dare forma, sono, nell'Uno, informi. Esse sono solo in quanto esplicazione dell'Uno, che non è se non in quanto esplicazione, se non in quanto alterità. Sotto questo aspetto sembra esatta la tesi del Dodds secondo cui con Moderato di Gades si avrebbe una prima interpretazione neo- pitagorica del Parmenide. di Platone, della quale vi sarebbero tracce in una correzione che Eudoro di Alessandria (fine del I secolo a.C.: cfr. sopra) fece di un passo di Aristotele (Metafisica, l, 988a, 10-11) discutendo delle cause di Platone. Dice Aristotele: "le specie sono cause delle altre cose,. s1 come delle specie è causa l'uno" (-rcì: ycì:p d31) 't'OU -n m'" othr.ot 't'O~ ~or.ç, 't'O~ 3'et3ea'v 't'Ò l.v). Secondo Alessandro di Afrodisia (In Metaphis., ed. Hayduck), Eu- doro avrebbe corretto cos1: "delle specie e della materia cau,sa è l'Uilo" ('ro~ 3'e:t3eaLv -rò lv X«l 't'7j 6>..n). Il Dodds, concludendo, vede nel- l'Uno di Moderato di Gades l'origine dell'"Uno" neoplatonico (Dodds, The Parmenides of Plato and the. origin of the Neoplatonic ((One, in "Class. Quart.). Bisogna qui aggiungere che una volta risolto l'Uno platonico nell'assoluta monade che ha in sé tutte le possibilità (il mondo intelligibile), la stessa interpretazione della ma- teria quale si trova nel Timeo, si imposta su di un piano diverso: anche la materia cioè poteva non piu essere considerata come realtà a sé informe, ma come uno degli intelligibili dell'Uno. L'essenza materia si poteva considerare come l'idea estensione, la forma dell'informe, condizione della realizzabilità delle forme, la cui esistenza diviene l'om- bra riflessa dell'idea materia. Che tale interpretazione del rapporto Uno-mondo delle idee di Pla- tone fosse interpretazione diffusa, o almeno una delle possibili inter- pretazioni che circolavano nel 1 secolo d. C., è testimoniato, oltre che da Filone l'Ebreo, da Seneca, che, proprio perché la riferisce con un. semplice accenno, accanto ad altre interpretazioni, la fa intendere come tesi abbastanza nota. Dice Seneca: il mondo delle idee è "il modello che ha avuto l'artefice davanti a sé nell'eseguire l'opera, che aveva deliberato di fare. Non ha importanza poi se egli questo mo- dello l'abbia avuto sotto gli occhi fuori di sé, oppure concepito nella sua immaginazione e tenuto cosi presente. Questi esemplari di tutte le cose Dio li ha in se stesso, e di tutte le cose che deve fare abbraccia il numero e.la misura: egli è pieno di tutte queste figure, da Platone chiamate idee, immortali, immutabili, instancabili" (Lett. a Ludlio, 65, 7). Non solo, ma sempre in Seneca troviamo anche la possibile in- terpretazione della materia intesa non come realtà a sé, bens1 come realtà dovuta allo stesso Dio (cfr. Natura/es quaestion~s, l, Praej., 16) motivo, d'altra parte, presente in Filone l'Ebreo, come già abbiamc veduto, anche se in Filone sia il mondo intelligiliile sia la materia sonc dovuti ad un atto di volontà di Dio persona. E allora, la testimonianu di Simplicio, che riferisce la testimonianza di Porfirio sulla materia quale è intesa da Moderato di Gades, assume una sua prospettiva sto- rica abbastanza notevole e sembra chiaro in che senso Moderato possa dire che la materia esistente non è realtà per sé, non partecipa in quanto assunta per sé né dell'uno né degli intelligibili, ma è ombra ri- flessa della materia che è negli inteUigibili, e in che senso Eudoro cor-  300   regga la frase aristotelica, affermando che l'uno è causa degli intelli- gibili e della materia. Entro questi termini si trasforma qui sia il concetto platonico di materia amorfa, di puro ricettacolo a sé, di madre che accoglie in sé tutte le cose (cfr. Timeo, 50 b-à), sia il concetto aristotelico di materia intesa come soggetto (u7toXE((Uvov) (Fisica, l, 9, 192 a, 31; Metaf., VIII, l, 1042a, Zl), o anche come potenza (dr. Platone, Timeo, 50 b; Aristotele, Metaf., VII, 7, 1032a, 20), sia il concetto stoico di materia sostanza prima (dr. Diogene Laerzio, VII, 150) intesa come quantità passiva (Diogene L., VII, 134) su cui si esplica l'azione qualificatrice del principio attivo;. o meglio, pur mantenendosi il concetto di materia soggetto, potenza, quantità, essa in quanto pensabile (non con un ragionamento bastardo), cioè in quanto avente essere, non può non essere che risolta nell'uno stesso, divenendo materia intelligibile, idea di estensione, condizione, insieme agli altri intelligibili, dell'uno, che non è tale se non nella sua stessa esplicazione e discorso (Uno--Intelletto- Anima-Materia), per cui non c'è piu bisogno di prendere la materia come realtà per sé, come ente irrazionale opposto all'ente razionale. Vera e propria introduzione a una teoria dei numeri, nei termini di quelli che erano stati i risultati della matematica greca è l'Introdu- zione aritmetica, •ApL&(L7JTLX~ &taqwylj, dell'arabo Nicomaco di Ge- rasa,8 vissuto a cavallo del I-II secolo d. c. (Nicomaco nel suo Ma- nuale di armonia cita Trasillo, scrittore di cose musicali vissuto sotto Tibcrio, mentre Cassiodoro nel De artibus ac disciplinis liberalium lil- terarum, c. IV, Migne Patr. lat., vol. 70, p. 1208, afferma che Apuleio di Madaura, vissuto nel n secolo, tradusse in latino la diligente espo- sizione della disciplina aritmetica di Nicomaco di Gerasa). L'intento di Nicomaco di Gerasa è volto a determinare su di un piano logico le condizioni che permettono l'arte di combinare i numeri (non a caso il titolo della sua opera fondamentale, di cui pos- sediamo due libri, è intitolata •ApL&(L7JTLX~ Elacxywylj, cioè lntrodu-?:ione alfarte dei numen). Come Euclide definisce il punto, quale con- dizione e termine di qualsivoglia costruzione geometrica, cos1, indipen- dentemente da ogni raffigurazione geometrica (sensibile), Nicomaco, definito il numero, deduce tutte le ·possibili combinazioni dei numeri da quell'unica definizione di numero ("numero è molteplicità rac- BDiNicomaco,v~nellas econda metà del1secolo, nato a Gerasa, sappiamo molto poco. Della sua lntroduaio arithmetic11 sono rimasti due libri; intero è perve- nuto il MtmUIIle di amioni11; delle sue altre opere (Theologi11 arithmetic11, lntrodUt:tio lfeometl'i~~e, lntrodUt:tio 111tronomi~~e) non sono rimasti che frammenti. Nicomaco scrisse anche una Vitti di PiiiiKor•, una Vitti di Apollonia di TilltJII e un trattatello Sui riti egisitmi.  301   chiusa entro term1ru, o un ms1eme di unità, o un flusso, X,U!J.«, di quantità, costituito di unità; la prima divisione del numero è il pari e il dispari": lntr. an"tm., l, VII). Tale deduzione, o meglio ex-plica- zione della molteplicità implicita nell'unità si determina in un perfetto giuoco di combinazioni e separazioni di numeri, di rapporti e propor- zioni, per giungere, infine, attraverso tale costruzione, risultante dd discorso logico tradotto in simboli numerici, a ricostruire la realtà entro questi stessi termini, ove i principt, impliciti nell'unico principio (unità), divengono, appunto, gli stessi principi logici, simbolicamente assunti come numeri. L'importanza storica di Nicomaco di Gerasa consiste da un lato nella sistemazione, in un sol corpo dottrinario, dei risultati, sparsi nel tempo, del sapere aritmetico - di qui lo sfruttamento deÌle sco- perte matematiche da Archita a Filolao e via di seguito, entro la linea dei cosiddetti pitagorici, per essi intendendosi, in fondo, i matematici;- dall'altro lato nel non indifferente sforzo di presentare un possibile tipo di ragionamento, un tipa di logica (matematica) che poteva, in via ipotetica e simbolica spiegare - indipendentemente dal ricorrere alle figurazioni geometriche - le essenze non corporee, cioè le leggi su cui si scandisce il ritmo della realtà. Nicomaco risolveva in tal modo le aporie implicite nell'Unità posta dal Parmenide di Platone, in un discorso aritmologico che spiegava, per altro, ·1o stesso snodarsi dal- l'Uno del discorso del tutto in termini geometrici (sensibili), svelando cosi il mito del Timeo (1, 2, l; II, 18, 4), puntando sul significato dato al numero nell'Epinomide (1, 3, 5; dove si cita Epinomide 991d: "ogni figura, ogni sistema numerico, ogni composizione armonica, sf come l'accordo di tutte le rivoluzioni astrali, necessariamente rivelano, a chi apprende tutto questo seguendo il vero metodo, la loro unità, e tale unità si manifesterà quando rettamente si apprenda, mai per- dendo di vista l'unità medesima: a chi rifletta apparirà, infatti, che un solo naturale vincolo articola tutti i fenomeni; chi altrimenti intra- prende tali studi dovrà invocare la fortuna..."). Non solo, ma per altra via, posta la possibilità della predicazione qualora appunto si risol- vano in numeri le condizioni stesse del pensare, Nicomaco poteva, come chiaramente risulta dal primo paragrafo del I libro della Intro- duzione aritmetica (I, l, 3, ove gli elementi immutabili si avvicinano non poco, nell'esser presentati come una lista di categorie, alle categorie di Aristotele), interpretare numericamente le categorie di Aristotele, identificandole con le stesse condizioni del discorso aritmetico dd tutto. E ciò tanto pio è chiaro quando.si tenga conto che le dieci categorie si potevano assumere come l'interpretazione logico-discorsiva della de- cade o tetrakt'Ys (quaternaria) pitagorica (cfr. I volume), in un giuoco 302    di proporzioni, mediante cui riannodare le dieci condizioni su cm s1 svolge l'universo (cfr. II, 22 e 1-22). La tetrak.t'Ys veniva rappresentata in una figura avente 10 punti messi in forma di triangolo che ha quattro punti per lato.-:\, la cui somma l + 2 + 3 + 4 è uguale a 10. La tetrak_t'Ys cosf, racchiudendo in sé i numeri delle tre propor- zioni musicali (ottava 2: l; quinta 3: 2; quarta 4: 3) e delle quattro specie di enti geometrici (punto =l; linea= 2; superficie= 3; solido= 4), veniva ad essere la condizione di tutte le cose (non si scordi che in questo periodo circolava un libro sulle categorie che si diceva scritto da Archita. Su tutto questo si veda F. E. Robbins e L. Ch. Karpinski, in Nicomachus of Gerasa, Introduction to Arithmetic, Nuova York, 1926, pp. 94-5). L'aspetto della traduzione in termini sensibili-formali delle essenze numeriche-incorporee dei loro rapporti e combinazioni, sembra, per quel poco che ne sappiamo, che Nicomaco l'abbia studiato nella sua Introduzione geometrica (cosf almeno appare da una citazione dello stesso Nicomaco, in Intr. aritmetica, Il, 6, 1). Se da un lato, dunque, Nicomaco di Gerasa, nell'Introduzion~ aritmetica, ha determinato le condizioni di un discorso della realtà in termini di essenze puramente intelligibili, nell'Introduzione geometrica avrebbe determinato le condi- zioni perché ·sia possibile il discorso della realtà sensibile. Ci rendiamo conto in tal modo di come Nicomaco di Gerasa potesse identificare {sin dalla prefazione alla Introduzione aritmetica, I, cc. 1-6) il divino - per Dio s'intende ciò senza di cui nulla è - con il numero. Se nel numero, in quanto unità (monade) sono implicite tutte le possi- bilità (forme), l'uno è suprema ricchezza, onnipotenza, da cui tutto si dispiega (cfr. l, 16, 8; Il, 8, 3; 9, 2), esso fondamento e causa di tutte le forme della realtà, dei loro rapporti e proporzioni. In tale senso, dunque, Dio e numero-unità coincidono, sf come coincidono l'unità del pensiero che si dispiega nel suo discorso matematico-numerico e l'unità divina che si dispiega nel discorso della realtà. D'altra parte, in un testo dei Theologumena arithmeticae se non è di Nicomaco, sembra almeno derivare da lui, si sostiene che Dio è come un "seme che ha in sé la possibilità di tutte le cose" (xatl 6·n "t'Òv 3e6v q>Y)aLV 6 N'XO!LatXoç.qj ~~oov<XS'!q>otp!J.O~e,v, mtep!Lat"t'U (Wçmt<XpxoV"t'atn<XVTat"t'eXh .qjq>6ae'6V"t'at (Theol. arithm., ed. Ast, p. 4), sf come la monade, l'uno o seme di tutta la possibile costruzione logica della realtà. Sembra, cos{, che se da un lato mediante il discorso aritmologico e il discorso geometrico, Nico- maco tendeva a risolvere su di un piano puramente logico l'Uno del Parmenide e il mito del Timeo, dall'altro lato poteva rientrare entro la medesima spiegazione la tesi stoica del “logos spermatikos”. Il divino principio attivo, da cui tutto deriva, poteva benissimo assumere il signi- ficato dell'unità potenza, perdendo, certo, nella traduzione in numero- unità, il suo valore di forza (spirito) fisica e spontanea (donde, poi, da parte di alcuni interpreti di Platone la polemica contro il materialismo degli stoici, con il conseguente problema della materia, principio oppo- sto, dunque, all'immateriale Uno divino). In realtà, platonismo (Parmenide, Timeo, Epinomide), pitagorismo (aritmologia e geometria), stoicismo (il principio che ha in sé tutte le possibilità che portava a interpretare il mondo delle idee platoniche come forme potenzialmente tutte presenti in Dio, in quanto ragion d'essere), si venivano ad incon- trare in unico sistema, nella possibilità di una teologia logico-aritmo- logica (Theologumma arithmeticae) cui servivano da introduzione, ma anche da dimostrazione, la teoria aritmetico-geometrica, la teoria musi- cale (abbiamo un Manuale di armonia di Nicomaco), lo studio dei rapporti delle leggi stellari (possediamo di Nicomaco alcuni frammenti di una Introduzione alrAstronomia). In altri termini, le vecchie disci- pline platoniche in funzione dell'educazione del filosofo: geometria (piana e solida), aritmetica, teoria musicale, astronomia, venivano siste- mate, dando la precedenza all'aritmetica, entro cui sono implicite la teoria musicale, la geometria e l'astronomia, quale avviamento alla comprensione scientifica del divino, cui, per altro, potevano servire, sul piano pratico, dei rapporti umarii, della propaganda e convinzione, la grammatica, ·la dialettica e la retorica. Pitagora- scrive Nicomaco nella prefazione all'Introduzione aritmetica- definisce la sapienza conoscenza e scienza della verità implicita nella realtà, concependo la scienza, sicura e immutabile comprensione di ciò che sta a fondamento (,moxe;(!U'/OV) e di ciò che nell'Universo permane sempre identico a sé e non cessa mai d'essere, neppure per poco. Tali sarebbero gli immateriali (!u>.at), quelli cioè per la cui partecipazione ciascuna cosa omo- nima, e perciò nominabile, è detta, assumendo per questo una sua realtà (-r63c n) (l, 1-2)... Poich~, dunque, della quantità (7t6aov) un aspetto è veduto in se stesso, non avendo alcuna relazione ad altro, come pari, dispari, numero perfetto·e cosf via, e un altro aspetto è concepibile in fun- zione di altro e in relazione ad altro, come doppio, maggiore, minore, uno e mezzo, uno e un terzo e cosf via, evidentemente due dovranno essere i metodi scientifici mediante cui esaminare a fondo la quantità: il metodo aritmetico che ha per oggetto la quantità in se stessa, e la teoria musicale che ha per oggetto la quantità relativa. Ancora: quanto alla grandezza (7tYJÀ(xov), poiché l'una è in quiete e immobile e l'altra in un movimento di translazione, di conseguenza due sono le scienze che studieranno con esattezza la grandezza: la geometria ciò che è immobile e quieto; l'astro- nomia (atpa.LpLx-lj, sfairiché), ciò che si muove circolarmente. Senza queste 304    è impossibile trattare con esattezza le forme dell'essere o scoprire la verità nelle cose, nella cui conoscenza consiste la sapienza. Senza di queste, insomma, è impossibile filosofare rettamente. "Come il disegno contribuisce con la tecnica alla retta teoria, cosi le linee, i numeri, ·gli intervalli armonici e le rivoluzioni dei cieli, coadiuvano l'apprendimento del ragionamento scien- tifico (A6yov aocp6v)," come dice il pitagorico Androcide [autore di uno scritto Sui simboli, come risulta dai Theologumena arithm., ed. Ast, p. 40. Sono quindi citati Archita, Sull'Armonia, in Diels, I, 330 sgg.; e 1'Epino- mide, 991 d sgg.]. Tali studi [geometria, aritmetica. astronomia, teoria musicale] è chiaro che assomigliano a scale e a ponti che consentono alla mente umana il passaggio dai sensibili e dagli opinabili agli intelligibili e agli scibili, e da quelli che sono i primi consueti nutrimenti infantili, fisici e sensoriali, ci permettono il passaggio aWinconsueto e a ciò che è estraneo ai sensi (1, 3, 1-6). Orbene, quale delle quattro discipline metodologiche è necessario apprendere per prima? Quella che per natura precede le altre, evidentemente è per diritto principio e fondamento e ha, rispetto alle altre, la funzione di madre. E questa è l'arte dei numeri [aritmetica], e non solo perché... preesisteva nella mente del Dio archetipo come ordine cosmico ed esemplare, mirando al quale, come a un disegno e a un archetipo, il demiurgo dell'universo ordina le opere materiali e fa in modo ch'esse realizzino i propri fini; ma anche perché è prima per natura in quanto implica in sé le altre discipline, senza esserne implicata (I, 4, 1-2). Pitagorismo, educazione e retorica. Apollonio di Tiana nella rico- struzione di Filostrato di Lemno e il trattato su "Il Sublime" Gia entro questi termini, se passiamo all'aspetto predicatorio-tera- peutico, usato piu che in funzione scolastica in funzione educativa, si vede bene l'importanza data alle figure e alle leggendarie vite di Pita- gora e di Platone, e alla presentazione di esempi di vita (non a caso lo stesso Nicomaco di Gerasa scrisse una Vita di Pitagora e una Vita di Apollonio di Tiana, insieme ad un trattato sui Riti egiziam). In realtà, e ce n'è buon testimonio Seneca, già con Nigidio Figulo (cfr. sopra) e poi, soprattutto, con la Scuola dei Sestii (cfr. sopra), certe suggestioni pitagoriche - almeno in Roma - erano usate in funzione educativa. Basti ricordare che Sozione di Alessandria, della Scuola dei Sestii, dopo avere cercato di mostrare, per incitare alla frugalità e a una vita misurata, che l'anima è immortale, che essa imparenta tutti, uomini e animali, per cui nulla va distrutto, che non si tratta che di cambiamento di luogo, riprendendo i vecchi t&poi pitagorici della trasmigrazione delle anime e quelli platonico- stoici, per cui non solo i corpi celesti si volgono per determinate orbite,  305   ma anche gli animali vanno soggetti alle loro vicende e che le anime sono spinte per i loro cieli, concludeva: "Se le cose dette sono vere, astenendoti dalle carni ti sarai serbato innocente, se false, sarai stato un uomo frugale. Che ci perdi a prestarvi fede?" (Seneca, Lett. a Luc., 108). E qui viene spontaneo il richiamo ai Versì aurei dello pseudo-Pitagora (cfr. sopra), o ai Sacri discorsi (r a. C.), o all'Inno al numero (anch'esso del I a. C.). Assunta una certa dottrina - e particolarmente suggestiva per la sua sacralità e misteriosità poteva essere l'ipotesi pitagorica della po- tenza del numero, chiara agli iniziati, cioè a chi vi si era introdotto mediante la geometria, l'aritmetica, ·la musica, l'astronomia, - essa serviva, mediante appunto suggestioni, sacri discorsi, tecniche terapeu- tiche, sapientemente usate (magiche agli occhi dei piu) ad avviare i piu ad una certa condotta di vita, cui potevano servire certi riti e certa liturgia.~ in tal senso assai indicativa la difesa che Apuleio (n sec. d. C.) fece di se stesso contro l'accusa d'essere un mago. Mago si:, egli dirà, se per mago si intende sacerdote, chi abbia studiato, chi, conoscendo le leggi e la ragion d'essere degli avvenimenti, sappia a fondo le leggi del rito, le regole dei sacrifici, le teorie del culto. Mago no, se per mago si intende "in senso volgare (more vulgan) chi abbia commer- cio con gli dèi immortali, e mediante l'incredibile forza dei suoi incan- tesimi sappia fare tutto ciò che vuole" (Apuleio, Apologia, 26). Certo, agli occhi del volgo, un uomo che, conoscendo certe tecniche, riesca, ad esempio, a far ri.tornare in sé chi sia caduto in catalessi, evidente- mente viene preso per un uomo soprannaturale, per risuscitatore di morti. Entro questi termini va considerata, almeno nel I e ancora al principio del n secolo d. C., la linea di coloro che si appellano al nome e alla figura di Pitagora, come è il caso di Apollonio di Tiana. Ma in funzione educativa, nel tentativo di curare le anime, di dare una forma e un senso alla disperata vita degli uomini, tutti uguali per natura, ci si poteva anche appellare ad altre concezioni - la stoica, ad esempio, in modo assai generico, - prospettando, difronte all'impossi- bilità umana di oltrepassare i limiti e le costruzioni della propria ra- gione, la fede nell'imperscrutabile mistero di una divinità che tutto ordina per il bene. E qui, come di fatto fu, potevano incontrarsi sia pitagorici come Apollonia di Tiana, sia cinici come Demetrio (non a caso Demetrio, oltre che di Seneca, fu amico di Apollonia), sia stoici come Musonio Rufo ed Epitteto (di cui è celebre la vena cinica, ravvi- cinabile al cinismo stoico di un Aristone di Chio), in una comune oppo- sizione sia nei confronti della quotidiana vita unilaterale e passionale del volgo, sia nei confronti del modo di vita delle classi superiori e degli imperatori, che concepiscono il potere in modo personale e indi~ 306    viduale. Il discorso si farà diverso da Nerva (imperatore dal 96 al 98) a Marco Aurelio (imperatore dal 161 al 180), con il quale sembrò realizzarsi l'antico ideale stoico del re filosofo. La presentazione della vita di Apollonia • vissuto nel I secolo d. C., nato a Tiana, in Cappadocia, educato a Tarso, scolaro, sembra, di Eutidemo di Fenicia e di Eusseno di Eraclea, la dobbiamo alla Vita, in otto libri, che di lui scrisse, nel m secolo d. C., Flavio Filostrato di Lemno, su invito dell'imperatrice Giulia Domna, moglie di Set- timio Severo, alla cui corte Filostrato, dopo avere insegnato ad Atene sulla linea neo-sofistica, venne accolto. Non va scordato che Filostrato di Lemno, su sua stessa confessione, si pone tra i neo-sofisti - si deve anzi a lui la distinzione tra sofistica antica e "nuova sofistica," che Filostrato, autore di una Vita dei Sofisti, fa cominciare nel I secolo d. C. con Dione di Prusa. - Filostrato per "sofistica" intendeva la capacità di suscitare, attraverso la conoscenza delle tecniche retoriche e del pub- blico cui si doveva parlare, certi affetti e di sopirne altri, indipenden- temente da qualsiasi contenuto, in una precisa coscienza del valore tera- peutico della parola e della sapiente descrizione della vita di certi per- sonaggi, che possano incantare e meravigliare, e servano da avviamento, rispondendo a esigenze proprie di certe mentalità, ambienti, situazioni. Se, come è oramai chiaro, la Vita di Apollonia rientra nel genere del romanzo biografico ellenistico, essa, d'altra parte, mutando quel che è da mutare, cioè la mentalità dei possibili lettori, le loro mutate esi- genze, vuol essere un saggio di alta retorica, un encomio del tipo del- l'Encamio di Elena di gorgiana memoria. Filostrato insiste con forza nel sostenere che Apollonia non fu un mago, nel senso volgare, che le sue doti taumaturgiche, i suoi miracoli, l'avere egli guarito e resusci- tato, le sue previsioni e cosi via, perfino il suo essere riapparso dopo morto a un tale, in sogno, per dimostrargli che l'anima è immortale, non sono frutto di magia operativa, ma della sua "sapienza," si come di sapienza e· non di magia furono frutto le azioni miracolose com- piute da Pitagora, da Anassagora, da Democrito, da Empedocle, sa- pienza che rivela il divino, o meglio la possibilità dell'uomo che vivendo puro fa si che la propria anima, scintilla divina, appunto perché divina, conosca le leggi e le ragioni della divinità. Apollonio - scrive Filostrato - entrò nella via battuta da Pitagora, ma nella sua ricerca della sapienza vi è un carattere ancora piu divino, ed egli si 4 La Suda attribuisce ad Apollonia di Tiana una Vita di Pitagora (dr. anche Porfirio e Giainblico: cfr. "Rhein. Mus.," 1879, p. 554; 1880, p. 23), un Inno a Mnemosine, un Testamento, lni•iazioni, Sacrifici (cfr. Eusebio, Praep. ev., IV, 12·13), Oracoli, Lettere. è sollevato ben al di sopra dei re del suo tempo [non si scordi che anche Se- neca, parlando di Attalo, sottolineava - Lett. a Luc., 108, 13 sgg. - ch'egli era al di sopra di qualsiasi re, e cosf, sempre parlando di cinici, dirà Epitteto - Diatribe, III, 22, 53]. Nonostante egli sia vissuto in un'epoca né troppo lontana né troppo vicina alla nostra, in realtà non si conosce ancora quale sia stata la stia filosofia... Alcuni, avendo egli avuto rapporti con i maghi di Babilonia, i Brahamani dell'India e i Gimnosofisti dell'Egitto, pensano che sia stato un mago, e che la sua saggezza non sarebbe stata che una forma di violenza.:a. una calunnia che deriva dal fatto ch'egli è mal conosciuto. Empedocle, Pitagora stesso, Democrito, hanno frequentato i maghi, hanno detto molte cose divine, eppure non se n'è fatto ancora degli adepti della magia. Platone fece un viaggio in Egitto, riprese molto dai sacerdoti e dagli indovini di quel paese, se ne servi come un pittore che dopo aver preso un abbozzo vi mette di suo ricchi colori, é tuttavia non si è fatto di Platone un mago, sebbene nessun uomo sia stato come lui, a causa della sua sapienza, oggetto d'invidia. Anche se Apollonia ha presentito e previsto piu di un avvenimento, non lo si può accusare d'essersi dato alla magia, altrimenti bisogna rivolgere la stessa accusa a Socrate, al quale il suo dèmone ha fatto spesso prevedere l'avvenire, ad Anassagora di cui si rife- riscono parecchie predizioni... Tutto ciò che ha fatto Anassagora non v'è difficoltà ad attribuirlo alla sua alta sapienza. Per Apollonia, invece, non si vuole che le sue predizioni siano effetto della sua sapienza, e si sostiene.-:be tutto quello che ha fatto, l'ha fatto per magia. Non posso sopportare tale errore, divenuto volgare. Ecco perché mi sono proposto di dare qui dettagli precisi sull'uomo, sui momenti in cui ha pronunciato certe parole o ha fatto certe azioni, infine sul genere di vita che ha valso a questo sapiente la famadi un essere al di sopra dell'umanità, di un essere divino (Vita tli Apollonio, I, 2). Vivrò da pitagorico, disse Apollonia, ancora giovinetto al suo maestro Eusseno. "Grande impresa," rispose Eusseno, "ma da dove comincerai? ". "Farò come i medici," disse Apollonia, "la loro prima cura è di purgare: prevengono cosf le malattie o le guariscono." A partire da quel momento non si nutri piu con carni..., si nutrf di verdure e·di frutta, dicendo che tutto qò che dà la terra è puro... Camminò a piedi nudi, non si vesti che con abiti di lino..., si lasciò crescere i capelli e divenne assiste-nte dd medico Esculapio... (Vita tli Ap., I, 7-8). Filostrato di Lemno ha certo tenuti presenti alcuni dati reali della vita di Apollonio: la sua educazione a Tarso, il suo soggiorno a Ege presso il tempio di Esculapio, la sua vita e il suo insegnamento itine- ranti. Apollonio avrebbe soggiornato in Babilonia, poi in India presso i Brahamani, quindi in Ionia, in Grecia, a Roma, al tempo delle per- secuzioni di Nerone contro i filosofi, poi in Spagna, ancora in Grecia, in Egitto, dove si sarebbe incontrato con l'imperatore Vespasiano, in Etiopia, dove avrebbe conosciuto i gimnosofisti. Allontanato da Roma per ordine di Tigellino, perseguitato da Domiziano, sarebbe sparito sotto Nerva. Abilmente giuocando su questi dati, sui racconti dei miracoli operati da Apollonia, sulle sue previsioni, sulle conoscenze ch'egli avrebbe avuto dei vari tipi di religione orientali e occidentali, sui suoi presunti contatti con tutti i re dei paesi visitati - in Babilonia con il re Vardano; in India con il re Fraote; presso i Brahamani con il loro supremo sacerdote !arca; in occidente, sotto Nerone, con Tigel- lino e con Domiziano il tiranno da cui venne perseguitato: assai indi- cativo sembra che, invece, con Vespasiano e con Tito sarebbe entrato in relazione di maestro e di iniziatore, - Filostrato ha costruito la vita semplice di un saggio, di un curatore e guaritore di anime, di un uomo a contatto col divino per la sua purezza di vita. "Egli ha voluto," cosf Filostrato conclude la Vita di Apollonia, "che, conoscendo la nostra natura, lietamente si vada verso il fine che ci hanno fissato le Parche" (VIII, 31). Non va per altro scordato che la Vita è stata scritta da un retore del m secolo, preoccupato di far colpo su di un certo ambiente, su cui Filostrato sapeva quanto poteva giuocare il meraviglioso e il sublime. Entro i termini delle discussioni sulle tec- niche retoriche tra la fine del I secolo a. C. e il I secolo d. C. si era avuto uno spostamento dalla retorica intesa come dimostrazione e fondata soltanto sui fatti e sulle argomentazioni credibili (n(a-rEtt;), come fu il caso della retorica oSOstenuta da Apollodoro di Pergamo (ancora con Cecilio di Calatte e il suo contemporaneo Dionigi di Alicarnasso, si proclamava soprattutto l'importanza della disposizione e dell'armonia délle parole, della metafora, in stretta osservanza e imi- tazione dei classici), alla retorica affettiva, per cui si sa giuocare sulle passioni, convincendo non mediante argomentazioni razionali, ma con l'entusiasmo, la passione, l'emozione, suscitando la meraviglia, come fu il caso.della retorica proclamata dall'avversario di Apollodoro di Pergamo, Teodoro di Gadara. Entro l'àmbito culturale e sociale, entro i termini di diffuse esigenze morali e religiose, proprie del I e del n secolo, si capisce come al di fuori delle scuole e dell'insegnamento ufficiale della retorica (rappresentato in forma istituzionalizzata e scle- rotizzata da Quintiliano) abbia prevalso l'insegnamento e la tesi di Teodoro di Gadara. Di un discepolo di Teodoro, Ermagora di Temno, sembra che sia il trattatello Sul sublime (nepl G~J~ouç), un tempo attri- buito a Cassio Longino (retore del m secolo d. C.) e a Dionigi di Alicarnasso (in un codice vaticano si scoprf che già gli antichi non sapevano se fosse di Dionigi o di Longino: mentre prima si era letto che Il sublime era di Dionisio Longino, nel codice vaticano si legge di Dionisio o di Longino; sulla vessata questione dell'attribuzione si veda ora anche D. A. Russell, Introd. a Loginus, On the sublime, Oxford). Contro la tradizione della retorica in senso aristotelico (rappresen-  309   tata ancora da Cecilia di Calatte) il Sublime insiste sul pathos, si come, di contro alla retorica intesa come avviamento all'ordine sociale e poli- tico in senso stoico (si pensi a Diogene di Babilonia), all'utile morale, il Sublime insiste sullo straordinario, il meraviglioso, il sublime ap- punto. "Veramente ammirevole è.rempre, per gli uomini, lo straordi- nario" (35, 5). "Il fine della fantasia poetica è la sorpresa, mentre quello dell'oratoria è l'evidenza: entrambe comunque ricercano il pate- tico e il concitato" (15, 2), insieme alla grandezza del discorso. E l'evidenza, in campo oratorio, la si ottiene non "a capriccio, procedendo anzi con metodo (2,.2), usando certe tecniche da cui far scaturire il sublime (già definito da Teofrasto come uno dei possibili stili retorici). Bisogna su~citare grandi pensieri, facendo innamorare di ciò di cui si vuol persuadere. Di qui l'importanza data alla passirme e all'entusia- smo. Grandi pensieri e passioni si suscitano mediante certe appropriate figure del pensiero e dell'espressione, mediante l'altezza dell'elocu- zirme e la scelta di un argomento tale da costituire una composizirme (crov&eatt.;), che, ispirando i piu alti pensieri, vada oltre il quoti- diano vivere, creando mondi di superiore grandezza (sublimi), velando cosi gli artifici retorici. Se il Sublime dello pseudo-Longino rispose all'esigenza di certi retori posti· difronte a un certo pubblico, la Vita di Apollrmio di Filo- strato risponde esattamente all'esigenza di altri argomenti mediante cui, suscitando il meraviglioso e il sublime, trasportare il lettore in una vita sublime, sospesa tra la realtà e il mistero. E qui bisogna ricordare che Filostrato scrisse anche gli Eroici, un dialogo sui geni e le ombre della guerra di Troia, in cui ancora piu scoperto è il gusto per lo "straordinario," e dove, per altro verso, si presentano gli eroi del passato, si come nella Vita di Apollonia si presenta la figura di Apollonia. Non solo, ma è altrettanto interessante sottolineare che l'autore del Sublime, nel 1 secolo, d'accordo con l'autore del Dialogus de oratorihus (forse Tacito) e con Seneca, sostiene che la decadenza della oratoria.e della letteratura, il prevalere in certi ambienti della pura imitazione, l'aver ridotto l'eloquenza all'applicazione di fredde regole, è frutto della situazione politica attuale, della perdita della libertà, del conformismo generale e della mancanza di alti e nobili ideali per ·i quali battersi. "Allo stesso modo che - se è vero quel che si dice - le gabbie in cui si allevano i Pigmei, chiamati nani, non solo impediscono ai rinchiusi la crescita, ma anche contraggòno loro la lingua per la museruola posta intorno alla bocca, cosi anche la ~chiavitu, sia pur la piu legit- tima, potrebbe qualificarsi gabbia dell'anima e comune prigione di tutti" (44, 5). Di qui, non solo l'importanza data al "sublime" come stile, ma all'arte come capacità di chi altamente senta, di suscitare 310    mediante immagini, di là da argomentazioni logico-matematiche, rap- presentazioni di cose e di persone che riescano a convincere pio di ogni ragionamento. Se entro quest'àmbito si vede bene nel giro di un secolo e mezzo, in mutate condizioni d'animo, la funzione assunta dalla retorica di certi neosofisti, intesa al "sublime,".rompendo contro la vita quotidiana, mediante il miracoloso e il meraviglioso, si capiscono gli intenti della esercitazione retorica e romanzesca della Vita di Apollonio scritta nel III secolo da Filostrato di Lemno. Non a caso, perciò, Filostrato di Lemno deve avere scelto la vita di Apol- lonio di Tiana. Anche se molte cose sono state da lui inventate, certo una qualche tradizione popolare, giuocando sui dati reali e sulle reali azioni di Apollonio, doveva avere trasmesso, idealizzata, la figura reale del Tianeo. In effetto, un'attenta lettura della Vita di Apollonio ci presenta un Apollonio non tanto filosofo di professione, quanto maestro di vìta, maestro itinerante, che, assunto a modello Pitagora, del quale sembra che abbia scritto una Vita, ed Empedocle - iatrosofisti e medici - esperto di tecniche mediche e incantatorie, di certi tipi di religioni orientali, con le sue parole, con i suoi atti " sublimi," presenta se stesso in "stile sublime," dando agli altri, ai piu che vivono o entro i ter- mini di una conformistica morale corrente o entro i termini di una religiosità fatta di superstizioni, di sacrifici, la "purga" adatta, per prevenire o curare i pio dalla loro malattia morale-religiosa. Sotto que- sto aspetto sembrano non poco interessanti da un ·Iato i continui rap- porti che, si dice, Apollonio avrebbe avuto con re e signori dì paesi, fino allo scontro con Nerone e Domiziano, e, dall'altro lato, l'acco- stamento con figure come quella di un Demetrio cinico, e il'suo insi- st~re, come risulta anche da fonti diverse da quelle di Filostrato, con- tro la superstizione, contro la religiosità ridotta a sacrifici e a puri rituali, il che, d'altra parte, era stato, nella stessa epoca circa, uno dei maggiori punti d'impegno dell'insegnamento di Seneca. Secondo Euse- bio, Apollonio di Tiana cosf scriveva in una sua opera tramandata sotto il titolo Sui sacrifici: lo credo che si osservi il culto conveniente alla divinità, e che solo cos{ all'uomo è concesso averla propizia e benevola in qualsiasi circostanza, se al Dio che diciamo Primo e che è Uno e separato da tutte le cose e che dobbiamo riconoscere superiore a tutti gli aii.ri, non si immolino vittime, non si accendano lampade, non si consacri alcuna delle cose sensibili. Dio non ha bisogno di alcuna.cosa... Con lui adopera solo la parola migliore, cioè quella che non esce dalle labbra, e da lui, che è il migliore degli esseri, invoca i beni mediante ciò che in noi v'è di migliore: l'intelletto, che non ha bisogno di nessun organo... (Eusebio, Praep. evan., IV, 13).  311   E in una lettera, che, tra le molte apocrife, sembra proprio di Apol- lonia, si legge: Se gli dèi non hanno bisogno di vittime, cosa si dovrà fare per avere i loro favori? Credo si debba avere l'animo ben disposto a beneficare gli uomini, per quanto è possibile, secondo i loro meriti... (Ep., 26).. Su piani diversi, ma in situazioni simili, Seneca, Demetrio, Musonio Rufo, Apollonia di Tiana (il nuovo Pitagora) potevano "benissimo incontrarsi. E cosi non è un caso che piu tardi, quando la figura del Cristo si era oramai cristallizzata, nel IV secolo, !erode Sossiano di Biti- nia potesse sostenere che Filostrato, nella sua Vita di Apoll~nio, aveva voluto mostrare come accanto ai Vangeli era possibile fare l'encomio della tradizione che aveva costruito la figura di Apollonio, e come accanto all'encomio di Cristo si poteva scrivere l'encomio di Apollonio (il Cristo pagano), l'uno e l'altro vicini nelle stesse intenzioni puri- ficatorie popolari · (Porfirio, anzi, giunse, nella sua opera Contro i Cristiani, ad opporre la figura di Apollonio a quella di Cristo, soste- nendo che Apollonio rappresentava il vero Salvatore), mentre altri, i cristiani, potevano tentare di recuperare Seneca - arrivando a co- struire un epistolario tra lui e San Paolo,. - ed Epitteto, di cui non poche volte fu detto ch'era cristiano. 4. Lo Stoicismo a Roma nel l secolo d. C. Lucio Anneo Cornuto. Musonio Rufo. Epitteto Interessantissima è la narrazione, da parte di Filostrato, dell'am- biente e dell'atmosfera politica, della corruzione morale e religiosa, in Roma, al tempo di Nerone, quando, si dice, vi fu anche Apollonia (libro IV, 35-47). D~ questa narrazione viene fuori un Apollonia moderatore di co- stumi, che propone se stesso quale esempio di vita misurata e saggia, simile alla figura e all'atteggiamento di Demetrio, quale risulta anche da Seneca. E ne viene fuori pure una delineazione della "filosofia" intesa come riflessione morale, come avviamento a restituire l'uomo a se stesso, alla propria dignità e libertà, alla propria razionalità, cJoè al divino, in opposizione alla corruzione imperante, in gran parte dovuta all'atteggiamento dell'imperatore. Entro questi termini, anzi, lo stesso Filostrato spiega la paura che l'imperatore e i suoi accoliti sentivano nei confronti della "filosofia": un controllo coraggioso del loro ope- 312    rato, un'azione seducente sul Senato da un lato e sul popolo dall'altro lato, e quindi un'attività antipolitica, antistatale, antireligiosa. A parte Seneca, abbiamo già accennato a illustri vittime della poli- tica imperiale, e alla preoccupazione da parte del governo romano nei confronti di certe prese di posizione, ritenute, a torto o a ragione, frutto di tesi filosofiche interpretate o come magico-demoniache e distruggitrici dei culti religiosi correnti, o, nel richiamo, particolar- mente da parte stoica, all'antico concetto della res-publica romana in senso scipionico-ciceroniano, come estremamente pericolose per la isti- tuzione imperiale, a carattere assolutistico-personale. Entro questi ter- mini, in una ancor forte oscillazione sul concetto d'impero, al suo fondamento giuridico, e al fondamento giuridico-istituzionale del po- tere - se l'imperatore debba essere tale per discendenza o per elezione, se il potere sia sempre del Senato e del Popolo romano facenti capo all'Augusto, o se l'Augusto è egli lo Stato, il re divino in senso orien- tale - si vede bene lo scontro tra il lento e faticoso costituirsi della istituzione imperiale e, di volta in volta, anche a seconda dell'impera- tore, del ·suo contrasto con il Senato, certe nette prese di posizione, rappresentate da certe concezioni, o cinico-popolari o stoico-senatoriali. E se con "filosofi" s'intese indicare maghi e indovini e cinici, con "filosofi" s'intese anche indicare coloro che per un verso o per l'altro si opposero alla politica imperiale, soprattutto con il loro atteggia- mento, con l'esempio della loro condotta; e questi, lo fossero o no, vennero indicati con il nome di stoici, e furono soprattutto personalità romane, uomini politici, gente di governo. Ricordiamo qui, ancora una volta, i casi clamorosi di Trasea Peto (condannato a morte da Nerone nel 67 d. C.; cfr. sopra) e di Elvidio Prisco, genero di Trasea Peto: Elvidio Prisco, questore dell'Acaia nel 51, tribuno della plebe nel 56, per il suo atteggiamento apertamente antimperiale, fu bandito da Roma nel 66; rientrato in Roma sotto Gaiba, accusò il delatore di Trasea Peto; fatto pretore nel 70, fortemente si oppose alla politica di Vespasiano, per cui venne di nuovo esiliato e, poi, condannato a morte nel 70. Ma, entro questa linea, non vanno scordati i casi di Rubellio Plauto (33 circa-62 d. C.), che, per la sua opposizione al governo di Nerone, venne condannato a morte, accusato da Tigellino "di far parte dell'arrogante setta degli stoici, che rende turbolenti e desiderosi di disordini" (Tacito, A nn., XIV, 57); di Borea Sorano (console designato nel 52, proconsole d'Asia prima del 63), che venne accusato presso Nerone perché amico di Rubellio Plauto, e che fu condannato a morte insieme alla figlia Servilia accusata di pratiche magiche; di Egnazio Celere, condannato a morte nel 69, da Vespa- siano. E cosf non è poco indicativo che Vespasiano, dopo la condanna  313   di Elvidio Prisco, abbia nel 71 bandito da Roma tutti i filosofi, tranne Musonio Rufo, a suo tempo cacciato da Nerone, insieme a Cornuto, fatto rientrare da Gaiba; e che nell'85 Domiziano abbia fatto uccidere Materno per le sue coraggiose parole contro i tiranni, Giunio Rustico perché aveva composto un elogio di Trasea Peto da lui ritenuto un santo (t&p6v) e di Elvidio Prisco, e lo stesso figlio di Elvidio, allonta- nando di nuovo da Roma tutti i filosofi, mentre nel 93 circa mandava a morte Erennio Senecione, perché aveva scritto una vita di Elvidio Prisco. Fu, anzi, dopo tali avvenimenti - ed anche questo è indica- tivo - che il retore Dione di l>rusa (30-117), detto Crisostomo (dal- l'aurea bocca), che pur aveva detto i filosofi "peste della città e dei governi," si converti alla filosofia, con particolar propensione per la tesi stoico-platonica e cinica, mentre Plinio il giovane riconosceva il valore della opposizione da parte dei filosofi, ammirandone il coraggio (cfr. Epist., l, 10; III, 11, 3). Tale sembra, in effetto, la funzione assunta dalla "filosofia" nel 1 secolo d.C., particolarmente a Roma e nel mondo dominato da Roma, soprattutto dal tempo di Nerone a quello di Domiziano, quale che poi fosse la dottrina di 'Sfondo scelta a fondazione di una certa attività moralizzatrice: la stoica, la platonica, la pitagorica, la cinica; o meglio, nessuna delle quattro come tali, ma l'una o l'altra entro l'accezione che abbiamo visto sopra, indipendentemente da scuole e tradizioni precise. Sembra chiaro, allora, l'appello di tutti, da Seneca ad Apollonio, da Demetrio a Musonio Rufo a Epitteto, alla fraternità, alla benevolenza, l'appello all'abbandono della vita dispersa e di ciò che era divenuta la vita politica, il richiamo a conoscere se stessi, il continuo ricordo di Socrate (si veda,' ad esempio, Seneca, De tranquilli- late animi, VI, 1-2). Entro questa atmosfera a'Ssumono un loro particolare significato l'insegnamento di Musonio Rufo, tutto volto - sul piano di un gene- rico stoicismo di sfondo - a formare l'uomo virtuoso, e la robusta, coraggiosa personalità e la problematica morale di Epitteto. A tale proposito, per meglio intendere quella che fu una conce- zione stoica di sfondo, merita il conto ricordare Lucio Anneo Cornuto, nato a Leptis, vissuto a Roma, contemporaneo e amico di Musonio, maestro di Persio Fiacco (34-62), dopo la morte del quale si fece edi- tore delle Satire di lui, e di M. Anneo Lucano, nipote di Seneca, nato nel 39 (fatto uccidere da Nerone nel 65), che, nella Farsalia, non poche volte rivela motivi stoici. Cornuto, insieme a Musonio, fu esi- liato da Nerone nel 65. Sappiamo ch'egli fu uomo di cultura, che scrisse in greco e in latino opere letterarie, tra cui famose alcune sue interpretazioni di Virgilio, insieme a un De figuris sententiarum e 314    a un De enuntiati011e vel de ortographia, e opere di retorica precetti- stica, tra cui una dal titolo Arti retoriche (TéxvocL pYJ-rOptxoc(). Egli scrisse anche un'opera contro le categorie di Aristotele e un Escurso di teologia greca {'E7tt8po!J.1J -rwv xoc-rclt ~v 'EJJ..'I)vtx~v 8-eoÀoylocv 7totpoc8e:8o(Lévwv), l'unica opera di lui conservatasi. Nel suo complesso assai prolissa, monotona e, certo, di non aÌto significato, l'Epidramè ha un suo particolare valore come documento, da un lato, proprio nel suo essere un manuale divulgativo e un com- pendio di opere precedenti sulle divinità del pantheon greco - allego- ricamente interpretate entro i termini della teologia fisica stoica, - della diffusione di quella che dicevamo la generica concezione stoica di sfondo (certa terminologia cristallizzata è molto indicativa); dal- l'altro lato, del modo in cui venivano recuperate le antiche divinità m funzione della ratio physica stoica. Basti un esempio: Il cielo tutto intorno avvolge la terra e il mare e tutto quel che si trova sulla terra e nel mare... Come noi siamo governati dall'anima, cosi lo è l'Universo; anche l'Universo ha un'anima che lo avvolge, e questa viene detta Zeus, soprattutto perché egli vive nel tutto, ed è causa di vita ai viventi; per questo si dice anche che Zeus su tutto regna, sf come si po- trebbe dire che pure in noi l'anima e la natura ci governano... (Epidromè, l, 1-3; 2, 1-7, ed. Lang). Da quel poco che conosciamo di Musonio Rufo,5 ricaviamo ch'egli soprattutto si volse all'insegnamento, inteso come preparazione al ben vivere, come cura per i malati dell'anima, come formazione dell'uomo G Discendente di una famiglia equestre, ongtnaria di Volsini (Bolsena), C. Mu- sonio Rufo nacque intorno al 30 d. C. Nel 60 circa lo troviamo in Asia Minore, dove aveva seguito Rubellio Plauto, ch'egli assisté quando Rubellio Plauto fu eostretto a togliersi la vita per ordine- dell'imperatore. Rientrato in Roma, nel 65-66, fu, in seguito alla congiura di Pisone, condannato all'esilio, insieme al suo amico Cornuto, c confinato nell'isola di Gyaros (Cicladi). Richiamato a Roma da Gaiba, visse abbastanza serenamente sotto Vespasiano. Espulso anche da Vespasiano, che pur lo aveva risparmiato da una precedente espul- sione, avvenuta nel 71, Tito lo richiamò in Roma dove sembra che sia morto non piu tardi del 102. Soprattutto dedito all'insegnamento, pare che Musonio non abbia lasciato alcuno scritto. Del suo insegnamento orale restano appunti e frammenti: apoftegmi, brevi trattazioni filosofiche (cfr. Plutarco, Aulo Gellio, Epitteto in Arriano, Stobeo); lezioni vere e proprie (Stobeo) (si vedano ora raccolte da Hense, M: Rufi Reliquiae). Sembra che la fonte comune da cui sono state tratte le citazioni da Musonio, sia un volume di lezioni di lui, composto da un certo Lucio, e le citazioni che di Musonio fece nel suo insegnamento orale, il discepolo di Musonio, Epitteto (Arriano raccolse l'inse- gnamento di Epitteto). Di un'opera intitolata Memorabili tli Musonio, composta, a quanto pare da Valerio Pollione di Alessandria, del tempo di Adriano, non resta alcuna traccia. Falsa è ritenuta una lettera di Musonio indirizzata a Pancratide.  315   onesto (k.alol(agathos), la cui cultura e riflessione morale lo rende misurato e rispettoso di se stesso e degli altri: "in realtà, pratica di virtuosità è la filosofia, e non altro" (tpù.oaotp(cx xatÀox&:ycx3-~ 4CM"tv bt~'t"')3euatç xcxt oòa~ l'"pov) (M. Rufi Reliquiae, IV, 10, ed. Hense). Dedito al solo insegnamento, sembra che Musoruo non abbia scritto niente. Di lui possediamo apoftegmi, brevi trattazioni filosofiche, brevi lezioni: alcuni apoftegmi sono riportati da Arriano che li avrebbe ripresi dalle parole di Epitteto; altri, insieme a vere lezioni, si tro- vano in Aulo Gellio, in Plutarco, in Stobeo. La fonte principale di tali citazioni - particolarmente lunghe quelle. riferite da Stobeo - sembra sia uno scritto di un certo Lucio, fiorito sotto Adriano, seguace di Musonio, che ne avrebbe ripreso e sistemato le lezioni. Nessun ricordo resta di un libro intitolato Memorabili di Musonio, scritto da un certo Pollione, dell'età di Adriano. Grande fu l'influenza dell'insegnamento di Musonio Rufo sui con- temporanei, particolarmente su alcuni uomini della classe superiore di Roma, cui lo stesso Rufo apparteneva, che, dall'insegnamento di Musonio, traevano il fondamento ideologico alla loro opposizione poli- tica, come fu per Rubellio Plauto (Musonio fu presente alla sua morte nel 60), Borea Sorano, Minucio Fundano. E se per l'aspetto etico- sociale molto risenti lo schiavo Epitteto dell'insegnamento di Musonio, per la concezione del sovrano ideale, da opporre al sovrano attuale, quale, ad esempio, Domiziano, molto risenti dell'insegnamento di Musonio l'oratore Dione di Prusa, mentre profonda fu l'influenza di Musonio nel tratteggiare l'ideale del saggio (uomo o donna), misu- rato, di buone maniere, dal tratto signorile, in un sapiente distacco, come almeno ci è presentato da Plinio il giovane, che descrive il saggio atteggiamento del suo maestro Artemidoro, genero di Musonio, e dello stoico Eufrate di Tiro (cfr. Plinio, Epist., III, ·u; l, 10). Tante sono - scrive Plinio - le qualità che primeggiano e rifulgono in Eufrate, da essere notate e ammirate anche da gente mediocremente colta. Egli discute con sottigliezza, solidità, bella forma e sovente raggiunge quell'elevatezza e pienezza di espressione che sono proprie di Platone. Ricco, vario, soprattutto persuasivo, è· il suo parlare: si aggiunga un'alta persona, un nobile aspetto, capelli abbondanti, una candida barba fluente, le quali cose se possono essere considl."rate casuali e di poco conto, gli conciliano tuttavia grande venerazione. Nessuna rozzezza nel modo di vestire, nessuna durezza nel tratto, una grande serietà; trattare con lui ispira rispetto, non timore. Una grande purezza di vita e pari affabilità: egli persegue i difetti, non gli uomini, e coloro che sbagliano non li punisce, ma cerca di correg- gerli... (I, 10). 316    Senza dubbio ritrattino di maniera - divenuto oramai un t&pos - esso sembra, comunque, riflettere abbastanza bene quale fosse l'ideale dell'uomo per bene, per una società per bene, in un mondo piuttosto per male. Musonio Rufo, cavaliere romano, discendente da una famiglia equestre di Volsini (Bolsena), nacque nel 30 circa. Nel 65-66, all'indo- mani della congiura di Pisone, venn!! da Nerone mandato in esilio a Gyaros (piccola e impervia isola delle Cicladi). Tacito annota: "Lo splendore del nome fu la ragione perché fossero banditi Verginio Flavo e Musonio Rufo, l'uno perché affascinava i giovani con l'elo- quenza, l'altro con i precetti della filosofia" (Ann., XV, 71). La breve annotazione di Tacito è assai indicativa. Essa conferma che l'insegna- mento di Musonio, per quanto dato con molta misura, in particolare ai giovani, poteva da un lato apparire, nella sua concezione di quello che ha da essere l'uomo, un rimprovero continuo all'imperatore, e dall'altro lato nella delineazione di quello che deve essere il sovrano, non tale se non è a un tempo uomo sul serio, cioè filosofo, una ripresa del vecchio ideale stoico dello Stato, da opporre allo Stato attualt;. L'estremo conservatorismo e i precetti di Musonio, ispirantisi, come dicevamo, a un originario e vago stoicismo di sfondo (uno l'universo, manifestazione della divina ragion d'essere," per cui tutto si trova là dove è bene che sia in una necessaria catena, fatalmente scandentesi), il suo continuo invito alla purezza della vita, all'amore reciproco, per- fino al rispetto di norme igieniche (in tal senso vanno · presi certi suoi inviti alla frugalità, all'astensione dalle carni e cosi: via, che· hanno fatto parlare di un suo pitagorismo, o, per certa sua rigidità, di ci- nismo), assumono un loro mordente e una loro portata di rivolta, qua- lora si consideri l'ambiente e gli uomini in mezzo ai quali e per i quali Musonio ha operato. Posto che "filosofia" è cultura e consapevolezza di sé, dei propri limiti e perciò stesso delle proprie possibilità entro quei limiti, e che dunque essere filosofo significa attuare pienamente la propria nai;Ura di uomo, in forma eccellente, esser filosofo vuol dire essere virtuoso, per cui tutti, in quanto tutti siamo uomini, siamo cioè esseri che hanno la capacità di essere ragionevoli, tutti abbiamo per natura, cia- scuno per ciò che gli compete, la possibilità di essere virtuosi, il seme della virtu, O"ltép!J.ot &.pe:rijt; (II, 7-8, Hense). Dovere dell'uomo è, quindi, ragionare, cioè sviluppare tale.~eme, che a tutti è ugalmente comune, onde tutti hanno il dovere d'essere "filosofi," gli uomini come le donne (III), i poveri come i ricchi, i sudditi come i sovrani (VIII). Avviare gli altri a filosofare, tale il dovere del saggio, di fronte a chi, preso dall'immediatezza sensibile, preso dall'una o dall'altra cosa, vive  317   nella passione, è disperso, non è se stesso. E per questo, per avviare gli altri a pensare, a rendersi chiare le prPPrie idee, Musonio riteneva non necessari né molti discorsi né molte dottrine, ma, soprattutto, l'esempio da un lato, e, dall'altro lato, l'esercizio (VI), cioè l'insegnare e l'imparare a ragionare (logica), mediante cui ci si forma uomini (I e II). Di qui la tesi fondamentale di Musonio, che venne poi sviluppata e approfondita, in un richiamo all'antico stoicismo, tipo quello di Ze- none di Cizio e di Aristone di Chio, da Epitteto. Posto che, entro i termini della tradizione stoica - in un'accettazione piu dommatica che riflessa - in natura tutto è bene, ché tutto è momento necessario del realizzarsi dell'unica ragione, il problema grosso consiste, allora, nel risolvere il rapporto necessità universale e capacità, nell'uomo, in quanto ha in sé un seme di ragione, di adeguarsi o meno, liberamente, a quell'ordine e a quella necessità. Ancora una volta si ripresentava il vecchio problema implicito in una coerente posizione stoica: il pro- blema del fato e, quindi, di conseguenza, il problema ·se all'uomo è dato, almeno entro certi limiti, il potere di agire, se v'è una zona su cui potere operare, anche se tale possibilità, rendendosene consapevoli (e sarebbe già questa un'attività propria), consiste nell'accettare lieta- mente l'ordine stesso del tutto, tutto ciò che avviene. La virtu (bene) consisterebbe, dunque, nel sapere usare. la ragione, il vizio (male) nell'esser preso dalle cose, nel dare alle cose e ai sentimenti un valore unilaterale, disordinato, nello sragionare, per cui tutte le cose sono indifferenti, considerate dal punto prospettico della ragione, in rela- zione a ciò che nel vizio è detto bene, che nel vizio fa piacere. Ne deriverebbe perciò, entro i termini del piu antico stoicismo, che ogni azione essendo positiva, la differenza tra virtu e vizio sta non in ciò che facciamo, ma nel come agiamo, o meglio nel come accettiamo, nell'intenzione (vedi I vol.: Zenone, Cleante, Crisippo). Si ammetta che tutta la realtà si costituisce mediante la ragion d'essere del tutto secondo una necessità, e che, perciò, tutto è bene, o meglio come deve essere, in sé né bene né male e che tale è la natura; si ammetta anche, come dato di esperienza, che l'uomo da un lato è passione, cioè è di volta in volta preso da questa o da quella rappresentazione, che si accavallano in lui, trascinandolo indifferentemente, in opposte dire- zioni, per cui l'uomo è incoerente, e non da lui dipendono le cose, e che dall'altro lato, invece, ha la capacità di coordinare quelle passioni, di non essere piu preso da questa o da quella, ma di costituire sé in unità e coerenza, valutando le stesse rappresentazioni in un ordine per cui ciascuna nel discorso si colloca dove è bene che sia; ne segue che non incoerentemente si può concludere che la libertà umana con- siste, appunto, in questa sperimentata capacità di vivere secondo ra- 318    gione, o meglio in questa esperienza di una capacità di scelta tra l'essere preso da questa o quella rappresentazione, e l'agire, pur sempre entro i medesimi dati, rendendosi conto, attraverso il discorso e un retto ragionare, delle stesse passioni, che, in quanto comprese, ricollo- cate nel loro giusto posto, cessano di essere passioni, in un'unica vita secondo ragione. In tale direzione sembra si debba interpretare l'ap- pello alla r~gione e al vivere filosoficamente da parte di Musonio, e, soprattutto, un frammento - va detto che è un testo ricavato da un'opera Sull'amicizia di Epitteto, andata perduta, - in cui Musonio sostiene che bisogna saper distinguere tra ciò che è in potere nostro (~q/ ~fL'i:v) e ciò che non lo è (oùx ~q:/ ~fL'ì:v)(cfr. XXXVIII, Hense). In nostro potere è il sapere usare le rappresentazioni, da cui la giusta valutazione delle cose, e perciò la liberazione dalle passioni, dalla vita dispersa, dall'amore unilaterale per questa o per quella cosa, che, in questo senso, rimanendo incomprese e, dunque, altre da noi, restano non in nostro potere. Sembra cosf chiaro perché per Musonio, onori cariche e cosf via non siano beni, perché non siano beni i piaceri immediati, tutto ciò che è dovuto alla vita dispersa, esteriorizzata, ma che l'unico bene in cui consiste l'unica libertà possibile, e perciò l'unica virtu e felicità, stia in ciò che dipende da noi, cioè nel saper pensare, nel vivere secondo ragione, nel nostro modo di atteggiarsi nei con- fronti della realtà, nel cui atteggiamento consiste l'esperienza della volontà come-intenzione. Se in tale interiorizzazione della realtà e degli avvenimenti, se in tale capacità di valutare rettamente cose e avvenimenti, consiste la comprensione, il vivere filosoficamente, virtuosamente, l'insegnare agli altri a sviluppare la razionalità, quel seme di virtu che è proprio a tutti per natura, è dovere del saggio, dell'uomo. In questo senso Musonio indirizzò tutta la sua vita, in questo sentire l'insegnamento come dovere, sia nei confronti dei giovani, sia degli adulti, che in quanto presi dalle passioni, in realtà sono non uomini, sono come ammalati che hanno bisogno di cure. E in un mondo quale fu quello di Roma tra Caligola, Nerone e Domiziano, si capisce che Musonio vedesse ovunque amma- lati gravi, per i quali erano necessarie drastiche medicine, per avviarli ad essere razionali. Di qui il suo appello al bene comune, al rispetto per l'uomo in quanto possibilità d'essere razionale. Per ciò egli sotto- linea l'importanza che gli ·schiavi siano trattati non come cose ma come uomini, che come cose e strumenti di piacere non siano considerate le donne, bensf come "uomini," e·che quindi il matrimonio non sia solo un contratto, ma anche un valore (XIIIh-XIV), da cui la condanna dell'uso di abbandonare i figli non desiderati ("meglio tanti fratelli che tanto denaro," esclama una volta). Se tali debbono essere gli uo-  319   mini, se non v'è società senza reciproco rispetto, fondato sul ricono- scimento di una.possibile comune razionalità, tanto piu dovrà essere virtuoso, cioè "filosofo," chi ha in mano il governo dello Stato, l"'uomo regio" (~cxaLÀLxÒç &vl)p), sosteneva Musonio, come appare da una sua lezione andata sotto il titolo Anche i re debbono studiare filo- sofia (VIII). Per Musonio non si tratta tanto di delineare quale debba essere il sapere proprio dei sovrani, nel senso in cui tale questione è trattata nel Politico di Platone, quanto di mostrare che il sovrano giusto è il sovrano che sia "filosofo," cioè.virtuoso sf come tutti gli altri uomini. "Ammesso che funzione dell'uomo regale è di sapere reggere bene le nazioni o le città e d'essere degno di governare gli uomini, chi, chiediamo, piu del filosofo saprebbe reggere bene una città, o chi piu di lui sarebbe degno di governare gli uomini? Poiché, se veramente è filosofo, sarà saggio, misurato, magnanimo, capace di rendersi conto di ciò che è giusto e di ciò che conviene, di effettuare le sue decisioni e di reggere a dure fatiche" (VIII). Dopo la morte di Nerone (68 d. C.), Musonio, che anche durante l'esilio nell'isola di Gyaros aveva continuato il suo insegnamento rivolto a tutti coloro (e furono molti), che attirati dalla sua fama erano andati a trovarlo, fu richiamato a Roma dall'imperatore Gaiba. Dopo gli effimeri governi di Gaiba, Otone, Vitellio (68-69 d. C.), è noto che Vespasiano (70-79), nel tentativo di riportare l'impero alla pace, s'ispirò a un governo simile a quello di Augusto. Se cosf dapprima non vide di malocchio soprattutto certe posizioni stoiche, di cui sembra che par- ticolarmente apprezzasse quella di Musonio, in un secondo momento, allorché l'opposizione di Elvidio Prisco, che pur sempre vedeva nel- l'Imperatore non il princeps, ma il tiranno, un governo personale, parve ispirarsi proprio a tesi stoiche e ciniche, Vespasiano, ritenendo estrema- mente pericolosi gl'insegnamenti stoici per l'unità dell'Impero, nel 71 bandf tutti i filosofi tranne Musonio, che, tuttavia, allontanò pi6 tardi, nel 75. Sotto Tito (79-81), che riprese la politica pacificatrice del padre, cercando di dare all'Impero anche un fondamento ideologico, Musonio venne richiamato a Roma. Altre notizie di lui non si hanno. Proba- bilmente morf prima del bando dei filosofi, ordinato nel 94 dal fratello e successore di Tito, Domiziano (81-96), che deCisamente si volse ad un ~ccentramento di tutto il potere nelle proprie mani. Tra i pensatori e i maestri che nel 94 furono costretti ad abbandonare Roma, vi fu il piu intelligente e solido discepolo di Musonio, Epitteto.., il Diflicile è precisare le date della vita di Epitteto. Se nella Suda si legge che Epitteto visse lino all'avvento di Marco Aurelio (161 d.C.), la aonologia del suo editore Arriano porterebbe a spostarne la nascita in epoca un po' piu antica. Nato nel 320    Egli non si spostò molto né dalla concezione né dal tipo di insegna- mento di Musonio. Epitteto, come Musonio, non pretese mai di dare ).m'esposizione sistematico-scolastica di una certa dottrina. Di volta in volta, prendendo spunto da domande di discepoli o da quesiti posti da chi si recava da lui, dal saggio, per averne consigli, si intratteneva in discussioni brevi e serrate, ove ogni volta, sia pur da punti di vista diversi, si ripresentano gli stessi motivi - alcuni àei quali riprendono, portati alle estreme conseguenze, quelli prospettati da Musonio - approfonditi nelle loro varie facce, in un atteggiamento rocratico, al quale non poche volte Epitteto si richiama. Specchio fedele delle con- versazioni di Epitteto, di questo suo modo di insegnare attraverso la rappresentazione viva della formazione di un certo ragionamento, at- traverso il dialogo e la discussione, in situazioni precise, in un concreto e vivo rapporto di uomini vivi tra uomini vivi, è il complesso degli appunti che un seguace di Epitteto, il ·generale romano Arriano di Nicomedia, ha raccolto e, poi, pubblicato (sembra che Arriano abbia, di volta in volta, stenografato le conversazioni del maestro). Dice lo stesso Arriano nella lettera prefatoria alla sua raccolta, dedicata a Lucio Gellio: Non ho redatto i discorsi (Myo') di Epitteto come si potrebbe redigere materia di tal genere e neppure li· ho pubblicati, io che dico di non averli redatti. Ma tutto quello che ho sentito dire da lui, trascrivendolo, per quanto fosse possibile con le stesse parole, ho cercato di serbarmelo per il futuro a ricordo (~o!Lvi)!L«-rct) del suo pensiero e dd suo libero parlare. Quindi, com'è naturale, tali note hanno l'andamento di quel che uno dice all'altro per bisogno spontaneo e non di quel che si potrebbe redigere per destinarlo in futuro a lettori. In tale forma, dunque, io non so come, contro la mia volontà e a mia insaputa, capitarono in pubblico. Per me, certo, non ha im- 50 circa, a Jerapoli, nella Frigia meridionale, schiavo, forse figlio di schiavi, giovane fu condotto a Roma, dove fu servo di Epa&odito, liberto di Nerone. Ancor prima d'essere liberato da Epa&odito, Epitteto ebbe il permesso di ascoltare le lezioni di Musonio Rufo, probabilmente dopo il secondo ritorno di Musonio dall'esilio, al tempo dell'imperatore Tito. Epitteto ricordò sempre Musonio come suo unico maestro. Sembra che dall'SO in poi Epitteto, ormai libero, abbia tenuto in Roma le sue lezioni, finché nel 94 fu espulso da Roma su decreto di Domiziano, insieme a tutti i filosofi, matematici e astrologi. Epitteto si ritirò a Nicopoli, in Epiro, dove prosegui il suo insegnameuto, fino alla morte, avvenuta tra il 125 e il 130. Epitteto non scrisse nulla. Le sue lezioni, dialoghi, discorsi, consigli, commenti di testi, trascritti da Arriano di Nicomedia, suo discepolo, al tempo di Nicopoli, furono poi pubblicati da Arriano subito dopo la morte di Epitteto, in un complesso di libri andati sotto il nome di Diatrib~. Arriano compone anche una specie di summa delle massime capitali di Epitteto, andata sotto il nome di Enchiridion o Manuale. Frammenti ci sono pervenuti per opera di Auto Gellio (2), di Marco Aurelio (3), di Arnobio (1), di Stobeo (23). Sulla questione delle Diatribe sulle altre possibili raccolt e dilezioni di Epitteto confronta sopra il testo. ] portanza se apparirò un redattore incapace; per Epitteto, poi, ancora meno, se taluno avrà a disdegno il suo linguaggio, giacché si vedeva chiaramente che, anche parlando, niente altro cercava se non di eccitare al meglio i suoi ascoltatori. Se, quindi, per lo meno a tal fine riuscissero questi discorsi (>.Oyo~), otterrebbero, io penso, quel che debbono ottenere i discorsi dei filo- sofi: altrimenti, sappiano quelli, nelle cui mani essi giungono, che, quando Epitteto li profferiva, l'uditore di necessità provava i sentimenti ch'egli voleva fargli provare. Se poi da sé non riescono a tal fine, forse ne sono io la causa, forse è destino che sia cosf. Addio. Non sappiamo quale titolo abbia dato Arriano alla sua raccolta. Egli nella lettera citata usa due termini: Discorsi (l6got) e Memorie (Hypamnimata). La tradizione ha dato all'opera il titolo di Diatribe (à~or.-rp~~or.(). Solo che molti autori antichi che parlano di Diatribe di Epitteto, parlano anche di Dissertationes (dialécseis), di Hypam- némata, di Omilie, di Apomnemoneuta, di Scholai (cfr. Aulo Gd- lio, l, 2, 17, 19; Marco Aurelio, Ricordi, l, 7; Fozio, Bibl., in Comm. Enchiridion, ed. Schenkl, test. VI; Simplicio, Comm. Enchir., ed. Scenkl, test. III; Damascio, ed. Schenkl, test. IV). Fozio sostiene, inoltre, che Arriano avrebbe scritto otto libri di Diatribe di Epitteto e dodici libri di Omilie (conversazioni). Senza dubbio la raccolta di Arriano (dia- tribe) quale è giunta (in 4 libri) è mutila. Aulo Gellio (XIX, l, 14-15) parla di un quinto libro; l'Enchiridion o il Manuale (l'altra opera di Arriano, che è una specie di summa dei motivi fondamentali delle Diatribe) contiene molti passi e motivi che non hanno riscontro nei quattro libri che leggiamo, cos{ come un frammento di Stobeo (fr. l, in Stobeo, Ecl., Il, l, 31 W.), testo certamente estratto dalle Diatribe, non corrisponde a nessun passo dei nostri quattro libri. Posto, dunque, che l'opera originaria di Arriano fosse in piu di quattro libri (otto o do- dici), ci si è chiesti se gli autori antichi indicassero con gli altri titoli (Omilie, Hypomnimata, Apomnemoneuta, ecc.) altre opere o redazioni diverse, o le stesse Diatribe. Non abbiamo una documentazione tale da poter essere certi. Si resta sempre nel campo delle ipotesi (per le varie discussioni e ipotesi, cfr. J. Souilhé, Introduzione a Epict~te, Entretiens, coli. "Belles Lettres," Parigi). L'opinione, oggi, maggiormente diffusa - già sostenuta nel 1741 da J. Upton, Epicteti quae supersunt Dissertationes, II, Londra, p. 4, - è che sotto i numerosi titoli riferiti dalla tradizione ~i indicas- sero non opere diverse di Arriano, ma sempre la raccolta che ha poi assunto il titolo di Diatribe. "Se si pensa alla libertà con cui gli antichi citavano le loro fonti, non ci stupiremo che una sola raccolta sia stata indicata in tanti modi, tenendo inoltre presente che molte copie erano 322    già circolate prima che l'autore ne consentisse lui stesso la pub- blicazione... D'altra parte, i termini 8Lcx-tpL~-Ij, ax_oì..1j,.8L<Xì..e!;Lt;, O(LLÀ(cx hanno significati molto prossimi e sono spesso usati come sinonimi" (Souilhé, cit., p. XVIII). Il dubbio resta, se mai, per i dodici libri delle Omilie, citati da Fozio, accanto agli otto libri delle Diatribe e all'En- chiridion. Certo i frammenti che troviamo in Stobeo dovevano far parte dei libri perduti delle Diatribe. Ad ogni modo è molto indica- tivo, in quanto è già un'interpretazione del significato del pensiero di Epitteto, del suo modo e del fine d'insegnare, che abbia prevalso il titolo Diatribe. Il termine diatriba, che in origine era sinonimo di dialogo o di discorso, in senso educativo (cfr. già in Platone il termine usato per indicare i discorsi di Socrate ai suoi concittadini: Apologia, 37d; Clitofonte, 406a), si allargò poi a significare tanto dialogo, trat- tato morale non dialogico, lezione, dissertazione su argomenti diversi (di retorica, di musica,.di matematica, di fisica), quanto predica e soprattutto predica di tipo popolare (in questo senso, con i cinici, il termine assume un significato tecnico). Ad ogni modo, sia che con diatriba s'intendesse la discussione e il dialogo in senso socratico, sia la dissertazione e la lezione su argomenti diversi, sia la predica popo- lare, la diatriba ha sempre indicato un rapporto diretto e concreto tra maestro e discepoli, indipendentemente da qualsiasi forma di insegna- mento professorale, sistematico, in organizzazione scolastica. In altre parole con diatriba s'intendevano le riunioni - e quindi, poi, anche il luogo di tali riunioni, in questo senso detto schola- presso un qualche pensatore dal quale ci si recava come da maestro e consigliere, capace di dirigere il dibattito, di far pensare, di formare la personalità, in un libero rapporto, anche se, naturalmente, il maestro indirizzava a una sua certa concezione, ma non appunto esponendo in forma sistema- tica e dogmatica una precisa dottrina. Sotto questo aspetto, relativa- mente alla raccolta degli insegnamenti di Epitteto, riferiti da Arriano (anche la divisione in libri è accidentale, estrinseca, ché in ogni libro, anche se da punti di vista diversi, ritornano gli stessi motivi, facenti tutti perno su due fondamentali: quel che dipende e quel che non di- pende da noi; e la problematica della libertà), il titolo che ha prevalso, Diatribe, è esatto. Esso sta già ad indicare ciò che, in effetto, Epitteto intendeva con filosofia: capacità, attraverso un retto insegnamento, di sviluppare in forma corretta la comune ragione, mediante cui l'uomo forma se stesso uomo, per cui sapiente è chi sa pensare, e poiché saper pensare significa ad un tempo saper vivere, la filosofia non è tanto descrizione della realtà, o scienza, ma moralità; la filosofia perciò non è normativa, ma formatrice nel suo determinarsi come appello, che non dà contenuti, ma si richiama al vivere secondo ragione, mediante  323   certe tecniche retoriche che 5<: da un lato si rifanno ·ai dialogo socr~ tico, ·dall'altro lato si determinano in una dis'cussione che finge il dibat- tito giudiziario o conflitti di idee tra personaggi di un dramma (il che era proprio della diatriba popolare). Quando nel 94, costretto ad allontanarsi da Roma per decreto di Domiziano, che bandiva tutti i filosofi, matematici astrologi, giunse a Nicopoli (la città della vittoria,. in Epiro, fondata da Augusto in ricordo della vittoriosa battaglia di Azio), ove apri una nuova scuola, divenuta presto un centro di discussioni ("diatriba"), dove moltissimi si recavano per avere consigli o sciogliere dubbi morali (le Diatribe e il Manuale rispecchiano questo periodo del suo insegnamento), Epit- teto aveva quarantaquattro anni circa. Già uomo nel pieno della ma- turità, portava con sé sia l'esperienza del mondo di Roma tra Nerone e Domiziano ("non è troppo sicura l'occupazione del filosofo, special- mente ora, a Roma": Diatribe, Il, 12, 17), sia l'approfondimento e il ripensamento dell'insegnamento del suo maestro Musonio Rufo. Epit- teto era nato intorno al 50, ad Jerapoli, la città santa, centro della religione di Cibele, nella Frigia meridionale. Schiavo - c'è chi ha sostenuto che il s~o stesso nome, epitteto, indicasse la sua condizione di schiavo, - figlio di schiavi, almeno secondo un'antica iscrizione (in Schenkl, Epict. Diss., p. VII, test. XIX), Epitteto fu condotto a Roma ancora giovanetto e comperato da Epafrodito, liberto di Nerone, che faceva parte delle guardie del corpo dell'Imperatore, e che aiutò Nerone a suicidarsi (Svetonio, Nerone, 49, 5; Domiziano, 14, 2). Rimaniamo incerti sulle diverse notizie trasmesseci intorno ai rapporti tra Epitteto ed Epafrodito. Prepotente nei confronti dei propri schiavi, Epafrodito si sarebbe divertito a tormentare anche Epitteto. Si narra (Celso, Ori- gene, Gregorio Nazianzeno) che giunse un giorno a spezzargli una gamba. "Questa gamba si spezzerà," avrebbe commentato Epitteto, mentre Epafrodito lo tormentava: " T e l'avevo detto che si sarebbe spezzata," avrebbe concluso Epitteto, còme se non si trattasse del proprio arto, ma di urta dimostrazione sulla causa e l'effetto (cfr. Celso, in Origene, Contro Celso, VII, 53). Troppo stoico-cinico è questo aneddoto per non avere il sapore di ricostruzione a posteriori, per delineare la figura di Epitteto stoico, che si sapeva zoppo fin dalla gioventu (cfr. Simplicio, in Schenkl, cit., p. VII, test. XLVII). La Suda, invece, molto meno pittorescamente, riferisce che l'infermità di Epitteto era dovuta ai reumatismi. Certa resta, invece, l'importanza ch'ebbe per Epitteto l'esperienza del rapporto servo-padrone, in un'ap- profondita meditazione sul significato della libertà e su ciò che dipende o no dall'uomo. Entro questi termini va veduto il rapporto Epitteto- Epafrodito. E, forse, anche l'aneddoto della gamba spezzata e della impassibilità di Epitteto tende ad interpretare tale rapporto, non su di un piano personale, ma, prendendo le mosse da un'esperienza con- creta (il fatto d'essere schiavo), su di un piano etico-metafisico. In effetto, sul rapporto necessità-libertà, realtà.che è quella che è, ineso- rabile, da cui dipendiamo - e che per ciò ci è estranea e, qualora la si comprenda, indifferente - e riflessione sulla umana capacità, nella consapevolezza dei nostri limiti e della nostra non libertà, di poter determinare un nostro modo di vita che dipende da noi, qualora si sappia ragionare, non facendosi prendere dai fantasmi, onde tutti siamo ad un tempo servi e padroni, a seconda dell'atteggiamento che assumiamo nei confronti delle cose, su tale rapporto si è svolto e approfondito il pensiero di Epitteto. E, probabilmente, proprio queste prime discussioni, che Epitteto ebbe con Epafrodito (e traccia di esse è, appunto, l'aneddoto della gamba), spinsero Epafrodito a permettere ad Epitteto, ancor prima di concedergli la libertà, di frequentare Mu- sonio Rufo. Senza dubbio, nell'insegnamento di Musonio, Epitteto trovò chiarita gran parte della sua problematica umana. "Quando Musonio parlava - dirà ancora a distanza di tempo Epitteto, - noi, seduti accanto a lui, credevamo davvero, ognuno per sé, che qual- cuno gli avesse parlato· dei nostri difetti: cosf fortemente egli era legato alla realtà, cosf vividamente poneva davanti agli occhi di ciascuno le sue debolezze. ~ una clinica, uomini, la scuola di un filosofo: non si deve uscirne gioiosi, ma pieni di dolori..." (Diatrib~, III, 23, 29-30). E fu a Musonio ch'egli dovette l'impostazione stoica della sua medita- zione, tenendo soprattutto conto da un lato di Zenone di Cizio (l'indagine sul retto pensare che è, ad un tempo, retto vivere), e, dall'altro lato, di Crisippo (il problema del rapporto fato-libertà), che lo ripor- tavano all'altro aspetto del problema logico e del problema della li- bertà (essere se stesso), impostato dai cinico-socratici (Antistene, Ari- stone di Chio, ove.di Aristone non va dimenticata la tesi del giuoco delle parti). Basta scorrere le Diatrib~ per rendersi conto che tra gli au- tori pio citati sono Zenone di Cizio e Crisippo, che di Cleante si citano i versi sul Fato, che non si accenna affatto a Boeto, a Panezio, a Posidonio, che si sorvola su Archedemo e Antipatro, mentre non poche volte è citato Diogene di Sinope, Socrate, Antistene, Platone socratico, Senofonte. Sembra, anzi, che accanto alle discussioni, ai con- sigli, ai dialoghi con i.suoi uditori, suscitati di volta in volta da singole domande, da singole questioni poste sul tappeto (Diatrib~), Epitteto svolgesse nella sua scuola, a Nicopoli, vere e proprie "lezioni," ch'egli cioè leggesse e commentasse testi, di Zenone e particolarmente di Cri- sippo (dice il BonhOffer, Di~ Ethik d~s Stoikers Epicta, p. 2, che il •libro sacro," heiliger Kod~:c, di Epitteto era l'opera di Crisippo,  325   mentre il Bruns, De schola Epicteti, pp. 3 sgg., finemente sottolinea contro la tesi dello Zahn, Der Stoìk_er Epik_tet u. sein V erhaltnis zum Christentum, p. 37, secondo cui Epitteto avrebbe tenuto solo conferenze e dialoghi, che i termini OCVotyLyv6laxe:LV e OCv<iyvCliO"!J.ot, piu volte usati nelle Diatribe per indicare un modo di insegnamento, non sono sinonimi di 3~a3otL, ma significano, mantenendo il loro valore originario, la lezione, la lettura o prelezione e l'esplicazione dei testi). Sulla linea, dunque, dello soicismo cinico piu che su quella dello soicismo in chiave platonica, Epitteto svolse il suo insegnamento in un impegno essenzialmente educativo. Probabilmente sviluppo di un motivo proprio di Musonio, è l'insi- stere di Epitteto sull'educazione come formazione dell'uomo, me- diante l'educazione a sapere correttamente pensare, che lo riporta, appunto, a Zenone di Cizio e a Crisippo. Tutti gli uomini, in quanto animali razionali, hanno una comune ragione, hanno le stesse guise, gli stessi modi, che, formalmente, sono condizioni del comune pen- sare. Tali modi, tali guise o principi, su cui si fondano i discorsi, tali prenozioni {7tpoÀ~IjieLç, prolép,seis) o idee prime, proprie di tutti, e su cui tutti siamo d'accordo, e sulle quali non siamo in contraddizione, sono, in quanto non contraddittorie, rappresentazioni sempre vere. La contraddizione, il falso, e perciò il disaccordo, nascono nell'applica- zione delle "prenozioni" ai casi particolari. Le prenozidni sono comuni a tutti gli uomini, e prenozione non con- traddice a prenozione. Chi di noi in realtà non ammette che il bene è utile, e anche desiderabile, e che in ogni circostanza si deve ricercarlo e seguirlo? Chi di noi non ammette che il giusto è bello e conveniente? Allora, quando sorge la contraddizione? Nell'applicare le prenozioni ai casi particolari: quando uno dice: "Ha agito bene, è valoroso" e l'altro "No, ma è dissennato. Ecco in che modo gli uomini si contraddicono tra loro. Certo Giudei, Siri, Egiziani e Romani, non si contraddicono sul fatto che la santid va sti- mata sopra tutto e perseguita in ogni occasione, ma sulla questione se è conforme a santid o no cibarsi di carne suina... L'educazione filosofica con- siste nell'apprendere ad applicare le prenozioni naturali ai casi particolari in maniera congruente a natura e, per il resto, nel distinguere tra le cose, quelle che dipendono da noi e quelle che non dipendono da noi (Diatr. l, 22, 1-4, 9-10): Né vere né false le rappresentazioni prese a sé (ogni oggetto si determina e assume realtà nella rappresentazione, e, perciò, nel suo esser detto, donde l'importanza di tener sempre conto dei nomi, s{ che l'un nome non evochi altra rappresentazione, e non derivino al discorso la contraddizione, l'equivoco e il paralogismo sofistico), rap- 326    presentazioni anche le nozioni morali, il vero e il falso stanno nel discorso, cioè nel giudizio. D'accordo, sotto questo aspetto, con i cinici (Antistene) e con gli scettici, ma entro i termini della soluzione della logica di Zenone di Cizio (che permette la predicazione: logica pro- posizionate), Epitteto può sostenere che la "ragione" è un "sistema di rappresentazioni diverse" (Diatr., l, 20, 5-6). "Per questo," aggiunge Epitteto, "compito del filosofo, il piu importante e il primo, è sag- giare le rappresentazioni e distinguerle e nessuna accogliere che non sia stata saggiata" (Diatr., l, 20, 7). "Cominciamo con la logica allo stesso modo che, per misurare il grano, cominciamo con l'esaminare la misura. Se, infatti, non determiniamo dapprima che cosa è il moggio, se non determiniamo dapprima che cosa è la bilancia, come potremo piu misurare o pesare qualcosa? E nel nostro caso, se non conosciamo con esattezza e precisione il criterio delle altre cose, criterio grazie al quale le conosciamo, ne potremo conoscere qualcuna con esattezza e precisione? Com'è possibile?... Compito della logica è discernere ed esaminare il resto, e, si potrebbe dire, il misurarlo e pesarlo. Chi l'afferma? Solo Crisippo, Zenone e Cleante? E Antistene non l'afferma? Chi ha scritto che l'osservazione dei termini è l'inizio dell'educazione filosofica? [cfr. Diogene L., VI, 3] E Socrate non l'afferma? Di chi scrive Senofonte [Mem., IV, 6, l] che incominciava dall'osservazione dei termini, quale fosse il significato di ognuno?" (Diatr., l, 17, 6-12). Irragionevole e folle, e, dunque, passionale, schiavo, è chi vien preso, di volta in volta, da questa o da quella r!lppresentazione, chi non sa connetterle, rendendosi conto delle proprie rappresentazioni, e obbiet- tivarle in un discorso vero, dominando cosf le rappresentazioni stesse. Su questa linea, perciò, si capisce come Epitteto ritenga incoerenti anche gli scettici, i quali per negare valore di obbiettività a qualsiasi ragio- namento (tutti, sul piano del vero, possibili perché arbitrari, nessuno piu vero dell'altro, oò3~ (LWOV: Il, 11, 15), ricorrono ad un ragionamento che può convincere della loro tesi in quanto non viene meno alle co- muni condizioni che rendono verace un ragionamento, e gli epicurei, relativamente alla loro tesi che l'uomo è felice qualora viva non so- cialmente, ché, anche essi, per sostenere questo si servono di ciò che vogliono togliere (la socialità, cioè il discorso stesso) (cfr. Il, 20). Le proposizioni vere ed evidenti, sottolinea Epitteto, le adoperano di necessità anche quelli che le contraddicono: anzi la prova piu grande dell'evidenza di un'affermazione.è, si può dire, il fatto che sia trovata necessaria e utilizzata da quello stesso che la contraddice" (Diatr., II, 20, 1). Se formalmente, dunque, vi sono delle condizioni comuni e neces- sarie (prenoziom) che permettono il discorso, il discorso verace e quel discorso che, trovando il suo contenuto nelle rappresental:ioni, connette l'una all'altra le rappresentazioni in un sistema, ove le une e le altre rappresentazioni si articolano in 11:on contraddizione con le condizioni stesse. Sapere pensare, dunque~ e a questo deve avviare l'educazione filosofica, consiste da un lato nel ricercare e sistemare le prenozioni, dall'altro lato nel sapere usare le proprie rappresen- tazioni (xpljar.<; cpcxvrcxat&v ), mediante cui ci liberiamo dalla pas- sione e dalla unilateralità, in una obbiettivazione che ci dà la misura e il valore delle cose, indipendentemente da come esse apparivano nella prima immediata rappresentazione (opinione). La particolare struttura dell'intelletto ci mette.in grado di non ricevere le impronte delle cose, soggiacendo ai sensibili, ma anche di fare una scelta di esse, di sottrarre, di aggiungere, di comporne altre da noi, di passare dalle une alle altre che in qualche modo sono affini (Diatr., I, 6, 10). E se tutti gli animali hanno rappresentazioni, la differenza tra l'animale irrazionale e l'animale razionale (l'uomo) è che mentre l'ani- male irrazionale usa le rappresentazioni che lo attraggono e lo spin- gono ad agire (mangiare, bere, riposare, accoppiarsi, compiere ciascuno quante altre cose rientrano nell'ambito del proprio agire: Diatr., I, 6, 13-14), l'uomo non solo usa le rappresentazioni, ma ha anche la capa- cità di rendersene conto, di comprenderne l'uso, liberandosene e, perciò, sapendo agire razionalmente. Il che non significa, che, dunque, l'uomo non deve mangiare, bere, riposarsi, accoppiarsi e cosi via, ma che deve rendersene conto, collocando ogni rappresentazione e affezione al suo giusto posto, sapendo quello che ciascuna vale. E se l'animale irrazio- nale realizza pienamente sé in quanto vive secondo le sue rappresen- tazioni-passioni, l'uomo realizza sé, vive secondo natura, in quanto comprendendo l'uso delle rappresentazioni, costituisce sé razionalmente e, perciò, comprende sé e gli altri, ponendo sé e gli altri e le cose al loro giusto posto, nòn facendosi prendere piu dall'una che dall'altra cosa, piu dall'uno istinto che dall'altro. Questa è quella ch'Epitteto chiama contemplazione (8-Ec.>p(cx), che consiste, appunto, nella com- prensione, in una visione (&ec.>p(cx) obbiettiv.a di un sistema di rap- presentazioni, che è "intelligenza (1tcxpcxxoÀoò&eau;) e tenore di vita conforme a natura: badate dunque a non morire senza aver contem- plato queste realtà" (Diatr., l, 6, 21-22). ("Filosofare consiste nell'esa- minare e nel considerare le norme" che permettono il pensare verace e per ciò necessario e universale, ·comune a tutti gli esseri razionali: "usare tali norme, una volta conosciute, è dovere dell'uomo dabbene": Diatr., II, 11, 24.) Certo, il modo come si costituiscono le rappresentazioni, com'esse vengono sussunte dalle "prenozioni," se le prenozioni, sia pur for- malmente, siano vere e proprie idee innate, quali siano i modi con cui si articolano correttamente tra di loro le rappresentazioni, tutto questo è appena accennato da Epitteto. Probabilmente, per quel che sappiamo, tali questioni egli le doveva approfondire ed esporre nelle "lezioni," e poiché, per sua stessa testimonianza, sappiamo che leggeva testi di Zenone e di Crisippo, diremmo che tecnicamente Epitteto doveva esporre la logica entro i termini di Antistene-Zenone-Crisippo. D'altra parte ciò che piu interessava Epitteto era, mediante la logica, avviare gli altri ad essere uomini, a non vivere unilateralmente e pas- sionalmente. E questo fu soprattutto il compito delle diatribe. E cos(dalle diatribe non riusciamo a sapere quale fosse la concezione epitte- tiana dell'Universo, se non ch'egli analogicamente, tenendo presente il fatto che la ragione è attività unificatrice che costituisce il tutto in un unico discorso, riprendendo l'ipotesi dello stoicismo antico - ancora qui Zenone e Crisippo - sosteneva che il tutto è come un unico di- scorso, retto da un'unica ragione, s(come fosse una "città sola." Questo mondo è una città sola, come pure la sostanza di cui è stato composto, e cosi una sola è la necessità di un movimento periodico e di un ritirarsi di alcune cose dinanzi alle altre: queste si disperdono, quelle spuntano, queste rimangono nello stesso posto, quelle si muovono. Tutte le cose sono piene di amici, in primo luogo di dèi, poi di uomini intima- mente uniti per natura tra loro: e bisogna che alcuni rimangano insieme tra loro, che altri se ne vadano, che alcuni godano di chi rimane con essi, che gli altri non si addolorino di chi se ne va (Diatr., III, 24, 9-11). Tutte le cose formano un'unità... (Diatr., I, 14, 2). Uomo sono, parte del tutto, come l'ora è parte della giornata. Debbo giungere come l'ora, e, come l'ora, scomparire (Diatr., II, 5, 13). In questo senso Epitteto è molto preciso: uno l'universo nella sua totalità, una la ragion d'essere del tutto e la sua sostanza, il cangia- mento, il nascere e il morire, avvengono entro la stessa unità del tutto. Mietere le spighe significa la distruzione delle spighe, non dell'Universo, si come il cader delle foglie, o il seccarsi del fico e l'appassirsi dell'uva. Si tratta, in tutti questi casi, di mutamenti da uno stato precedente in uno diverso: non distruzione ma ordinata disposizione e amministrazione. Quale è l'andar via dal proprio paese, un piccolo mutamento, tale è la morte, un mutamento piu grande, ma non da ciò che è al presente, verso il nulla, ma verso ciò che al presente non è. "Non sarò piu allora?" No: ma sarai una cosa diversa da quella di cui al presente il mondo ha bisogno. Perché anche tu nascesti non quando hai voluto, ma quando il mondo ebbe bi-  329   sogno (Ditur., III, 24, 91-94). "Vai!" dove? Non in luoghi terrificanti, ma là donde sei venuto, verso amici e parenti, verso gli dementi naturali. Quanto fuoco era in te, ritornerà in fuoco, quanto era terra in terra, quanto aria in aria, quanto acqua in acqua. Non c'è Ade, non Acheronte, non Cocito, non Piriflegetonte, ma tutto è pieno di dèi e di potenze divine. E chi è in grado di riflettere su ciò e guardare il sole, la luna, gli astri e prendere diletto dalla terra e dal mare non è abbandonato piu di quaDJ:o sia senza aiuto... (Diatr., III, 13, 14-16). Dalla constatazione che la ragione è attività unificatrice e sistema di rappresentazioni-oggetti, Epittéto passa a poter sostenere che, dunque, la stessa struttura su cui si titma la realtà è attività unificatrice, me- diante cui tutto ha un suo posto, tutto avviene come deve avvenire, fatalmente, ma, perciò stesso, provvidenzialmente ("di ogni cosa che accade nel mondo è facile lodare la provvidenza, purché si abbiano queste due qualità, la capacità di vedere nel loro insieme i singoli av- venimenti e il sentimento della riconoscenza... Dalla struttura dei ~ari prodotti siamo soliti riconoscere che sono indubbiamente opere di un artista, e non costruite a caso e gli oggetti visibili, e la visione e la ·luce non lo rivelano(... E la particolare struttura dell'universo che ci mette in grado di non ricevere semplicemente le impronte delle cose soggiacendo ai sensibili, ma anche di fare una scelta tra esse... Tutto questo non fa pensare ad un supremo artista?": Diatr., l, 6, 7-11). Tutto, dÙnque, nel suo esserci, nel suo nascere e perire, nella sua sostanza, è come parte di un organismo vivente, ha una sua funzione e una sua ragione. Si capisce, cosi, come Epitteto possa identificare la divinità (ancora una volta intesa come ciò senza di cui nulla è, la condizione del tutto) con la ragione, dandone la stessa definizione: quale è la natura di Dio? è intelligenza, scienza, retta ragione. Solo qua, dunque, assolutamente, èerca l'essenza del bene" (Diatr., II, 8, 2-3). Ora, se la ragione era stata definita "sistema di rappresentazioni diverse," e se le rappresentazioni sono impressioni che in quanto com- prese si costituiscono come abbietti, non in una semplice recezione delle impronte, ma mediante l'intelletto in una scelta, sottrazione, somma, composizione di esse, Dio, in quanto ragione e intelligenza, si costituisce come "sistema di oggetti diversi," e perciò come attività unificatrice che sceglie, somma, sottrae, compone, per cui tutto deriva da lui, tutto in lui ha la sua funzione, e tanto piu l'uomo che scopre sé come ragione, come capacità non solo di usare le rappresentazioni, ma di saperle usare ("ti abbiamo dato una parte di noi," fa dire Epitteto a Zeus, "questa facoltà impulsiva e repulsiva, desiderativa e avversativa, in una parola la facoltà che sa usare le rappresentazioni... 330    Solo quel che è piu importante di tutto, e che domina il resto, gli dèi l'hanno fatto dipendere da noi, e, cioè, il retto uso delle rappresenta- zioni:. le altre cose non le hanno fatte dipendere da noi": Diatr., l, l, 12 e 6-8). Qui, sembra, la chiave per intendere, relativamente all'uomo, da un lato la concezione di Epitteto su ciò che non dipende e su ciò che dipende da noi (dr. particolarmente Diatribe, I, l e Manuale, 1), dal- l'altro lato sul fato, sul tutto, che è quello che è, e sulla libertà; sul non comprendere, sull'essere presi dai dati, dalle impressioni, asistemati- camente (irrazionalmente), per cui siamo schiavi, soggetti, e, non in- tendendo, non sapendo usare, scegliere le rappresentazioni, applicare correttamente le prenozioni, siamo scelti; e sulla comprensione che è libertà, liberazione dall'errore, accantonamento di ciò che non di- pende da noi, avvicinamento a Dio, scelta. E se pur tutto resta quello che è, se pur ciascuno resta quello che è, l'uomo, almeno, per sua natura, in quanto •ragione," pur rimanendo quello che è, può essere scelto o scegliere, può essere padrone o schiavo: "quel che è piu importante di tutto, e che domina il resto, gli dèi l'hanno fatto dipendere da· noi, e, cioè, il retto uso delle rappresentazioni" (Diatr., I, l, 6-8); e tale è il fine dell'uomo: l'uomo deve terminare là dove termina nei nostri riguardi la natura, ed essa termina nella teoria e nell'intelligenza e in un tenore divita conforme alla natura" (Diatr., 1; 6, 20-21}. Bada, dunque, alle rappresentazioni, vigila su di esse. Non è poco ciò che va custodito: si tratta del rispetto, della lealtà, della tranquillità, d'una condizione d'animo scevra da passioni, da dolori, da timori, da turbamenti, in breve, della libertà... Sono libero e amico di Dio, s{ che gli obbedisco spontaneamente. Niente di tutto il resto devo acquistare, non il corpo, non gli averi, non le cariche, non la reputazione, in una parola, niente. E Dio, poi, neppure vuole che io l'acquisti. Se voleva, quei beni li avrebbe fatti per me: ora, invece, non li ha fatti... Custodisci il bene che è tuo in ogni occasione: il bene di tutto il resto, secondo quanto t'è concesso, nei limiti voluti dalla ragione, e di questo solo contèntati. Se no, sarai infelice, di- sgraziato, soggetto a impedimenti e a ostacoli... (Diatr., IV, 3, 7-12). Epitteto prende le mosse da una constatazione: se da un lato è vero che l'uomo è un complesso di rapprc.sentazioni, dall'altro lato è altrettanto vero che l'uomo ragionando scopre sé come ràgione, che ha in se stesso, nel suo stesso svolgersi, il criterio della propria vali- dità - "la sola facoltà raziocinante, prendendo se stessa a oggetto di studio, comprende se stessa, la natura, la potenza, il valore che ha venendo in noi": Diatr., I, l, 3-4, - e scopre sé come capacità di ob- biettivare e articolare e sistemare le sue stesse rappresentazioni; finché  331   è solo un insieme disordinato di rappresentazioni-impressioni, l'uomo è passivo e dominato; allorché, ragionando, ordina e sistema è egli a dominare, rendendosi conto del valore di ogni cosa, che tutto ha nel discorso un suo posto, che alcune cose sono in nostro dominio e altre no. Le cose sono di due maniere; alcune in poter nostro, altre no. Sono in poter nostro l'opinione, il movimento dell'animo, l'appetizione, l'avver- sione, in breve tutte quelle cose che sono nostri propri atti. Non sono in poter nostro il corpo, gli averi, la riputazione, i magistrati, e in breve quelle cose che non sono nostri atti. Le cose poste in nostro potere sono di natura libere, non possono essere impedite né attraversate. Quelle altre sono deboli, schiave, sottoposte a ricevere impedimento, e per ultimo sono cose altrui. Ricordati che se tu reputerai per libere quelle cose eh sono di natura schiave, e per proprie quelle che sono altrui, t'interverrà di trovare quando un osta- colo quando un altro, essere affiitto, turbato, dolerti degli uomini e degli dèi... Per tanto, a ciascuna apparenza che ti occorrerà nella vita, innanzi a ogni altra cosa avvezzati a dire: questa è un'apparenza, e non è punto quello che mostra di essere. Di poi togli· ad esaminarla e farne saggio con quegli espedienti chè tu sai, e prima e massimamente vedere se appartiene alle cose che sono in nostra facoltà, ovvero a quelle che non sono... (Manuale, 1). Gli uomini sono agitati e turbati non dalle cose, ma dalle opinioni ch'essi hanno delle cose... t da uomo, non addottrinato nella filo- sofia l'addossare agli altri la colpa dei travagli suoi e propri, da mezzo addottrinato l'addossarla a se stesso, da addottrinato non darla né a se stesso né agli altri (Manuale, IV). Evidente è, per Epitteto, che tale duplice modo d'essere dell'uomo, irrazionale e razionale, dominato e dominante, che tale situazione tragica dell'uomo - "cosa altro sono le tragedie se non la narrazione in verso epico di quel che provano uomini affascinati dagli oggetti esterni? Diatr., I, 4, 26- è dovuta, per natura- ed è un'esperienza- alla possibilità stessa dell'uomo di voler ragionare oppure no, ad un'opzione dell'uomo, possibile certo solo allorché l'uomo si rende conto ch'egli è ragione, cioè giudizio (ma è, appunto, in tale rendersi conto, che non è una deduzione, che consiste la libertà; di qui per Epitteto l'importanza dell'insegnamento della logica e della dialettica e la·sua repugnanza contro coloro che imparano filosofia per ornamento o per professione). In altri termini, ogni uomo, in quanto scopre sé come ragione, può scegliere tra l'essere schiavo o l'essere padrone, tra vivere passionalmente (contro natura) o vivere secondo ragione, in un'armonia e giudizio delle passioni stesse (secondo natura). In tale senso Epitteto sostiene che la stessa ragione, in quanto discorso è or- dine, è scelta, o, se vogliamo, volontà (7tpo1X(p&atc;, proairesis), si come, analogicamente posto Dio come ragione del tutto, Dio è volontà in 332    quanto ragione, cwe m quanto giudizio, e non come persona (libertà assoluta) in senso cristiano, si come talvolta si è voluta interpretare la divinità epittetiana. È il tuo giudizio che ti determina necessariamente, e cioè la scelta (pro- airest) che forza la proairesi. Se Dio avesse assoggettato a impedimento o necessità, o da parte sua o da parte di altri, il frammento del suo essere che ha staccato da sé per dare a noi, non sarebbe piu Dio né piu si prenderebbe cura di noi, come deve... Se vuoi sei libero; se vuoi, non bia- simerai alcuno, non accuserai alcuno, tutto accadrà secondo la volontà tua e, insieme, di Dio (Diatr., l, 17, 26-28). Nessuno può credere che una cosa gli sia utile senza sceglierla? No. E com'è che [Medea] dice: "SI, bene intendo quali mali sto per fare, ma il mio corruccio supera la mia ragione"? (Euripide, Medea, 1078-79]. Perché proprio indulgere al suo corruccio e vendicarsi dello sposo ella ritiene piu utile che salvare i figli. Ma si è in- gannata! Mostrale chiaramente che si è ingannata e non lo farà: ma fino a quando non glielo mostri, che cosa può seguire se non le apparenze? Niente. Perché allora irritarti con lei, se si è sviata, l'infelice... (Diatr., I, 28, 6-8). L'essenza del bene ["nell'intelligenza, nella scienza, nella retta ragione... cerca l'essenza del bene": Diatr., II, 8, 2-3] consiste in una qual certa proairesi [in un certo qual modo di atteggiarsi], il male in una qual certa proairesi. Che sono, allora, le cose esterne? Oggetti coi quali venendo a contatto la persona morale realizzerà il proprio bene o il ·proprio male. Come realizzerà il bene? Se non dà importanza agli oggetti. Perché, se i giudizi sugli oggetti sono retti, fanno la persona morale buona, se storti e stravolti, cattiva (Diatr., l, 29, 1-3). La libertà e la scelta o volontà di Epitteto non è né arbitrio né li- bertà in senso assoluto, ma atto razionale che in quanto tale, in quanto giudizio e obbiettivamente, è, appunto, proairesis. D'altra parte, proprio il fatto che l'uomo può scoprire sé come ragione, che, a sua volta, tale si scopre e si giudica ragionando (cfr. Diatr., l, l, 3-4), fa si che si possa porre come in atto una ragione che ci trascende dal di dentro, sempre in atto compiuta in se stessa (Dio). Perfetto dunque Dio in quanto ragione, la ragione umana, aspetto o frammento di quella divina, non è perfetta come la divina, per cui mentre tutto è in possesso di Dio, non tutto è 'in possesso dell'uomo, se non il rendersi ragione, il comprendere ("si deve organizzare il meglio possibile quel che dipende da noi e di tutte le altre cose usare come esige la loro natura; come esige la loro natura? come Dio vuole": Diatr., l, l, 17), che, distaccando l'uomo dalle sue stesse rappresentazioni immediate e unilaterali, gli fa intendere e valutare da un lato ciò che è in suo possesso (il pensare che è ad un tempo scelta e volontà) e, dall'altro lato, ciò che non è in suo possesso (il nascere e il morire, avere questo o quel corpo, esser nato maschio o femmina, da questi o da quei genitori, servo o libero, storpio o diritto, in questo secolo o in altro, ricco o povero e cos(via). E allora, quelle ste~se cose che non sono in nostro possesso, a cui tendiamo finché re- stano rappresentazioni asistemate, in libertà (alogiéhe), onde appaiono beni, per cui le desideriamo o da esse rifuggiamo (passioni), nell'atto che le intendiamo divengono mali se desiderate, ma, in quanto com- prese per ciò che sono, né beni né mali (indifferentt). Questo, sembra, il significato, riallacciandosi a Zenone, a Crisippo, ad Aristone di Chio, dell'aspetto "cinico" dello "stoicismo" di Epit- teto. Va qui, d'altra parte, tenuta presente l'affermazione di Giovenale, secondo cui la diffidenza, in quest'epoca, tra cinicj e stoici, consiste in una differenza di classe sociale, in una distinzione di "tunica" piu che di modo di atteggiarsi: "Stoica dogmata... a Cynicis tunica distantia" (Satire, XIII, 121-122); e va tenuto presente un capitolo (22) del III libro delle Diatribe, in cui si delinea quella che dev'essere la figura ideale del saggio, del cinico (dell'uomo che per nascita non ha nessuna posizione sociale o che riconosce che la sua unica posizic;>ne è appunto quella del "saggio"), ma non interpretato secondo il clichl del cinico giullare, di quelle molte figurine di filosofi popolari di cui parla efficacemente Dione Crisostomo ("dei cosiddetti Cinici v'è gran numero nella città;... ai crocevia, negli angiporti, all'ingresso dei templi, questi uomini radunano e traviano schiavi e marinai ed altra simile gente, snocciolando scherzi e grande varietà di pettegolezzi e di arguzie volgari: in realtà essi non fanno alcun bene, ma gran male•: Dione, Oraz., 32, 10). In effetto, il "cinico" che ha presente Epitteto (forse Demetrio: dr. sopra) è lo stoico di stretta osservanza, l'uomo che, consapevole di non avere una sua qual certa. posizione sociale - come, ad esempio, fu il caso di Epitteto, - realizza veramente se stesso, ché altro egli non possiede, in quanto mostra agli altri, anche col suo modo esteriore di vivere, che è un simbolo (privo di tutti quelli che si dicono beni: casa, famiglia, affetti), cosa significa essere libero, ai ricchi e ai poveri, ai potenti e ai deboli, indicando a tutti, e in ciò consiste la sua parte - il che non significa che ~utti debbano assumere la·sua parte,- che tutti, essendo ciascuno a suo modo, possono essere liberi in quanto accettino, comprendendola, la propria parte. Nella comprensione razionale che tutto - uomini e c~e - è quale dev'essere, ciascuno al suo posto, il cinico non propende piu per una cosa o una persona piu di un'altra, onde, sotto tale prospettiva, tutto è per il cinico indifferente, tutto e tutti vanno né condannati né esaltati, ma compresi. Sotto questa prospettiva si vede bene come Epitteto potesse dire. Abbi cura di ricordare a te medesimo il vero essere di ciascheduna cosa che ti diletta o che tu ami o che ti serve ad alcun uso, incominciando dalle piu piccole. Se tu ami una pentola, dirai a te stesso: io amo una pentola; perciocché se ella si spezzerà, tu non avrai però l'animo alterato. Se tu bacerai per avventura un tuo figliuolino o la moglie, dirai teco stesso: io bacio un mortale; acciocché morendoti quella donna o· quel fanciullino, tu non abbi però a turbarti (Man., III). Chiunque avverte in maniera evi- dente che per l'uomo misura di ogni azione è l'apparenza... non si adirerà con nessuno, non si irriterà con nessuno, non ingiurierà.nessuno, non bià- simerà nessuno, non odierà né offenderà nessuno (Diatr., I, 28, 10). Chi 'vuole divenire cinico non basta si metta la "divisa" del cinico (mantello corto, bisaccia e mazza), ma deve "purificare la parte ege- monica dell'anima e disporre una tale linea di condotta: ora la ma- teria con cui ho da fare è la mia mente, come il falegname ha il legno, come il calzolaio ha il cuoio: mio compito è il retto uso delle rappresentazioni. Il povero corpo non ha nessun rapporto con me: le sue parti neppure. La morte? Venga quando vuole, sia di tutto il corpo, sia di una parte. L'esilio? E dove mi possono cacciare? Fuori del mondo, no davvero. E dovunque andrò H c'è il sole, H la luna, H le stelle, i sogni, i presagi, i colloqui con gli dèi. Però, pur avendo raggiunto tale perfezione, il vero cinico non se ne può con- tentare, ma deve sapere d'essere stato inviato da Dio, in qualità di messaggero, _per mostrare agli uomini, che, in rapporto al bene e al male si ingannano e cercano l'essenza del bene e del male là dove non è, e non badano dove è... In realtà il cinico è esploratore di cosa è amico agli uomini, di cosa nemico, e, quindi, condotta un'esplorazione accurata, deve venire ad annunciare la veri~, senza essere sbigottito dalla paura... Perciò, all'occorrenza, egli deve potersi levare in piedi e, salito sulla scena tragica, pronunciare le parole di Socrate [Platone, Clitofonte, 407 a-h]: 'Ohimé, uomini, dove vi lasciate trascinare?'; che fate, disgraziati? V'aggirate, come ciechi, di su e di giu; v'incam- minate per un'altra strada dopo avere abbandonato la vera, cercate altrove ciò che rasserena e rende felici, dove non esiste, e non prestate fede a un altro che ve lo mostra. Perché cercarlo nelle cose esterne? Dov'è che siamo liberi? Nel giudizio. Coltivate allora questa cosa, prendetevi cura di essa, cercate qui il bene. E come è possibile che viva sereno chi non possiede niente, chi è nudo, senza casa, senza focolare, sordido, senza schiavi, senza città? Ecco, Dio vi ha mandato uno che, a fatti, ve ne dimostri la possibilità. 'Guardatemi: sono senza casa, senza città, senza beni, senza schiavi: il mio giaciglio è la terra: non ho moglie, non figli, non una casetta, ma la terra soltanto e il  335   cielo e un solo mantelletto. Eppure, che mi manca? Non sono senza dolori? non sono senza timori? Non sono libero? Quando uno di voi mi ha visto fallire nei miei desideri, quando cadere nelle mie avver- sioni? Quando ho biasimato Dio o uomo, quando ho rimproverato qualcuno? Forse uno di voi mi ha visto accigliato? Come tratto quelli che vi mettono paura o meraviglia? Non come schiavi? Chi, veden- domi, non ritiene di vedere il suo re e il suo padrone?' Ecco le parole degne di un cinico, eccone il carattere, eccone il proposito (Diatr., III, 22, 19-49). Se la delineazione dell'atteggiamento del cinico è la delineazione di una figura ideale di uomo, che giuoca la sua parte, compiendo il suo dovere, ciascuno, ·ognuno rimanendo al posto che natura gli ha dato, può, entro i suoi limiti, attuare se stesso, compiere il suo dovere, non unilateralmente (nell'esclusiva, ad esempio, maniera cinica), per cui su di un piano piu largo, l'aspetto cinico di Epitteto si risolve di nuovo entro i termini della morale e della misura stoiche. Deriva di qui un altro motivo fondamentale del pensiero di Epitteto, quello della libertà, su cui, accanto al motivo del saper usare le rappresenta- zioni e al motivo della conseguente distinzione tra ciò che dipende da noi e ciò che non dipende, Epitteto ha piu insistito (nelle Diatribe il termine "libero" e il termine "libertà" sono usati ben 130 volte: cfr. Oldfather, Epiktctus, I, p. XVII), in una precisa determinazione della libertà come libertà da e non COII)e libertà di. Mediante la logica e l'appello ad esercitarsi nello studio di come funziona la ragione ("ai piu sfugge che Io studio dei ragionamenti amfibologici e ipotetici, e ancora di quelli che procedono mediante in- terrogazione, e, in una parola, di tutti i ragionamenti ·di questa ma- niera, è in relazione al dovere": Diatr., I, 7, 1), da un lato la raziona- lità scopre il tutto come un ordinamento e un sistema di rappresenta- zioni e, dall'altro lato, la razionalità, in quanto ci trascende dal di dentro, si pone come ordine e sistema del tutto, onde tutto è come deve essere, tutto è parte in funzione di un fine che è la stessa razio- nalità (la divinità). Posto, dunque, che in questo tutto l'uomo, sco- prendo sé come razionalità, e, perciò, come figlio di Dio, avente sempre in sé un aspetto della divinità, può scegliere tra il vivere preso dalle sue rappresentazioni e passioni, indiscriminatamente, e il vivere se- condo la sua stessa natura (che è, dunque, un dovere), cioè razional- mente, ne deriva la doppia considerazione epittetiana della realtà e della condizione umana. Se uno riuscisse a compenetrarsi in modo convenìente di questo pensiero, che veniamo da Dio tutti, e tra i primi, e che Dio ~ padre degli uomini e degli dèi, credo che nulla di ignobile o di meschino sarà desiderato da lui... Ma poiché al momento della generazione sono mescolati insieme questi due elementi, il corpo comune con gli animali, la ragione e conoscenza comune con gli dèi, altri inclinano a quella parentela infelice e mortale, pochi a questa divina e beata... Che sono, infine? Un misero omuncolo e miserabile è il mio corpo. Ma pur essendo miserabile hai un elemento superiore al miserabile corpo. Perché, dunque, allontanando tal cosa ti at- tacchi a questo? (Diatr., I, 3, l, 3-6). Non sai che piccola parte sei rispetto al tutto? Questo secondo il corpo; mentre secondo la ragione non sei peg- giore né migliore degli dèi: che la grandezza della ragione non si misura in lunghezza né in profondità, ma in pensieri. Non vuoi, dunque, dove sei uguale agli dèi, ivi porre il bene? (Diatr., I, 12, 26). Guarda chi sei. Innanzi tutto un uomo, cioè· un uomo che non possiede niente piu impor- tante della proairesi, ma a lei subordina il resto, e tale volontà possiede libera da schiavitU e da soggezione. Osserva, dunque, da chi ti distingui per la ragione.·Ti distingui dalle bestie selvagge, ti distingui dalle pecore. Non solo, ma sei cittadino del mondo e parte di questo mondo, non delle ultime ma delle prime, perché puoi comprendere il governo divino e riflettere sulle conseguenze. Quale allora è la funzione del cittadino? Di non avere nessun interesse personale, di non prendere decisioni su nessuna cosa quasi fosse isolato, bensf di agire come la mano o il piede, che se ragionassero e com- prendessero l'ordine naturale, giammai altrimenti si muoverebbero o desi- dererebbero o si contrapporrebbero al tutto. Per ciò ben dicono i filosofi che se l'uo~o virtuoso prevedesse il futuro, coopererebbe alle malattie, alla morte, alle mutilazioni, perché si renderebbe conto che tutto questo gli è stato asse- gnato dall'ordinamento universale e che è piu importante il tutto della parte, la città del cittadino... (Diatr., II, 10, 1-5). Di fatto l'uomo, come tutte le cose, come ogni avvenimento è quello che è, né buono né cattivo; ognuno, come ogni cosa, nell'economia dell'Universo, nel giudizio divino, riceve una sua parte, piccola o grande che sia, è passivo, è apparentemente un'isola abbandonata a se stessa, tirato di qua e di là dalle passioni, per cui tutto è vano, tutto, sotto questa prospettiva, disprezzabile (in tale rappresentazione della realtà e dell'uomo il linguaggio di Epitteto è senza dubbio quello cinico; tutto è già dato, nulla è da fare, onde cade ogni speranza, la capacità di sperare che le cose possano essere diverse da quello che sono, libere; mondo senza poesia, donde la tristitia stoica). Solo che, per altro verso, se attraverso la ragione, la cui scoperta è non una deduzione, ma un'esperienza viva che si rivela mediante lo stesso ragionare, l'uomo ha la capacità di giudicare, cioè di scegliere, ordi- nando e obbiettivando, cogliendo ogni rappresentazione-oggetto per quella che è, l'uomo si libera dalle passioni, dall'errore, dall'assumere una rappresentazione per quello ch'essa non è. Sotto quest'altra prospettiva, quella stessa realtà che fino a che resta estranea, incompresa, è male, disordinata, irrazionale, si trasfigura in una realtà buona, desiderabile, amata, in un amore ordinato, nell'unico amore per l'unità di Dio, rimanendo perciò indifferenti tutte quelle rappresentazioni" che condurrebbero ad una vita unilaterale, dominata da questa o da quella rappresentazione (interessi esclusivi per gli onori, per la salute, il corpo, per la vita dei nostri cari e degli altri uomini, dimenticando ch'essi sono mortali, sf come rompibile è una pentola di coccio, e cosf via), che, appunto, per ciò, seguitano a non dipendere da noi. In realtà, per Epitteto non si tratta tanto di due modi di essere, ma di due modi prospettici di considerare la stessa realtà. Nel primo caso, pur facendo e considerando le stesse cose siamo determinati, agiamo fatalmente, siamo agiti (irrazionalità); nel secondo caso, pur facendo e considerando le stesse cose, siamo, non subiamo. Nel primo caso non ci solleviamo dalla vita di cose tra cose, nel secondo caso, obbiettando e scegliendo, giudicando, ci solleviamo alla vita razionale, alla vita divina. Da un lato tutto è necessario, dall'altro lato, pur rimanendo tutto necessario abbiamo la possibilità (e in questa possibilità consiste la libertà) di valutare quella. stessa necessità, per cui non la subiamo, ma riconoscendola la vogliamo. "Tu non devi cercare che le cose pro- cedano a modo tuo, ma volere che vadano cosf come fanno, e bene starà" (Manuale, VIII). "Se vuoi, sei libero; se vuoi non biasimerai alcuno, non accuserai alcuno, tutto accadrà secondo la volontà tua e, insieme, di Dio" (Diatr., l, 17, 29). Si capisce allora come, sotto que- sto aspetto, per Epitteto ragionare sia volere, libera accettazione di una realtà che è quella che è, voluta dalla stessa razionalità in cui consiste la divinità (sulla libertà in particolare si confronti la piu lunga delle diatribe, la prima del IV libro). Gli uomini sono agitati e turbati non dalle cose, ma dalle.opinioni che hanno delle cose (Man., IV). L'essere zoppo s{ è impaccio della gamba, ma non della disposizione dell'animo (Man., IX). Quando tu vedi qualcuno che pianga o per la morte di alcun suo congiunto o per la lontananza di un figliuolo o perdita della roba, guarda che l'apparenza non ti trasporti in guisa che tu pensi che questo tale, a cagione delle cose estrinseche, patisca alcun male vero. Ma tu distinguerai teco stesso subitamente e dirai: questo è tribolato e afflitto, non dall'accaduto, poiché questo medesimo non dà niuna tribolazione a un altro, ma dal concetto ch'egli ha dell'accaduto (Man., XVI). Ricordati che colui che rampogna o percuote, non offende esso, ma l'opinione che si ha che ·questi cotali offendano. Sicché quando tu ti senti montare la collera contro uno, pensa che la tua propria immagi- nazione è quella che ti sprona all'ira, e non altri (Man., XX). Sopporta e astienti (framm. X, in Aulo Gellio, Noct. Att., XVII, 19). 338    Si chiarisce cosi la dottrina epittetiana dell’apparenza (fantasia) (cfr. Man., 1), mediante cui Epitteto sottolinea cosa significhi la distin- zione tra ciò che dipende e ciò che non dipende da noi. In altri ter- mini, la nostra lnancanza di libertà dipende da una comprensione inadeguata delle cose, da ricondursi ad una nostra comprensione imprecisa. Possiamo avere una cognizione delle cose che è una cognizione fantastica, apparente. Se, per esempio, si stabilisce un errato rapporto causale, la nostra stessa attività, tesa a ottenere certe risonanze, in rela- zione a quell'apparenza si svolgerà in maniera errata e infelice (cfr., ad esempio, Diatribe, IV, l, 43-50), per un errore che è un errore pro- spettico. Si vede bene, di qui, come la distinzione tra esteriorità (ciò che non dipende da noi) è interiorità (pensiero, volontà e cosi via) consiste nel non comprendere e nel comprendere. Se, come sostiene Epitteto, il vero sta nel giudizio, in una scelta per cui tutto si costi- tuisce in un sistema di rappresentazioni, l'essere delle cose, l'essere di tutto è nel giudizio, e quindi nello stesso discorso, in noi, e, qui, esten- sivamente e per analogia, in Dio. L'esteriorità, ciò che non dipende da noi, sta nell'incomprensione, in qualcosa che resta per sé, sganciato, no~ giudicato (irrazionale) e che, dunque, ci domina. Non si tratta di due realtà, ma: di due nostri modi diversi di atteggiarsi nei confronti della stessa realtà. Le cose comprese, proprio in quanto com- prese, divengono nostre, anche se, appunto perché comprese, ci ren- diamo conto che non dipendono da noi (l'avere questo o quel corpo, l'essere bello o brutto, maschio o femmina, ecc.). E allora, compren- dendo, sappiamo anche quale, nella grande commedia del tutto il cui supremo regista è Dio, è la nostra parte (grande o piccola), realiz- zando bene la quale, tutti, ciascuno per ciò che gli compete (ed in questo consiste la nostra libertà: cfr. Diatr., IV, 1), siamo uguali, schiavi o re, uomini o donne, grandi o piccoli uomini, socraticamente, rendendoci con ciò davvero utili agli altri e a sé. E cosi quanto piu si ama se stessi, cioè la razionalità, tanto piu si amano gli altri, si vuole sé e gli altri come fini. Sovvengati che tu non sei qui altro che attore di un dramma, il quale sarà breve o lungo, secondo la volontà del poeta. E se a costui piace che tu rappresenti la persona di un medico, studia di rappresentarla acconcia- mente. Il simile se ti è assegnata la persona di uno zoppo, di un magistrato, di un uomo comune. Atteso che a te si aspetta solamente di rappresentare bene quella qual si sia persona che ti è destinata: lo eleggerla si appartiene ad un altro (Man., XVII). Se il pilota ti chiama, corri tosto alla nave senza voltarti, lasciata stare ogni cosa (Man., VII).  339   Questi i motivi fondamentali del pensiero di Epitteto (e questi sono i motivi che in breve, in forma gnomica, Arriano ha riepilogato e sistemato nel Manuale, riprendendoli dall'opera maggiore, le Dia- tribe). Di qui, d'altra parte, l'importanza data da Epitteto all'insegna- mento, inteso come insegnamento a· saper ragionare, mediante cui liberare gli uomini dal loro vivere da schiavi, delineando, infine, un vero e proprio processo attraverso il quale, dallo studio della logica e dalla scoperta del modo di funzionare della ragione, si giunga con essa - in cui, dunque sta il bene - a quella misura e dominio delle passioni in cui consiste l'uomo verace, simile a Dio (cfr. Diatr., Il, 17, 29-34; III, 2; 12; 26, 14; IV, 10, 13; l, 12, 24 sgg.). Innanzi tutto, per Epitteto, la funzione della ragione è di calcolare i nostr.i desideri, s(da distinguere quelli che davvero lo sono, in quanto dipendono da noi, da quelli che ci attirano in quanto abbiamo calco- lato male, scambiando ciò che non dipende da noi per ciò che dipende da noi (in realtà, questi ultimi, compresi, cessano di essere desideri, divenendo i loro oggetti indifferenti, ché nessuna cosa la quale non dipenda da noi, che sia, cl1tpoadpnov - aproaireton, - può essere de- siderata). In secondo luogo, obbiettivati i desideri, che consistono nel- l'esigenza di realizzare ciò che dipende da noi, la ragione, mediante l'educazione filosofica, ordinando e scegliendo, determina quale delle nostre inclinazioni (6p!L-IJ), o delle nostre repulsioni '(clfOP!LiJ) è con- veniente o meno; indicando di volta in volta ciò che conviene, quali sono perciò i nostri doveri (xoc.&;;xov), onde sappiamo come agire, come realizzare bene la nostra parte, sia nei confronti degli altri che di se stessi ("da uomo pio, da figlio, da fratello, da padre, da citta- dino": Diatr., III, 2, 4). In terzo luogo, infine, la ragione sarà capace, dominati i desideri o le avversioni, le inclinazioni o le repulsioni, indi- rizzando s{ che ciascuno giuochi come deve la propria parte, di vedere sé come sistema di "rappresentazioni," in una comprensione del tutto, che è visione (teoria) pacata del tutto; in una accettazione in cui con- siste la piu profonda religiosità (in tale tripartizione della filosofia il maggiore storico di Epitteto, il Bonhoffer, ha veduto l'aspetto piu originale di lui, che non si trova né negli stoici antecedenti, né in Musonio, né nei cinici: Epictet u. die Stoa, p. 27; cfr. anche Souilhé cit., pp. LII sgg.). Non dovremmo, mèntre vanghiamo, o ariamo, o JÌlangiamo, cantare l'inno a Dio? "Grande è Dio, percM ci ha largito strumenti adatti a lavo- rare la terra: grande è Dio, perché ci ha dato le mani, la gola, il '\lentre, perché ci fa crescere senza che ce ne accorgiamo, perché ci fa respirare mentre dormiamo." Questo bisognerebbe cantare in ogni occasione e can- 340    tare l'inno piu sublime e piu divino che, cioè, egli ci ha dato la facoltà di comprendere tali cose e la via retta per usarle. Ebbene? Poiché la maggior parte di voi è cieca, non era necessario che ci fosse chi tenesse questo posto e in nome di tutti cantasse l'inno a Dio? E che cos'altro posso io, vecchio storpio, se non inneggiare a Dio?· se fossi un usignolo, compirei la mia parte di usignolo, se cigno, quella di cigno. E invece sono un essere ragionevole: devo inneggiare a Dio. Ecco la mia parte: io la compio e non diserto il mio posto, per quanto mi è concesso, e anche voi esorto a cantare questo stesso canto (Diatr., I, 16, 16-21). - Mi basta poter levare le mani a Dio e dirgli: "le facoltà che ho ricevuto da te per comprendere il tuo governo e seguirlo non le ho trascurate: non ti ho disonorato, per parte mia. Guarda come ho usato i sensi, come le prenozioni. Ti ho mai biasimato? sono stato scontento di qualche avvenimento o l'ho desiderato altrimenti? ho mancato alle mie relazioni con gli altri? Ti ringrazio di avermi fatto na- scere, ti ringrazio di quanto mi hai dato: il tempo che ho usato le tue cose mi basta. Riprendile e assegnami il posto che vuoi: perché erano tutte tue. tu me le hai date" (Diatr., IV, 10, 14-16). Epitteto mori nel 125-130 circa, a Nicopoli, da cui non si era piu mosso dal giorno del suo arrivo, esiliato da Roma (94). A Nicopoli, ove visse_ solo, tutto dedito all'insegnamento, egli godette di gran fama, rispettato e onorato da tutti. Solamente da vecchio avrebbe preso con sé una donna, perché lo aiutasse ad all~vare un orfano che aveva adot- tato (Simplicio, In Epicteti Enchiridion, Schenkl, test. LII). Che il suo insegnamento sia stato un insegnamento di vita - basato, certo, su di una precisa concezione - e non un insegnamento strettamente scolastico, è dimostrato anche dal fatto che dei suoi moltissimi disce- poli e ascoltatori - a parte Arriano che fu con lui per molti anni a Nicopoli, e che probabilmente pubblicò le Diatribe e il Manuale subito dopo la morte di Epitteto - nessuno fece professione di filosofo, se non un certo Jerocle stoico, autore di un'Etica e di Filosofumena (se ne vedano i frammenti in Stobeo, Ed.). Va, d'altra parte, osservato che dopo l'uccisione (96 d.C.) di Domiziano, la politica dei principi, relativa al fondamento del potere dell'Impero, venne cangiando, tanto che si delineò la possibilità di assumere a fondamento ideologico la tesi politica dello stoicismo, sia sul piano politico sia sul piano piu strettamente giuridico. Già questo vediamo con l'imperatore Cocceio Nerva (96-98), il quale cercò di riaccattivarsi il Senato e con i suoi successori Traiano (98-117) e Adriano (117-136), che con l'istituzione ufficiale del Consilium principis svuotò gran parte del potere del Senato, avviando l'Impero ad una vera e propria unità statale, non piu esclusivamente personale. Sembra perciò non un caso che anche l'imperatore Adriano si sia recato a Nicopoli a chiedere consigli al celebre "saggio" Epitteto (cfr. Spartiano, Vita Hadriani, 16, 10).Difficile è dire se Dione di Prusa 1 in Bitinia, detto dall"' aurea bocca" (crisostomo), nato nel 40 circa, morto poco dopo il 114, sia stato uno stoico, un cinico, un platonico. Egli fu, senza dubbio, un grande retore, il primo e, forse, il maggior rappresentante di quella corrente che Filostrato di Lemno definirà neo-sofistica. Uomo di cul- tura, aggiornato nelle varie correnti di pensiero del suo tempo, seppe, di volta in volta, sfruttare i motivi piu vari e le piu varie tesi, in fun- zione di un suo principio, che chiaramente traspare da tutte le sue Orazioni: la cultura come elevazione morale, attraverso cui in un con- sapevole distacco dalle "verità," -in una misura faticosamente raggiunta, e perciò in una comprensione delle "ragioni" umane, determinare nella vita sociale e nella stessa pratica di governo le norme riconosciute come virtu nella vita privata: quella misura, appunto, che, di volta l Nato a Prosa, in Bitinia, nel 40 d. C., ricco e intelligente, colto in filosofia e in retorica, Dione, detto per la sua eloquenza "crisostomo" (dall'aurea bocca), venne presto a Roma. Esiliato da Roma, su decreto di Domiziano, nell'82, proibitogli anche il sog· giorno in Bitinia, condusse fino al 97, morte di Domiziano, vita oscura e peregrina. Reintegrato nei suoi diritti, Dione dapprima soggiornò nella sua patria, poi tornò in Roma. Fu in rappono e contatto diretto con Traiano e con gli uomini della sua eone, servendo come meglio poté gl'interessi di Prosa, ove piu e piu volte si recò. Nel 110-111, come risulta da una lettera di Plinio il Giovane a Traiano (ad Traian., 81), Dione era a Prosa. Poi ne sappiamo piu niente. Mori, probaoilmente, cittadino romano, con il cognome di Cocceiano, nel 114. Tutta la sua opera è raccolta in un insieme di 80 orazioni (l.6yoL), comprendente discorsi realmente pronunziati, trattati morali, filosofici, politici, in forma di discorsi. Fuori della raccolta rimangono un'opera Sui Geti, una In favore di Omero contro Plalone, e due scritti di critica: Contro i filosofi e A Musonio. Particolarmente interes- santi sono le cosiddette orazioni diogeniche (VIII-X), le quattro Sul regno (I-IV), la XXXII (Agli Alessandrim), le due Tarsiche (XXXIII, XXXIV), l'Olimpica (XII), la Boristmica (XXXVI) e l'Euboica {Vll). 7    in volta, si concreta come cortesia e generosità, benevolenza e perdono, rispetto per la verità e l'onestà (cfr. Sinclair, cit., p. 420). Discendente da una famiglia di elevata condizione, Dione, quando ancora viveva a Prusa, partecipò alla vita politica del suo paese, usando la sua eloquenza e la sua arte in aiuto dei propri amici (cfr. Oraz., 46, 8).. A Roma, dove giunse ancora giovane, si legò di amicizia con gli uomini piu in vista della città e, sembra, anche con l'imperatore Tito. Dato il suo modo di intendere la cultura e il conseguente modo di intendere la politica e la vita sociale come misura e intelligente equi- librio, si capisce, in principio, il disprezzo di Dione, in Roma, per i "filosofi" cinici e stoici in particolare, per il loro atteggiamento di opposizione nei confronti del governo, ch'egli doveva vedere come rottura di quell'ideale vita sociale, libera e spregiudicata, ch'egli, nella sua posizione ellenistica, riteneva di potere attuare entro i termini delle antiche poleis greche. In realtà, Dione non poteva sopportare, com'egli stesso dice, i cosiddetti cinici, quei perdigiorno della filosofia, che si trovano ovunque nella Città ("ai crocevia, negli angiporti, all'in- gresso dei templi, questi. uomini radunano e traviano schiavi e marinai e altra simile gente, snocciolando scherzi e grande varietà di pettegolezzi e di volgari arguzie. In tal modo essi non fanno alcunché di bene, anzi un gran male": Oraz., 32, 9). Ma quando, su decreto di Domiziano, fu colpito, come tanti altri filosofi, accu- sati di complotto contro lo Stato, dalla relegatio in perpetuum, e per quindici anni (dall'82 al 96, morte di Domiziano) dovette, in esilio, girovagare, senza potere neppure mettere piede nella natia Bitinia (il p'restigio da lui goduto in Bitinia avrebbe potuto essere pericoloso per Domiziano), travestendosi, assumendo falsi nomi, pur di proseguire nel suo insegnamento e di tentare la pacificazione tra le città in lotta tra di loro, e venne scambiato per quei tali "filosofi" ch'egli aveva di- sprezzato e nei quali aveva veduto la peste per l'armonia delle città, Dione nella sua lotta contro il tiranno, comprese il significato sia del- l'opposizione cinica sia dell'opposizione stoica al governo, rendendosi sempre meglio conto che proprio il sistema di governo tipo quello di Domiziano, da Dione accomunato a quello di Nerone e·di Caligola, spezzava ogni possibilità di vita politica e sociale. È stato detto che Dione si converti: allora alla filosofia. In effetto Dione rimase quel grande avvocato ch'egli era. Approfondile proprie idee circa le condizioni che possono permettere una vita comune, sia tra privati cittadini, sia tra città e città, sia tra città e città e il governo centrale - e in tal senso, entro i termini della nuova situazione politico-sociale, Dione è davvero ravvicinabile ai sofisti antichi, - cercando di determinare il significato 8    di cosa voglia dire vivere bene (il bene) e cosa vivere male (il male), proponendosi conseguentemente il vecchio problema se l'esilio sia dav- vero un male o se il male consista nel non saper vivere razionalmente. E cosi egli si trovò sulla linea, sullo axii!J.IX,delle discussioni proprie degli stoici e dei cinici suoi contemporanei (cfr. Oraz., 13). Nella tormentosa strutturazione e costituzionalizzazione dell'Im- pero, che soffriva, relativamente alla fondazione del suo potere di fronte al Senato e al popolo di Roma, dell'equivoco con cui, con Augusto, era nato, la grave esperienza di Domiziano portò i suoi successori, già con Cocceio Nerva (96-98), piu sensibilmente con Traiano (98-117) e con Adriano (117-136), in maniera ancora piu approfondita con An- tonino Pio (138-161) e Marco Aurelio (161-180), a definire - se non il grosso problema dell'ereditarietà o dell'elezione; in questo periodo risoltosi con l'adozione, che fu, in fondo, un compromesso - la fun- zione del principe e la funzione stessa dello Stato, in un assolutismo in cui l'imperatore non è né un tiranno né un padrone, né un monarca di tipo orientale, ma il supremo magistrato dell'imper9. Di qui, sia pure per ragioni politiche, la sempre piu ampia provincializzazione, lo slargamento della cittadinanza, l'apertura del Senato, che perde sempre di piu il suo potere di classe di una Città-Stato, a uomini di origini diverse - per cui il Senato assume sempre piu la forma di un organo consultivo, - fino alla logica conseguenza della constitutio anto- niniana (con Caracalla nel 212). È stato detto che "la provincializza- zione - e quel che è stato spesso chiamato 'imbarbarimento' dell'im- pero - non sono conseguenze di una poco avveduta politica di Adriano e dei suoi successori, ma piuttosto il necessario effetto dell'inclusione in uno stato unitario, sotto il governo dell'Urbs, di genti di varia cul- tura. Nel vasto organismo dell'impero si è svolto uno scambio di ele- menti etnici e culturali, nel quale le civiltà superiori hanno assimilato forme diverse di cultura e nello stesso tempo si sono trapiantate in altre sedi, arricchendosi e rinvigorendosi di nuove energie. Il processo iniziatosi nell'età ellenistica prosegue su scala maggiore, favorito dal- l'unità politica e amministrativa. E diventa quindi sempre meno soste- nibile il principio augusteo della preminenza dell'Italia sulle provincie: già Cesare aveva decisamente impostato una politica intesa· ad assimi- lare i sudditi ai cittadini. Piu conservatore - per principio o per pru- denza politica - e meno aperto allo spirito cosmopolitico ellenistico, Augusto ha svolto una politica contraria al livellamento; ma ha pure avvertito che un ampliamento dell'impero avrebbe di necessità compro- messo il sistema gerarchico da lui fondato. Non solo le vicende mili- tari, ma già le esigenze della vita economica suggeriscono ai suoi sue- 9    cessori una diversa politica, qual era del resto segnata dagli ideali filosofici del tempo e dai sempre piu intensi scambi culturali nell'àrn- bito dell'impero" (G. Pugliese-Carratelli, La crisi dell'impero nell'età di Galliena, in "La Parola del Passato," IV, 1947, pp. 52-3). Sotto questo aspetto, già con Traiano, sembra chiaro in che senso gli imperatori del n secolo abbiano ascolato soprattutto le voci dell'op- posizione stoica, che potevano dare loro le condizioni che ne giustifi- cassero il potere. "La maggioranza di ·coloro che avevano avversato il governo dei Flavii non erano ostili al principato in sé, ma il loro atteggiamento nei riguardi di esso corrispondeva piuttosto a quello di Tacito. Essi lo accettavano, ma desideravano che fosse il piu pos-sibil- mente vicino alla ~atarJ..e:(at stoica e il piu possibilmente diverso dalla tirannide, identificata con la tirannide militare di Caligola e di Nerone in particolare e con quella di Domiziano. Con l'ascensione di Nerva e di Traiano si concluse la pace tra la massa della popolazione dell'im- pero, e specialmente le classi colte della borghesia cittadina, e il potere imperiale... Ciò che avvenne fu un nuovo adattamento del potere im- periale alle condizioni reali, non una riduzione di esso" (M. Rostovzev, Storia economica e sociale dell'Impero romano, Firenze, pp. 140-141). Non fu, perciò, un caso che, poco dopo la morte violenta di Do- miziano, Dione di Prusa sia stato reintegrato nei suoi diritti civili e che, dopo aver soggiornato qualche tempo nella sua città, ove par- tecipò attivamente alla vita politica di quella municipalità, sia rientrato in Roma chiamatovi dall'imperatore Traiano, divenendo alla fine cit- tadino romano e consigliere e propagandista delle idee politiche del- l'imperatore, soprattutto nei paesi greco-orientali, dividendosi tra Roma e Prusa (100-110). Dione, attentissimo alla situazione politica del suo tempo, si rese conto che per rendere possibile la convivenza (d'altra parte necessaria) tra le esigenze di libertà e di autonomia delle antiche "p6leis" greche (che Dione sempre difese: cfr. le Orazicmi bitiniche) e la città di Roma, bisognava che da un lato le città greche accettassero il potere di Roma e che, dall'altro lato, Roma fondasse il suo impero, non sul potere personale e tirannico di una città sulle altre, ma su di un potere capace di rendere uno lo Stato, in un'armonia di "nazioni," mediante cui ciascuna si articoli all'altra, a somiglianza dell'ordine co- smico, retto in unità per sua stessa natura da un unico principio, ragion d'essere del tutto (e tale avrebbe dovuto essere, sia pure per analogia, l'imperatore). Di qui il passo a prospettare come possibile Stato, rispondente alla natura, e perciò vero e divino, la "politèia regale" di tipo stoico, eia- 10    baratasi tra la fine del 1 secolo a. C. e il 1 d. C., era breve e tale che poteva servire ai nuovi intenti politici e giuridici di.Traiano. Padre e benefattore (1tcx-rljp xcxt e:ùe:pyé't"rjt; ), non padrone (8e:m6't"rjt; ) dei suoi governati, l'imperatore, scelto in quanto uomo di ragione e perciò non dio, ma simile al dio supremo, ragione d'essere del tutto, egli opera in accordo col Dio, assumendo il suo potere come un dovere, in un'attività che è fatica (7tovot;) e non piacere (~8ov-lj), realizzando in armonia i diversi compiti cui ciascuna città, ciascuna classe, ciascun cittadino - che non va perciò ritenuto schiavo, ma libero - sono chiamati, circondato da amici e consiglieri (il Senato), da uomini virtuosi, che partecipino alla cura degli affari dello Stato (cfr. Sul regno, orazz. 1-3). Un "sapiens," un "filosofo" dovrebbe essere il vero uomo di governo, personificazione della ragione vivente del tutto, ma poiché ciò accade di rado, un sapiens sia almeno chi consiglia il principe (cfr. Oraz., 49, 4), a meno che - e sa- rebbe ideale - il principe non si circondi, per legge e non a suo ar- bitrio, di un organismo permanente di filosofi, costituenti un consiglio del principe (cfr. Or'az., 49, 7-9). Senza dubbio Dione riprese il motivo del re filantropo, e non solo certe tesi stoiche, che nella delineazione di uno Stato ideale egli poteva sostenere ispirarsi al discorso platonico (l'unica costituzione perfetta, ove ragione e legge sono tutt'uno, è la politèia degli dèi del cielo, in cui ciascuno fa bene Ciò che gli compete e a modo suo, senza interferire nell'attività àltrui in una reciproca collaborazione in funzione del tutto: cfr. Oraz., 36, Boristenica, ma anche la concezione di sfondo, genericamente stoica, di cui abbiamo par- lato, quale, ad esempio, appare dallo pseudo-aristotelico De mundo che Dione sembra abbia avuto presente (cfr. Sinclair, cit., p. 422): un dio unico, ragion d'essere o natura che ha la potenza (86vcxJ.Lr.ç) di costituire il tutto in un cosmo, in un ordine, avendo nell'una mano sole, luna, stelle, e, nell'altra, aria, acqua, terra e fuoco, ponerìdo equilibrio tra le forze contrastanti, si che ciascuna cosa attui ciò che le è proprio, in una equa distribuzione delle parti (laoJ.LoLpt~), e, per ciò stesso, in un equo governo (6J.L6voL~), specchio di quello che, dunque, ha da essere un impero universale, retto da un'unica potenza razionale. Tale, per analogia - e che di analogia si tratti lo dichiara lo stesso Dione: cfr. Oraz., 36, - deve essere lo Stato degli uomini ov~ ~imile sia l'im- peratore a quella che nell'universo è la divinità, e ove ciascuno - e in ciò tutti sono uguali - sia libero di attuare pienamente ciò che gli compete, in una reciproca collaborazione, in funzione del tutto, che non sarebbe senza la giusta distribuzione. delle parti, s{ che appunto l'impero somigli al cosmo, sia un'eucosmia. •Questa," racconta ai suoi concittadini Dione, riferendo un suo discorso ai Boristeni, abitanti 11    presso il Mar Morto, "questa è la teoria dei filosofi. Essa indica una buona e amichevole comunità di dèi e di uomini; essa chiama a partecipare alla legislazione e alla cittadinanza non tutte indiscriminata- mente le creature viventi, ma coloro che posseggono ragione e intel- letto. Essa offre un'organizzazione sociale di gran lunga migliore e piu giusta di quella stabilita dagli Spartani, secondo la quale non è permesso agli Iloti diventare cittadini di Sparta: naturale motivo per cui essi sono sempre pronti a ribellarsi" (Oraz., 36, 38). Tutto ciò non è nuovo. La novità è che tutto ciò divenga ora la base su cui si viene fondando ideologicamente l'impero da Traiano a Marco Aurelio, e che ciò abbia voluto e approva.to Traiano. E questo risulta non solo dalle Orazioni l e 11 di Dione (non a caso egli scri- vendo intorno al104, pur non nominando Traiano, dice: "Della divina e benedetta costituzione che ora vige, conviene che io parli con il mas- simo rispetto"), ma anche dal fatto che queste orazioni, dette dinanzi a Traiano, sembra che per ordine di Traiano siano state piu volte ripetute da Dione nelle maggiori città dell'Oriente, e che in gran parte esse coincidano con il Panegirico di Traiano scritto da Plinio; in quegli stessi anni circa. Nel mutamento di indirizw governativo, da parte imperiale, in un'adeguazione alle reali esigenze soprattutto delle ZQOe greco-orien- tali, e in un venire incontro all'opposizione, ch'era poi un rafforza- mento del potere imperiale, nella trasformazione dell'Impero in Stato unitaiio e in una sempre maggiore esautorazione del Senato, che non è piu il Senato-classe, quale poteva essere ancora al tempo di Augusto, Dione Crisostomo ebbe, certo, non poca importanza. 'E la sua impor- tanza sta soprattutto nell'avere, riprendendo motivi sparsi, coordinato quei motivi e delineato il tipo di Stato upitario e universale, che se da un lato poteva servire alla politica di Roma, dall'altro lato salvava certe autonomie e libertà dei paesi soggetti, dando, ad un tempo, un significato e un fondamento giuridico al potere e alla figura dell'Impe- ratore. Come il divino regge il tutto in unità, secondo legge, per cui re è stato detto il tutto (lo si personifichi in Zeus, o sia chia- mato Uno), ché tutto, secondo ragione e per sua stessa natura, distri- buisce come è bene che sia, cosi uno è l'imperatore, reggitore, che tutto distribuisce, secondo legge, come è bene che sia, non despota privato, ma, egli incarnazione della stessa ragion d'essere dell'impero, non uomo privato, ma egli stesso Io Stato, per il quale deve sacrificare i propri interessi individuali, per cui la vita dell'imperatore ed ogni sua azione è fatica e dovere. Tutto questo, certo, può suonare assai retorico, ma fu questa, senza dubbio, la linea su cui si posero gli imperatori da Traiano ad Adriano, da Antonino Pio a Marco Aurelio. E ciò risulta non solo dal Pan~girico di Plinio, ma anche, sulla via indicata da Dione, dalla celebre Orazion~ ai Romani di Elio Aristide (originario della Misia, nato nel 117, morto nel 190 circa), che, due ger.erazioni piu t:r'rdi, non scrive piu dell'imperatore regnante, ma abilmente cerca di mostrare il valore di tutto il sistema politico di Roma, oramai affer- matosi, che concilia il prinCipio della Città-Stato classica con il prin- cipio dell'imperialismo. "Vostra scoperta (~~pov dlp1J(J.Ct) è stato il sistema politico dell'impero" (A Roma, 51); "Tutti coloro che vivono sotto il vostro impero, e con ciò io intendo l'intero mondo ('quello che era noto come il confine della terra, quello stesso è ora semplicemente il muro del vostro giardino': 26), voi li avete divisi in due gruppi: i governanti e i governati. Tutti coloro, in qualsiasi località, che sono piu colti, di migliore famiglia, piu influenti, voi li avete fatti vostri pari per cittadinanza e perfino per parentela, e gli altri li avete assog- gettati a loro. Né.il mare né alcuna vasta distesa di terra possono impe- dire a uno di diventare cittadino romano; nessuna distinzione c'è in questo tra Europa e Asia; tutto è alla portata di tutti. Nessuno che sia idoneo a una carica e in cui si possa avere fiducia è straniero. Si è stabilita una universale democrazia mondiale sotto un unico e ottimo dominatore e organizzatore, e tutti confluiscono come a un comune luogo di raduno cittadino nel venire a ottenere soddisfazione alle loro varie richieste" (A Roma, 59-60). Tutto ciò proveniva da parte imperiale e rappresentava la propa- ganda dell'Impero, in una trasformazione dello Stato delineatosi con Augusto, in uno Stato imperialistico. E non pochi, certo, furono coloro che seguitarono a vedere in Roma la conquistatrice (fa dire Tacito a Galcaco, nella Vita di Agricola, 30: questi romani, questi "raptores orbis," dove fanno piazza pulita, "ubi solitudinem faciunt," questa chiamano pace, "pacem appellant") e molti furono gli stessi romani che pur riconoscendo la "missione del loro impero nella diffusione del buon ordine, sentivano duramente quanto profondo fosse il divario tra quanto proclamavano di fare ~ quanto facevano in realtà" (H. Fuchs, Der geistig~ Widerstand g~g~n Rom, Berlino, 1938, p. 18; cfr. anche Sinclair, rit., pp. 434-36). Ciò non toglie che la nuova politica impe- riale, abilmente propagandata, se da un lato ha subito l'influenza di una certa concezione, anche nel modo di vita e di condotta degli impe- ratori, che - per politica· o per intima convinzione - hanno saputo giuocare la propria parte (pensiamo ad Adriano, a Antonino Pio e in particolare a Marco Aurelio), abbia, dall'altro lato, fortemente influen- zato alcuni aspetti della stessa cultura quale" si viene configurando nel u secolo. 13    Entro quest'àmbito, se ci rendiamo conto del significato politico della cessazione da parte degli imperatori delle persecuzioni.nei con- fronti dei filosofi, sembra anche chiaro perché gli imperatori si siano adoperati per aprire, sia in Roma sia nei maggiori centri culturali del- l'Impero, scuole pubbliche, ove i maestri erano stipendiati dallo Stato. Già Vespasiano aveva, per primo, istituito, in Roma, due cattedre "ufficiali, una di retorica latina [il cui primo titolare fu Quintiliano], l'altra di retorica greca, alle quali era annesso uno stipendio annuale di centomila sesterzi, prelevati dal fisco imperiale" (Svetonio, Vesp., 18); Adriano, su consiglio della madre Plotina, che sembra avesse simpatie per l'epicureismo, dette facilitazioni legali alla comunità epicurea di Atene (lscr. Gr., 2, 11, 1099); Marco Aurelio, infine, istitu(ad Atene con sovvenzioni prelevate dal fisco imperiale, cinque cattedre: una di retorica, una di filosofia platonica, una di filosofia stoica, una di filo- sofia aristotelica e una di filosofia epicurea (lo stipendio dei filosofi era di sessantamila sesterzi all'anno, quello del retore di quaranta- mila). Dal terzo secolo in poi, ·il controllo da parte imperiale sulle scuole, non solo su quelle istituite dallo Stato, ma anche su quelle municipali, si fece sempre piu pressante. Con Giuliano "questo inter- vento fin(col divenire regola generale; egli decide che nessuno potrà insegnare, se non dopo essere stato approvato da un decreto emesso dal consiglio municipale e debitamente ratificato dall'autorità dell'impera- tore (Cod. Theodos., 13, 3, 11); il quale si assumeva cos(un diritto di vigilanza sull'insegnamento in tutto l'Impero... La decisione si colle- gava a tutta una politica religiosa; ma, privata del suo spirito anti- cristiano, conservò il suo vigore sotto i successori di Giuliano, come testimonia la sua inserzione nel Codice Teodosiano; soltanto con Giu- stiniano sarà soppressa, come inutile, l'esigenza della sanzione impe- riale - Cod. Just., 10, 537" (Marrou, cit., p. 403). - Intanto, tra la fine del 1 e il 11 secolo, anche per la maggiore possi- bilità concessa alle varie tendenze, sia pure nell'istituzione di cattedre che avevano il compito di preparare, mediante la diffusione della cul- tura sia in Occidente che in Oriente, i futuri funzionari dell'Impero, in una comune concezione e fede in un ordine universale - comunque poi si ritenesse che a quella visione si potesse giungere, - si è cercato, per un verso o per l'altro, recuperando certe tradizioni piuttosto che altre - ove non vanno dimenticati i luoghi di origine e la formazione dei singoli autori, - di sistemare in unità motivi molteplici e diversi, esperienze e concezioni e culture. greche, orientali, romane, in funzione di una cultura, anch'essa davvero imperiale. 14    2. Plutarco di Cheronea Un'analisi delle opere di Plutarco di Cheronea,2 in Beozia, vissuto tra il 46 circa e il 125 d. C., volte contro gli stoici (Le contraddizioni degli stoici, Sulle nozioni comuni: contro gli stoici, Gli stoici si espri- 2 Nato a Cheronea, in Beozia, nel 46 circa, da una facoltosa e severa famiglia, Plutarco, compiuti i primi studi in patria, si recò ad Atene dove ebbe a maestro Ammonio di Alessandria, vissuto sotto Nerone e Vespasiano, che lo avviò al plato- nismo, all'aristotelismo e, sembra, all'interesse per i misteri egiziani e greci. Nella sua piena maturità Plutarco farà di Ammonio l'interlocutore principale della E di Delfi, riferendo una conversazione avvenuta nel 67, l'anno in cui Nerone venne in Grecia (E di Del/i, 385b). Dopo il suo soggiorno ad Atene, Plutarco fu ad Alessandria, in Asia, certo piu volte a Roma, dove entrò in contatto con le maggiori personalità della poli- tica e della cultura (tra il 75 e il 90) e dove fu particolarmente benvoluto dall'impe- ratore Vespasiano. A lui si legarono di amicizia e in parte ne seguirono la concezione, Q. Soccio Senecione, console nel 99 e nel 107, che molto contribui alla vittoria di Traiano sui Daci (a lui Plutarco dedicò le Vite parallele, il De profectibus in virtute, le Quaestiones conviviales); C. Minucio Fundano, senatore, console nel 107, proconsole d'Asia al tempo di Adriano (124-25), uomo di cultura, con particolari simpatie per il platonismo e il pitagorismo (Piutarco ne fece il maggiore interlocutore del De cohibenda ira); Favorino d'Arles (cfr. dopo), a cui P1utarco dedicò il De primo frigido, facendolo inoltre interlocutore delle Quaestiones conviviales. Come suo scolaro Plutarco ricorda anche un certo Lucio Tirreno pitagorico. Rientrato presto in patria visse tra Cheronea e Delfi. Ebbe missioni politiche, fu arconte di Cheronea, e dal 95 in poi sacerdote delfico. Fu nominato cittadino onorario di Atene. Celebre, Plutarco mori nel 125 circa. Il catalogo di Lamprias (detto cosi perché attribuito al figlio di Plutarco, il cui nome, come quello del nonno era Lamprias; in realtà il catalogo ~ del m-rv secolo) enumera 200 opere di lui: molte di esse non sono autentiche, mentre altre, riconosciute auten- tiche non vi sono comprese. Con il tempo le opere di Plutarco sono state divise in due gruppi: Le Vite parallele (46 biografie accoppiate di un greco e di un romano, piu 4 isolate); Opere morali (vi ~ raccolto, impropriamente, tutto il resto della produzione di Plutarco, dagli scritti a carattere filosofico morale a quelli filosofico religiosi, pole- mici, critici, filologici, pedagogici). Essendo impossibile enumerare gli scritti contenuti nelle Opere morali in ordine cronologico, seguiamo qui l'ordine tradizionale, mettendo tra parentesi le opere di cui si discute l'autenticità o che sono certamente apocrife e che vanno oggi sotto la denominazione di scritti dello Pseudo Plutarco: De educatione puerorum libellus, De audiendis poetis, De recta audienda ratione, De adulatore et amico, De profectibus in virtute, De inimicorum utilitate, De amicorum multitudine, De fortuna, De virtute et vitio, Consolatio ad Apol/onium, De sanitate praecepta, Coniugalia praecepta, Septem sapientium convivium, De superstitione, Regum et imperatorum apophthegmata, Apophthegmata laconica, Antiqua instituta laconica, Lacaenarum apophthegmata, De mulierum virtutibus, Quaestiones romanae, Quaestiones graecae, (Collecta parallela graeca et romana), De fortuna Romanorum, De Ale:randri Magni fortuna aut virtute, De gloria Atheniensium, De lside et Osiride, De E delphico, De Pythiae oracu/is, De defectu oraculorum, Virtutem noceri poue, De virtute morali, De cohibenda ira, De tranquillitate animi, De fraterno amore, De amore probis, Animine an corporis affectiones sint peiores, An vitiositas ad infelieitatem, sulficiat, De garrulitate, De curiositate, De cupiditate divitiarum, De vitioso pudore, De invidia et odio, De se ipsum citra invidiam laudando, De sera numinis vindit'ta, De fato, De genio SOt"ratis, De e:rilio, Consolatio ad u:rorem, Convivalium disputationum libri not'em, Amatorius liber, Amatoriae narrationes, Cum principibus philosophandum esse, A d prineipem ineru- ditt~m, Anseni Res pub lit ' agerenda sit, Pra e u p t agerenda e Rei publicae, De u n i 1 1 s in Repubblit'a dominatione, populari statu et paut"orum imperio, De vitando aere alieno, (Deum oratorum vitae), De comparatione Aristophanis et Menandri Epitome, De 15    mono in maniera piu assurda dei poat) e contro gli epicurei (Contro Colote, Non potersi t1it1ere gioiosamente secondo Epicuro, Del t1it1ere nascosto), chiarisce, meglio di una lettura diretta e isolata delle sue opere piu celebri, il significato del platonismo e del pitagorismo di Plutarco, la sua interpretazione di un aspetto di Platone, formatasi entro i termini di una precisa atmosfera culturale. Troppo spesso una lettura isolata, e ritagliata da tutto un contesto, delle opere piu note di Plutarco ha dato luogo a retoriche ricostruzioni di un Plutarco che rivive in un ultimo canto del cigno il significato piu profondo del misti- cismo e della teologia dell'antica Grecia, in una consapevole malinconia per la sua prossima fine e per cui non a caso ci si sofferma sulla famosa narrazione plutarchea ove viene drammaticamente annunciato: Il gran dio Pan è morto! (De dt:fectu oraculorum, 419a-c). I due gruppi di opere polemiche di Plutarco nei confronti dello stoicismo e dell'epicureismo sembra siano state composte al tempo della prima formazione di lui ad Atene, sotto la guida di Ammonio di Ales- sandria, maestro all'Accademia, al tempo di ~erone (di Ammonio non altro sappiamo se non ciò che dice lo stesso Plutarco, cioè ch'egli dava di Platone un'interpretazione molto "plutarchea,"· in funzione di una coerente costruzione religiosa). È già questo un dato assai indicativo e i due gruppi di opere vanno storicamente esaminati non solo per ricavarne una serie di preziòsissime testimonianze sul pensiero stoico e su testi e concezioni di singoli stoici, s{ come sul pensiero epicureo, ma anche perché, attraverso esse, da un lato si rileva un metodo di indagine e di discussione e, dall'altro lato, quale fosse l'intenzione e quali fossero alcune soluzioni di Plutarco. A tali soluzioni, anzi, egli giunse attraverso la di~ussione delle varie testi stoiche cd epicuree, di cui, volta a volta, cerca mostrare la contraddittorietà interna c perciò stesso la non vcracità c la necessità di assumere altra posizione, vera perché non contraddittoria, che è per lui quella platonico-pitagorica. Il che, per altro, non 'gl'impedisce di recuperare qùci motivi stoici cd epicurei cd aristotelici che non sembrano in contraddizione nell'àmbito di un platonismo, interpretato in chiave religiosa c tale da spiegare esperienze c credenze religiose di origine orientale (egiziana e iranica), Herodoli mtdipilale, Quaestiones tlllhlrales, De facie in orbe lutu~e, De primo frigido, Aqu " " ipis sit ulilior, De solenia ammalium, Brwu ralione fili, De carnium esu, Plt#onicae quaesliones, De animae procrealiotte in Timaeo Plt#onis, De re/1f'BfUUIIÌU stoicorum, Stoicos absurdiora poni~ dicere, De commumbw notims advvnu Stoicos, Non posse suviter vivi secundum Epiewri decreta, Advernu Colotna, De lt#enta vivendo, De musica. Alquanti frammenti di opere perdute sono pervenuti (cfr. in vol. Vll Moralia, ed. Bernardakis, Lipsia, 1896). Certamente apocrifi sono l'lruiÌif4tio Traiam, il De fluviis, il De vita et poesia Homm e il De placitis philosophorum libri quinque. 16    riconducendole ad una VISione unitaria, nei termini della patria religione delfica, della paidèia greca, per riprendere le parole dell'Epino- mide platonica, a proposito dell'assunzione nel sistema platonico delle scoperte in campo astronomico degli studiosi di oriente. Senza dubbio Plutarco ignora le posizioni stoiche piu recenti e il loro significato politico, mentre nella sua polemica si serve particolar- mente delle piu note tesi stoiche ed epicuree, divenute, ormai, entro l'àmbito delle scuole di Atene, t6poi di esercitazioni, discussi secondo il metodo proprio della media e della nuova Accademia (sappiamo, per altro, che nell'Accademia si erano compilate antologie di passi stoici, raccolti come testi di discussioni: ma, certo, come risulta da altre opere di lui, Plutarco conosceva direttamente i testi dei grandi Stoici'). Si tralascino pure le piu minute discussioni attraverso cui Plutarco vuoi dimostrare che ogni tesi stoica è in contraddizione con se stessa e che perçiò è.assurda, contro il senso comune, pur se pronunciata in nome delle "comuni nozioni," che assurda, ad esempio, è la tesi stoica che una è la realtà e ad un tempo molteplice, che l'Uno dio, spirito vivente, è ad un tempo ciò che dà individualità e qualità a tutte le cose, per cui il divino non è ed è tutte le cose, onde dio è ad un tempo immor- tale in quanto dio e mortale in quanto cose, che tutte si distrugge- ranno nella conflagrazione universale e cosi via; si tralasci anche la discussione antiepicurea, che si fonda sul vecchio luogo comune che inaccettabile è la tesi epicurea perché spiega la nascita della realtà da un atto assolutamente libero, cioè non razionale e perciò inspiegabile; ad ogni modo ciò che piu colpisce della confutazione plutarchea, in particolar modo nei confronti degli stoici, è ch'egli, accantonando l'aspetto piu fine dello stoicismo, cioè il motivo del t6nos che su di un piano strettamente logico risolve in unità la dialetticità della natura - e, per ciò stesso, non tenendo conto che su di un piano altrettanto razionale, l'altra soluzione possibile era l'ipotesi epicurea - vede come contraddittorio il tentativo stoico di mediare nell'unità della natura gli aspetti molteplici della natura stessa, là risolvendo il bene e il male, che io realtà non sono che errori di prospettiva, gli istinti e la ragione, come ragion d'essere degli istinti stessi. Ciò che Plutarco viene accan- tonando, e che gli scettici mettono, invece, in primo piano, è che le due concezioni, l'epicurea (effettivamente antiplatonica, antiaristotelica e antistoica) e la stoica (non a caso, dopo l'ipotesi di Cleante, passibile d'essere interpretata come un'interpretazione naturalistica della conce- zione platonica, o come un approfondimento dd!'Aristotele interprete di Platone) si potevano considerare, in realtà, come le due tesi piu convincenti, l'una e l'altra razionali, anche se su due piani diversi. Di qui si poteva giuocare tra le due posizioni (la platonico-aristotelico-    stoica e la epicurea) contrapponendole tra di loro, contrapponendo -come dirà Sesto Empirico: Ipotiposi Pirr., I, 8..:.... ragioni a ragioni, o in una sospensione del giudizio sul piano metafisico, o in una assunzione del probabile in funzione retorico-politica. Plutarco, invece, punta sulla presunta contraddittorietà di mediare i due piani, senza con ciò annullare la divinità una nella molteplicità, e senza fare della molteplicità altrettanti momenti- dell'unica forza divina, riducendosi cosf il divino a fisicità e a tempo, e risolvendo con ciò il male nel bene, o facendo sf che il male altro non sia che un errore logico e che tutto avvenga e sia come deve avvenire e come deve essere. Egli cosf ritiene di poter risolvere la questione, mantenendo la dualità, in una interpretazione - attraverso il mistero egiziano di Osiride-lside-Tifone e il dualismo zoroastriano, intesi allegoricamente di certi testi di Platone, non a caso i piu equivoci del Timeo e alcuni delle Leggi su l'anima buona e l'anima malvagia, che ancora oggi sono stati avvici- nati al dualismo iranico. Sincero o meno, certo si è che Plutarco ha teso ad assumere entro i termini dell'antica paidèia religiosa dell'ari- stocratico Apollo Delfico i motivi e le esperienze religiose orientali (egi- ziane e iraniche), rimaste, se non ignote (tutt'altro!), non risolte in una concezione pacificante. Plutarco, cosf, sfruttando le prime pagin_e del Timeo sull'antica sacerdotale sapienza egiziana, delle Leggi sulla dualità tra principio del bene e principio del male, dell'Epinomide sulla ripresa delle scoperte astronomiche dei barbari, ìn funzione della reli- gione delfica, riprende e lancia la leggenda del Platone egiziano e del Platone orientale, che avrebbe risolto in termini razionali gli aspetti piu oscuri della religiosità, donde, per altro, attraverso Platone, l'in- terpretazione simbolico-allegorica dei riti e dei culti dei misteri egi- ziani, in un continuo riferimento ai misteri e alla mitologia dei greci (cfr. particolarmente De Iside), per cui potev~ servire anche gràn parte della simbolica dei numeri di origine pitagorico-alessandrina, e, nel- l'interpretazione del significato degli dèi e dei loro nomi, l'allegorismo di origine stoica. Bastino alcuni esempi: Gli stoici asseriscono che lo spirito che feconda e alimenta è Dioniso, quello che percuote e distrugge è Heracles, quello che riceve è Ammon, quello che pervade la terra e i suoi frutti è Demetra e Kore, quello che pervade il mare è Posidone. Gli Egizi, combinando con queste interpreta- zioni naturalistiche taluni elementi dottrinali derivati dall'astronomia, cre- dono che Tifone significhi il mondo solare, e Osiride quello lunare... Al diciassette del mese cade la morte di Osiride, secondo il mito egi- ziano, cioè quando il plenilunio si rivela nella massima compiutezza. Perciò i Pitagorici chiamano questo giorno "barriera" e, in generale, hanno un 18    aborrimento estremo per questo numero, perché il numero diciassette si frappone tra il sedici, quadrato, e il diciotto, rettangolo, oblungo non equi- latero - alle quali figure soltanto accade di avere i perimetri uguali in valore numerico alle superfici ~ pone una barriera tra l'uno e l'altro, e li distingue tra loro e, precisamente, rompe la proporzione di uno e un ottavo, diviso come è in disuguali intervalli... I Pitagorici esprimono le loro cate- gorie con una grande varietà di termini: per essi il Bene è l'Uno, il De- terminato, il Costante, il Diritto, l'Impari, il Quadrato, l'Uguale, il Destro, il Luminoso; il cattivo invecè è la Diade, l'Indefinito, il Movimento, il Curvo, il Pari, l'Oblungo, il Disuguale, il Sinistro, l'Oscuro. - Inoltre i Pitagorici adornarono anche numeri e figure con denominazioni di dèi. Chiamarono, i~fatti, il triangolo equilatero col nome di Atena, nata dal vertice [capo di Zeus], e Tritogenia, poiché esso è diviso da tre perpendicolari tirate dai suoi angoli. Il numero uno lo chiamano Apollo... Il due lo chiamano contesa e audacia; il tre giustizia... La cosiddetta "tetraktys," cioè il trentasei, costi- tuisce, com'è fama diffusa, il "piu alto giuramento" e ha ricevuto il nome di "mondo," poiché è formato dai primi quattro numeri pari e dai primi quattro numeri dispari sommati insieme... (De lside, 367 c, e-f; 370 e, 381 f-382 a). Sotto questo aspetto, nel tentativo di conciliare in una sola reli- gione delfico--apollinea la religione ellenica con certi aspetti delle reli- gioni di oriente (non va, per altro, scordato che Plutarco dal 95 circa in poi fu, in Cheronea, sacerdote a vita del tempio dell'Apollo delfico e che certi tentativi di pacificazioni religiose in una coinè potevano, tra l'altro, essere anche un servizio reso al nuovo indirizzo della poli- tica imperiale: indicativo è che Plutarco sia stato onorato da impera- tori quali Traiano e Adriano), sembra che Plutarco abbia, in funzione di tale accordo, ricostruito e allegoricamente interpretato da un lato la religione egiziana di lside e Osiride (De lside), dall'altro lato abbia cercato di mostrare il significato riposto dell'Apollo delfico (De E apud Delphos), degli oracoli (De Pythiae oraculis; De d4ectu oraculorum), ed abbia, in tale chiave, interpretato, come dicevamo, certi testi del Timeo (De animae procreatione in Timaeo) e delle Leggi, accanto alla ricostruzione di un Platone sacerdote-filosofo della religione delfica. Sembra ora non poco indicativo, a testimonianza di quanto sopra abbiamo detto, sottolineare il ·seguente passo del De lside: "Questo nostro trattato è inteso a conciliare appunto la credenza religiosa degli Egizi con questa nostra filosofia." (37la). Plutarco ha ricostruito il mito egiziano di Osiride-Iside-Tifone, insistendo nell'affermazione che il mito egizio va assunto in maniera allegorico-simbolica, si come gli aspetti cultuali e rituali in cui sono impegnati i suoi sacerdoti. 19    Iside è dea eletta per sapienza e davvero amante di sapienza - filosofa, - come il nome stesso vuole perfino indicare, dea alla quale intelligenza e conoscenza si addicono nel piu alto grado. A dir vero, lside è parola ellenica e parimente Tifone; costui è nemico alla dea, gonfio e borioso, come il ·suo nome stesso esprime, per ignoranza e illwione; riduce a brandelli e disperde la sacra scrittura, che la dea invece raccoglie e ricompone e affida agli ini- ziati, poiché il processo di divinizzazione, che avviene mediante un tenore di vita costantemente saggio... avvezza a sopportare gli inflessibili rigori dei riti liturgici nel tempio. Finalità di tali liturgie è la conoscenza di Colui che è Primo, è signore, è realtà intelligibile, di colui che la dea ci invita a cercare, poiché egli è accanto a lei, in intima comunione. Il nome stesso del tempio promette apertamente conoscenza e intelligenza dell'essere; ri· sponde al nome di Iseion, a indicare che noi sapremo la verità dell'essere allorché ci accosteremo, con atteggiamento di ragione e di pietà, ai riti sacri della dea... (351 f-352 a). · Allorché, dunque, ascolterai i miti che gli Egizi narrano sugli dèi - vagabondaggi, smembramenti e tante altre vi· cende del genere - tu, o Clea [sacerdotessa a Delfi, cui Plutarco dedica il De lside; a Clea è dedicato anche il Mulierum virtutes], devi ricordare quanto siamo venuti dicendo e non credere che il fatto cos{ raccontato sia realmente avvenuto nella maniera in cui viene tramandato... (355 b). Tali, a un di presso, sono i punti capitali del mito... Ecco, qui c'è qualcosa che non ho bisogno di menzionarti: se gli Egiziani hannò tali opinioni e rife- riscono tali racconti su ciò che per natura è bea~o e incorruttibile (in accordo con il quale dev'essere conformato il nostro concetto del divino), nella con· vinzione che si tratti di fatti e di eventi realmente accaduti, oh, allora "bisognerebbe davvero sputare e tergersi la bocca" [in Trag. graec. fragm., 354], per usare la parola di Eschilo. E, in verità, tu stessa detesti tali per· sone che serbano ancora opinioni cosi abnormi e barbariche sugli dèi. Che però tali miti non somiglino affatto a quelle vaghe fantasticherie e.a quelle vane favole, quali gli scrittori di versi e di prosa traggono da se stessi a guisa di ragni, tessendo e stendendo le loro malferme primizie letterarie, e che al contrario serrino in sé esposizione di dubbi e di esperienze,.tu lo capirai da te stessa. Proprio come gli scienziati dicono che l'iride risulta dal fenomeno di riBessione del sole e deve le sue varie gradazioni di colore al nostro sguardo, che si ritira dal sole e si volge alla nube, cos{, parimenti, il mito, per noi di quaggiu, non è altro che riBesso di una verità superiore, che torce il pensiero umano in una direzione sensibile. Tanto accennano velatamente i loro sacrifici (358 f-359 a). Il mito egizio, perciò, va compreso come contrapposizione tra il divino principio dell'ordine e del bene (nella coppia Osiride-lside), l'Apollo delfico, e il principio del male e del disordine (Tifone), l'ele- mento titanico, e in una salvazione dell'anima allorché essa, vincendo il male, e conoscendo il divino, come Iside raccoglie in sé e conserva l'unità dispersa del Dio, in un'aspirazione da parte del sacerdote d'Iside 20    (il filosofo) alla sapienza di Iside e al suo amor femminile ad essere posseduta dal Dio (Osiride) e al suo desiderio di raccogliere in unità Osiride spezzato e frantumato dal male. Plutarco, quindi, dopo avere avvicinato tale significato del mito egiziano alla mitologia iranico- caldea e a certi testi - distaccati dai loro contesti - della filosofia greca, particolarmente si rifà a due passi di Platone, la pagina 35 a del Timeo e la pagina 896d delle Leggi: Platone, in piu luoghi, quasi nascondendo e velando il suo pensiero, chiama i due principi antagonistici "Identità" e "Alterità" [Timeo, 35a]; ma nelle Leggi [896 d], allorché era già molto avanti negli anni, si espresse non piu per enimmi e per simboli, ma concretamente, con termini precisi, affermando che il mondo non è mosso in virtu di una sola anima, ma, pro- babilmente, ad opera di piu anime e, in tutti i casi, da non meno di due: delle quali una è quella che produce il bene, e l'altra, antagonista alla prima, è artefice di tutto ciò che è t:ontrario; egli lascia, altresf, sussistere anche una terza, che è una natura in certo senso intermedia, la quale non è priva di anima, di ragione, di moto spontaneo, come alcuni credono, ma dipende ed è sospesa ad entrambe, e aspira all'anima migliore, perennemente, e la brama e la persegue. Dimostrerà tutto questo il seguito del nostro trattato, inteso a conciliare appunto la credenza religiosa (teologia) degli Egizi con questa nostra filosofia. t un fatto che il divenire e la composizione di questo nostro universo risultano dalla mescolanza di forze antagonistiéhe, che non sono, però, equi- librate esattamente,· perché la prevalenza appartiene alla forza del bene; non è, tuttavia, ammissibile che la torza del male perisca del tutto, dal momento che essa è, in gran parte, innata nel corpo del mondo, e, pure in gran parte, nell'anima dell'universo, in un duello perenne con la potenza del bene. Ebbene, nell'anima intelligenza e ragione, vale a dire ciò che fa da guida e signoreggia su tutto quanto si ha di meglio, si identifica con Osiride. Cosf nella terra, nel vento, nell'acqua, nel cielo, negli astri, ciò che è ordinato, stabilito, sano, come si rivela attraverso le stagioni, le temperature, e i cieli, tutto questo è emanazione di Osiride e immagine riBessa di lui. Tifone, per contro, è la parte dell'anima soggetta a passioni, è l'elemento titanico, e irra- zionale e volubile; ed è la parte dell'elemento corporeo che è mortale e mor- bosa e torbida, come si rivela attraverso le cattive stagioni e le intemperie e gli oscuramenti di sole e le scomparse di luna; cos{ si manifestano le esplo- sioni e le turbolenti rivolte di Tifone. Tutto ciò è espresso altres{ dal nome con cui chiamano Tifone: Seth, che significa: ciò che tiranneggia, ciò che violenta (370 f-371 b). Se, dunque, secondo Plutarco t. ripugnante alla ragione risolvere tutta la molteplicità nell'unità del principio attivo che implica una pas- sività su cui operare, la quale passività deve perciò essere senza forma (materia), per cui, alla fine, si nega sia il divino principio sia la realtà 21    molteplice, ché, pres1 m sé, vengono a non essere piu né il pnnc1p10 attivo e qualificante né l'informe pura quantità; e se altrettanto ripu- gnante è l'ipotesi epicurea che spiega la nascita degli infiniti mondi, l'esistere, mediante un principio inspiegabile, irrazionale; l'unica pos- sibilità è porre a fondamento del tutto da un lato si un principio attivo, l'essere uno, come condizione della pensabilità del reale, ma dall'altro lato anche una materia che non sia senza forma, poiché altrimenti essa sarebbe nulla e lo stesso dio sarebbe perciò causa di nulla, oppure dando egli forma e qualità alle cose che sono, tra cui è anche il male, dio, per definizione essere e perfezione, sarebbe causa del male. In verità, le origini dell'universo non vanno poste nei C<?rpi inanimati, come vogliono Democrito ed Epicuro. E neppure fanno da artefice di una materia non qualificata e non differenziata, come vogliono gli stoici, un'unica ragione e un'unica provvidenza superna, esercitante il dominio su tutte le creature. Fatto sta che è impossibile che qualcosa cattiva, per piccola che sia, entri nell'esistenza, là dove Dio è causa di tutto; ed è ugualmente impossibile che qualcosa di buono, là dove Dio è causa di nulla... Di qui, ancora, questa antichissima sentenza, che da teologi e legislatori trapassa in poeti e filosofi, senza che se ne sappia la prima fonte; essa ha con sé una fede ferma e indelebile e non solo nella storia e nelle tradizioni, si anche nei riti e nei sacrifici, diffusa dappertutto tra i b:rrbari e tra i Greci: che, cioè, l'universo non è già librato, per sola virtU meccanica, di per se stesso, senza un intel- letto, senza una ragione, senza un pilota; né poi v'è una sola ragione che domina e regge, per cosi dire, con timone e con docili redini. No. Al con- trario, la natura ci offre tante esperienze, e tutte miste di mali e di beni, o, meglio, essa in una parola, non ci dà nulla, quaggiu, che sia "puro"; né, d'altra parte, c'è un custode di due grandi vasi che, alla maniera di una dispensiera, distribuisca a noi i nostri scacchi e i nostri successi in mistura; ma è accaduto - quasi risultato di due opposti principi e di due forze antagonistiche, una delle quali ci guida lungo un diritto cammino a destra, mentre l'altra ci fa girare alla rovescia e indietro - che la nostra vita. sia complessa, e cosi pure l'universo... Perché quèsta è la legge di natura, che nulla entri nell'esistenza senza una causa, e, se il bene non può fornire una causa per il male, allora segue che la natura debba avere in se stessa la fonte e l'origine particolare, distinta, del male, proprio come ne ha una, tutta sua, del bene. Tale è il pensiero dell'umanità e dei suoi piu nobili sa- pienti. Questi, infatti, credono che vi siano due principi divini, quasi rivali tra loro: l'uno artefice dei beni, l'altro dei mali. E c'.è chi chiama il primo, migliore, dio; e l'altro, dèmone; cosi per esempio, il mago ZOroastro, di cui si narra che vivesse cinquemila anni prima della guerra di Troia. Ebbene, questi chiamava il primo Horomazes, l'altro Arimanios; e spiegava, poi, che l'uno rassomigliava, nel campo sensibile, alla luce piu che ad altro elemento; e l'altro, per contro, alle tenebre e all'ignoranza; e che tra l'uno e l'altro, intermedio, era Mitra, chiamato perciò dai Persiani "Mediatore"... 22    I Persiani poi moltiplicano racconti favolosi sui loro dèi... I Caldei dichia- rano che, tra i pianeti ch'essi chiamano dèi tutelari della stirpe, due sono benefici, due malefici, e gli altri tre, intermedi, sono buoni e cattivi ad un tempo. Le credenze dei Greci in proposito sono ben note a tutti (De Iside, 369 a-370 d). Le citazioni e le pezze di appoggio di Plutarco sono molto indica- tive, molto ben collocate e fatte al momento opportuno. Si capisce cosi come, per altro verso, egli, nel suo tentativo di far rientrare le religioni egiziana e persiana - in un'interpretazione simbolico-allegorica dei loro miti e delle loro credenze, simile sotto parecchi aspetti a quella operata sui testi ebraici da Filone l'Ebreo - entro i termini della reli- gione delfica, puntasse, si come Filone, su Platone interpretato in chiave teologico-religiosa. Non solo, ma nella chiara esigenza di Plu- tarco di costituire una possibile pace culturale nella convinzione di un'unica sacerdotale pia philosophia, di contro al naturalismo stoico e di contro a quella che sembra, per chi assuma a fondamento della realtà un principio razionale e intelligente, l'irreligiosità e l'assurdità degli epicurei (simili, alla fine, nel loro ateismo, o meglio nel loro credere gli dèi indifferenti, a coloro che, per ignoranza, in una loro volgare religiosità, temono il divino e i dèmoni, ove va sottolineato che il ter- mine tradotto con "superstizione" è in greco timore della divinità, 3etat30tt!Lov(cx: cfr. Plutarco, De superstitione), si capisce anche come egli si riferisse da un lato al concetto piu generale ed elastico del divino di Platone e dall'altro lato, invece, a certi singoli testi di Platone tratti dal Filebo, dal Timeo, dalle Leggi. Tali testi, interpretati a ritroso, cioè entro· una linea costituitasi dopo Platone, potevano servire, ap- punto, all'intento di Plutarco, dando un fondamento filosofico, cioè convincente in quanto razionale, a quello che Io stesso Plutarco dice il buon senso, il comune senso religioso di tutti gli uomini, che, se non educato, degenera o nell'ateismo o nella superstizione (cfr. De superstitione). Non dobbiamo pensare che gli dèi siano diversi tra loro, da popolo a' popolo; che siano, cioè, dèi barbari e dèi greci o dèi australi e dèi settentrio- nali. No, ma come il sole e la luna e il cielo e il mare· sono comuni a tutti, mentre sono chiamati da chi in un modo e da chi in un altro; cosf, pari- menti, le fhrme del culto e le denominazioni, diverse le une dalle altre, a seconda delle varie costumanze, sono, pur sempre, espressione di un'unica razionalità, che le ha tutte nobilmente ordinate, e di un'unica Provvidenza, che veglia su di esse, e di potenze ancillari preordinate su tutte. Di piu, gli uomini si avvalgono di simboli consacrati- e chi ricorre a simboli oscuri e chi ricorre a simboli piu trasparenti - guidando il pensiero sulla strada 23    pcrigliosa che conduce al divino. Alcuni, infatti, vanno completamente fuori strada c s'ingolfano nella superstizione (3etat30ttjLOV(at); altri sfuggono, per cosf dire, da quel pantano che ~ la superstizione, ma.piombano, d'altro canto, come in un dirupo scosceso: l'ateismo. Ecco pcrch~, in questa ma- teria, occorre soprattutto che noi adottiamo, come guida sacra in tali misteri, le ragioni che derivano dalla filosofia c consideriamo santamente, ad una ad una, le tradizioni c le liturgie; sf che... non erriamo interpretando in un differente spirito quel che i costumi religiosi stabilirono nobilmente sui sacrifici e le feste. [Tutti, comunque, ammettono che bisogna far risalire ogni cosa a una ragione] (De /siJe, 337/-378 b). Solo che, rifiutata l'interpretazione stoica della materia, Plutarco si ritrova di fronte alla difficoltà di opporre' all'essere che è, un essere che in quanto opposto all'essere o è essere come l'essere, uno con esso, o è non essere, cioè non è. A meno che, di nuovo, non si ricorra, in un'interpretazione del Timeo, a porre come condizioni logiche, da un lato il divino, principio ordinatore, e, dall'altro lato, una quantità neu- tra (materia) come possibilità di assumere tutte le forme, non logica- mente deducibile e di cui, per riprendere l'espressione platonica, non si può discorrere se non con un "ragionamento bastardo." ·Plutarco cosi viene accostando testi platonici assai equivoci, in cui Platone sa benissimo di avanzare delle ipotesi, tanto è vero ch'egli imposta la questione su di un piano "'descrittivo," cioè mediante il mito, e in Pla- tone rispondenti a momenti diversi e a p~oblematiche diverse, e li risolve in una sola interpretazione. Si delinea cosi l'interpretazione di Platone da parte di Plutarco e la sua costruzione: l. Il divino principio, l'essere che è, il bene (l'Apollo delfico, luce e armonia, corrispondente all'Osiride egiziano e all'Horomazes zoroastriano): Errano i nostri sensi, per ignoranza dell'essere reale, a· dar essere a ciò che appare soltanto. Ma allora che ~ l'essere reale? L'eterno. Ciò che non nasce. Ciò che non muore. Ciò in cui neppure un attimo di tempo può introdurre cambiamento. Qualcosa che si muove e che appare simultaneo con la materia in movimento, qualcosa che scorre perpetuamente c irresistibil- mente come un vaso di nascita c di morte: ceco il tempo! Persino le parole consuete, il "poi," il "prima," il "sarà," l'"accadc" sono la spontanea con- fessione del suo non-essere. Infatti, ~ ingenuo e assurdo dire "~" di qualcosa che non ~ entrato ancora nell'essere, o di qualcosa che ha già cessato di essere... Di contro, dire dell'Essere che ~. "Esso fu" o "Esso sarà" ~ quasi un sacrilegio. Tali determinazioni, invero, SQno flessioni e alterazioni di ciò che non nacque per durare nell'essere. Ma il dio -occorre dirlo? - "~"; ~. dico, non già secondo il ritmo del tempo, ma nell'eterno, che ~ senza moto, senza tempo, senza vicenda; e non ammette ~~ prima n~ dopo, né futuro né passato, né età di vecchiezza o di giovinezza. Egli è uno e nell'unità del presente riempie il "sempre": ciò che in questo senso esiste realmente, quello "è" unicamente: non avvenne, non sarà, non cominciò, non finirà. Occorre, allora, che nel modo ora spiegato i fedeli rivolgano al dio il saluto e l'invocazione: Tu sei (d,e~), o anche, per Zeus, Ct>me alcuni antichi dicevano: "Sei Uno" [Tu sei,. ei: tale l'interpretazione che Plu- tarco dà dell'epsilon, della "e," iscritta sul frontone del tempio delfico, dopo avere, d'altra parte, sottolineato le possibili interpretazioni che, giuocando in chiave platonico-pitagorica si possono dare di epsilon, inteso come la lettera, indicante in greco, il numero cinque: i cinque accordi dell'armonia; i cinque intervalli melodici; i cinque mondi - terra, acqua, aria, fuoco, etere; - la pentade - punto, linea, superficie, altezza = tetrade o solido, piu anima = pentade o essere vivente; - i cinque generi del Sofista: l'ente l'identico, l'altro, il movimento e la stabilità: "Taluno, a quanto sembra, precorse Platone nello scrutare tali cose e quindi consacrò al dio la ~:;, segno e simbolo del numero che esprime la. realtà. Del resto, Platone aveva ben compreso che persino il Bene si rivelava in cinque forme (nel Filebo): prima è la moderazione; seconda, la proporzione; terza, l'intelligenza; quarta, le conoscenze, le arti, le opinioni vere sull'anima; quinta, il piacere, ove mai esista, puro e immune da ogni mescolanza con il dolore." Sintesi di tutto ciò, la E sembra simbolizzare per Plutarco l'Essere Uno del dio; il solo dio è, tu sei: cfr. De E Delph., 389 c-392 a]. "Sei Uno," poiché la divinità non è moltitudine, come ognuno di noi, congerie svariata e intruglio di infinite ibride passioni. Al contrario, l'Ente vuoi essere uno, come l'Uno vuoi essere ente. Se l'es~re ammettesse un altro, questi, naturalmente, differirebbe dal primo, e pertanto entrerebbe nel divenire, cioè nel non essere: perciò sta bene al dio il primo dei nomi e éosl pure il secondo e il terzo: Apollo, in- fatti, per cosi dire, rifiuta la pluralità e nega la molteplicità; leios vuoi dire.che è uno e solo; quanto a Febo, è certo che cosi gli antichi chiamavano tutto ciò che fosse puro e casto... (De E Delph., 392 e-393 c). - Ma Osiride, il dio, in se stesso, è lontanissimo dalla terra, incontaminato, incorruttibile, puro da ogni materia che soggiaccia alla distruzione e alla morte. Alle anime umane, fino a che, quaggiu, sono imprigionate dai corpi e dalle pas- sioni, non è dato partecipare del dio, se non rispettando quel limite in cui sia dato loro giungere a un'oscura visione di lui,.per via di pensiero, attraverso la filosofia (De lside, 382 f); 2. La materia, neutra in quanto potenza (la nutrice platonica; l'Iside egiziana). Il principio attivo come disordine (non materia, in sé né buona né cattiva), bens1 attiva (l'anima malvagia delle Leggi di Pla- tone; Tifone egizio; l'Arimanios wroastriano): Iside, in verità, è il principio femminile della natura ed è suscettibile di ricevere ogni forma di generazione, in quanto è chiamata da Platone "nutrice 25    e ricettacolo comune" [Timeo, 49e-5la], e da molti altri è chiamata con una infinità di nomi, per il fatto ch'essa, in virtu della ragione,' volge e rivolge se stessa, accogliendo ogni tipo di forma e di idea. Essa ha un innato Eros verso colui che è il primo e supremo signore di tutte le cose, il quale si identifica con il Bene, e lo brama e lo persegue [Osiride]. Fugge, invece, e respinge la porzione che deriva dal male, perché essa, serve, si, a entrambi qualç spazio e materia, ma inclina sempre piu facilmente verso l'essere mi- gliore e offre a lui la possibilità di generare da lei stessa, e di impregnarla di effiuvi e di somiglianze, di cui ella gioisce e si rallegra, fecondata com'è e fatta pregna di tali generazioni. Generazione, infatti, non è altro che l'im- magine dell'essere nella materia; e il divenire è un'imitazione dell'essere. Ecco perché il loro mito non è fuori strada, allorché narra che l'anima di Osiride è eterna e che il suo corpo fu molte volte smembrato e annientato a opera di Tifone, e che lside andò errando e ne fece ricerca e riuscf,di nuovo a ricomporlo... (De lside, 372e-373a). Platone chiama la materia con il nome di Penuria, bisognosa com'è, di per se stessa, del bene e pregna di lui ed eternamente bramosa e partecipe di lui... Allorché, dunque, diciamo "materia," non dobbiamo essere tratti dalle opinioni di alcuni filosofi [gli stoici] e pensare a un certo corpo inanimato e indifferenziato, inerte e inattivo di per se stesso. Fatto sta che noi chiamiamo l'olio "materia del pro- fumo," l'oro "materia della statua"; e questi non sono privi di ogni difie- renziazione. Persino riferendoci all'anima e al pensiero dell'uomo, noi Ii consegniamo, quale materia di conoscenza e di virt6, alla ragione affinché li.adorni e li armonizzi; e taluni hanno dichiarato che l'intelletto è la sede delle idee [cfr. Aristotele, De anima, 429a, 27] e, quasi, la massa, in cui si esprime una immagine•della realtà intelligibile [cfr. sopra Moderato di Gades; oltre, Albino, Epitomè: "L'idea è in rapporto a Dio il suo atto intel- lettivo," IX, 1]... lside gode di una eterna partecipazione del dio primor- diale e gli è vincolata nell'amore di tutto ciò che in lui è buono e bello, e che, pertanto, non gli resiste..., e perciò essa è sempre attaccata strettamente a lui e sta costantemente intorno a lui, piena e pregna delle sue parti piu nobili e pure (De lside, 374d-375a). Le vesti di lside son di colore screziato, perché la potenza di lei riguarda la materia, la quale si trasforma in ogni cosa e tutto accoglie, luce e oscurità, giorno e notte, fuoco e acqua, vita e morte, principio e fine. La veste di Osiride, invece, non ha sfumatura di ombre, né screziatura di colori, ma solamente un llllico fondo, tutto sem- plice, la pura luminosità. Infatti il principio non ronosce combinazione; e il primordiale e l'intelligibile sono privi di mescolanze (De Iside, 382c). Il principio, l'Essere, che è, dunque, nella sua iafinita ricchezza e pienezza tutta in atto, non si depaupera né si risolve nella realtà ordinata e qualificata che da lui si genera, si come, secondo Plutarco, avviene per il dio stoico. Plutarco, perciò - e di qui deriva la sua interpretazione del Timeo, - doveva sostenere che la materia non ~ pura quantità, assolutamente passiva, ma è esistenza, potenzialità di 26    assumere forme e qualita, e in tal senso è povertà e desiderio, essa come la donna che si trasforma nelle sue generazioni, nelle quali tut- tavia non si esaurisce né si risolve il "padre," che, preso in sé, resta altrettanto ricco e fecondo, privo di mescolanze. Dio da un lato (Padre), materia dall'altro (Madre), il mondo e i mondi (Plutarco sostiene che possono essere cinque: cfr. De defectu oraculorum, 423c-424h, 428f-43la; De E Delph:, 389f-390a) sono il figlio. "La migliore e piu divina natura consiste di tre parti: l'intelligibile, la materia e il risultato di entrambi, che gli Elleni chiamano cosmo. Orbene, Platone fu solito chiamare la parte intelligibile con il nome di idea o modello esemplare o anche 'padre'; la parte materiale con il nome di 'madre' e 'nutrice,' e anche 'sede' e 'posto' di generazione; e il risultato di entrambi 'prole' e generazione [Timeo, 50c-d]" (De lside, 373f). Solo che, posta cosi la questione, e spiegati certi miti religiosi con altri miti e immagini; desctittivamente posti il divino essere e accanto, ab aeterno, la corporeità, il materiale su cui si opera la generazione; ammesso pure che i due termini siano aristotelicamente le condizioni della nascita del mondo che è generazione (tempo); posto che il divino, in quanto per- fezione è bene e che la materia in quanto mancanza e neutralità non è né bene né male; o si ammette che tutto in quanto generazione dovuta al principio divino è bene, che pur non risolvendosi nelle cose, essendo le cose simiglianti a lui, resta.il termine cui tutto aspira, in un unico amore;·oppure, poiché la presenza del male è inspiegabile (ché nel momento in cui si spiega il male, trovandone la ragione è anch'esso bene), va posto, accanto alla pura intelligibilità e alla pura corporeità, un terzo principio, un'attività inspiegabile e perciò irrazio- nale, fonte appunto del male. È meglio dire con Platone che la sostanza, la materia di cui il mondo è composto, non è stata prodotta, ma era da ~mpre sottoposta al Demiurgo affinché questi la disponesse e ordinasse a propria simiglianza entro i limiti che alla materia sono possibili... Dio non ha generato né la tangibilità e la resistenza dei corpi, né la façoltà immaginativa e motrice delle anime, ma, avendo trovato i due principt, quello oscuro e tenebroso (materia) e quello agitato e i"azionale, ambedue indeterminati e privi della perfezione con- veniente, li ordinò, li regolò, li armonizzò, producendo il piu bello e il piu perfetto degli esseri viventi... Coloro che attribuiscono alla.materia e non all'anima quella "necessità" di cui si parla nel Timeo [48a, 56c, 68e] e quella "infinitezza" e "incommensurabilità" di piu e di meno, di difetto e di eccesso, di cui si parla nel Filebo [24a], come intenderanno poi ciò che Platone asserisce, cioè che la·materia è senza forma e senza figura, priva di ogni qualità e di potenza propria, simile a quegli olt inodori che i profumieri adoperano per le· tinture? È impossibile che Platone postuli 27    come causa e principio del male ciò che in se stesso è inqualificato, inerte, indeterminato e che lo chiami "infinitezza brutta e malefica" e anche "ne- cessità spesso ribelle e riluttante a Dio..." Si tratta bensf di un principio disordinato e infinito che si muove da sé e muove e che Platone in molte occasioni ha chiamato "necessità" e nelle Leggi [X, 896 e-897 d] decisa- mente, "anima sregolata e malvagia (De animae procreatione in Timaeo, 1014 b-1015 a)... Bisogna dunque rendersi conto che l'una anima non è stata fatta da Dio e non è l'anima del mondo, ma una potenza di movimento spontaneo e perpetuo di cui l'impulso e lo slancio, senza proporzione né regola, sono sottomessi all'immaginazione e all'opinione; e che la s~conda Dio stesso l'ha armonizzata mediante i numeri e le proporzioni convenienti e, una volta costituita, l'ha elevata al grado di reggente del mondo generato... (1017a-b). L'anima, dunque, non è tutta opera di Dio, ma porta in sé, innata, la parte del male... (1027a). Là dove Tifone piomba ad impadronirsi delle piaghe estreme, ivi dobbiamo figurarci lside in atteggiamento di suprema tristezza e in espressione luttuosa, alla ricerca dei resti e delle membra sbranate di Osiridi:: ella li compone e serra al petto e nasconde tali reliquie, dalle quali essa porta alla luce di nuovo le cose nasciture e le fa sorgere da se stessa (De lside, 375a-b). Il timore di Plutarco a risolvere stoicamente la divinità nel costi- tuirsi dello stesso universo, lo porta, interpretando certi passi plato- nici, a porre la divinità come il complesso in atto e compiuto (perfetto), e perciò senza divenire e mancanze (incorporeo) di tutto ciò che ha essere, cioè che ha forma, per cui, appunto, il divino è essere: il divino, dunque, pura intelligibilità, è in atto tutte le forme (idee), in quanto la sua intellezione - egli intellezione in atto - è tutte le passibili forme. Se tale è l'essere che è, esso, in quanto eterno e perfetto, è oltre l'esistere ("Pure si va cianciando di emanazioni del dio e di trasfor- mazioni tali che il dio si risolverebbe in fuoco con l'universo intero e poi, di nuovo, si contrarrebbe, quaggiu, e si distenderebbe via via in terra e mare e vento e animali ed entrerebbe nelle forme paurose di viventi e delle piante; tutto questo, anche a udirlo, è empietà!"- chiara è l'allusione agli stoici -: "Al contrario, di ciò che entrò, comunque, nell'esistenza cosmica Dio serra insieme la compagine e domina la naturale debolezza corporea, che è volta, di per sé, all;l distruzione... Per dio non si dà mai scardinamento dall'essere e trapasso": De E Delph., 393e-394a). L'esistenza è, accanto all'essere (coeterna dell'es- sere, in quanto come l'essere condizione del reale) la materia - la éor- poreità come indefinita potenzialità, - che, tuttavia, non assume essere, non assume forme, se non si definisce, se non presuppone l'essere, se non ha, quindi, per sua natura desiderio di ciò che le manca; essa perciò tende all'essere, ad assumere forme, per cui il divino, egli rima- 28    nendo esso stesso immobile e in atto, è ad un tempo presupposto e termine dell'aspirazione del tutto. Evidentemente, dunque, rifiutando la tesi stoica della materia pura passività e ·senza qualità, bisognava porre, accanto all'essere - principio e fine - e all'esistere - materia- potenza - una terza condizione, un principio vitale, senza di cui la materia sarebbe restata pura passività. L'anima come vitalità è, dun- que, una terza condizione, che se da un lato spiega la tendenza del- l'esistere ad assumere essere, costituendosi come anima del mondo in quanto si modella sull'intellegibile (razionalità), dall'altro lato può ren- dere conto dell'affermazione di sé come individualità, che aspirando a sé e non all'essere uno, che serra insieme il tutto intelligibile al divino, si determina come non-essere, come ribellione a Dio, come frantumazione dello stesso Essere che è uno, ordine e bene, si deter- mina cioè come irrazionalità (male). Il divino, dunque, come pura intelligibilità e come essere è, ad un tempo, principio e fine, mentre la materia, esistente e vivente, è da un lato tendenza all'essere, al bene, e, dall'altro lato, nella stessa affermazione di sé, negazione dell'essere, conflitto, male, in una serie di gradi viventi, che, posto appunto il divino come termine ultimo di aspirazione, vanno all'infinito in una serie che si scandisce da una minor somiglianza al dio (mondo ter- restre e sublunare) a una sempre maggior somiglianza a lui (mondo celeste, dèmoni buoni), per approssimazione e in un perenne conflitto.· È un fatto che il divenire e la composizione di questo nostro universo risultano dalla mescolanza di forze antagonistiche, che non sono, però, equi- librate esattamente, perché la prevalenza appartiene alla forza del bene; non è, tuttavia, ammissibile che la forza del male perisca del tutto, dal momento che essa è, in gran parte, innata nel corpo del mondo, e, pure in gran parte, nell'anima dell'universo, in un duello perenne con la potenza del bene. Ebbene, nell'anima, intelligenza e ragione, vale a dire ciò che fa da guida e signoreggia tutto quanto vi ha di meglio, s'identifica con Osiride [il divino)... Tifone, per contro, è la parte dell'anima soggetta a passioni, è l'elemento titanico, e irrazionale e volubile... (De lside, 37Ia-b). Certa- mente, H, nel cielo e negli astri perseverarono immobili le ragioni supreme delle cose e le forme e tutto ciò che proviene dal dio; per contro, quaggiu, quel che è disseminato tra gli elementi soggetti alle leggi fenomeniche - terra, mare, piante, viventi in generale - si dissolve, si corrompe, va perfino sotterra... (De ]side, 375b). Il principio della fecondità e della con- servazione della natura è attratto verso di lui e verso l'essere, mentre il principio dell'annientamento e della distruzione è dissolto da lui, verso il non essere. Perciò, essi chiamano lside con un nome che deriva da "slan- ciarsi" (hlestaz) con sapienza e dall"'essere mosso," appunto perché essa consiste in un movimento animato e sapiente... (De lside, 375c). È bene esigere che nessuna cosa inanimata si:t superiore a ciò che è animato e 29    nessuna cosa priva di sensibilità sia superiore al senziente... Non nei colori, né nelle forDie esteriori, né in levigati pannelli è presente il divino: tutto ciò che non partecipa né può, di sua natura, partecipare alla vita ha una porzione di onore, inferiore a quella dei morti. Per contro, la natura, che vive e vede e ha da se stessa la sorgente del movimento e una conoscenza tale da saper distinguere quel che è suo e quel che le è estraneo, ha saputo attrarre su di sé un etBuvio e una poézione di bellezza da parte di colui che è saggezza, "in virtU del quale è governato l'universo," secondo l'espres- sione di Eraclito (De lside, 382b). Entro questi termini sembra chiaro come Plutarco - nel suo ten- tativo di giustificare sotto il segno di un'unica concezione religioso- filosofica gli aspetti diversi delle credenze religiose' ellenistiche ed orien- tali, le quali ultime. egli vede sintetizzate da un lato nei misteri egizi di Osiride-lside, dall'altro lato nella teologia zoroastriana - possa riprendere e giustificare, nel quadro della sua teologia e cosmologia, le credenze nei dèmoni, nelle capacità divinatrici e profetiche delle anime, in una, infine, descrizione di quella che è, nell'universo, la posizione dell'uomo, e di quale ha da essere il suo fine. Uno l'universo nella sua totalità, posti come ter~ni estremi l'Essere e la materia e tra l'uno e l'altro, nell'aspirazione della materia all'essere, la genera- zione - unica realtà effettuale, la cui durata costituisce il tempo - dalle forme piu basse - all'infinito - e inanimate, alle forme piu alte - al- l'infinito, verso l'Essere, termine ultimo - ve animate, nel perenne conflitto della vitalità, che in quanto tale è tensione ad essere e nel suo determinarsi e affermarsi è negazione dell'essere; entro l'universo uno, si.viene ad avere un'infinita scala di generazioni, di forme viventi, di anime, per un lato volte al limite, all'oscurità, alla corporeità, per l'al- tro lato volte all'essere, alla luminosità, al divino. Di qui l'afferma~ zione plutarchea che entro l'Uno universo, piu di uno possono essere i mondi, piu di una le condizioni delle anime, da anime-limiti, oscure - corporei~à, tra cui l'uomo nella sua condizione terrestre - ad anime piu luminose, meno limitate, ma non per questo meno reali, viventi, operanti, i cosiddetti dèmoni, ad esempio, e oltre ancora gli dèi, fino alla purezza assoluta del divino. Coloro che sostengono che Platone, avendo ammesso un elemento come substrato delle qualità sensibili che noi chiamiamo materia o natura, ha liberato i filosofi da molte e gravi difficoltà, dicono una cosa giusta: allo stesso modo mi sembra che difficoltà ancora piu numerose e gravi siano state superate da coloro che pongono tra dèi e uomini, la specie dei dèmoni, ritrovando cosi in certo modo un legame che ci congiunga e ci unisca a Dio. E poco importa che questa dottrina provenga dai Magi della setta di 30    Zoroastro, o con Orfeo dalla Tracia, o dall'Egitto, o dalla Frigia (De defectu oraculorum, 414f-415a). C'è chi ammette il trapasso, sia da corpo a corpo, sia da anima a anima: cosi, per esempio, la terra diventa acqua; l'acqua aria; e l'aria, nell'ascen- sione propria della sua natura, si tramuta in fuoco; allo stesso modo, nel.:ampo delle anime elette, è ammesso il passaggio da uomini a eroi; da eroi a dèmoni. Tuttavia, solo poche anime appartenenti al grado demo- nico, purificate dopo lungo volgere di tempo, mediante la virtu, riescono a partecipare completamente della divinità. Al contrario, talune, non riu- scendo a dominare se stesse, scendono dal grado superiore e indossano di nuovo corpi mortali e traggono una vita senza luce e fievole come un'esa- lazione... In realtà, piu lungo o piu corto che sia il tempo determinato o non, in tutti i casi si avrà sempre la dimostrazione voluta, attraverso testi- monianze sapienti e antiche, che esistono, cioè, alcuni esseri, quasi al con- fine tra gli dèi e gli uomini, i quali sono soggetti alle passioni mortali e alle mutazioni fatali. È giusto, secondo il costume dei padri, che noi con- sideriamo costoro dèmoni e li veneriamo con questo nome. Senocrate, amico di Platone, propose a simboli di questa concezione le figure dei triangoli. Al divino confrontò, per immagine, l'equilatero; al mortale lo scaleno; l'iso- sede, infine, al demoniaco. Il primo è uguale in tutto e per tutto; il secondo, del tutto disuguale; l'ultimo, uguale per un verso, disuguale per l'altro: proprio come la natura dei dèmoni, che partecipa a un tempo della passione del mortale e della virtu del dio. Ma la natura stessa offerse immagtru e simiglianze visibili: cioè degli dèi, con il sole e con gli astri; dei mortali, con le meteore, le comete e le stelle cadenti...; natura mista e figura di dèmone è essenzialmente la luna, la cui rivoluzione concorda con questo genere demoniaco, in quanto essa si mostra ora calante, ora crescente, ora cangiante... Figuratevi, ora, di sottrarre e portar via l'aria ch'è in mezzo tra la terra e la luna: naturalmente l'unità e la coesione del tutto risulte- rebbe spezzata dal fatto che ci sarebbe, nell'intervallo, uno spazio vuoto e slegato. Allo stesso modo, chi non ammette la categoria demonica toglie ogni continuità e relazione tra il mondo degli dèi e quello degli uomini, elimina gli esseri che, al dire di Platone, esercitano una funzione di inter- preti e di ministri; ovvero essi ci co~ringeranno a sconvolgere e a turbare ogni cosa, facendo entrare il dio nelle passioni e nelle cose umane e traen- dolo alle loro necessità... Noi, invece, non vogliamo dar retta per nulla a coloro che negano la divina ispirazione agli oracoli e la divina compia- cenza.per le cerimonie e i riti; ma neppure vogliamo credere che, in tali cose, il dio si giri e rigiri e si presenti direttamente e si affaccendi lui stesso. Piuttosto, facciamo risalire tali riti oracolari a coloro ai quali giustamente la cosa compete, voglio dire ai ministri degli dèi, che sono, per cosf dire, i loro famuli e segretari; noi crediamo che il mondo tutto sia percorso da dèmoni, alcuni volti a sorvegliare i sacrifici agli dèi e i riti misterici, altri in funzione di vendicatori di tracotanze e di crimini [ed è su questo motivo che si svolge, di contro alla provvidenza stoica, la provvidenza plutarchea: cfr. De sera numinis vindicta]•.. Certo, come tra gli uomini, anche tra i 31    dèmoni esistono differenze di valore, perché in alcuni l'elemento passio- nale e irrazionale ha lasciato, come un residuo, un avanzo ancora fievole e indistinto, in altri invece persiste in dose considerevole e inconsumabile (De defectu oraculorum, 415b-416c, 417b). Se da un lato la soluzione del significato da dare ai dèmoni chia- risce quanto sopra dicevamo, e cioè la concezione plutarchea di una realtà vivente, che, in un conflitto di forze, si scandisce in gradi, fino a ordinarsi, sempre pio razionalmente, a imitazione dell'Essere su-,premo, puro intelligibile, presupposto e fine; dall'altro lato, i testi sui dèmoni e sulla loro funzione, hanno un notevole interesse storico. Sono una testimonianza precisa non s~lo della presenza di credenze oracolari, astrologiche, magiche, quali si erano venute diffondendo, in particolare dall'Egitto, fin!> dal 11-1 secolo a. C., e alle quali abbiamo già sopra accennato, ma anche del tentativo che ora si fa di rendere conto delle stesse esperienze vitali che stanno a fondamento di quelle credenze. La teoria plutarchea dei dèmoni non è nuova: già ne tro- viamo tracce in Alessandro Poliistore, nei Physik,à kài Mystikà dello pseudo-Democrito, nelle Rivelazioni di Nechepso e Petosiride (cfr. so- pra), in alcuni testi alchimistici che rifluiscono nei testi del corpo erme- tico (certo su Plutarco, come testimonia anche il suo interesse per Osiride-Iside, ha avuto una forte influenza il motivo ermetico di Thot-Ermes, lo scriba e interprete di Osiride: non a caso Plutarco si fa interprete del significato riposto dei sacri riti e miti egiziani e persiani). Ciò che, tuttavia, interessa sottolineare è l'interpretazione di Plutarco, il suo risolvere le forze occulte in forze naturali, reali, in conflitto, ponendo il divino (la razionalità) come termine ultimo di aspirazione. E allora, come da quel conflitto si determina la scala degli esistenti, dalle prime qualificazioni oscure (corporeità) alle meno oscure (corpi viventi, animati, di cui l'uomo è il piu alto)., agli astri, alle piu luminose anime incorporee, maggiormente vicine al divino (i dèmoni: reali, tanto quanto reali sono il corpo, l'anima umana e via di seguito); cosi si giunge all'uomo, aspetto della realtà, in cui si sperimenta la presenza dello stesso conflitto, l'urto delle stesse forze vitali, lo stesSo determinarsi e costituirsi da un lato in corpo e vitalità (anima) e dal- l'altro lato in razionalità, in aspirazione all'ordine e.al divino (perciò l'anima non muore con il corpo, perché la morte può essere interpre- tata come eliminazione dell'oscurità). E allora il conflitto e la capacità di equilibrare il conflitto medesimo, se da un lato spiegano la divi- nazione, i sogni profetici ela possibilità, mediante certi riti (tecniche), di entrare in rapporto con gli spiriti, con le anime che sono i dèmoni, dall'altro lato spiegano come quei dèmoni stessi siano presenti, com'essi 32    operino, come servano di mediazione tra l'uomo e la divinità. Non solo, ma, per altro verso, v'è in Plutarco, di contro al fatalismo stoico, per il quale diviene impossibile da parte umana operare sui dèmoni, e di contro a certe forme magico-popolari secondo cui si può diretta- mente operare sulle divinità, indicata, sia pur in un solo accenno, la via, che verrà sviluppata in ambiente neoplatonico e nel commento agli oracoli caldaici, la quale rende possibile, attraverso il conflitto delle forze, la tensione tra le anime, la razionalizzazione di se stessi. Di qui anche, in un rapporto tra le anime, simili tra loro, l'azione sulle forze demoniache, e, mediante certi riti e tecniche, che Plutarco non a caso lascia ai competenti ("facciamo risalire tali riti oracolari a coloro ai quali giustamente la cosa compete": De def. orac., 417b), l'evocazione degli spiriti, e, quindi, l'avvicinamento al divino, in una salvazione che consiste nella "conoscenza" ed in cui sta per Plutarco la religiosità che non sia "superstizione" (e qui sono senza dubbio presenti, accanto a motivi ermetici, motivi che possiamo dire gnostici, se è vero che si può parlare, ad esempio per Filone l'Ebreo, di gnosti- Cismo giudaico). La nostra natura morale inaridisce e invecchia nell'attività dell'igno- ranza. Un riposo muto, una vita inerte dedicata all'ozio consumano non soltanto i corpi, ma anche le anime... Le facoltà naturali degli· uomini che ntm si muovono... appassiscono e invecchiano innanzi tempo... Credo che gli antichi abbiano dato all'uomo il nome di "phos" (luce), poiché è insito in ciascuno di noi, per analogia alla !uce, un intenso desiderio di conoscere e di essere conosciuto. Alcuni filosofi sostengono che la luce abbia una sostanza identica a quella dell'anima [Filone l'Ebreo?: cfr. sopra], e tra le altre argomentazioni adducono che niente l'anima rifugge piu dell'igno- ranza, e che essa respinge tutto ciò che è oscuro e che rimane turbata dalle tenebre, in cui trova timore e inquietudine, ma che la luce è per lei cos{ dolce e desiderabile, che di nessuna cosa ch'essa naturalmente ama può godere quando sia nell'oscurità, lontana dalla luce... (De latenter vivendo, 1129d-1130a). L'accenno alla sostanza dell'anima come luce, è, purtroppo, un solo accenno, che, se piu ampio avrebbe potuto chiarire molte questioni sull'origine della metafisica della luce e sulla conseguente discussione relativa all'influenza delle luci stellari, a loro volta riflessi della lumi- nosità divina. Ad ogni modo, entro l'àmbito di una ricostruzione del pensiero di Plutarco, l'accenno alla luce è interessante in quanto serve a meglio comprendere la posizione che viene ad assumere l'uomo, nei gradi in cui si scandisce la realtà nella sua aspirazione all'Essere, non a caso detto, con un'immagine, pura luminosità: "Le vesti di lside sono 33    di colore screziato, perché la potenza di lei riguarda la materia, la quale si trasforma in ogni cosa e tutto accoglie, luce e oscurità... La veste di Osiride [del divino], invece, non ha sfumature di ombre, né screziature di colori, ma solamente un unico fondo, tutto semplice, la pura luminosità" (Dc lsidc, 382c). La divinità, dunque, è rappresen- tata come pura luminosità senza ombre e colori, mentre la realtà è tale, esistente, visibile, in quanto non è né pura tenebra (il nulla) né pura luminosità (altrettanto invisibile, accecante), ma ombra e luce, in una serie di gradi che vanno al limite dalla tenebra e dall'oscurità (corporeità) alla luminosità pura (divinità), scandendosi in un com- plesso di oscurità (corporeità) e di luce (anima). E perciò l'uomo, di fatto corpo e vitalità (anima), da un lato affermazione di sé per esi- stere, ma, dall'altro lato, nel suo stesso affermarsi, negazione dell'essere, l'uomo, in tale sua tensione e, perciò, in tale sua aspirazione all'essere come pienezza, alla luce, viene ad essere come lo specchio - in pic- colo - dell'universo stesso. Si ripete cosi: in lui il conflitto tra luce e oscurità, tra sé come corporeità e animalità (anima) e sé come capacità di ordinarsi, di porre equilibrio, di costituirsi come razionalità. Anzi, è proprio nell'atto in cui l'uomo scopre sé come razionalità, che si rivela e si coglie, intuitivamente, la razionalità divina, la pura lumi- nosità. Aspirazione al divino, la capacità intellettiva e razionale si sco- pre in noi - oltre l'anima - come la presenza del divino, e, perciò, da un lato come possibilità di ordinare e.guidare le nostre forze vitali e, dall'altro lato, come esigenza di perdersi nella sua unità, in un amore per Dio (entusiasmo), che scaccia da sé ogni timore per lui (superstizione) o ogni indifferenza nel rimanere chiusi nella propria individualità (ateismo, epicureismo): "Quando l'anima crede e pre- sume che il dio sia presente, respinge via da sé dolori, timori, inquie- tudini e con la gioia si eleva sino all'ebbrezza, al riso e all'esaltazione" (Non pom: suaviter vivi..., llOlc-f; si confronti anche il motivo del- l'cbbrictà di Filone l'Ebreo: Dc cbrictatc). Molti sostengono giustamente che l'uomo è un essere composto, ma hanno torto quando pensano che sia composto soltanto di due principi: difatti quando considerano l'intelletto (vouc;) come una parte dell'anima, errano non meno di coloro che ritengono l'anima una parte del corpo. Di quanto l'anima è superiore al corpo, di tanto l'intelletto è migliore e piu divino dell'anima. L'unione dell'anima e del corpo produce la facoltà irra- zionale e passionale, quella dell'intelletto e dell'anima produce la ragione; la facoltà irrazionale e passionale è principio di piacere e di dolore, quella dell'intelletto e dell'anima di virtU e di vizio. Di queste tre parti, la terra forma il corpo, la luna forma l'anima, il sole dà origine all'intelletto (Dc 34    facie in orbe lunae, 943a). Le anime posseggono sempre i loro poteri, ma li posseggono piu deboli quando sono mescolate ai corpi...; tuttavia alcune anime talora fioriscono e riacquistano quella loro potenza nei sogni e al momento della morte, sia perché allora il corpo si purifica o subisce una modificazione favorevole, sia perché l'anima, essendo la parte razionale e meditativa liberata e svincolata dalle cose presenti, si dirige con la parte irrazionale e immaginativa verso le cose future... (De defectu oraculorum, 43lf-432c). 

Anche se molte sono le oscillazioni del pensiero di Plutarco, se molte volte egli è equivoco relativamente al concetto del divino e sul rapporto tra il divino e la realtà, vivente nel conflitto tra le due forze, nella tensione tra la forza disgregatrice, individualizzante e la forza organizzatrice e ordinatrice, certo l'aspetto piu appariscente del suo pensiero, accanto a quello di conciliare in una sola religiosità razionale (delfica) le molte esperienze religiose, vive e operanti al suo tempo, è il suo rovesciamento dello stoicismo, che spiega anche il significato e il limite della trascendenza del divino plutarcheo. Posto, di contro allo stoicismo, che il divino non si risolve nella molteplicità del reale, ma che il divino si pone come il presupposto dell'ordine e della razio- nalità co.ndizione dunque dell'essere delle cose, esso metaforicamente è il "padre"; e posto, perciò, che la materia e la corporeità, viventi per la tensione di forze vitali (anime), tendono all'essere, Plutarco poteva - ed in questo. consiste il rovesciamento dello stoicismo e il suo appello a Platone - da un lato prospettare il divino come termine di realizzazione (in tal senso trascendente) di tutta la realtà, non annul- lando l'essere nella esistenza, dall'altro lato poteva sostenere che dalla tensione tra le _due forze si realizza, o può realizzarsi, un ordine, in cui si rivela per imitazione la presenza del divino. 

Plutarco cos(, di contro al fatalismo stoico e al casualismo epicureo, poteva sostenere, sul piano umano, un qual certo volontarismo e dinamismo, fonda- mento della vita morale, che non avrebbe luogo senza conflitto e se l'uomo e il resto non fossero altro che momenti della necessaria manifestazione della divinità. 

Sotto questo aspetto sembra chiaro in che senso Plutarco ponga l'intelletto non come una parte dell'anima, ma come rivelazione della presenza del divino in quanto razionalità, cioè in quanto capacità ordinatrice e unificatrice, che si pone come dovere e come bene, che si coglie,- attraverso il conflitto stesso. 

Tale la ragione per cui Plutarco, interpretando un passo della Vll lettera di Platone (344b), afferma che l'intelligibile si coglie attraverso il conflitto, nell'atto in cui scoprendo sé come razionalità, si scopre sé come pensiero, cioè come unità di discorso e come dominio in unità di noi stessi, m quanto molteplicità di passioni. 

"L'intuizione di ciò che è intelligibile, luminoso e puro è come un lampo che brilla, e l'anima può coglierlo e vederlo una volta sola.

 Perciò Platone ["Convito," 210a] e Aristotele ["Alex.," VII, 668a] chiamano con il nome di "epoptica" questa parte della filosofia, poiché coloro che mediante la ragione hanno oltrepassato le varie opinioni di ogni specie, si elevano di colpo a quel principio primo, semplice e immateriale e toccando direttamente la verità pura che irraggia da esso raggiungono, come in una iniziazione, il fine della filosofia.

-- "De lside," 382e.

L'unità del discorso in cui si scandisce il ritmo della realtà, che assume essere in quanto si adegua all'unità dell'essere, per cui l'essere trascende la realtà, appunto perché ragion d'essere in atto del tutto, unità in atto del tutto, unità in atto delle forme - metaforicamente luminosità senza ombre, non discorribile - si coglie intuitivamente e, perciò, subito si perde - non a caso Plutarco dice che è come un lampo e che si vede una volta sola.

Esso, dunque, resta da un lato come ricordo, e, dall'altro lato, come desiderio, come termine cui si aspira, oggetto d'intelletto, pura intelligibilità. 

E allora, non risolta la realtà nella manifestazione dell'essere, l'essere si pone come condizione dell'esserci e come dover esser, per cui, colto l'essere, attraverso l'educazione e l'esercitazione del pensiero, esso diviene il bene, e poiché la realtà, e l'uomo, momenti dell'aspirazione all'essere, nel conflitto tra la forza organizzatrice e la forza disgregatrice, sono sganciati dall'essere stesso, nell'uomo, in quanto centro del conflitto, nell'atto che intuitivamente coglie l'essere, si postula la possibilità di realizzarsi da un lato come capacità (virtu) di vedere la ragion d'essere delle cose, cogliendole in ciò che esse sono nel loro ordinarsi secondo il modello divino, indipendentemente dalla relazione ch'esse hanno con l'uomo stesso (logos teoretico, la cui corrispondente virtu è la "sapienza," sofia), dall'altro lato come capacità di realizzarsi, tenendo presente il modello divino, armonizzando e ordinando in unità (ragionevolmente) le passioni e gli istinti (ragione pratica, la cui virtu è la "prudenza," fronesis). 

L'uomo, cioè, in quanto intuizione di sè come ragione, che lo trascende dal di dentro e che si pone come valore da realizzare, da un lato coglie sé come capacità di contemplare (vita teoretica, scienza), dall'altro lato come capacità, mediante la ragione, di ordinare e di indirizzare la propria animalità (anima vegetativa e anima sensitiva, corrispondenti all'anima "concupiscibile" di Platone; anima irascibile), il proprio aspetto irrazionale (se stesso cioè come conflitto e frantumazione) di volta in volta sapendo comportarsi giustamente, secondo una giusta misura (giusto mezzo), in un'armonia e medietà di passioni, non in una negazione delle passioni, in cui consistono le virtu etiche (vita pratica). 

La virtu morale differisce dalla virtu contemplativa in questo: ch'essa ha per materia le affezioni dell'anima e per forma la ragione" (De virtute morali, 1). 

Anche sul piano etico, coerentemente, la posizione di Plutarco e il suo rifarsi da un lato a Platone e dall'altro lato ad Aristotele, è in funzione antistoica, o meglio in funzione di una interpretazione di Platone e di Aristotele, diversa da quella stoica, e tale che gli permetta di mostrare che la virtu è insegnabile (cfr. "Virtutem doceri posse") e che la moralità non consiste solo in un corretto uso della ragione. 

Vi sono alcuni filosofi (Zenone di Cizio, Crisippo) che si trovano d'accordo nel considerare la virtu come un'affezione, come un abito della parte superiore dell'anima, prodotto dalla ragione, o piuttosto come la ragione stessa, invariabilmente fissa ai suoi retti principi. 

Essi non credono che in noi sia una facoltà sensitiva e irrazionale, diversa per natura dalla ragione. 

Questa parte dell'anima, ch'essi chiamano egemonica e intelligenza, diviene, dicono, vizio o virtu, a Seconda delle modificazioni che prova nelle sue affezioni ed abiti. 

Essa non ha nulla di irrazionale.

Essi sostengono che la passione stessa sia ragione, ma corrotta e depravata dai giudizi falsi e perversi che la trascinano fuori di sé. 

Questi filosofi sembrano aver tutti ignorato che ciascuno di noi è in realtà un essere doppio e composto. 

O meglio essi parlano di una sola duplicità, di una sola composizione; quella che risulta dall'unione dell'anima con il corpo; ma non si sono accorti che la stessa anima è in qualche modo composta di due nature diverse; che la sua parte irrazionale è come un secondo corpo unito alla ragione, da intimi e necessari legami. 

Pitagora, invece, sembra aver conosciuto questa seconda composizione.

Platone vede con la massima evidenza che l'anima del mondo non è un essere semplice, uno per natura, senza composizione; ma ch'essa è un mescolarsi del principio dell'identico e di quello dell'altro in un conflitto tra l'anima buona e l'anima malvagia. 

L'anima umana che altro non è che una porzione di quella del mondo, formata su numeri e proporzioni uguali a quelli dell'anima cosmica, non è né semplice né senza affezioni. 

Essa ha due facoltà: una che si adegua al ragionevole ed all'intelli- genza, per sua natura atta a dominare l'uomo ed a governarlo; l'altra, irrazionale, sregolata, sede delle passioni e degli errori, ha bisogno d'essere retta da una facoltà superiore. 

La parte irrazionale si divide in concupiscibile e irascibile.

Aristotele ha fano un grande uso di questi principi, soprattutto della distinzione tra razionale e irrazionale.

Orbene, i costumi, per darne qui un'idea, sono una qualità della parte irrazionale; e si chiamano cosi perché questa qualità, impressa dalla ragione in questa parte dell'anima, è dovuta all'abitudine. 

La ragione non vuole distruggere interamente le passioni, il che non sarebbe né possibile né utile, ma solo infrenarle entro giusti limiti, dando cosi luogo alle virtu morali, che non operano affatto l'annientamento totale delle passioni (apatia) ma le regolano e le moderano. 

Tali virtu sono il frutto della prudenza (phronesis), che riconduce ad una disposizione equilibrata e giustamente misurata l'attività naturale delle passioni.

-- "De virtute morali", 3, 4.


L'appello di Plutarco all'aspetto formale dell'etica aristotelica, il suo puntare sulla moralità come conflitto, sul bene e sul male come capacità di sapere o meno, di volta in volta, costituirsi secondo misura oppure no, nettamente respingendo sia l'accettazione passiva di ciò che avviene, riconducendo ogni avvenimento ad una superiore ragione da cui tutto dipende (fatalismo stoico), sia l'esigenza, in un mondo ove tutto avviene a caso, di ritirarsi in conventicole di amici (epicureismo: cfr. De latenter vivendo), sembra rendere esattamente conto del modo con cui Plutarco si è rifatto a Platone, dandone un'interpretazione dinamica, sottolineando, appunto, tutti quei motivi da cui pare che Platone intenda il mondo dell'Essere non come un dato, ma come un dovere essere. 

Si capisce cosi perché Plutarco perfino sul piano cosmologico - non a caso egli punta sulla natura come potenzialità - interpreti il "Timeo" in termini rovesciati rispetto all'interpretazione stoica, sottolineando che, sia pur posto il divino quale condizione dell'essere del tutto, delle forme delle cose, non è il divino che si traduce ed è nell'esistenza del mondo, ma è il mondo che, vivente di forze opposte, si adegua e tende, ascende, dai gradi piu oscuri ai piu luminosi, al divino, pura intelligibilità, pura luminosità. In tale stoicismo rovesciato, indipendentemente dal divino, che resta a sé, termine di realizzazione e di amore, e in tale insistenza sulla vita- lità della natura e sull'esigenza dell'uomo (la quale, per l'uomo, intuito il divino, diviene un dovere) di dominare se stesso, di costituirsi come ordine e misura, a simiglianza del divino, molti dei motivi relativi alla natura restano quelli stoici -- il motivo della simpatia, il motivo della tensione tra un principio attivo e un principio passivo, donde si genera e si costituisce il ritmo in cui si scandisce la realtà. 

Sul piano umano resta, particolarmente, il motivo della filantropia e, conseguentemente, i motivi del piu recente stoicismo, come da parte del saggio l'impegno a operare sempre in funzione di una pacificazione politica, in nome di una superiore armonia, di un superiore equilibrio delle "ragioni" mediante cui le società si adeguano alla misura del divino, e l'aspirazione plutarchea a che gli stessi governanti e sovrani siano consigliati e ammaestrati dai saggi (cfr. Musonio, Anche i re debbono studiare filosofia). 

Di qui anche l'importanza data alla cultura mediante cui sviluppare quei semi di virtu che sono propri di ogni anima (cfr. sopra Musonio; Plutarco, "De educatione puerorum"), cultura che, entro i limiti del possibile e delle varie condizioni economiche, Plutarco vorrebbe fosse data a tutti.

Tutti i genitori debbono sforzarsi di dare ai propri figliuoli la piu perfetta educazione.

Coloro che non sono sufficientemente liberi si limiteranno a ciò che la loro fortuna permetterà di fare. 

-- De educ. puer., 11. 

Cosi, anche sul piano politico, l'appello di Plutarco è un appello a una possibile pacificazione, mediante la cultura e la conoscenza, simile alla pacificazione da lui sostenuta relativamente alle religioni, una possibilità d'incontro tra le tradizioni delle antiche poleis e la realtà di fatto che è l'impero di Roma. 

Entro quest'àmbito Plutarco si muove con molta cautela. 

Plutarco riconosce la supremazia di Roma.

In questi tempi moderni, ogni guerra ellenica, ogni guerra esterna è fuggita e svanita di mezzo a noi.

Le nazioni hanno solo tanta indipendenza quanta ne concedono i nostri padroni.

-- Precetti politici, 824c.


Estremamente limitata e oramai la possibilità di usare l'arte politica per i cittadini delle provincie elleniche.

Ai nostri giorni, quando non è piu compito delle città condurre guerre o abbattere tiranni o negoziare alleanze, quali funzioni politiche restano e quali modi di eccellere nello stato? 

Id., 850a. 

Entro questi limiti, tuttavia, Plutarco tende a mostrare la funzione che può ancora avere, sul piano di una socialità ed eticità intesa aristotelicamente, e che perfettamente s'inquadra nei termini della sua concezione religiosa e della sua interpretazione di Platone, una doppia azione politica, mediante cui attuare la natura umana

Sembra chiaro in che senso Plutarco sottolinei l'antico ideale dell'uomo, tale non in quanto individuo, ma in quanto animale politico: cfr. Se un vecchio debba governare lo Stato, 791c).


Da un lato in modo tale che ciascuno attui, per ciò che gli compete, il suo dovere politico entro i limiti della propria città e, dall'altro lato, in relazione con il governo di Roma, salvaguardando nell'armonia dell'Impero le libertà delle proprie poleis. 

Quali funzioni politiche restano, dungue, nei nostri Stati? 

Restano gli affari civili da istruire nei tribunali, le missioni presso l'imperatore, tutte cose che richiedono un uomo attivo e ad un tempo fermo e prudente; in una città vi sono poi molte istituzioni utili, ma obliate, che conviene rimettere in piedi; e poi si possono suggerire e attuare riforme (Precetti politici, 805a). 

Non solo, ma, anche, attraverso il proprio esempio, si deve mostrare cosa voglia dire essere uomo davvero, oltrepassando i singoli nazionalismi, per indicare come in realtà si tratti non di istituzioni o di regimi politici, ma di uomini.

Benevolenza e collaborazione: sono questi i principi che Plutarco apprezza di piu. 

Lo stesso ordinamento a coppie dato da lui alle sue "Vite parallele," ponendo accanto quella di un romano (Romolo) e quella di un greco (Teseo), mostra ch'egli voleva che i due popoli fossero considerati complementari l'uno dell'altro, non avversi, e che teneva a sottolineare come entrambi avessero prodotto uomini famosi nella storia. (Sinclair, op. cit., p. 431). 

Non di istituzioni o di regimi politici si tratta, appunto, ma di volgere l'uomo, attraverso l'educazione e la filosofia, a farsi simile al divino, s1 che l'uomo salvandosi mediante la conoscenza, si prepari a ritrovare la propria patria, sollevandosi dalla terra al cielo, fin da questa terra che è, in effetto, terra d'esilio: esiliato sulla terra, io stesso vado errando in questo luogo di miseria; quando Empedocle da Girgenti parla cosi, non è per sé solo, ma per nòi tutti che afferma essere noi esiliati e stranieri nel mondo.

-- (De ezilio, 17). 

Già con Dione Crisostomo si vede bene il significato del delinearsi di una corrente sofistico-retorica che, avendo centro in Roma, politicamente si irradia nei paesi dell'Impero. 

Sia pur ora in una situazione politica mutata, rispetto a quella che sta a cavallo ma sempre tesa a una giustificazione dell'Impero, ci rendiamo conto di come si puo, su di un piano scettico, assumeado posizioni pirroniane, rifarsi al significato politico di posizioni simili a quella di Cicerone, o, meglio, di un Filone di Larissa, in una dialettica discussione dei pro e dei contra, onde, discutendo ogni posizione, giungere ad optare per quella meno incoerente, piu verosimile, politicamente piu utile e adatta alla vita. 

Sulla linea di Dione Crisostomo, del quale sembra sia stato discepolo, tale atteggiamento fu particolarmente assunto da Favorino Arletano, nato ad Arles.

A Roma e iscritta all'ordine equestre, in relazione con i maggiori centri di cultura (e ad Atene, a Corinto, in Asia Minore, dove tenne discorsi e conferenze), amico di Plutarco, che gli dedica il "De primo frigido" e lo fece interlocutore delle "Quaestiones conviviales."

Amico anche dei romani Frontone e di Aulo Gellio, Favorino si preoccupa soprattutto di rimettere in discussione la coerenza dei vari sistemi filosofici, da un lato chiarendone il significato, dall'altro ponendoli l'uno all'altro di fronte in dialettica opposizione. 

Favorino, cosi, sembra, dei suoi moltissimi scritti, non rimangono che alcune orazioni e diatribe, e pochi frammenti, di cui uno, recentemente scoperto.


Sulla vita di Favorino d'Arles non abbiamo poche notizie,

 abbastanza esteso sull'Esilio, 


- nei sui saggi Favorino si propone di esporre gl'aspetti piu salienti delle varie tesi filosofiche, in forma divulgativa, dando, inoltre, gli strumenti perché fosse possibile, difesa l'una e l'altra posizione, dimostrarne la contraddittorietà interna.

Di qui, accanto ai "Memorabili," in 5 libri, alla "Storia varia," in 24 libri (come appare dai frammenti che ne possediamo, nei "Memorabili," da cui ha ripreso anche Diogene Laerzio, Favorino riferiva gli aneddoti fioriti, nel tempo, sui principali filosofi.

Nella "Storia varia" gli aspetti piu appariscenti delle tradizioni culturali.

Il titolo di due frammenti conservati è già abbastanza indicativo.


I. filosofi che hanno fatto qualche scoperta importante per la storia della cultura; Gli accusatori dei filosofi 


ed accanto ad alcuni scritti divulgativi e polemici:

"Sulle idee", 

"La filosofia di Omero", 

"Su Platone", 

"Su Socrate e la sua arte erotica,"

"Sul modo di vivere dei filosofi,"

"Su Plutarco e lo stato d'animo dell'Accademico, Alcibiade, Contro Epitteto) ed eruditi (Un compendio di Pamfile: compendio di uno scritto grammaticale, composto da una certa Pamfile), le opere fondamentali di Favorino: una in 10 libri, su l tropi pirroniani (in cui, appunto, si davano gli strumenti, i modi o tropi mediante i quali dimostrare l'incoerenza delle varie filosofie, in una ripresa dei tropi di Enesidemo), l'altra in 3 libri su la La fantasia catalettica, in cui si rimetteva ancora una volta in discussione la possibilità, sostenuta dagli stoici e su cui si fonda la loro gnoseologia, del passaggio dalle strutture della ragione alle strutture della realtà, ed in cui Favorino sosteneva che nulla è afférrabile (xa."fCXÀ'1)m6v) in sé.

Ogni rappresentazione è sempre una nostra rappresentazione.

 Pirroniano dunque, Favorino accoglie, su di un piano retorico la tesi accademica di Cicerone, mediante cui, discutendo i pro e i contra, determinare alla scelta della tesi piu verosimile, piu probabile, praticamente utile, che, sembra, consiste, secondo Favorino, nell'ipotesi aristotelica sul piano fisico e logico (scientifico) e in quella stoico-platonica sul piano etico-politico. 

Che la posizione scettica, presa come metodo, puo assumere un suo particolare significato sul piano retorico, in funzione politica, mediante cui convincere a una certa concezione, sia pur assunta come ipotesi, è chiaro. 

Ma è altrettanto chiaro in che senso lo scetticismo metodologico ha una funzione preponderante nel processo dell'indagine scientifica. 

Se da un lato, entro i termini della retorica, la discussione di tutte le concezioni di sfondo puo servire per determinare una certa visione (sia essa la stoica, la platonica, l'aristotelica, o meglio nessuna di esse presa in sé) e a quella convincere in un abile uso delle tecniche retoriche; dall'altro lato, entro i termini di un effettivo sapere (e tale è il significato di scienza, già molto bene indicato da Seneca), la scepsi, intesa come ricerca critica, costituiva le basi delle possibili ipotesi, non contraddittorie e perciò veraci, mediante cui spiegare i fenomeni naturali. 

In altri termini, anche in questo campo, si presentano innanzi tutto descrittivamente le varie ipotesi che sui fenomeni naturali si sono avute nel tempo, insieme a una descrizione dei fenomeni stessi, per poi, contrapponendo l'una ipotesi all'altra, vedendo di ciascuna i pro e i contra, dare la soluzione piu probabile, determinandone le ragioni (cause) non contraddittorie. 

C'è, a tale proposito, una testimonianza assai indicativa di Plinio il Giovane in due sue lettere a Licinio Sura. 

Di Licinio Sura sappiamo che e amico di Marziale, che fu tre volte console, vicinissimo a Traiano, per il quale scrisse discorsi e che ebbe grande autorità. 

Sappiamo, inoltre, che, uomo di notevole cultura, interessato ai piu vari movimenti culturali del suo tempo Licinio Sura si preoccupa, da un lato di rendere conto di quei movimenti nella loro funzione politica, dall'altro lato, in uno studio comparativo delle varie ipotesi sui fenomeni naturali, di discutere i pro e i contra di ciascuna soluzione. 

Plinio, appunto, scrivendo a Licinio Sura, nella prima lettera (Lettere familiari, IV, 30), gli descrive il fenomeno dell'abbassamento e dell'alzamento dell'acqua che tre volte al giorno regolarmente avviene nel corso di una corrente che si getta, dalla parte della sponda orientale, nel ramo comasco del Lario.

Ti porto dalla mia terra natale, a mo' di regaluccio, un problema degno della tua ben nota, profonda erudizione.

Dopo avere avanzato cinque ipotesi che servono a spiegare il fenomeno, ne lascia a Licinio Sura la discussione e la possibile soluzione.

Esamina tu le cause, tu lo puoi, che producono un effetto cosi strano.

Nella seconda lettera (Lett. fam., VII, 27), Plinio chiede all'amico Licinio Sura se ritiene che i fantasmi esistano oppure no.

Vorrei sapere se gli spettri esistano e se tu ritenga abbiano una propria fattezza e una potenza divina, oppure siano senza consistenza e realtà e ricevano apparenza solo dalla nostra paura.

Gli riferisce una serie di racconti intorno a storie di fantasmi. 

Particolarmente interessante - anche come testimonianza su di un certo tipo di credenze e come indicazione di fatti che su altri piani si tentava di spiegare - è l'aneddoto sulla bella e comoda casa nella quale nessuno voleva piu abitare perché la notte ci si sentiva - "nel mezzo del silenzio della notte si udiva un suon di ferraglia e uno strepito di catene da lontano prima, poi piu da vicino, quindi appariva uno spettro - e sulla quale il proprietario mise un affittasi in cui si offre la casa a modico prezzo, nel caso qualcuno, ignorando cosi gran guaio, volesse affittarla o acquistarla.

La casa e presa dal filosofo Atenodoro, che, messo in avviso dal modico prezzo, informatosi, aveva saputo del fantasma.

Atenodoro, pur cercando di distrarsi, assorbendosi tutto nello studio, senti ugualmente il rumor di catene e vide lo spettro, ma, senza farsi prendere dal terrore, gli andò dietro finché, nel cortile, il fantasma improvvisamente svani.

Segnato il punto, Atenodoro il giorno dopo fece scavare, su ordine dei magistrati, nel luogo ove il fantasma era sparito.

Là trovano ossa e catene.

Raccolte le ossa e sepolte a spese della città, la casa non fu piu visitata dai mani, sepolti, secondo i riti.

Plinio cosi conclude la lettera: 

Ti prego perciò di volere aguzzare l'ingegno. 

L'argomento è degno che a lungo e a fondo tu l'esamini.

E neppure sono io indegno che tu mi apra i tesori della tua scienza. 

E anche se tu, come sci solito, esaminerai il pro e il contro, vedi però di giungere a una conclusione piu decisiva, per non lasciarmi in sospeso e nell'incertezza, poiché la ragione del mio consulto e il desiderio che cessasse ogni dubbio.

Le due lettere di Plinio hanno un valore documentario di non poca importanza. 

Molto chiaramente mostrano le due facce di un unico metodo di lavoro.

La descrizione di fenomeni quali si sono registrati ed esposizione delle varie ipotesi esplicative, indipendentemente da discussioni.

A tale esigenza di aggiornamento e di conoscer.za delle varie ipotesi, base da un lato per una preparazione culturale generale e, dall'altro lato, per una discussione che portasse oltre e proponesse ulteriori e piu convincenti ipotesi, hanno risposto, in quest'epoca, le molte storie e questioni naturali, in cui è raccolto di tutto, e anche le storie delle varie concezioni, insieme alle isagoge, alle vite dei filosofi, agli aneddoti fioriti su di loro, in un ordinamento per questioni, per scuole, per discendenze (lavori tutti, sotto questo aspetto, estremamente oggettivi, la cui funzione storiografica è chiarissima e il cui maggior monumento sono Le vite,.le opinioni, gli apoftegmi dci filosofi celebri di Diogene Laerzio.


Sulla base dei dati reperiti - sia mediante il lavoro storiografico sia per nuove esperienze dirette e personali - confronti e discussioni delle varie ipotesi, da cui si determinano nuove ipotesi. 

Entro quest'àmbito, entro i termini di tale ricerca metodologica, che ha le sue piu lontane origini nel tipo di ricerca proprio della scuola di Aristotele, si assumono a contenuto di indagine i diversi piani di fenomeni: dai fenomeni naturali e dalla possibilità di una loro calcolabilità (fisica, astronomia, astrologia, matematica) ai fenomeni piu strettamente appartenenti alla natura umana (esperienza religiosa, ivi compresi i fatti extralogici, miracolosi e straordinari; psicologia; e via di seguito). 

E poiché sia per l'una ricerca che per l'altra, sul piano della discussione delle varie ipotesi avanzate, nella determinazione dei pro e dei contra, si tratta di precisare le condizioni che permettono una discriminazione e perciò la possibilità o meno di un giudizio, l'indagine stessa diviene, innanzi tutto, studio del giudizio, cioè "logica." 

Di qui, sul piano scientifico, si vennero chiaramente determinando due vie, a seconda che l'indagine sulla capacità del giudizio sfociasse o nell'impossibilità di qualsivoglia giudizio - si pensi alla corrente della medicina empirica, che trova il suo fondamento nella tesi piu strettamente scettico-pirroniana da Menodoto a Sesto Empirico, - oppure, rifacendosi alla scuola peripatetica, fiorita in Alessandria, assumesse come veraci quei principi che per la loro non contraddittorietà permettessero un discorso non contraddittorio, entro cui sistemare e ordinare tutto il sapere relativo a certi contenuti.


Si pensi all'opera medica di Galeno e all'astronomia e astrologia di Tolomeo.


Ma di qui anche, su di un piano piu strettamente scolastico e culturale, la discussione delle tesi e delle soluzioni presentatesi nel tempo sulle singole questioni, raggruppate in questioni di logica (dialettica e retorica), di fisica, di etica, e in questioni relative al fondamento del tutto (teologia), accettate o respinte a seconda se ritenute logicamente giustificabili. 

Si vede bene, cosi:, come i maestri si volgessero, in tale presentazione delle varie tesi e soluzioni al commento e all'interpretazione di testi di Platone, di Aristotele, degli Stoici, degli Epicurei e usassero in funzione dell'una e dell'altra interpretazione, nella discussione dei pro e dei contra, nel determinare venice l'una ipotesi piuttosto che l'altra, soluzioni e strumenti non poche volte accolti dalle stesse posizioni che vengono criticate e respinte, cercando di spiegare entro questi termini anche esperienze nuove, visioni e concezioni che provenivano non dalla tradizione greco-romana, ma dalle esperienze religiose dei paesi orientali, in particolare dall'Egitto, dagli ebrei come dai cristiani (galilei), dalla Siria.

Entro questi termini sembra chiaro anche come si forma da un lato quella soluzione che va sotto il nome di gnosi e dall'altro lato si sia venuto costituendo il complesso dei libri ermetici, insieme, per altro verso, alle sintesi che provengono dai commentatori di Platone, e alle interpretazioni di una certa logica intesa come strumento e introduzione, che proviene da alcuni commentatori della logica di Aristotele e degli Stoici, il piu delle volte usata come introduzione a intendere il fondamento ultimo del tutto interpretato in termini platonici (e qui ha principio la formazione del medievale "Platone teologo" e "Aristotele logico"). 

Giova, d'altra parte, ricordare ora che già dalla fine del 1 secolo a. C.,.con Enesidemo, lo scetticismo si era delineato, di contro ad ogni assun- zione dogmatica, come atteggiamento critico-metodologico, in un'analisi precisa, da un lato dei modi o tropi argomentativi, dall'altro lato delle condizioni e dei limiti del discorso, e che nell'arco di tempo che va da 44    

Enesidemo ad Agrippa (metà del I secolo d. C.), l'indirizzo scettico si era venuto incontrando con l'indirizzo della medicina empirica, finché con Menodoto di Nicomedia, vissuto tra 1'80 e ir 160 d. C., i due indirizzi confluirono in un unico metodo di ricerca scientifica (da Enesidemo ad Agrippa e Zeucsis; per essi e per i tre momenti fondamentali del me- todo della medicina empirica, autopsia, historie, mimesis, che ebbero non poca influenza sul modo della ricerca in generale, si confronti sopra). 

È noto che nel campo della medicina si sono determinati tre indi- rizzi fondamentali: l) l'indirizzo dei medici teorici (Xoyutot), fin dal m secolo a. C., tra cui con Ateneo di Attalia, vissuto sotto Ner0ne, e i suoi discepoli Agatino di Sparta e Archigene di Apamea, vanno posti i cosiddetti "pneumatici" (cfr. sopra); 2) l'indirizzo dei me- dici "metodici," che, iniziatosi con Temisone di Laodicea (seconda metà del I sec. a. C.), e il celebre Asclepiade di Prusa (o di Bitinia), è proseguito con Tessalo di Tralle (vissuto sotto Nerone), e Sorano di Efeso (vissuto nel n secolo, sotto Traiano e Adriano); 3) l'indirizzo dei medici empirici, che, ufficialmente iniziatosi con Filino di Cos (m sec. a. C.), prosegui, in una sempre maggiore precisazione dell'in- dagine metodologica, con Serapione di Alessandria, Apollonia il Vecchio, Glaucia di Taranto, Eraélide di Ta- ranto e con il celebre oculista Demostene Filalete, con Diodoro, Lico di Napoli, Zopyro di Alessandria, Archibio, Apollonia di Cizio, Zeucsis, Dionigi di Egea, Antioco di Laodicea, e tra il I e il u secolo, con Menodoto di Nico- media. I "teorici" fondavano la loro filosofia e patologia entro il quadro della concezione stoica, rifacendosi al "pneuma"; i "metodici", invece, pur rifacendosi all'esperienza, sostenevano esser necessario, per non trovarsi di fronte a una infinita serie di dati muti, collegare quei dati stessi ragionevolmente: tale tesi fu sostenuta da Asclepiade di Prusa e da Sorano di Efeso, il piu grande ginecologo dell'antichità, autore di un trattato Sulle malattie delle donne e sulle malattie acute e croniche, insieme agli altri due medici piu famosi prima di Galeno, Rufo d'Efeso, specialista in anatomia - Sui nomi delle parti del corpo umano -, studioso della circolazione sul sangue - Sul polso -, della patologia delle vie urinarie - Malattie dei reni e della vescica - e Areteo di Cappadocia, sintomatologo e patologo - Sulle cause e i segni delle malattie acute e croniche. 

Nella polemica contro i "teorici" e contro i "metodici," con Menodoto la medicina empirica trovò nella meto- dologia scettica il suo fondamento teorico. Senza dubbio l'atteggia- mento di Menodoto fu soprattutto polemico nei confronti degli altr: due indirizzi medici, forse anche per ragioni di supremazia profes· sionale, come malignamente fa intravedere Galeno (De subf. emp., 63-64, in Deichgraeber, Die griechische Empirill_erschule) parlando di lui e della sua fama. 

E fu, appunto, per dimostrare che i "dogmatici" erano nel falso e che nel falso erano anche i "metodici," il cui atteggiamento nei confronti della pura empiria, sostenuta dagli "empirici," era effettivamente assai convincente (la raccolta dei soli dati, se non ragionati e connessi e perciò discriminati, implica l'inutilità e il silenzio dei dati stessi), che Menodoto assunse le argo- mentazioni degli scettici, respingendo di essi la soluzione "probabi- lista," ch'era in fondo la soluzione dei "metodici," mediante cui far vedere che relativamente ad ogni ipotesi di spiegazione generale è necessario sospendere ogni giudizio, anche sulle possibili ipotesi che i metodici traggono dall'analisi dei dati, costituendo dei quadri clinici entro cui determinare volta a volta le cause delle malattie. 

In realtà la polemica di Menodoto è volta a dimostrare l'illecità, sul piano scientifico, del passaggio dai dati e dall'analisi e. confronti di essi (o direttamente osservati dal medico, ciascuno in sé e in relazione ad altri dati e feno- meni, in cui consiste l'autopsia; o, data l'impossibilità che un solo me- dico possa osservare da sé un gran numero di dati, normali e eccezio- nali, raccolti dalle osservazioni di altri medici, quali si sono svolte nel tempo, in cui consiste l'historie) alle ·ragioni, cui, oltrepassando i dati, si giunge, per via analogica, usando poi le ragioni per spiegare i dati. Menodoto si rendeva finemente conto che cosi si vengono ad avere due piani, distinti e non interdipen<)enti, il piano delle esperienze e il piano delle ragioni, per cui le stesse "ipote~i" dei metodici divengono alla fine simili a quelle dei "teorici," e altrettanto aprioristiche. Il fervore polemico di Menodoto contro le posizioni dei "teorici" - c h e trovano il loro fondamento oltre l'esperienza nelle concezioni del tutto di tipo platonico, stoico, aristotelico - e contro le posizioni dei "metodici" - che si fondavano sul motivo del "probabile," in maniera altrettanto dogmatica, - sembra abbia condotto Menodoto fino alla di- struzione della medicina come scienza (paradossalmente, ma coerente- mente, egli giungeva fino a negare che il medico abbia un fine, anche quello che Ippocrate e Diocle di Caristo sostenevano essere il movente del vero medico, l'amore per l'uomo, la filantropia) (cfr. in K. Deich- graeber, Die griechische Empirikerschule: eine Sammlung der Frag- mente und Darstellung der Lehre, Berlino, 1930, n. 293). In effetto Me- nodoto, rifacendosi alle istanze della scepsi pirroniano-enesidemiana, e rifiutando ogni teorizzazione, riconduceva con chiarezza l'indagine umana entro i suoi limiti leciti, l'esperienza, senza con questo, come ri- sulta dallo stesso Galeno - che pur non aveva grandi simpatie per Menodoto, ma che lo usa per riferire sul metodo della medicina empirica: cfr. Galeno, Sulle sette, De subfiguratione empirièa; anche Deichgraeber, op.cit., n. 10 b, p. 72-90,- rimaner fermo a una mèra enumerazione di fatti o di casi. 

Se da un lato lavoro serio e proficuo è non uscir fuori dal- l'esperienza, non ricorrere all'analogia, dall'altro lato esperienza significa non raccolta di dati accanto a dati, non enumerazione all'infinito, ma confronto di dati, osservazione del loro ripetersi, secondo una certa co- stanza, oppure no, si che sulla base di dati-rappresentazioni, segni "ram- memorativi" e non "indicativi" di strutture in sé o di cause segrete (accanto all'autopsia e all'historie, si pone in tal modo la cosiddetta mimesis), si possa, in un calcolo dei dati, in ricordi di simiglianze e dissimiglianze, determinare una certa sintomatologia, in una "descri- zione" (schizzo, ipotiposi) di un complesso di fenomeni, che non pre- sume affatto di essere una definizione. 

Che tale sia stato il metodo della medicina empirica e che il problema grosso sia stato quello di giustifi- care la validità dell'esperienza, di contro a chi sosteneva che l'esperienza si annulla in se stessa, in un ammasso di fatti che non dicono nulla, per cui lo stesso empirismo finisce in dogmatismo, è testimoniato da Cassio - da non identificare con il Cassio medico di Tiberio, - scettico, particolarmente antistoico, contemporaneo di Menodoto, il quale si rife- risce a Menodoto nella critica al principio dell'" analogia" (cfr. Diogene Laerzio, VII, 32-34; Galeno, De subfigur. emp., 40, 13), e da un con- discepolo di Menodoto, Teoda di Laodicea (Diogene Laerzio, IX, 116). Teoda ràccolse le Tesi capitali della medicina empirica, scrivendo inoltre un libro su Le sei parti della medicina e una Introduzione alla medicina, sostenendo che l'esperienza non è affatto una mèra raccolta di dati, ma è un metodo, che non implica affato l'oltrepassamento dell'esperienza stessa, né un pàssaggio, per analogia, dal noto all'ignoto, ma un pas- saggio, nel ricordo, dal simile al simile, ché i fatti stessi non sono noti in sé, presi ciascuno per sé, ma si fan noti mediante il ricordo di altri fatti-impressioni, in un discorso coerente per sé, ma che non presume affatto alla verità (cfr. Galeno, De subfig. empir., 40, 15). 

In tal senso, evidentemente, l'indirizzo della medicina metodica si poteva identificare con l'indirizzo della medicina empirica, rimanendo valida l'abbiezione dei "metodici" nei confronti dei puri empirici, e· definitivamente assu- mendo l'indirizzo "metodico-empirico" l'istanza metodologica e logico-linguistica dello scetticismo, come ben si vede attraverso Sesto Empirico, vissuto tra la fine del II e il principio del m· secolo, discepolo del medico Erodoto di Tarso, che, secondo Diogene Laerzio (IX, 116), era successo a Menodoto, ed era stato in rapporto con Teoda e Teodosio, autore, sembra, di un Commento alle Tesi Capita/t' di Teoda e di Capitoli scettici, del quale non sappiamo altro se non che fu medico empirico e di poco piu giovane di Teoda (cfr. Diogene L., IX, 70; Suda, s. v.). 

Scrive, dunque, Sesto: 47    Poiché alcuni affermano che la setta dei medici empirici s'identifica con la filosofia scettica, è bene sapere che, se quella setta empirica afferma reci- samente la incomprennbilità dei fatti oscuri [~ questo un dogma] né è identica allo Scetticismo, né sarebbe consentaneo per lo Scettico accogliere quell'indirizzo. Piuttosto, secondo me, potrebbe seguire quello che si chiama metodico: quest'unico, infatti, tra gli indirizzi medici, sembra non affermi nulla temerariamente intorno ai fatti oscuri, ma, senza presumere di dire se siano o non siano compensibili, segue i fenomeni, e da questi prende ciò che sembra giovare, conformandosi alla maniera degli Scenici... 


Tutto ciò, credo, che viene detto dai metodici si può ridurre alla necessità delle affezioni, quelle che sono secondo natura e quelle che sono contro natura. (Diciamo che lo scettico non dogmatizza, non nel senso in cui prendono ·questa parola alcuni, per i quali, comunemente, è dogma il consentire a una cosa qualunque, poiché alle affezioni che conseguono necessariamente alle rappresentazioni sensibili assente lo scettico: lpolip, Pi"·• l, 13). Si aggiunga che comune ai due indirizzi è anche la mancanza di dogmi e l'in- differenza nell'uso delle parole (diciamo, ad esempio, "valore" senza annet- tere a questa parola nessun sottile significato, nel suo senso semplice in rapporto al verbo "valere": l, 9; e cosi lo scenico non dice "tutte le cose sono false" perché insieme con la falsità di tutto il resto affermerebbe che falsa è anche la propria affermazione... Nelle sue espressioni, lo scettico esprime quello che a lui appare, e rivela la propria affezione senza osser- vazioni dogmatiche, nulla categoricamente affermando circa le cose che sono fuori di lui: l, 14-15). 

E invero, come lo Scenico adopera, senza pre- sunzione dogmatica, la espressione "nulla.dò per certo," e l'altra "nulla comprendo," come ·si è detto, cosi anche il "metodico" dice • comunanza," "si riferisce" e simili, cosi semplicemente. Cosi, anche, assume la parola "indicazione," senza presunzione dogmatica, in luogo di "guida," verso quelli che sembrano essere i provvedimenti consentanei, sulla base di quelle che appaiono essere affezioni secondo o contro natura... Congetturando da questi e altri fatti simili, si deve dire che l'indirizzo medico metodico ha, piu che gli altri indirizzi medici, una certa affinità con lo Scetticismo, s'in- tende, comparativamente agli altri, non in modo assoluto (lpotip. Pi"·• l, 236-241). 4. Inurpretazioni di Platone e di Aristotele nel II secolo a) Platonismo, pitagorismo e aristotelismo. Gaio, Albino, Apuleio. Attraverso Plutarco si delinea abbastanza bene una certa esigenza e uno dei possibili modi di interpretare alcuni testi di Platone, anche per dare una forma e un fine all'azione dell'uomo, che, nel conflitto delle forze che lo agitano, una volta sganciato dall'Essere, il quale si pone teoreticamente come condizione dell'esistere, praticamente come modello da realizzare, è libero di adeguarsi all'Essere, o, rimanendo dilacerato 48    nel conflitto, di restare nella molteplicità, frantumato nelle proprie pas- sioni, succubo dell'anima malvagia. Plutarco, certo, ha ritagliato dai molti e complessi testi di Platone, un aspetto preciso, senza dubbio pos- sibile, qualora quegli stessi testi vengano isolati da altri, e cioè quel- l'aspetto che può appunto interpretarsi in senso etico-religioso, nel senso che l'Essere, ciò che dà forma, ragione e significato alla realtà, si pone come dover essere, come termine di realizzazione della realtà tutta. Se l'appello a Platone si delinea nella confutazione contro l'aspetto natu- ralistico e fatalistico dello stoicismo e contro l'aspetto rinunciatario del- l'epicureismo, certi motivi aristotelici potevano, invece, essere ripresi come una approfondita interpretazione, sul piano logico-metodologico, dello stesso Platone (il mondo delle idee tutto in atto in Dio, forma delle forme, condizione e principio, causa prima e, ad un tempo, fine ul- timo, motore immobile, donde l'affermazione che, in realtà, per Platone il mondo delle idee è tutto presente nell'intellezione sempre in atto di Dio; oppure i due aspetti della realtà fisica, il mondo celeste e intelligente:: il mondo sublunare, che si potevano interpretare come i due termini in tensione dell'ascesa al divino; oppure ancora l'aspetto formale del- l'etica aristotelica; o, infine, la teoria delle sostanze seconde senza di cui non sarebbero gl'individui, che in realtà si risolvono e si perdono in =tuelle forme universali). D'altra parte, poiché, come sappiamo, Aristotele non si esaurisce in questo, e poiché, p\,lntando su una o altra opera di lui, si poteva interpretare Aristotele come il filosofo che nega la prov- •idenza, lo stesso dio, pura condizione logica, l'immortalità dell'anima e ma sua sostanzialità, e, conseguentemente, i dèmoni e gli oracoli, il 3losofo che risolve il fine dell'uomo entro i termini della stessa uma- lità, che.al filosofare come impegno etico-religioso, mediante cui dare una forma alla propria vita, sostituisce il filosofare come studio delle:ondizioni che permettono di pensare la realtà e le possibili forme di vita, in una raccolta di dati (historle); l'appello a Platone, entro i ter- mini che abbiamo veduto, portava a confutare e a rifiutare questi ul- timi aspetti dell'aristotelismo. Se l'appello a Platone e all'uomo socratico, impegnato nella ricerca di sé e perciò nel fare i conti con l'essere, risponde, nella crisi di una cultura, all'esigenza di prospettare un complesso di valori (in quanto valori, non dati di natura) per i quali merita vivere, la rilettura di Pla- tone, il commento, nelle scuole, dei suoi testi, portava da un lato, a seconda della confutazione nei confronti dello stoicismo e dell'epicu- reismo, a sottolineare certi aspetti delle opere di Platone piuttosto che altri, respingendo ad un tempo quei motivi di Aristotele a cui abbiamo sopra fatto cenno; dall'altro lato, all'esigenza scolastica di presentare in un sistema compiuto e coerente il pensiero di Platone, suddiviso nei 49    capitoli divenuti oramai canonici: teologia, fisica, -logica, etica, politica. Di tali lavori scolastici d'insieme (introduzione a una lettura di Pla- tone ed esposizione del suo sistema ricavato da un sapiente ritaglio di testi dei dialoghi, ove maggiormente viene usato il Timeo, che appa- riva come il piu sistematico e l'opera di Platone in cui Platone aveva risolto le aporie del Parmenide e del Teeteto, attraverso il Sofista e il Filebo) non restano che poche tracce, se non per l'Epitomè o Didasca- lico di Albino di Smirne, per l'anonimo commentario del Teeteto e per la Dottrina di Platone di Apuleio di Madaura. L'Epitomè di Albino e la Dottrina di Platone di Apuleio + sono due 4 Albino, vissuto nel 11 secolo, fu scolaro, a Pergamo, del platonico Gaio. Di Gaio, che pur dovette avere una notevole autorità, sappiamo pochissimo, se non le scarse notizie trasmesseci dai suoi discepoli Albino, Apuleio, e l'autore del Commento al Teeteto. Le lezioni platoniche di Gaio sembra che siano state pubblicate da Albino, in nove libri, sotto il titolo Schizzi della dottrina di Platone. Tornato a Smirne, sua patria, Albino vi tenne scuola dal 151-152 in poi. Autore di un Prologo a Platone (E~yc.>~ ctç TOU I!MTc.>YOç f)lf)Àov: cfr. il testo a cura del Freudenthal, in "Hel- lenist. Studien," III) e di una Epitom~ o Didascalico della filosofia platonica, Albino ebbe grande influenza nell'interpretazione del Platonismo. L'Epitomè fu attribuita ad un certo Alkinoo. In realtà ciò fu dovuto ad un errore di lettura paleografica, a causa della confusione che in scrittura minuscola v'~ tra {3 e x. Si è oramai convinti che Albino e Alkinoo siano la stessa persona. L'Epitomè si divide in tre parti: Introduzione (cc. I-lll); La dialettica (cc. IV-VI); Teoria e contemplazione dell'Essere, fisica (cc. VII- XXVI); Morale (cc. XXVII-XXXIV); Conclusione (cc. XXXV-XXXVI). Diverso per famiglia, formazione, carriera (non maestro di scuola) fu l'altro disce- polo di Gaio, Apuleio. Apuleio, di cui ~ incerto il prenome Lucio, nacque a Madaura, nel dipartimento di Costantina, nel 125 d. C. circa. Compiuti i primi studi a Madaura, Apuleio si ·recò a Cartagine ove frequentò le scuole di grammatica e di retorica. Venne -quindi ad Atene dove coltivò le scienze filosofiche. Forse a Pergamo ascoltò Gaio. Certo sub{ l'influenza di Albino (molte sono le concordanze tra il suo De Platone eiusque dogmate e l'Epitomè di Albino). Durante il suo soggiorno in Grecia si fece iniziare a molte religioni di mistero, studiando a un tempo poesia, musica, astronomia, scienze naturali. Per queste ultime, in particolare, tenne presente le relative opere di Aristotele e della scuola aristotelica, che non a caso rielaborò in l:itino. Dopo avere a lungo viag- giato in Asia Minore, Apuleio si recò a Roma dove svolse attività di avvocato, difen- dendo, con successo, molte cause. Tornato in patria, durante un viaggio da Madaura ad Alessandria, si ammalò ad Oea (Tripoli), dove fu costretto a trattenersi. Ad Oea entrò in dimestichezza con Lolliano Avito, proconsole d'Africa e là ritrovò un giovane amico conosciuto ad Atene, Sicinio Ponziano. Sicinio Ponziano era il figlio maggiore di Pudentilla, vedova da molti anni di Sicinio Amico. Secondo lo stesso Apuleio, Sicinio Ponziano lo convinse a sposare la madre, che desiderava rifarsi una famiglia. La donna era di una diecina di anni piu anziana di Apuleio, di circa quaranta anni, non 6ella, ma assai ricca. Ebbe allora nemici i parenti del primo marito· di Pudentilla, i quali avevano pensato di spartirsi i beni della vedova. Dimostratasi falsa l'accusa che Apuleio avesse ucciso Ponziano, ch'era nel frattempo morto a Cartagine, i parenti del secondo figlio giovinetto di Pudentilla, Sicinio Pudente, accusarono Apuleio di avere costretto la donna al matrimonio usando filtri e incantesimi magici. Apuleio, trascinato in tri- bunale, davanti al proconsole romano Claudio Massimo, energicamente si difese, con successo, dall'accusa di magia. La difesa, pronunciata, nel 158 circa, ~ giunta a noi - certo dallo stesso Apuleio rielaborata e sviluppata - sotto il titolo Apologia ossia Pro se de magia liber. Prosciolto da ogni aceusa di magia, Apuleio si ritirò a Cartagine, dove, per la sua eloquenza, per le sue brillanti conferenze, per la sua capacità di parlare 50    opere di grande importanza per una ricostruzione storica del plato- nismo nel u secolo: se da un lato indicano un preciso modo di inter- pretare Platone, dall'altro lato chiariscono non solo un metodo di la- voro, ma spiegano anche come per presentare un pensiero di Platone - nel suo complesso interiormente coerente - che abbraccia tutti i rami del sapere (filòsofìa), si sia potuto, per alcune parti (la logica in parti- colare) ricorrere a certi aspetti della logica di Aristotele, reinterpretata attraverso l'elaborazione formale-linguistica della logica del primo stoi- cismo, in un recupero di Aristotele in funzione platonica. Scrive Albino, aprendo la sua Epitomè: Ecco quale potrebbe essere l'esposizione delle principali dottrine di Platone (rc";)v xup~Cù't'CXTCùV ll:>..IX't'Cùvoc; 30"(!J.tX't'CùV 't'OL«U't"7j 't'~ &v 3~ataxotÀ(« yivo~'t'o). La filosofia è un'aspirazione [cfr. Platone, Definizioni, 414b; Buti- demo, 275a] alla sàpienza (l>pEç~ aocp(atc;), o, se si vuole, lo scioglimento dell'anima che si allontana dal corpo, quando ci volgiamo all'intelligibile e alla verità [cfr. Pedone, 67d, BOe; Rep., 521c]; la sapienza (O'ocp(«) è la scienza (br~OTf)!Ll))delle divine e delle umane cose... (Epitomè, l, l). E cosf conclude l'opera Albino: Queste nostre delineazioni bastano per servire di introduzione (daatyeù"'{'fj) allo studio della dottrina di Platone (dc;· TY)v llM't'Cùvoc; 30"(!J.«'t'01toLL«V e:tp-i'ja.&at~)Alcune si presentano, forse, bene articolate, altre invece mancano di ordine c di articolazione logica; ad ·ogni modo questa nostra esposizione permetterà di esaminare le altre dottrine di Platone e di trovarne la spie- gazione (Epitomè, XXXVI). E dopo avere delineato la vita di Platone e la sua formazione, scrive Apuleio: In questo nostro trattato cerchiamo di far conoscere le meditazioni, o, come si direbbe in greco, i dogmi formulati da questo grande filosofo, per indifferentemente in latino c in greco, saÌl in grandissima fama, tanto che ancora vivente gli furono erette statue, c fu nominato oratore ufficiale della città. Mori a Cartagine nel 180 circa. Delle molte opere di Apuleio sono rimaste: i Florida (un'antologia di discorsi, (XIm- posta di ventitré pezzi), l'Apolo6ia (Pro se de ma6ia), il De deo Socratis, il De Platone eituque dogmatis (in tre libri), il De mundo (riclaborazione del De mundo dello pscudo- Aristotclc), le Metamorphoses l. XI (il capolavoro di Apulcio: un romanzo in cui si narrano le avventure di un giovane, un ceno Lucio, greco, che trasformato in asino per magia, ritorna uomo con l'aiuto della dèa Isidc). Degli scritti perduti si ricordano i seguenti titoli: De arboribus, De re rustica, Medicinalia, Astronomica, De arithmetica, De musica, Quaestionn conviviales, De Republica, Eroticos, Epitome historitlrum, Herma- goras. Sembra, infine, che Apuleio abbia tradotto in latino il Pedone cd alcune opere di Aristotele.. 51    utilità del genere umano, in fisica, in morale, in dialettica. Cosf, com'egli giunse per primo a coordinare tra di loro le tre parti costitutive della filo- sofia, anche noi parleremo separatamente di ciascuna di esse, cominciando da quella parte della filosofia che ha per oggetto la natura (Apuleio, La Dot- trina di Platon~, I, 5, 190). Se l'intento estrinseco di Albino e di Apuleio è evidente (presenta- zione in un ordine sistematico delle fondamentali dottrine di Platone, che serva da introduzione, isagoge, allo studio del pensiero platonico), altrettanto evidente è il loro intento intrinseco nello scrivere una "mono- grafia" su Platone: avviamento, attraverso Platone, ad una filosofia si- stematica, tale che non contraddittoriamente renda conto, in un solo sapere, dei limiti e dei fini dell'uomo, in funzione di un'unica visione pacificante, ove ciascuno, consapevole di sé, socraticamente, attuando se stesso, realizzando sé si possa salvare facendosi simile al divino. "La vi- sione contemplativa (.&ewp(at)è l'attività della mente (!vtpyeLOt -rou vou)," dice Albino con termini aristotelici, "che concepisce gl'intelligibili; l'azione è l'atto di un'anima ragionevole (>.oyLxlj) che agisce, interme- diario il corpo. L'anima contemplante (&wpouaat) il divino e le nozioni a lui relative si dice essere un'anima ben disposta, e tale modo d'essere dell'anima è quel che si è chiamato pensiero (q~p6V1Jau;), che, si potrebbe dire, non in altro -consiste se non nel farsi ·simile al divino (oòx ~upov et7toL &.v TL<;; e!vat~ njç 7tpÒç TÒ &L"ov Ò!J.oL6>a&:wç)" (Epitom~,II, 2). Ed Apuleio scrive: "La filosofia fino. al tempo di Platone divisa in tre sezioni, fu da lui riunita in un sol corpo. Egli dimostrò che queste di- verse parti erano mutualmente indispensabili l'una all'altra; e che non solo esse non erano in contrasto, ma che, anzi, l'una serviva all'altra. Infatti, benché avesse attinto a diverse scuole questi elementi della scienza filosofica, e cioè: quel che riguarda la natura ad Eraclito, la logica a Pitagora, là morale a Socrate; di tutti questi membri distaccati egli seppe tuttavia fare un sol corpo, ed appunto in questo consiste la sua originalità... Orbene, tale visione sistematica ha una grande utilitl per il genere umano (1, 3, 187). Vogliate scuotere e agitare Platone: ciascuno, onorandosi di appli- carlo a se stesso, lo trae dalla parte che vuole" (Montaigne, II, 12). Nelle parole di Montaigne è implicita un'osservazione storica di primo piano, e cioè che, appunto, non esiste un "platonismo," ma tanti "platonismi," ciascuno, almeno in parte, effettivamente platonico, ciascuno avendo assunto a Platone, uno o altro aspetto, a seconda della propria esigenza. Ad ogni modo, entro i termini di una comune problematica, l'impo- stazione delle opere platoniche di Albino e di Apuleio, serve non poco ad illuminare le tracce che abbiamo delle altre opere su Platone, degli 52    altri commenti ai dialoghi platonici che fiorirono lungo il II secolo, e, ad un tempo, a chiarire, per altro verso, il significato dei commenti a certe opere precise di Arislotele,·da parte dei peripatetici del I secolo d. C. fino ad Alessandro di Afrodisia (seconda metà del II secolo). Innanzi tutto sembra chiaro che, quali che siano le interpretazioni del pensiero platonico e, di volta in volta, la funzione data all'esposi~ zione e sistemazione in un unico corpo dottrinario della filosofia di lui, il primo lavoro sul complesso dei dialoghi platonici e sulle "filosofie" scaturite dalle molteplici interpretazioni del pensiero platonico (da quelle di Speusippo e Senocrate a quella di Aristotele, da quella di Arcesilao e di Carneade a quelle di certi stoici, di Antioco di Ascalona, di Cice- rone e di Eudoro) sia stato, appunto, un lavoro di sistemazione e di enucleazione, simile al lavoro che si svolgeva per le altre filosofie, per presentare dell'una o dell'~ltra un corpo dottrinario coerente e compiuto. Come durante il I e il n secolo d.C., vediamo, ad esempio, una serie di lavori che raccolgono insieme, in un sol corpo, le argomenta- zioni degli scettici, culminanti nella grande opera di Sesto Empirico, le Ipotiposi pi"()fliane, e come c'incontriamo in una serie di sillogi del pensiero stoico, particolarment-e difficili, dati i tanti tipi di.stoicismo da Zenone in poi, per cui tali sillogi del pensiero stoico il piu delle volte presentano un corpo dottrinario stoico che non ha piu nulla a che fare col pensiero dell'uno o dell'altro stoico, come si vede bene nella presentazione che dello stoicismo farà Diogene Laerzio nel VII libro delle Vite; cosi avviene per Platone, per il corpo platonico e per il com- plesso delle interpretazioni di. lui, ove, puntando su di uno piuttosto che su di un altro dei molti aspetti del platonismo, ciascuno dei quali poteva rispondere ad una piuttosto che ad altra esigenza, si poteva cavarne un tipo di filosofia piuttosto che un altro, pur usando, ritagliati, testi tratti da tutti i dialoghi, in una ripresa o in un rifiuto dell'interpretazione che di Platone avevano dato Aristotele o gli stoici. Se ricordiamo ora il significato che, ad esempio, nel campo medico avevano assunto le raccolte delle ipotesi e delle tesi, in un tutt'uno che costituisse il com- plesso del sapere medico, ed a cui, nella descrizione di un certo com- plesso di fenome~i, raccolti sotto un sol quadro clinico, si dava il nome di ipotiposi, schema di un qualche sapere (il che presuppone un corpo di dottrine sparse, un insieme di libri, ove è depositato un certo sapere, dal cui commento e dalla cui discussione, trarre il "libro"), sembra chiaro non solo l'intento scolastico di queste opere e commenti plato- nici, ma anche il loro intento filosofico, l'importanza da essi data al- l'auctoritas. E ciò, ad esempio, è denunciato non solo dalle opere di Al- bino e di Apuleio, ma anche dal titolo che fu dato a un corso di lezioni su Platone (opera·, andata perdut~), tenuto da Gaio a Pergamo, che, 53    raccolto e pubblicato in 9 libri da Albino, che di Gaio fu discepolo, ebbe appunto il titolo di lpotiposi delle dottrine platoniche (l'1to-ru1twaeLc; 7tÀ«'r6>VLx&v 3oy(.UX-r6>v; ove va sottolineato che non è forse un caso che si dica platoniche e non di Platone). Gaio, vissuto nella prima metà del I I secolo, insegnò a Pergamo, dove ebbe scolari Albino (metà n secolo), Apuleio (nato nel 125 circa, morto nel 180) e l'anonimo autore del Commentario al Teeteto. Attraverso il Prologo a Platone (probabilmente un estratto di un'opera maggiore: cfr. J. Freudenthal, Hell. Stud., 3, Berlino, 1879) e l'Epitomè o Didascalico di Albino (l'Epitomè fu ritenuta un tempo opera di un certo Alkinoo: si è oggi dimostrato che Alkinoo non è mai esistito, e che al posto di Alkinoo va letto Albino; l'equivoco fu dovuto a un errore materiale, alla confusione in scrittura minuscola tra ~ e x, risalente al IX secolo: cfr. Freudenthal, op. cit.; P: Louis, lntroduction à l'Epitomè di Albino, Parigi, 1945, p. xm), ed attraverso La dottrina di Platone di Apuleio sembra si possa precisare, facendolo risalire a Gaio, un certo tipo di interpretazione e di sistemazione di Platone. A parte la riduzione del pensiero platonico ai tre aspetti divenuti canonici della filosofia: teoria (contemplazione dell'essere: della. teoria, la parte che si occupa delle cause prime e immobili, di tutte le cose divine si chiama teologia; quella che studia il movimento degli astri, le loro rivoluzioni e ritorni periodici, e il costituirsi del cosmo, è la fisica; quella che utilizza la geometria e le altre scienze analoghe è la matematica: cfr. Albino, Epìt., III, 4); pratica (studio di quali debbano essere le regole dei costumi, l'amministrazione di una casa, il modo di governare e sal- vare lo Stato: la prima di queste attività si chiama etica, la seconda economica, la terza politica: cfr. Albino, Epit., III, 3); logica (analisi dei ragionamenti, detta dialettica, in quanto studio di come è che si deve ragionare; cfr. Albino, Epit., III, l); ciò che piu colpisce, nell'in- terpretazione del pensiero di Platone sulla linea indicata da Gaio è lo sforzo continuo di rendere non contraddittorie, cioè dimostrabili, e per- ciò razionalmente accettabili, con metodo aristotelico (l'Aristotele dei Topici, dei Secondi Analitici e del De lnterpretatione: cfr. sopra I volume) le tesi platoniche esposte in funzione di una visione uni- taria del tutto (il piu delle volte mettendo in forma, sillogizzando, testi effettivamente di Platone, ricavate, ad un tempo, in un sapiente montaggio, da dialoghi diversi). Sembra chiaro cosi perché l'esposi~ zione di quella parte della filosofia platonica il cui oggetto è lo studio di quale debba essere un corretto pensare, venga strutturata con il linguaggio e nei termini di alcuni dei libri logici di Aristotele. Per Albino, anzi, lo studio del retto pensare (ch'egli ricava da Aristotele) sarebbe stato il punto di partenza di Platone, per avviare a compren- 54    dere da un lato i principi e le cause prime del tutto, dall'altro lato il posto che nell'ordine del tutto ha da assumere l'uomo, nei confronti di quel tutto e nei confronti degli altri uomini. E per altro verso Apuleio, dopo avere esposto nel I libro della sua Dottrina di Platone la "filosofia naturale" e nel II la "filosofia morale," dedica il III alla logica ricavando tutto ciò che dice- perfino gli esempi- dal De lnter- pretatione di Aristotele, tanto che si è dubitato che il libro III sia davvero di Apuleio. La questione, forse, si fa piu chiara quando si pensa a quello che fu il lavoro di Aristotele nei confronti dell'ultimo Platone. Quali che siano state le soluzioni di Aristotele, certo è che quella di Aristotele fu, almeno in principio, una delle possibili inter- pretazioni della tematica platonica, che - prendendo le mosse dal- l'interpretazione metodologica del Platone del Teeteto, del Parmenide e del Sofista - tendeva a risolvere le aporie platoniche - essere uno e idee, idee separate, rapporto tra l'uno e i molti, tra l'impossibilità di pensare le forme senza contenuti, e i contenuti senza forme - in uno studio sistematico di quelle che sono le condizioni logiche che permet- tendo un tipo di discorso non contraddittorio risolvessero quelle aporie stesse, assumendo come vera quell'ipotesi che non fosse piu oppugna- bile. Aristotele giunse dove giunse, ma intanto il suo metodo d'inter- pretazione e di discussione dialettica delle ipotesi, per determinare i principi non piu discutibili da cui trarre discorsivamente ciò che in essi è implicato, poteva servire all'analisi delle tesi platoniche per ren- dere giustificabile, cioè razionalmente deducibile, e per ciò stesso con- vincente, quello che sembrava l'intento fondamentale di Platone ed in particolare il punto cruciale e piu equivoco del pensiero platonico, il rapporto essere-idee, unità-molteplicità, che, assunto in termini aristo- telici, si poteva ritener risolto da Platone nel Timeo. b) l commentatori di Aristotele: Alessandro di Ege, Aspasia, Adra- sto di Afrodisia, So'Sigene, Ermino, Aristocle di Messene. A tale propo- sito, anzi, non va dimenticata qui l'influenza che tra il I e il 11 secolo, aveva avuto l'edizione del corpus aristotelicum dovuta ad Andronico di Rodi,6 che dette luogo, in un progressivo accantonamento delle prime opere di Aristotele, ad una serie di commenti e di. introduzioni ad una lettura di Aristotele. Purtroppo dei commentatori del 1 secolo e di alcuni 6 Su Andronico di Rodi si veda sopra. Ad Andronico di Rodi, che, successo a Erimneo, fu scolarca del Liceo, in Atene, tra il 70 e il 60 a. C., successero: sul 45 circa, Cratippo di Pergamo; sotto Augusto, Xenarco di Seleucia, che insegnò anche ad Ales- sandria e a Roma; nel 1 secolo d. C., Menefilo; tra il 120 e il 160 circa d. C., Aspasio, Ermino, Alessandro di Damasco, Aristocle di Messene, Sosigene. Della loro vita non sappiamo niente di preciso. del n non sono rimaste che testimonianze e la precisazione di quali opere di Aristotele hanno commentato. Ma sono già indicazioni assai interessanti. Di Alessandro di Ege, vissuto nel I secolo, che sembra sia stato tra i precettori di Nerone (cfr. Suda, s.v.), sappiamo che compose un commento alle Categorie di Aristotele, in cui ne sosteneva il signi- ficato formale linguistico, assumendole quali condizioni di possibili giudizi e fondamenti logici della po~sibilità del reale, determinando la struttura dell'universo (e in tal senso sembra abbia commentato il De coelo). Di Aspasio - vissuto presumibilmente nella seconda metà del I secolo sappiamo che commenta le Categorie, il De lnterpretatione, il De coelo, parti della Metafisica e l'Etica Nicomachea (di quest'ultimo commento è rimasto un frammento: in Commenl. in Arin. graeca, XXIX, I, Berlino, 1889). Di Adrasto di Afrodisia, fiorito, come sembra, nella prima metà del n secolo,. ritenuto dagli antichi uno dei maggiori interpreti di Aristotele, sappiamo che scrisse un'opera per delineare quale doveva essere l'Ordine degli scritti di Arinotele (cfr. Galeno, XIX, 42 sgg. in Gercke, Pauly-Wissowa, R.E.) e che sosteneva doversi porre al principio di tali scritti, a mo' di introduzione e quale condizione me- diante cui comprendere la via metodologico-logica attraverso cui Aristo- tele giunge a determinare la propria posizione, le Categorie e i Topici, mentre, per altro verso, usando il metodo di Aristotele commentava il Timeo di Platone (cfr. Porfirio, In Ptol. harm., ed. Wallis, Opera malh., III, 270) e dava un quadro generale, entro questi termini, del sapere astro- nomico fino a Ipparco di Nicea (cfr. Teone di Smirne, Conoscenze mate- matiche utili a una lettura di Platone, III). Di Sosigene, vissuto nel II secolo, sappiazpo che commentò la logica di Aristotele, cercando, a quanto pare, di renderne conto in termini matematico-formali, risolvendo quindi in termini geometrici la teoria delle sfere e della visione. Anche Erminio, vissuto nel u secolo, discepolo di Aspasio, com- mentò particolarmente i libri logici (Categorie, De lnterpretatione, Analitici primi, Topia), sostenendone il valore formale. Cosi, sembra, sottolineando la contraddizione che v'è nel porre Dio motore immo- bile e il movimento dato da esso al tutto, Erminio interpretava, nel suo commento alla Fisica, il dio aristotelico come condizione logica, l'atto primo cui tutto aspira, per cui bisogna supporre non Dio che muove, ma la realtà tutta che si muove, in quanto ha in sé un'anima: ed Erminio sosteneva che tale era il significato dell'anima mundi del Timeo di Platone. 56    Su questa linea non sembra perciò un caso che il siciliano Aristocle di Messane (u secolo) potesse sostenere, come appare dai frammenti (in Eusebio, Praep. ev., Xl, 2,6; XIV, 17-19; XV, 1,13 e 14, l sgg.) rima- stici dalla sua Storia della filos_qfia, che tra Platone e Aristotele v'era un perfetto accordo (cfr. Alessandro di Afrodisia, De anima, Il, 110, 5-113 ed. Bruns), e che l'aristotelismo si poteva delineare come l'in- terpretazione logica del platonismo (del resto, pare, tesi già soste- nuta fin dal I secolo a.C. sulla scia di Antioco di Ascalona, e in chiave stoica, da Eudoro, da Ario Didimo, da Aristone di Aless;m- dria, che commentò gli Analitici e le Categorie e da Alessandro di Ege, del I secolo d. C., anch'egli commentatore delle Categorie). Cos{, anche gli aristotelici del 1 e della prima metà del II secolo tendono a una interpretazione e familiarizzazione dell'universo, in una visione unica del tutto, a cui doveva servire la filosofia, intesa, ora, come scienza delle scienze, avente il suo criterio nell'analisi dei discorsi, per cui non a caso al complesso dei libri logici di Aristotele fu dato il nome di "stru- mento" (6rganon). E ciò, per quel che ne sappiamo, è denundato dall'in- teresse per certi libri logici (Topici, Categorie, Secondi analitiet) e per la Fisica e il De coelo di Aristotele, messi accanto al 'fimeo dì Platone. At- traverso lo studio dei "luoghi" argomentativi si cercava di determinare le possibilità del discorso scientifico - indipendentemente da uno o altro contenuto - che poteva dar luogo a deduzioni, linguisticamente cor- rette (donde la ripresa della genesi del discorso qual'era stata formu- lata dai primi stoici, per rendere possibile la predicazione), sulla strut- tura e l'ordinamento del tutto, che si poteva, perciò, interpretare in chiave stoica (vedi De mundo dello pseudo:Aristotele) e in chiave pla- tonica, risolvendo il mondo delle idee - il punto piu problematico di Platone - in intellezioni in atto della stessa sostanza una, cioè del divino, il quale non è in quanto sia qualcosa, ma in quanto ragion d'essere in atto del tutto, cui tutto per esistere deve conformarsi, per cui l'essere è presente nelle cose in quanto forme e tutte le trascende m quanto forma delle forme (ed è perciò incorporeo). c) Il «platonismo11 di Albino. Teone di Smirne. Entro questi ter- mini si fa chiara la soluzione dell'aporia platonic~ uno-idee, idee-cose molteplici, di cui già troviamo traccia fin dal I secolo a.C., ma che nell'Epitomè di Albino6 ha la sua formulazione piu esatta, e nella maniera che diverrà poi tipica di una certa tradizione platonica. Dopo avere discusso gli elementi e le funzioni della dialettica, distinguendone le varie parti (divisione, definizione, analisi, induzione e sillogismo, 6 Sulla vita di Albino vedi sopra.  57   significato del linguaggio), e, dopo aver determinato attraverso essa le condizioni delle singole scienze (aritmetica, geo~etria, stereometria, astronomia, musica) mediante cui giungere ai primi principi e cause, condizioni non piu dialetticamente oppugnabili, da cui dedurre tutta la struttura e il costituirsi dell'universo, dice, dunque, Albino: Dopo di che, seguendo il nostro piano, bisogna parlare dei principi e dei precetti della Teologia. Prendendo le mosse da questi primi problemi, passeremo ad esaminare l'origine del mondo e di qui giungeremo all'origine e alla natura dell'uomo. Parliamo innanzi tutto della materia [{));'): il ter- mine è ripreso chiaramente da Aristotele]. Platone le dà i nomi di "porta- impressioni" (èx!l4yei:ov), "ricettacolo universale," "nutrice," "madre;· "spazio," (xwpat), sostrato incapace di sentire e che non è afferrabile se non con un ragionamento bastardo [cfr. Timeo, 50c, 5Ia, 49a, 52d, 88d, 50d, 5Ia, 52a-d]. La sua funzione propria è di ricevere i frutti di ogni nascimento e di avere il compito di una nutrice che tutti li accoglie nel suo seno e ne prende tutte le forme, nonostante essa, per sua natura, sia senza figura, senza qualità e senza forma... [appunto per poter ricevere tutte le forme]. La materia perciò non è né corporea né incorporea: essa è un corpo solo virtualmente, sf come si può dire del bronzo che è virtualmente una statua, poiché non ha che da ricevere una certa forma per essere una statua [evidente riferimento ad Aristotele: Metafis., IV, 2; Fisica, Il, 3] (Epitomè, VIII). Oltre alla materia, che costituisce un primo· principio, Platone ne ammette altri: uno consiste nei paradigmi, cioè nelle idee, l'altro nel padre e causa di tutte le cose, cioè Dio. L'idea, in rapporto a Dio, è l'intellezione di lui stesso (la·n 8è ~ t8éat 6>c; (Ùv 7tpÒç.8-eòv v61jatc; otÙ-rou); in rapporto a noi è il primo intelligibile; in rapporto alla materia, la misura; al mondo sensibile, il paradigma; relativamente a se medesima, allorché si esamina, è l'essenza (oùa(ot)....Le Idee sono le operazioni eterne e perfette in sé della intellezione divina. E che le idee siano lo si può stabilire cosi: posto che Dio è una mente o un essere pensante, egli l}a dei pensieri e tali pensieri sono eterni e immutabili: se còsf è, le Idee sono. D'altra parte, se la materia non può misurarsi da sé, è necessario ch'essa trovi tale misura altrove, in qualcosa di piu eccellente, e di non materiale: ammesso l'antecedente ha da esserci il conseguente: le idee dunque esistono e sono misure immateriali. Non solo, ma se il mondo quale è non esiste in virtu di una causa fortuita, è stato fatto non solo di un qualcosa, ma anche da qualcosa e mediante qualcosa. E ciò mediante cui è stato fatto, cosa è se non l'Idea? Le Idee dunque esistono.... Di qui anche il terzo principio che Platone considera come quasi inesprimibile. Noi possiamo tuttavia afferrarlo grazie al seguente ragionamento: se gli intelligibili sono e se non cadono sotto i sensi né par- tecipano del mondo sensibile, ma ai primi intelligibili, i primi intelligibili sono in senso assolutlo, sf come sono i prirlli sensibili. Ammesso questo, si deve ammettere anche tutto ciò che ne consegue. Dato che gli uomini sono un complesso di impressioni sensibili tanto che perfino quando si propon- 58    gono di concepire l'intelligibile, vi mescolano qualche apparenza sensibile, come l'idea di grandezza, di figura o di colore che essi spesso vi aggiun- gono, è loro impossibile concepire con purezza l'intelligibile: gli dèi invece si liberano dal sensibile e concepiscono l'intelligibile in forma pura e sem- plice. D'altra parte, poiché l'intelletto è superiore all'anima e al di sopra dell'intelletto in potenza (!v 3uvoc(Ut) si trova l'intelletto in atto (xcx-r' hépy&Lotv) ed è sempre in attività, poiché piu grande ancora è la bellezza di ciò che ne è la causa e che è superiore a tutto il resto, ecco il primo dio, il motore che fa agire senza interruzione l'intelletto del cielo intero. Tale primo intelletto deve, dunque, concepire sempre se stesso ad un tempo concependo i propd pensieri, ed è in tale attività dell'intelletto che con- siste l'Idea. Il primo Dio, dunque, è eterno, indicibile, perfetto in sé, cioè sertza bisogni, sempre in sé compiuto, cioè perfetto in tutti i tempi, ovunque perfetto, cioè perfetto in tutti i luoghi. Esso è la divinità, la sostanzialità, la verità, la proporzione, il bene. E non dico q'lesti termini per separarli, ma per far concepire, mediante la loro unione ch'esso è un tutto unico... Dio è indici- bile ed afferrabile solo con l'intelletto, come abbiamo detto, poiché egli non è né genere, né specie, né differenza specifica e neppure può subire acci- denti... Egli non è qualità, perché è estraneo ad una qualità e la sua perfe- zione non è dovuta a una qualificazione; non è assenza di qualità, poiché non manca delle qualità che possono essergli proprie; non è parte di qual- cosa né un tutto che abbia parti, non è identico a una o ad altra cosa... esso infine non dà né riceve movimento. Attraverso queste successive costruzioni si avrà una prima idea di Dio, come si giunge a concepire il punto facendo astrazione dal sensibile, muovendo dall'idea di superficie, poi da quella di linea, per giungere infine al punto. Ancora:. ci possiamo fare un'idea di Dio procedendo per analogia...: come il sole non è la vista, ma permette alla vista di vedere e agli oggetti d'esser veduti, cosi il primo intelletto non è l'intelletto dell'anima, ma dà all'intelletto dell'anima la facoltà di conce- pire e agli oggetti intelligibili d'essere concepiti, illuminando la verità ch'essi contengono. Esiste un terzo modo di farsi un'idea di Dio: [dalla contem- plazione del bello che risiede nei corpi, passare alla bellezza dell'anima e di qui al bello che è nei costumi e nelle leggi, per risalire infine al vasto oceano del bello... ] (Epitomè, VIII- X). Il testo di Albino è certo molto chiaro per renderei conto di un tipo di interpretazione della problematica di Platone relativa al rap- porto Uno-idee, idee-cose, problematica che si risolve attraverso uno degli aspetti della logica aristotelica. Eliminando via via le contrad- dizioni si giunge a porre come· condizioni non contraddittorie della pensabilità del reale da un lato l'informe, dall'altro l'intelligibile in atto, l'essere come pensiero in atto; il cui discorso è la stessa realtà, ripercorrendo la quale si arriva a cogliere l'atto pensante, appunto in sé indicibile, perché sempre in atto discorso intiero, ma da cui si ridi- scende a tUtti i nf'ssi che costituiscono la trama e il ritmo su cui si 59    scandisce la realtà, sempre in atto allorché s'intende l'Uno pensiero, e perciò eterna, processo e tempo, in quanto se ne ripercorrono le trame su cui appunto la realtà si costituisce. In tal senso Dio, la prima essenza, il ciò senza di cui nulla è (causa, per cui grammaticalmente il verbo, l'è, la sostanza è la condizione della predicabilità), viene a porsi, in chiave aristotelica, come la condizione logica che rende pen- sabile la realtà, e, appunto perciò, pensiero di pensiero, intellezione in atto e, dunque, sempre in atto aggettivazione (e, per questo, idee sono dette le aggettivazioni dell'intelletto in atto, del primo intelletto), onde incorporeo, cioè non cosa è Dio, non forza fisica, ma pura intel- ligibilità. Assume qui un suo particolare significato l'opera di Teone di Smirne,T vissuto nella prima metà del n secolo (egli cita a lungo Adra- sto, si serve del suo commentario al Timeo e delle sue teorie astro- nomiche, ma non cita Claudio Tolomeo), intitolata TC>v xct-r« -ro !J4&1liJ4-rLxllv lP7JcniL(a)V dc; -rljv llM-r(a)voc; clvtiyv(a)aLv (Conoscenze matematiche utili alla lettura di Platone). L'opera di Teone di Smirne, giuntaci quasi intera, si muove, per l'intento e per i risultati, entro l'àmbito del pensiero di Gaio e di Albino. È anch'essa una introdu- zione a Platone, per giungere, attraverso un certo modo di leggere Platone, a farsi simili alla divinità (npllc; -rllv &ellv 61Lo((a)aLt;), sapendo rendersi familiari a sé e al mondo, come già Gaio diceva, riprendendo u n termine stoico (otxe((a)ar.t;, oichéiosis). Sotto quest'angolo visuale, Teone, rifacendosi alle cinque scienze da Platone indicate come fon- damentali per la formazione del filosofo (ma si veda anche Nicomaco di Gerasa), fa un'ampia esposizione in forma sistematica delle varie teorie svoltesi nel tempo, costituenti, insieme, l'aritmetica, la geome- tria piana, la stereometria (geometria solida), l'astronomia e la teo- ria musicale. Nel timore che coloro, che non hanno avuto la possibilità di coltivare le matematiche e che tuttavia desiderano conoscere gli scritti di Platone, non siano costretti a rinunciarvi, daremo qui un sommario e un riassunto delle conoscenze necessarie e la tradizione dei teoremi matematici piu utili sul- l'aritmetica, la musica, la geometria, la stereometria e l'astronomia, scienze senza le quali è impossibile essere perfettamente felici, come Platone dice [Epinomide, 992a], dopo avere a lungo dimostrato che non si debbono tra- scurare le matematiche (l). L'opera di Teone, preziosissima per una ricostruzione della storia delle singole scienze trattate, particolarmente per l'astronomia, è pre- T Quasi nulla sappiamo ddla vita di Teone di Smirne 60    ziosissima anche come indicazione della traduzione sul piano scientifico della teoria platonica in termini aristotelici, in una sistemazione del- l'universo che permetta calcoli e misure, e che, riprendendo e ordi- nando in un unico sapere le varie tesi, susseguitesi nel tempo, da Ari- stotele a Ipparco di Nicea e Adrasto, è l'indice di quello che sarà poco tempo dopo il grande lavoro di Claudio Tolomeo. Ad ogni modo, entro la linea di questi platonici (Gaio. Albino, Teone), sembra chiara la loro opposizione alla riduzione stoica del divino a forza egemonica, annullante il divino nello stesso processo del mondo, anche se sul piano del mondo e della organizzazione e qualificazione del reale, della funzione dinamica dell'"anima mundi," del tutto vivente, il discorso poteva essere talvolta simile a quello di certi stoici e del loro modo di interpretare il Tim~o (cfr. Ario Didimo, ad esempio, che fu tenuto presente da Albino: si veda il principio del XII capitolo dell'Epitome?· ricalcato da Ario Didimo, in Eusebio, Pra~p. ~v., XI, 23; e, per altro, il D~ mundo di Apuleio, ricalcato sul De mundo dello pseudo-Aristotele). d) Il « platonismo" antiaristotelico di Calvisio Tauro e di Attico. Nicostrato. Arpocrazione. Oltre all'opposizione nei confronti dello stoi- cismo ontologico, da quanto è stato sopra detto si delinea anche l'oppo- sizione ad un certo Aristotele, che chiaramente possiamo notare in un altro gruppo di commentatori di Platone,8 facente capo a Calvisio Tauro (il quale resse, in Atene, l'Accademia al tempo di Adriano e di Antonino), e proseguitosi con Attico - fiorito nella seconda metà del II secolo, autore di un commento al Fedro e al Timeo: Proclo, In Tim., 315a,- successo, pare, a Calvisio Tauro, ç con Nicostrato- fio- rito tra il 160 e il 170. - Se il fenicio Calvisio Tauro, nato a Berita, sembra che abbia, per quelle poche testimonianze che abbiamo su di lui, non solo opposto Platone agli Stoici (Discrepanze della Stoà ri- spetto a Platone: cfr. Aulo Gellio, XII, 5, 5), ma anche Platone ad Aristotele, in una sua opera (perduta) intitolata ·TratttftO sulla diffe- renza delle scuole di Platone e di Aristotele (Aulo Gellio, XII, 5, 5), tale opposizione risulta certa dai frammenti che Eusebio (Praep. ev., XI, 1-2; XV, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 12, 13) ci ha conservati delle opere di Attico. Anche se troppo frammentari sono i testi riportati da Eusebio per poter ricostruire il pensiero di Attico, senza dubbio essi indicano, tuttavia,. che l'opposizione di questi platonici ad Aristotele si svolgeva sull'inter- 8 Poco o nulla sappiamo della vita dei platonici di Atene, Calvisio Tauro, Attico, Arpocrazione, cui ~ legato N"~eostrato. Calvisio Tauro e Attico, di cui fu discepolo Arpocrazione, furono scolarchi dell'Accademia, ad Atene, tra Adriano e Marco Aurelio. 61    pretazione ch'essi davano da un lato delle categorie e dall'altro lato dei libri fisici di Aristotele, entro i termini dell'ultimo Aristotele. Se invece di puntare sulle Categorie in senso formale e grammaticale, si punta sulle Categorie, supponendo la teoria della sostanza in senso aristotelico (come fece Nicostrato, che, sembra, seguendo l'opera di un certo Lucio suo contemporaneo, violento critico delle categorie ari- stoteliche, vedeva nelle categorie di Aristotele la negazione del trascen- dente platonico: cfr. Simplicio, In Categ., I, 19 sgg. 73, 15 sgg. 76, 14 sgg.), si capisce come si potessero interpretare certe conclusioni aristoteliche quali negatrici di una provvidenza, di una distinzione tra intelligibile e sensibile, dell'immortalità dell'anima, di una divinità autrice del mondo, per cui si poteva sostenere, di contro alla religiosità platonica, che Aristotele è ateo sf come lo sono gli Epicurei, o che Aristotele risolve il divino nell'attualità del tutto, facendo di Dio un termine puramente logico. "Platone," esclama Attico, "per non privare il mondo della Provvidenza, dichiarò che questo mondo non è ingene- rato. Ora, noi esortiamo quei platonici che sostengono che il mondo, secondo l'insegnamento di Platone, non è stato generato, a non met- terei nelle difficoltà... A tale tesi li ha indotti Aristotele..., per il quale il mondo è ingenerato [e· quindi uno in Dio], e pér cui è neces- sario che ciò che ha avuto un'origine perisca e che imperituro è solo ciò che non è stato generato, ond'egli non concede a Dio neppure il potere di fare il bene..." (in Eusebio, Praep. ev., XV, 6). "Aristotele cosi annulla la speranza dell'anima e distrugge anche la pietà verso gli esseri superiori... e la fede nella Provvidenza, guida per la vita umana... e supponendo quindi che per l'uomo dopo la sua morte U.:':to sarà morto con lui, eccita gli uomini a soddisfare i proprt appetiti... Se egli, dunque, non ammette nulla al di fuori del mondo, ed esclude gli dèi da ogni relazione con gli avvenimenti della terra, è necessario che si professi decisamente ateo o che difenda la sincerità del suo atei- smo relegando gli dèi dove li ha posti. Epicuro, da parte sua, quando nega la provvidenza degli dèi dicendo che non hanno rapporti con il mondo, sembra voler giustificare con questo il suo ateismo..." (in Euse- bio, Praep. ev., XV, 5, 3 sgg.). Di qui, secondo le testimonianze di Proclo (In Tim., 41d), la tesi di Attico, per il quale Platone avrebbe da un lato posto una materia informe, agitata e resa viva da una potenza irrazionale e, dall'altro lato, il Bene, il divino tutto in atto nel Demiurgo, che dà ordine e misura alla materia. Termini intermedt tra il divino, causa e principio primo (padre) e la corporeità, intesa come limite e dispersione e perciò come radice 62    del male, avrebbe posto Arpocrazione di Argo - commentatore del Timeo, del Pedone, dell'Alcibiade Maggiore, e autore di un'antologia di massime di Platone, - discepolo di Attico (Proclo, In Tim., 93c). Egli, cioè, tra il Padre, causa prima e immobile, e il corpo (informità e limite), avrebbe posto una seconda divinità, il facitore, il poietès, mediante cui si realizza nell'ordine il k6smos; ordine che egli - volto da un lato al Padre, dall'altro alla materia - dà alla corporeità, riflet- tendovi le idee. Il cosmo cosi viene ad essere un terzo ente divino, in quanto idea di mondo presente alla mente del poietès (cfr. Proclo, In Tim., 93b; Giamblico, De anima, in Stobeo, Ecl., I, 49, 37: ed. Wach., I, p. 375,15, e 380, 14). Anche se solo in forma indicativa, è sembrato opportuno sottoli- neare le molte venature con cui si presenta nel corso del n secolo ·il cosiddetto "platonismo medio." Emerge cosi l'opposizione tra due in- terpretazioni del pensiero platonico. L'una, determinandone la non contraddittorietà, punta, mediante il metodo aristotelico, sul dio di Aristotele, inteso come attualità in atto di tutta la realtà, condizione logica (e in tal senso trascendente e incorporeo) e finalità, cui tutta la realtà, che·presuppone l'altra condizione logica della materia come potenzialità, tende (onde immobile e motore è la divinità), realizzando in sé gl'intelligibili, le forme; l'altra, viceversa, vede nèlla possibile tesi aristotelica, anche se in termini diversi, un'interpretazione di tipo stoico, annullante, appunto, il divino nelle stesse categorie, e, perciò, nello stesso ritmo in cui si scandisce la realtà. Tale contrasto, se da un lato sembra chiarire il significato dell'appello a Platone e dell'interesse per la logica aristotelica, dall'altro lato è fondamentale per capire sia gli sviluppi di un certo approfondimento nell'interpretazione di Ari- stotele (Alessandro di Afrodisia), sia gli sviluppì, sul piano dei com- menti a Platone e ad Aristotele, di una certa interpretazione di Platone (da Numenio di Apamea a Platino), ove fin da ora va detto che viva rimase la questione del come interpretare le categorie di Aristotele (ricordiamo, su tale piano, la discussione tra Platino e il suo discepolo Porfirio; Platino, VI, Enn., l sgg., nega il valore delle Categorie, dei generi sommi, di Aristotele, annullando l'Uno platonico; Porfirio le riprenderà dando ad esse un valore formale linguistico e non antico), proponendo, per altro, il platonismo come l'unica ipotesi non contrad- dittoria per spiegare la realtà in tutto il suo complesso (non a caso Platino, in nome della tradizione razionalistica greca, scriverà finis- sime pagine Contro gli gnostici, in Enn., 2, 9, respingendo ogni tipo di "rivelazioni speciali"). 63    e) Alessandro di Afrodisia, il "secondo Aristotele.» Nel conflitto dell'interpretazione di Aristotele sembra.essersi posto Alessandro di Afrodisia,8 vissuto nel 11 secolo, discepolo di· Sosigene, di Ermino e di Aristocle di Messene (cfr. sopra), che tennero lo scolarcato del Liceo, in Atene, tra il 150 e il 190, e a cui nel 190 circa successe Alessandro. Alessandro commentò tutti i libri logici di Aristotele (sono rimasti i commentari agli Analitici primi, ai Topici, agli Elenchi sofistici: in "Commentaria in Arist. graeca," II, Berlino, 1883-98), la Metafisica, il De coelo, il De generatione, la Meteorologia e il De sensu (sono rimasti i commentari alla Metafisica, in "Comm. graec.," l, 1891; al De sensu e al Meteor., in "Comm. grae'c.," III, 1899-1901), e, oltre che nei commenti, chiari la propria interpretuione in un Trattato sulfanima (in 2 libri) (De anima liber cum mantissa), nel De fato, nel De mixtione e nei quattro libri delle Questioni controverse e solu- zioni sulla fisica e sulla morale (in "Supplementum arist.," Il, 1892). L'interpretazione che Alessandro dà di Aristotele è netta e precisa; sempre fondandosi sui testi, muovendo dalla tesi basilare di Aristo- tele, che discorso scientifico è possibile solo muovendo da principi" posti non contraddittoriamente, Alessandro respinge ogni soluzione che nello spiegare la ragion d'essere, il perché delle cose, ricorra a salti, o a inter- venti extrarazionali. Sotto questo aspetto egli respinge l'interpretazione aristotelica in chiave platonica, per sottolineare dell'aristotelismo da un lato l'aspetto piu strettamente metodologico della ricerca in una chiara determina- zione del retto uso dei termini (essenziali~, causa, forma, materia, sinolo, potenza, atto: cfr. sopra I vol.), e attraverso tale retto uso, dal- l'altro lato, l'aspetto piu decisamente - se cosi vogliamo dire - • natu- ralistico logico" dell'ultimo Aristotele (cfr. I vol.), pu~1tando sul motivo della "essenzialità" come "sinolo," delle forme che sono tali in quanto "forme di," ove, perciò, l'attualità è.posta come presupposto logico, e fine ultimo, ma per ciascuna essenzialità nella sua specie, onde reali sono gli individui, in senso aristotelico (cfr. I vol.), e le forme, in' quanto separate, sono reali per sé solo come termini mentali, cioè come astrazioni presenti al pensiero, sf come, presa a sé lo è la "materia," e, alla fine, lo stesso Dio, condizione logica dell'attualità in atto di tutta la realtà (cfr. I vol.). Entro questi termini, appare chiaro il filo seguito da Alessandro nella lettura dei testi aristotelici. Per esso, e per non ripeterei, rimandiamo a una parte dell'esposizione già fatta di Aristo- tele (cfr. vol. I), mentre va detto come al lume di questa interpreta- 8 Alessandro nacque ad A&odisia, in Caria, sulla prima metl del n secolo. Visse ad Atene, dove entrò al Liceo, di cui divenne scolarca alla morte di Sosigene. 64    zione, sembra abbastanza chiara la celebre soluzione data da Ales- sandro alla questione del rapporto intelletto agente e intelletto passivo. Posto, con Aristotele, che l'anima è "entelechia prima di un corpo naturale che ha la vita in potenza, cioè di un corpo chè- sia organico," per cui l'anima, nelle sue tre funzioni (vegetat~va, sensitiva, intellet- tiva} non è separabile dal corpo, e ripercorso con Aristotele il processo per cui dal sentire si passa all'intendere, e posto il fatto che l'uomo è attività intellettiva, Alessandro puntando sull'intelletto come funzione, per cui si può sostenere che non è mescolato al corpo, ma è condizione, possibilità naturale dell'intendere, afferma che l'intelletto, appunto in quanto possibilità e dunque materia di tutte le forme, potenzialmente, è intelletto "naturale" o "materiale" (fisico o ilico, ÙÀLx6c;) (cfr. De anima, I, pp. 81~84, ed. Bruns). D'altra parte, sempre in termini aristo- telici, la facoltà d'intendere se da un lato si pone come condizione o materià dell'intellezione, dall'altro lato implica, attraverso una serie di atti intellettivi, non solo la potenzialità naturale d'intendere (tutti gli uomini, ad esempio, in quanto tali possono imparare a scrivere, per cui la scrittura in questo senso è una capacità naturale, materiale dell'uomo}, ma l'abito d'intendere, per cui, accanto all'intelletto "ilico," Alessandro pone l'intelletto in abito, o acquisito (xcr:r'!~Lv, ~1t(xu-toc;) (chi non ha imparato a scrivere resta capace di scrivere in potenza, ma chi ha imparato e ora non scrive ha, tuttavia, l'abito dello scrivere, è capacità di scrivere per abito o per acquisizione). Se l'intelletto ilico e l'intelletto epittetico sono due aspetti·dell'unico intelletto umano, il suo realizzarsi nelle intellezioni, in questa o quella intellezione, di que- sto o quell'uomo, implica un'altra condizione, e cioè l'intelletto agente (vouc; 7tOL1)'t'Lx6c;), la forma dell'intendere, ciò che fa sf che l'intelletto (ilico-epittetico) divenga gl'intelligibili. Potenziale l'intelletto, potenziali gl'intelligibili, l'intellezione, implica l'attualità dell'intendere, che, ap- punto, in quanto tale (non essendo né questa né quella intellezione dovuta a questo o a quell'individuo, ma la forma dell'intendere) è sepa- rata, nel senso che " separato," in quanto attualità degli atti, è Dio per cui, Alessandro, seguendo il testo di Aristotele del De generatione animalium (II, 736b, 27-28), in cui Aristotele sostiene che l'intelletto attivo viene dal di fuori (&Upor.3&V) e che esso solo è divino, sostiene che l'intelletto poietico è divino. Si capisce cosf come sia da parte platonica sia da parte stoica si è affermato che Alessandro non solo ha negato la realtà di Dio, posto solo come condizione logica, ma anche la realtà dell'anima non solo di quella individuale e dell'intelletto ilico ed epittetico, dipendenti dalla sensibilità, ma anche dell'intelletto agente che non essendo affatto proprio dell'uomo si annulla nell'attualità di Dio, pensiero di pensiero, anch'esso a sua volta riducentesi a una pura astrazione mentale, in una 65    definitiva negazione della realtà dell'anima. Ma proprio questo rende chiaro il senso della polemica di Alessandro sia nei confronti dei plato- nici sia nei confronti degli stoici, i quali, dogmaticamente, cioè se_nza una deduzione da principi veraci perché non contraddittori, rifacendosi gli uni e gli altri al pitagorismo, sostengono la realtà di una sostanza spirituale e di essa un aspetto negli individui (realtà delle anime). In tal senso assume un particolare interesse la polemica di Alessandro contro coloro che ritengono esservi la sostanz~ dell'anima. Di qui anche la pole- mica di Alessandro contro la Provvidenza degli stoici e dei platonici, che ammettendo un continuo intervento del divino, non solo sostanzia- lizzano e antropomorfizzano dio, il che è logicamente contraddittorio, ché Dio, attualità degli atti, e forma delle forme, in atto tutte le possi- bilità, è al di là del bene e del male, è termine ideale dell'attuarsi in ciascuna specie della propria perfezione, onde esso è indifferente rispetto a ciascuna realtà, ma anche negano quella stessa spontaneità e vitalità che sul piano del mondo animale, nel fenomeno umano indica alla fine l'azione non determinata e, quindi, la deliberazione. Quella che i plato- nici chiamano Provvidenza e azione diretta di Dio, sottolinea Alessan- dro, è non altro, in realtà (sia sul piano dei cieli e dei movimenti per- fetti, sia sul piano del mondo sublunare) se non un rapporto di causa ed effetto. f) Severo, Apuleio, Albino, Celso, Numenio di Apamea. Se in Arpo- crazione si vede bene il tentativo di mediare l'antiaristotelismo dei plato- nici tipo Calvisio Tauro e Attico (in polemica forse nei confronti dell'ari- stotelismo tipo Alessandro di Afrodisia) con il platonismo aristotelico tipo Albino (forse quei tali "platonici" che Attico dice sedotti da Aristotele), tanto meglio tale tentativo si fa chiaro, da un lato con l'interpretazione' data da Severo delle categorie stoiche, dall'altro lato, con il significato, in uno sviluppo della simbolica pitagorica in termini di logica (e rifa- cendosi a Moderato di Cadice), dato ai tre aspetti con cui si presenta la realtà (Dio, Demiurgo, Mondo), da Numenio di Apamea. Di Severo, della cui vita non abbiamo alcuna notizia, ma che sembra vissuto sulla metà del n secolo, sappiamo che avrebbe composto un commento del Timeo (Proclo, In Tim., 63a-h), e che soprattutto si sarebbe occupato del problema dell'anima (cfr. Stobeo, Ecl., l, 49, 32 W.; un lungo frammento di un'opera intitolata Dell'anima è riportato da Eusebio, Praep. ev., XIII, 17; si è pensato anche che sia una parte del commento al Timeo). Dalle scarse testimonianze che abbiamo su Severo è impossibile ricostruirne con.certezza il pensiero. Possiamo tuttavia dire con una qualche sicurezza che Severo ritenne di poter risolvere in senso plato- nico la categoria della sostanza aristotelica, condizione della pensabi- 66    lità e perciò della predicabilità del reale, ricorrendo alla categoria stoica del "qualcosa" (t(, tf), inteso come "il tutto" ('rò 1tiiv, tò p4n). Se è vero che non possiamo pensare e perciò predicare; niente senza l'essere, la con- dizione stessa del pensare è l'essere, che, in quanto possibilità di tutte le predicazioni, è indefinibile, e in tal senso è un qualcosa, un T(, donde si definisce l'essere e il divenire, esso né essere né non essere, bens{ l'uno e l'altro, unità e alterità, corporeità e incorporeità, indivisibilità (il punto) e divisibilità (estensione alterità). Di qui, di deduzione in deduzione, si rintraccia da un lato l'esserci dell'indivisibile, dell'identico e incorporeo, geometricamente definibile come punto, e del divisibile, del corporeo, la cui condizione geometrica è la estensione, ove termine medio tra l'uno e l'~ltro aspetto opposti della realtà, una nel Tutto, è l'anima cosmica. Severo, interpretando cos{ il celebre ~asso del Timeo sulla funzione del- l'anima del mondo ("Dell'essenza indivisibile, e che è sempre identica a se stessa e di ciò che è divisibile, e che si genera nei corpi, di tutte e due formò,.mescolandole insieme, una terza specie di essenza inter- media, che partecipa della natura del medesimo e di quella dell'altro e cos{ la pose in mezzo tra l'essenza indivisibile e quella divisibile in corpi... E l'anima, diffusa dal centro in tutte le direzioni, dal centro fino al- l'estremo cielo, il cielo stesso, esternamente avvolse tutto intorno, e, in se medesima rivolgendosi, dette luogo ad un divino principio d'inces- sante e intelligente vita per tutta la durata dei tempi...": Timeo, 35a, 36e), poteva sostenere da un lato che l'anima, in quanto misura del tutto in cui il tutto s'incentra è numero, e, dall'altro lato, in quanto termine medio tra l'essere e il divenire, l'unità e l'alterità, essa, nesso del tutto, è immagine di Dio, del T(, trascendente e immanente ad un tempo. Uno, dunque, il mondo, nel T(, nel tutto che lo trascende e che n'è condizione, nel suo scandirsi in opposti, in una serie di gradi, incentran- tisi nell'anima termine medio e unificante, il mondo è per un verso eterno nell'Uno tutto, nel T(, e, per altro verso, in quanto considerato nel suo scandirsi ed opporsi nel T(, è processo e divenire. Una l'anima umana e non distinta - sottolinea Severo - come avrebbe voluto Platone in parti, ma piuttosto aristotelicamente in aspetti, l'anima umana, specchio dell'anima cosmica, in quanto razionalità, l6gos, unificando in unità dialettica i due momenti in cui si distingue il tutto, identità e alte- rità, unità-dualità, afferra in sé il T(intuitivamente, cogliendo sé cerniera tra il mondo intelligibile e il mondo sensibile (cfr. Eusebio, Praep. ev., XIII, 17). Non poco indicativo sembra adesso, per renderei conto del signifi- cato che si dà ora al termine "pitagorismo," il passo di Apuleio10 in 10 Sulla vita e le opere di Apuleio vedi sopra.  67   cui si afferma che Platone avrebbe ripreso dai pitagorici la scienza • in- tellettuale" (" nam quamvis de diversis officiis haec ei essent philosophiae membra suscepta,... intdlectualis a Pythagoreis": De dogm. Plat., l, 3, 187). In altri termini, come chiaro risulta da tutti i testi (si confronti ancora Moderato di Cadice, Nicomaco di Gerasa, Teone di Smirne), se per "pitagorismo" si intendeva lo studio della teoria matematica (e quindi non solo dell'aritmetica e della geometria, ma anche dell'astro- nomia e della musica), quale si era venuto determinando nei vari tempi, "pitagorismo" stava anche ad indicare uno dei possibili esiti del- l'interpretazione di Platone in chiave logico-matematica, per cui non a caso il Platone di cui ora particolarmente si discute è il Platone ultimo. In realtà, come già abbiamo detto (cfr. I vol.), nel Sofista sembra che si precisi il significato delle idee che non sono Essere, ma, appunto, forme, o meglio generi dell'Essere, che non è nessuno dei generi, ma ciò per cui l'uno o l'altro sono e sono comunicabili e ad un tempo limitati, cioè numerabili, onde la dialettica è capacità di ripercorrere i nessi e le ar- ticolazioni del tutto, che si esprime nel discorso verace in quanto con- nessione (symploch!), cioè in quanto grammatica e sintassi, di cui i nomi sono simboli dell'articolarsi grammaticale e sintattico dell'Essere (non si scordi l'importanza data al Sòfista e al Cratilo da Albino). Si vede cosl come uno e molti possano mescolarsi, soprattutto quando si tenga presente l'ulteriore passo fatto nel Filebo, che, riprendendo il tema del Sofista, chiarifica il rapporto uno-molti con i nuovi concetti di illimitato (indefinito) e limitato (ciò che ordina e definisce) per cui la realtà ap- pare come un'infinitudine (quantità, ciò che è suscettibile di piu e di meno) e come finitudine. (misurabilità e dunque numerabilità), cioè come proporzione, convenienza e misura, per cui di ogni cosa si coglie l'essenza quando se ne sia colta la forma (id~), o meglio il numero, la sua definizione in rapporto ad altra definizione. Evidentemente i due termini illimitato (quantità) e limitato (numerabilità e qualificazione) sono i due termini astratti di una realtà che è in quanto si costituisce come limite dell'illimitato, cioè come proporzione e misura, per cui ogni cosa assume il suo perché, il suo essere, ossia la sua intelligenza, che è la causa stessa della mescolanza. Lo stesso Bene, allora, diviene misura e convenienza, e misura e proporzione il Bello e il Vero. Si capisce, dunque, come su questo piano (donde la concezione fisico-geometrica dell'universo quale si delinea nel Timeo), posto l'Essere come pensiero e dialetticità (e perciò non corporeo), esso sia visibile, cioè intelligibile (colto dall'occhio dell'intelletto), solo in quanto tradotto in termini ma- tematici. L6gos ed Essere, dunque, in quanto intelligenza e attività ar- ticolante, unità e molteplicità ad un tempo, sono incorporei. La realtà, invece, quale appare alla sensibilità, si manifesta molteplice, disartico- 68    lata, divisibile e perciò corporea e indefinita, nel suo substrato informe. I due termini, allora, in quanto distinti restano impensabili, che lo stesso essere in quanto discorso e ordinamento e misura non è tale se non è discorso, ordinamento, misura di qualcosa, s1 come la quantità in sé, divisi- bile e indefinibile, senza forma è impensabile se non in relazione alla mi- sura e alla' qualificazione, se non per quel tanto che sfuggendo alla pos- sibilità della misura resta al di fuori come appunto impensabile, e, dunque, irrazionale, casuale, fortuito, forza ribelle e malvagia. Sotto questo aspetto è chiaro in che senso- sulla linea di Albino suo condiscepolo - Apuleio potesse interpretare ed esporre, in forma piu de- scrittiva che non Albino, la concezione "platonica," entro cui, per altri rispetti, far rientrare le piu varie esperienze filosofiche e religiose ("io," esclama Apuleio nella sua Apologia, scritta per difendersi dalla accusa pubblica di magia, "ho conosciuto per amore della verità e per pietà verso gli dèi, in Grecia, culti di ogni specie e riti numerosi e cerimonie varie": Ap., 55}, e potesse sostenere the per Platone esistono tre princip~ (" initia rerum esse tria arbitrabatur Plato": D~ dogm. Pl., I, 5, 190): Dio, la materia e le forme delle cose. Presi a sé essi sono indefinibili: non a caso di Dio dice che è incorporeo, incommensurabile (aperlm~tros), indicibile (arretos}; che la materia non è né fuoco· né acqua né altro demento semplice, ma è informe, infinita, in sé né corporea né incor- porea; che le stesse idee o forme sono non in atto - inabsolutas, in- formes, nulla specie nec qualitatis significatione distinctas: l, 5, 190; - mentre un po' piu sotto, considerando che la realtà scaturisce dalla tensione tra Dio e la corporeità, intermediarie le idee, realizzazione di Dio, che in sé resta oltre, dice che le idee sono i modelli di tutte le cose, s~mplici, eterne, incorporee, appunto in quanto guise del discorso divino, in sé uno come il pensiero (cfr. De dogm. Pl., l, 6, 192). Si capisce cosi come Apuleio potesse sostenere isoltre che secondo Platone due sono le essenze, le oòaEctL, dalla cui unione si genera il mondo: la prima è la condizione logica che permette di pensare la realtà, e che, perciò, dice Apuleio, è intelligibile, visibile solo all'occhio dell'intel- letto, e come tale, in quanto principio, è sempre identica a sé, e senza di cui nulla sarebbe (perciò essa è costituita da Dio, dalla materia, dalle forme delle cose o idee e dall'anima: "et primae quidem substantiae ve! essentiae primum Deum est et materiem, formasque rerum et animam": D~ dogm. Pl., l, 6, 193); la seconda, condizione della corporeità è l'estensione, intesa come il ciò che è definibile, che. trae il suo esistere da uno dei principi, la materia, e a cui crediamo perché sensibile ("la seconda sostanza non è in qualche modo che l'ombra e l'immagine della precedente," la visione fisica dell'intelli- gibile). In effetto, perciò, pur rimanendo Dio, in quanto causa delle 69    cause, princ1p10 e fine, logicamente trascendente, la realtà è ciò che scaturisce dai due termini, il limitarsi dell'illimitato, l'ordine, possi- bile a comprendersi in quanto tràducibile in termini numerici e geo- metrici. Per il resto il discorso di Apuleio conseguentemente si svolge, nella ricostruzione dell'universo e nella posizione che nell'universo ha l'uomo, sulla linea di Albino, in un commento del Timeo. Certo, la ricostruzione matematico-geometrica dell'Universo, non esclude entro i termini logici di tale ricostruzione (si veda sopra Moderato di Gades e Nicomaco di Gerasa), che, su altro piano, l'Universo, considerato nella sua esistenza, appaia come un complesso di forze, come vivente organismo tendente alla sua perfezione, al modello divino che lo tra- scende, in senso stoico-aristotelico.(donde il De mundo di Apuleio), dalla corporeità oscura, limitante, dispersione e male, al divino Uno, in una infinita serie di gradi intermed1, sempre piu puri e incorporei, anime demoniche. Esistono certe divine potenze intermedie che abitano gli aerei spazi fra la suprema volta del cielo e le infime regioni della terra, e per loro mezzo i nostri desideri e i nostri meriti arrivano sino agli dèi. I Greci li chiamano dèmoni... Essi, come dice Platone nel Convito, presiedono a tutte le rivela- zioni, ai diversi miracoli dei maghi e ai ·presagi di ogni specie... Non è fun- zione dei numi altissimi scendere in basso tra noi. Ciò spetta in sorte alle divinità. intermedie che abitano nelle aeree regioni contigue e alla terra e al cielo (De deo Socratis, 6). Io credo, sulla fede di Platone, che tra gli dèi e gli uomini si trovino certe potenze divine, intermediarie per loro natura e per loro posizione, e che mediante loro vengano operate tutte le divinazioni e i miracoli della magia. Dico inoltre che l'anima umana, specialmente quella semplice di un fanciullo, può, sotto l'azione di certi canti o di delicati pro- fumi, cadere assopita ed uscire da sé a tal punto da dimenticare la realtà presente, perdere per un momento la memoria del proprio corpo ed essere ricondotta alla propria natura, che è immortale e divina, e in questa con- dizione, come in una specie di sonno, predire il futuro... (Apologia, 43). La credenza nei dèmoni, entro i termini di una ormai lunga tra- dizione, l'interpretazione del motivo del dèmone s~ratico (si ricordi in tal senso anche il D~mone di Socrate di Plutarco), la fede nell'anima sostanza divina per sé, nel senso del Pitagora "sciamano," che tende a tornare alla patria celeste donde è venuta, quando, attraverso l'ini- ziazione si purifica dal suo imbestiamento nei corpi (cfr. Metamorfosi o Asino d'oro), sono tutti aspetti della faccia retorico-divulgativa di Apuleio. Il discorso di Apuleio si svolge in realtà, a due diversi livelli di discorso: uno piu strettamente filosofico, mediante cui egli delinea una sua certa concezione, seguendc il platonismo di Gaio, di Albino, 70    di Teone di Smirne (cfr. De Platone et eius dogmate; De mundo); l'altro retorico, entro i termini di quella concezione (cfr. Pro se de magia liber o Apologia; Metamorphoseon libri XI; Florida). Su questo secondo piano, Apuleio, che, dopo una profonda formazione retorica, ricevuta a Cartagine, ascoltato ad Atene Gaio, assunse quale propria concezione di sfondo il "platonismo," curioso di ogni aspetto culturale, scientifico e religioso del suo tempo, di ogni tipo di civiltà, ch'egli cercò sempre di ricondurre a quella sua concezione e fede, facendo uso di miti, di credenze, descrivendo riti e culti, in funzione simbo- lica, sottolineando che la magia, di cui lo si accusò, è una filosofia sacerdotale, ricorrendo ai misteri, forme religiose di purificazione; Apu- leio si mosse costantemente entro l'àmbito di quel suo "platonismo," di quella sua visione di sfondo, valida a spiegare un'unica esigenza religiosa, dispiegantesi in tempi diversi, in regioni diverse, in parti- colari credenze, riti, culti, misteri. Senza dubbio, la stessa polemica tra i platonici del n secolo, rela- tiva all'interpretazione del divino di Platone, l'interpretazione in chiave aristotelica, o quella in chiave "pitagorica," l'accettazione di certi aspetti dello stoicismo sul piano del mondo concreto, e la negazione dello stoicismo sul piano di Dio, rivelano un'esigenza comune: la pos- sibilità, o meno, appoggiandosi a Platone, di determinare la trascen- denza del divino, in forma convincente, cioè razionale, senza ricorrere a "rivelazioni speciali." Ora, relativamente a Dio, un punto appare chiaro in tutti. Tutti hanno presente da un lato il celebre testo della Repubblica (VI, 509 b, 8) in cui si sostiene che il Bene, il divino non è idea accanto alle altre idee, ma la ragion d'essere delle idee, non è un'essenza, ma qualcosa oltre l'essenza, condizione delle essenze e perciÒ superessente per maestà e potenza (oòx. oòa(~ l>V1'oc; -rou aycx&ou, ~'l-rt héx.e:tvcx njc; oua(~ 7tpe:a~E:Ltf x.od 8uvci!J.e:L u7te:péx.ov-roc;); e, dal- l'altro lato, i testi platonici in cui si dice che, perciò, quell'essenza è indicibile (&pp'r)-roc;: cfr. V I I lettera, 341), indiscorribile (n.oyoc;: cfr. T eeteto, 202 b, 6) e inconoscibile (&yvwa-roc;: cfr. T eeteto, 202 b, 6}, nel senso del conoscere proprio delle altre scienze (cfr. VII lettera, 341 c); e quei testi in cui l'uno appare non come una unità massiccia, ma unità vivente, si come il pensiero, il cui discorso, traducibile in termini mate- matico-geometrici, è lo stesso discorso della realtà, per cui quell'unità è trascendente il discorso stesso (l6gos, >..6yoc;), ma, attraverso il di- scorso, afferrabile intuitivamente, con un atto intellettivo (nus,vouc;)(cfr. Repubblica, Sofista, Filebo, Timeo, VII lettera). Sostiene Albino, e, insieme ad Albino, Apuleio di Madaura, che tre sono i principi: Dio, la materia e le idee; e tanto Albino quanto 71    Apuleio proseguono affermando che Dio, in atto tutti gli intelligibili, è indicibile (ilpptroç), inconunensurabile (cioè indefinibile: Apuleio), e perciò perfetto (atÙ't'o-rù•IJç, autotelès; e cULUÀ~ç, aeitelès) e tutto in sé compiuto (nar.vrù..~ç, pantelès), Padre, in quanto causa di tutte le cose, incorporeo e immobile. E Severo afferma che il divino, in quanto condizione che rende pensabile tutta la realtà e tutti gli aspetti della realtà, ed è perciò non questo o quello, _ma un 't'((ti), un quid, è il tutto ('t'Ò n«v, tò pan). E cos{ ripete Massimo di Tiro (XI, 9, ed. Hobein), Arpocrazione (vedi sopra), Celso (VI, 62-66). A parte le polemiche, i· contrasti, le venature diverse, ciò che sembra comune a tutti i "platonici" del n secolo (oltre l'avversità allo stoi- cismo, relativa alla concezione del divino, non a quella del mondo), è da un lato l'aver posto che la condizione, perché sia possibile pen- sare la realtà, appunto perché tale (la si dica Dio, uno, essere, superes- senza, "ti," Bene), è di là da ogni determinazione, definizione, proprio in quanto renda possibile determinare il genere prossimo e la diffe- renza specifica, e che tale condizione è, dunque, ciò mediante cui si può dire è e non è; e che, dall'altro lato, postulato il divino come con- dizione di tutte le possibilità, come il prius logico, ad esso gnoseologica- mente si giunge passando dalla molteplicità, passando dalle molte im- pressioni sensibili, all'unità di quelle mediante il discorso, unità che è tale nell'anima, nel pensiero, per, alla ·fine, cogliere che quell'unità è lo stesso pensiero in atto, che è in quanto discorso (>.Oyoç, l&gos) ma discorso che è uno, onde l'unità è a fondamento del discorso mede- simo, e, metaforicamente, lo trascende, per cui lo si coglie intuitiva- mente, con l'intelletto (vouç, nus), come unità vivente. In altri termini, il prius logico senza di cui neppure si può pensare la molteplicità, l'unità del tutto, si coglie gnoseologicamente poi, attraverso il discorso, avendo incentrato nel pensiero la moltepliçità della immediata espe- rienza, oltrepassando il discorso, ed afferrando, mediante il nus (vouç) la postulata unità, per questo indiscorribile, indicibile, non conoscibile come conoscibili sono gli altri aspetti della realtà, incommensurabile, non afferrabile mediante ill6gos, ma, attraverso esso, con il nus, l'intelletto. In tale senso Albino è molto chiaro. Egli dice: ilpp'rj't'oç 3'la·rl xar.l véj) (LOVCjl ÀYj1t't'Ot;, ml olSn yévoç lO"t'lV om e:taot; om 3Lat~op«... ("esso è indicibile e afferrabile solo mediante l'intelletto, poiché non è né genere né specie né differenza specifica: Epit()mè, X, 4). E altrettanto chiaro è un seguace di Albino, Celso,11 vissuto nel 1 1 Della vita di Celso, vissuto, sembra, i n Egitto, nel u secolo, non sappiamo nulla. Conosciamo di lui larghi estratti di una sua opera intitolata Il vero discorso ('A>.c&ij~;).6-yoç), conservatici da Origene (185 circa-253-54), in un'opera (COtJtrtJ 72    II secolo, noto attraverso alcuni testi di lui riportati da Origene (Contra Celsum ), e, soprattutto, per la sua polemica contro I"' assurdit~" della concezione cristiana di Dio e del suo rapporto con l'uomo (cfr. sopra). Tale polemica è, per altro verso, un indice senza dubbio evidente del modo in cui, appunto, sulla linea Gaio, Albino, Severo, va inteso il "platonismo" di Celso. Dice, dunque, Celso: Dio non ha né bocca, né voce, né alcuna delle qualità da noi conosciute. Dio non ha fatto l'uomo a sua immagine, ché egli non è quale l'uomo, né assomiglia ad alcun'altra forma. Dio non partecipa né alla figura, né al colore, né al movimento, né all'essenza. E se, in realtà, tutte le cose seguono da lui, egli, evidentemente, non seJP!e se non da se stesso. Di lui non si può.dire nulla, egli non ha nome toù8è ì..6ycp Èqmc:r6t; Ècnw o.:h:6c; où8' bvO!J.ot<n6c;), poiché non riceve alcuno degli accidenti che si afferrano e si fissano con un nome (bv6!J.ot't"L xcx-r!XÀ7j7t't6v). In effetto Dio è al di fuori di ogni accidente... Come, dunque, conoscere Dio? Come apprendere la via che conduce a lui, tanto in alto? Ché, per ora almeno, è tenebra che mi getti dinanzi agli occhi, e nulla vedo distintamente. - Bisogna rispondere: Chi dalle tenebre viene condotto alla luce non può resistere al fulgore dei raggi [cfr. Repubblica di Platone, VII, 515c sgg.]... Solo quando si sia chiusa la porta dei sensi, solo quando si sia dato le spalle alla carne, e abbiate guardato in alto media~te l'intelletto (&vcx~À~~"rj'n: vcj)), solo allora vedrete Dio (in Origene, Il vero discorso, VI, 62-66, ed. Glokner)... Egli Celsum), in cui si viene sistematicamente confutalldo il Vero disc-orso. Nel Vero disc-orso, composto, sembra, tra il 178 e il 180, al tempo in cui Marco Aurelio aveva preso misure anticristiane, vedendo nei cristiani un pericolo per l'unità dello Stato (non a ca.so il Vero discorso si chiude con l'affermazione che i Cristiani verraDJlo tollerati se si deci- deranno a venire in aiuto dell'Impero). Celso mette in discussione il Cristianesimo; egli sostiene ch'esso non ha nulla a che fare con la filosofia, dimostrando, per altro, che, se mai, sul piano religioso molto piu convincente c filosofica ~ la tesi platonica, mentre illogica ed assurda ~ quella cristiana, in particolar modo la fede in un Dio che s'incarna nell'uomo e in una visione che pretende d'essere l'unica vera. Estremamente fini sono gli argomenti di Celso nel confutare le tesi cristiane. Egli dimostra una buona conosc:enza del vecchio e del nuovo Testamento e, senza dubbio, i primi tentativi di una formulazione filosofica dell'espe- rienza cristiana (primi apologisti), filosofia ch'egli decisamente nega essere tale. Che Celso stesso sia stato un platonico, non sappiamo. Certo, egli vuoi dimostrare, come dicevamo, che tra le filosofie religiose la piu convincente ·e razionalmente (non per superstizione) accettabile ~ la platonica (nell'accezione che il platonismo aveva assunto nella corrente Gaio-Albino). Niente vieta, quindi, di supporre, su testimonianza dello stesso Origene (Contra Celsum, I, 8, IO, 21; II, 60; IV, 54, 75; V, 3), che personal- mente Celso fosse un epicureo, e che al Celso del Vero discorso fosse indirizzata la dedica (a Celso epicureo) dell'.dlessandro o i l falso profeta d i Luciano, che ~ del 181 circa, e in cui Luciano, come già ne La morte di Pellrgrino, violentemente critica il Cristianesimo. Per atteggiamenti critici nei confronti del Cristianesimo, in forma retorica e non in termini filosofici e logici come ~ il ca.so di Celso, vaDJlo ricordati, oltre Luciano, Frontone (Contro i Cristiani) e Crescente (cfr. Giustino,.dpol. Il, 3; Taziano, Contra Graecos, 19). non è né intelletto, né intellezione, né scienza, ma la causa per la quale l'intelletto conosce e l'intellezione si compie, la scienza si forma e tutti gli intelligibili e la verità stessa e la stessa sostanza hanno l'essere loro: eppure egli è al di là di tutte queste cose ed è intelligibile in maniera ineffabile (ik., VII, 45). Se teniamo presente il concetto base del Dio cnsuano (unico, persona, volontà, creatore ex nihilo, che s'incarna in Cristo, in un uomo, venuto a salvare non il mondo, ma l'uomo nella sua interezza, la cui anima non è né mortale né immortale, ma immortale perché cosi vuole Dio, che tutto è dovuto ad un atto gratuito di Dio, non riducibìle a razionalità) si vede bene in che senso Celso vedesse nella concezione cristiana una concezione assurda, irrazionale, seducente uomini ignoranti e incolti, ma, in realtà, niente affatto convincente, anzi irreligiosa e atea. Per altro verso, comunque, l'idea di un Dio trascendente e Padre, per- fetto e oltre l'essere, spogliato da quelli che sembravano essere attributi antropomorfici, usati popolarmente in funzione simbolica, poteva essere ripresa entro i termini del linguaggio "platonico," insieme ad altre con- cezioni del divino, egiziane, ebraiche, siriache, in funzione di una teo- logia razionale, e, perciò, universale, che trovava i suoi termini nell'àm- bito della rielaborazione in sistema dovuta ai platonici e ai pitagorici del n secolo. Non a caso, sotto questo aspetto, Numenio,12 di Apamea, in Siria, vissuto nella seconda metà del n secolo, di origine semitica, forse ebreo, poteva da un lato sostenere che, sia pur in termini diversi, v'era un perfetto accordo tra la concezione di Platone - il Mosè che parla in attico, com'egli lo chiamò: cfr. Suda, s.v.; anche Clemente 12 Di Apamca, in Siria, Numcnio visse nella seconda mctl del n secolo. Pochis- sime c discutibili le notizie intorno a lui. Si è detto che, semita di origine, egli fosse ebreo. ~ un'ipotesi basata sul fatto che Numenio cita testi biblici e che conosce Filone l'Ebreo. Ciò non vuoi dir nulla: in questa stessa epoca la cultura ebraica, i testi biblici, ccc., erano largamente noti e citati. E poi bisogna non scordare che Numenio era di Apamea c che là testi gnostici, ebraici, della gnosi ebraica circolavano, e non solo là (cfr. Dodds, Numenius and Ammonius, in "'Enuetiens" V della Fondazione Hardt, Ginevra, 1960, p. 6).·Le testimonianze piu antiche, puntando sull'aspetto gno- seologico di Numenio, indicano Nurnenio come "pitagorico" (Clemente Alessandrino, Origene, Porfirio), le piu recenti lo indicano come "platonico" (Giamblico, Proclo). La maggior parte delle testimonianze e dei frammenti del ITcpl Tciyel&o\i (De bono) di Numenio provengono da Eusebio (Praep. ev., XI, 10, 18, 22; Xlll, 5; XIV,. 4, 5; XV, 17). Fondamentali sono anche le testimonianze di Proclo (in Tim., I, p. 303, 304; 11, p. 103). Nella sua ediZione dei.frammenti c delle testimonianze di Numcnio, il Lecmans ha cercato di ricostruire il piano del De bono, disponendo i frammenti secondo il posto che probabilmente essi avevano nei 6 libri in cui si divideva l'opera (E. A. Lec- mans, Numeniur van Apamea met Uitgave der Fragmenten, in "Mémoircs dc l'Acad. roy. dc Bclgique," classe cles lcttres, XXXVII, 2, 1937; si veda inoltre bibliografia). Oltre il De bono, Numenio avrebbe scritto: Del dissenso degli Accademici da Platone, Delle dottrine segrete in Pltllone, Del luogo, Dell'incorruttibilità dell'anima, Upupa, Sui numeri. Alessandrino, Str., l, 22 - e la sapienza mosaica - senza dubbio Nu- menio teneva presente Filone l'Ebreo,- e, dall'altro lato, che alla stessa concezione ebraico-platonica era possibile riportare - come aveva fatto Plutarco - sia la simbolica dei pitagorici, usata in funzione logico-ma- tematica, sia i riti, i culti, i misteri delle religioni egiziane e dei Brachmani, sia certi aspetti del Cristianesimo (sembra che nella vita di Cristo vedesse un simbolo del rapporto uno-mondo, cfr. Origene, Contra Celsum, IV, 51), come certi motivi dello gnosticismo e del- l'ermetismo. Occorrerà che chi ha trattato di questo argomento [del Bene] e si è espresso con le testimonianze di Platone, rimonti indietro e si ricolleghi ai 'l6goi di Pitagora; faccia inoltre appello ai popoli che salirono in fama, ripor- tandone le cerimonie, le leggi, i sacrifici culturali, compiuti in conformità con Platone, quali stabilirono Brachmani, Giudei, Magi, Egizi (De bono, in Eusebio, Praep. 'ev., IX, 7, l; fr. 9 ed. Leemans, Bruxelles, 1937). Delle molte opere di Numenio (Del dissenso degli Accademici da Platone, Delle dottrine segrete di Platone, Del Bene, Del luogo, Del- l'inco"uttibilità delfanima, Upupa, Dei numen) sono rimasti alcuni frammenti del De bono (in Eusebio, Praep. ev., XI e XV) ed alcune testimonianze e brevi testi interpretati.da Prodo, da Calcidio, da Por- firio, da Giamblico, da Macrobio (per la ricostruzione del De bono, ne:pl T4yot&ou, e pèr la raccolta delle testimonianze e dei frammenti si veda l'edizione di E. A. Leemans, in "Méin. de l'Acad. roy. de Belgique," classe cles lettres, XXXVII, 2, Bruxelles, 1937). Ciò va tenuto presente, perché condiziona il ~odo con cui è possibile ricostruire il pensiero di Numenio, relativo, appunto, alla discussione di lui sul Bene. Numenio teneva presente, come risulta dai frammenti, da un lato il testo di Pla- tone (Repubblica, 509 b) in ·cui si dice che il Bene non è idea accanto alle altre idee, ma la condizione delle essenze, dall'altro lato la tesi pla- tonica del costituirsi dell'universo per opera del Demiurgo (Timeo). Riallacciandosi al Platone e al Pitagora quali si erano venuti configu- rando nel corso del I-II secolo, in contrapposizione al Platone proble- matico e scettico qual era stato interpretato dalla media Accademia (da Arcesilao a Filone di Larissa), Numenio fa tesoro dell'impostazione teologico-allegorica di Filone l'Ebreo, e reinterpreta in questa chiave le "religioni dei popoli che salirono in fama," Brachmani, Giudei, Magi, Egizi, e motivi gnostici e ermetici (in realtà, poi, il metodo argomen- tativo di Numenio è. quello proprio dei platonici razionalisti del 11 se- colo). Numenio particolarmente si travaglia intorno al problema del rapporto tra l'uno, condizione della pensabilità del reale, condizione 75    dell'esserci delle cose, esso Uno ed Ente e Monade perciò di là da ogni determinazione, e, dunque, ineffabile, indiscorribile, invisibile al pen- siero e in tal senso incorporeo, immobile, "inattivo" (argos, «pyoc;: fr. 21 L), increato e increante, e il mondo della generazione che, a sua volta, implica un facitore (un poièta), un principio che dia movimento e che perciò non può piu essere lo stesso primo essere perfetto che, se si muove, e tende a realizzare qualcosa, vorrebbe dire che è mancante, imperfetto. A tale concetto del Bene, ad un tempo ragion d'essere del tutto, per cui esso non è nessuna delle singole essenze, delle idee, nessuna delle cose (e in tale senso Numenio, sulla scia della tradizione plato- nica, rifacendosi al Timeo, lo chiama "padre," il "primo dio"), Nu- menio sostiene che non si giunge attraverso un salto rivelazionistico, ma di grado in grado, dall'immediata esperienza sensibile, per via ne- gativa. Non a caso cosi Numenio, alla domanda: che cosa è ciò che è ('r(8-1) lcr·n -rò !Sv: fr. 12 L)? risponde che l'è, l'ente (!Sv) non può essere nessuno dei quattro elementi, ma neppure la comune stoffa di cui gli elementi son fatti, la materia (fr. 12), ché la materia in quanto inde- finibile (!Àoyoc;) e, perciò, inconoscibile (&yv(J)cr"t"oc;), non la si può sup- porre che come un fluire, un disordine, in ciò opposta all'essere, in realtà un non-essere, che assume essere in quanto definita {ordinata) dal- l'essere. L'essere, perciò, non è né materia definita (corpo) né materia indefinita. Né corpo, né materia l'essere: senza l'essere non sarebbero né la materia, né i corpi, ché gli stessi corpi non sarebbero se non ve- nissero definiti, se di essi cioè non si dicesse che sono, se non subissero l'essere. L'essere perciò è l'incorporeo (-rò «cr&~!J4-rov), ciò mediante cui i corpi si determinano, assumono forma, cioè esistono. Poiché dunque i corpi per esserci hanno bisogno di un principio che li determini (-roti xiX&~oV't"oc; IXÙ-ro~c; l8e:t: fr. 13), tale principio non può essere corpo, altrimenti avrebbe esso stesso bisogno di un qualcosa che lo determina (di un xot-rix.ov). L'essere, dunque, è incorporeo, immobile, non si accresce né diminuisce {fr. 13), è eterno, stabile, identico a se stesso («&t XIX't"CÌ 't"IXÙ-ro) (fr. 14). Condizione perché la realtà sia, l'essere è perciò da un lato la categoria delle categorie, dall'altro lato principio assoluto, assolutamente ricco, come punto luminoso che ha in sé tutte le possibilità, come fuoco che dà fuoco senza esaurirsi nei nuovi fuochi ("un lume, acceso da altro lume, ha luce senza toglierla al precedente, ché dal fuoco di quello è accesa la materia che è in esso": Eusebio, Praep ev., XI, 18), assolutamente perfetto e perciò non avente biso- gno di nulla, immobile, "inattivo" (cfr. frr. 14-15, 21). Indiscorribile, dunque, l'Essere, esso non è visibile se non all'occhio dell'intelletto, onde di lui si può dire che è intelligibile (vol)-r6v, noetòn) (fr. 16-17). lntelligibile perché condizione degli stessi intelligibili e dei visibili, esso è, appunto, come l'intelletto, condizione del discorso e unità del discorso, trascendente il discorso medesimo e afferrabile attraverso il discorso, intuitivamente. Se dell'Essere, dunque, si può dire - sia pur per analogia - che è Intelletto e Intelligibile (il primo Intelletto e il primo Intelligibile), si può anche affermare, sulla scia di Albino, ch'esso è in atto tutte le intellezioni, ciò che dà essere, forma, a tutta la realtà, o meglio ciò per cui tutta la realtà esiste (e in tal senso esso è Bene, fonte di Bene), onde l'Essere è oltre il discorso, oltre tutto, ma avente in sé tutto. E ha in sé tutto, a cominciare dal primo sdoppiamento di sé in intel- letto e intelligibile, ove tale secondo intelletto è, metaforicamente, da un lato volto all'uno-intelletto, dall'altro lato all'obbiettivazione di sé come intelligibili determinantisi, che dànno cioè essere, forme alle cose, in una obbiettivazione.visibile, figurata, presupponente perciò l'idea estensione, la materia intelligibile. Di qui, sempre nell'Essere - pur non essendo l'Essere, che in sé, intelligibilmente, resta immobile e tutto in atto, - un terzo intelligibile, il mondo nel suo esserci, che, in quanto proiezione del secondo intelletto, intermedio tra l'intelletto in atto e tutto in sé comp~uto e la materia come fluidità, è da Numenio detto "intelletto pensato" (vouç 3totVOOO(J.€VOç, nus dianooumenos: Proclo, In Tim., 268 a-b; fr. 25 L.). In una interpolazione di testi platonici (Repubblica, Parmenide, Timeo) e in una ricostruzione del platonismo in sistema, sulla linea Gaio-Albino, veniamo cosf ad avere: l) L'intelletto in atto, luogo metafisica di tutte le idee, l'essere as- soluto e tutto in sé compiuto (Padre o Primo Dio), in cui, nella sua perfezione, non si distingue pensante e pensato, esso condizione prima del discorso, della distinzione in pensante e pensato (la superessenza della Repubblica}, afferrabile solo come principio intelligibile, come il ciò senza di cui, al quale si giunge, passando attraverso il discorso (>.6yoç), con un atto puramente mentale (vouç). "In verità non facile, ma divina via occorre per esso, e la migliore è disprezzare le sose sensibili, volgersi con vigore alle scienze, considerare i numeri, e cosf meditare questa nozione: che cosa è l'uno" (in Eusebio, Praep. ev., Xl, 22: fr. 11 L.); "gli esseri che partecipano al primo Dio, al Bene, non vi par- tecipano in nessun altro modo che con l'atto del pensare: lv (L6Vc,>.-rlj) tppovci:v " (fr. 28 L.); 2) L'intelletto secondo, ossia, entro l'inteiletto in atto, la distin- zione pensante (uno)-pensato (intelligibili), ove, appunto, gli intelligibili sono le ohbiettivazioni del pensiero, l~ forme che d~nno essere alla fluidità della materia idea opposta (il "secondo Dio," il Demiurgo buono e attivo del Timeo, nell'interpretazione del Timeo); 3) Il "pensato," ossia il mondo quale appare nel suo ordine e nelle sue leggi, obbiettivazioni dell'intelletto secondo, frutto del Demiurgo, del secondo Dio, presente alla mente, appunto, come pensato: anch'esso, dunque, terzo Dio, nell'intelletto secondo, a sua volta nell'intelletto primo. "Averndo affermato che vi sono tre dèi, Numenio chiama il primo Padre, il secondo Poieta, il terzo Poema: poiché il mondo, secondo lui, è il terzo dio. Nella sua dottrina vi sono dunque due Demiurghi, il primo dio e il secondo, e il terzo dio. è il mondo frutto dell'attività demiurgica (-rò 3l)!L~oupyoo(UVOV). È meglio infatti esprimersi cosi, che parlare come lui, in un esagerato stile tragico, di nonno(1tchrnov), di figlio (~yyovov) e di nipote (&.n6yovov)" (Proclo, In Tim., 93 a-b). Proclo, quindi, andando avanti nell'esporre le varie interpretazioni (di Numenio, di Arpocrazione, di Attico) della pagina 28c del Timeo ("noi diciamo che tutto ciò che è nato è necessariamente nato in quanto frutto di una certa causa; ma questo è difficile, trovare chi sia padre e poieta di questo universo, e quando si sia trovato è difficile esprimerlo a tutti": Timeo, 28c), sostiene che, per quanto almeno riguarda il Timeo, è ingiustificata la distinzioné fatta da Numenio tra Padre e Poieta. Proclo ha ragione, solo che, senza dubbio, Numenio, accanto al testo del Timeo teneva presente l'altro della Repubblica sopra citato, tanto è vero che proprio alludendo a 28c del Timeo, nel De bono, afferma: "Platone dice che il primo Dio è inconoscibile, e questo dice perché sa che gli uomini conoscono solo il Demiurgo, e che, di contro, il primo Intelletto, che è chiamato l'Essere stesso è a loro totalmente ignoto. ~ come se si dicesse: 'Uomini, colui che ritenete essere un Intelletto non è il primo, ma un altro ne esiste, prima di lui, piu augu-. sto e divino"' (in Eusebio, Praep. ev., XI, 18, 10-11, fr. 26L.). In effetto, per Numenio, uno solo è il mondo, il mondo nella sua realtà concreta (non a caso in un frammento, accanto ai tre dèi, Dio- Demiurgo-Mondo pensato, egli pone il mondo visibile: in Eusebio, Praep. ev., Xl, 22). Tale mondo, per chi rimane preso nell'immedia- tezza sensibile appare molteplice e disordinato. Invece, attraverso lo studio del pensiero e di come funziona il pensiero (di qui l'importanza data agli studi sul numero), il mondo appare, nel suo esserci, come dovuto all'esplicazione dell'intelletto, in cui la molteplicità si raccoglie nell'unità del discorso, e dove ciò che rimane al margine, che non è determinabile entro.i termini dell'intelligibilità, e che perciò appare irrazionale, è detto il male, l'anima malvagia, l'indefinibile materia causa del male (fr. 30 L.). In tal modo, le condizioni dell'esserci del mondo sono da un lato la materia fluida, dall'altro lato l'essere avente 78    in sé tutte le forme e termine medio l'intelletto demiurgico, uno e molteplice a un tempo, che è pensiero in quanto pensa, o~de i suoi pensieri sono l'obbiettivarsi della sua unità nella molteplicità delle idee, che si costituiscono secondo un ordine e tornano all'unità in quanto presenti all'intelletto stesso, e, perciò, in fine, allo stesso Dio primo. Esso, dunque, nella sua totalità è natura ingenerata e ingenerante, entro cui si scandisce il ritmo della natura che è generata e che genera (Intelletto secondo; pensiero-pensato) e la natura che è generata e che non genera (il mondo pensato) e la stessa materia che rimane come lo sfondo su cui si disegnano le forme intelligibili, dando luogo ai corpi, traducibili in termini di figure geometriche, mentre per quel tanto che sfugge alla determinazione e definizione non piu riferibile all'intel- letto, per cui non è obbietto pensato, diviene causa di disordine, e, dunque, male. "Dio, come anche sembra a Platone, è principio e causa dei beni, la silva [materia] dei mali" (Calcidio, In Tim., 296: test. 30 L.). Tale sembra anche il significato da dare a quei pochi frammenti della lncorruttibilità delfanima rimastici, in cui Numenio sottolinea che non vi sono, nell'uomo, due parti dell'anima o tre, ma che due sono le anime, una razionale (di origine divina), l'altra irrazionale e che perciò l'uomo nell'ordine del tutto ha una posizione mediana, riflesso di quella che è la posizione dell'Intelletto secondo, per cui all'uomo è dato, in quanto intelletto, risolvere in sé la molteplicità del mondo che nell'intellètto s'incentra e attraverso questo risalire alla con- templazione mistica del primo Intelletto, dell'Uno (cfr. Calcidio, In Tim., 197 sgg.; Porfirio in Stobeo, Ecl., l, 49, 25 a W.; Giamblico in Stobeo, l, 49, 37; l, 49, 40 W.; Proclo, In Rep., vol. Il, p. 128, ed. Kroll). In questa processione dall'Uno ai molti entro l'Uno stesso nella sua totalità, che perciò trascende i momenti stessi del suo scandirsi, per cui, ad un tempo, v'è la molteplicità, il limite, il divenire, il mondo concreto, la dualità, la razionalità e l'oscurità, l'irrazionalità, e l'unità condizione prima e termine ultimo, già gli antichi avevano veduto una delle piu ampie fonti della concezione di Plotino, tanto è vero che non poche volte Plotino fu accusato di avere plagiato Numenio (cfr. Porfirio, Vita Platini, 17). Comunque sia, Numenio insieme ad Albino (detto da Proclo, In Rep., II, 96 K., uno dei "corifei" del pla- tonismo) ebbero, com'è testimoniato dalle posteriori citazioni, una note- vole influenza nelle ulteriori sistemazioni del sapere in chiave platonica e pitagorica, e l'uno e l'altro furono ritenuti autorità incontestabili nel campo dell'esegesi platonica e pitagorica (per Albino cfr. Galeno, Sulle proprie opere, II; Tertulliano, De anima, 28, 19; Stobeo, Ecl., I, 49,37 W.; Eusebio, Hist. eccl., VI, 19, 8; per Numenio, cfr. sopra le testimo- nianze citate).    S. li Gnosi," li Scritti ermetici" e "Oracoli caldaici" a) La "gnosi." Su Numenio di Apamea si è molto discusso, non:rolo come fonte di Plotino, ma anche sul suo "orientalismo," sulla que- stione se egli fosse in realtà uno "gnostico" e sull'influenza ch'egli avrebbe avuto sulla composizione degli Oracoli caldaici. Senza dubbio lo stato assai frammentario dei testi da.lui trasmessici e, in particolar modo, certo suo linguaggio, le sue metafore, immagini, allegorie, il suo stile "tragico," come dice Proclo (In Tim., 93a sgg.), lasciano lo storico in non poche difficoltà. La questione dell'" orientalismo" di Numenio fu soprattutto impostata dal Norden (Agnostos Theos, Lipsia, 1913), il quale, puntando sul testo di Numenio, in cui si dice che Dio è totalmente inconoscibile (7tetV't'tX7tctow &yvoou!Wioç), sosteneva che Numenio fu un saggio "fortemente penetrato di orientalismo" (Agn. Th., p. 72), che si sarebbe appoggiato su appelli soteriologici di profeti orientali ambulanti al servizio della propagazione della vera gnosi di Dio, attestati anche presso gli Gnostici (Norden, cit.). Studi piu appro- fonditi sia sul piano della tradizione platonico-razionalista (Gaio-Albino- Apuleio), sia sul piano della gnosi, dell'ermetismo, degli oracoli caldaici, hanno chiarito come, almenò per quest'epoca, sia difficile operare un taglio netto tra motivi cosiddetti occidentali e motivi cosiddetti orientali (comunque riferibili solo al mondo egiziano, ebraico, persiano). In effetto ci troviamo di fronte ad una reciprocità di scambi, che costi- tuisce alla fine una sola e comune base culturale, ove le differenze stanno piuttosto nell'un modo o nell'altro di risolvere il rapporto tra il divino e il mondo, nella capacità, o meno, di cogliere l'Essere supremo. In tal senso sembra che lo gnosticismo sia pit,l diffuso di quel che si riteneva allorché si parlava di uno gnosticismo cristiano, eretico nei con- fronti del cristianesimo autentico, anch'esso, in realtà, un tipo di gnosti- cismo, diverso, certo, da altri gnosticismi, si come lo gnosticismo di Numenio è diverso da quello di Platino, a sua volta critico di un tipo di gnosi. Sotto questo aspetto sembra esatta la polemica del Festugière contro gli "orieotalisti." "Non vedo nulla qui che confermi l'opinione di Norden, secondo il quale la nozione 'orientale' del Dio totalmente inconoscibile degli gnostici, di Numenio, e piu tardi di Proclo, si oppor- rebbe alla nozione platonica di un Dio !pplj't'ot; xcxt v<;> (.L6VCf> >.1)'7t'T6cx (afferrabile solo con l'intelletto) secondo la formula di Albino (Epi- tomè, 10). Nessuna differenza, secondo me, su questo punto, tra Albino e Numeoio. Albino insegna, per giungere a Dio, il metodo d' &q>«Epca~ ('Il primo modo di concepire il punto astraendolo dal sensibile, avendo prima concepito la superficie, poi la linea, infine il punto': Albino, Epi- tomè, 10). Questo stesso metodo è implicito nel tema dell' lP"J(.L(ç 80    (eremla: solitudine) in Numenio: Dio è lpl)!J.Oc; (éremos) nel senso che sfugge ad ogni determinazione, che nessun concetto finito per- mette di avvicinarlo: non vi è nulla che gli somigli o gli si avvicini: egli abita il deserto dello spirito. E allora, poiché non lo si può né definire, né nominare, Dio sfugge alla conoscenza razionale [discor- siva]. Ma al di sopra del Myoc; (l6gos) vi è il vouc; (nus), che, preci- samente, in tutta la tradizione platonica, è una facoltà soprarazionale che permette di vedere, di toccare il divino" (Festugière, La révélation d'Hermès Trismégiste, IV, pp. 132-133, Parigi, 1954). Se il Festugière ha ragione - e sulla sua stessa via si è posto il Dodds: N umenius, in Les sources de Plotin, "Entretiens sur l'antiquité classique," t. V, 1957, Ginevra, 1960, pp. l sgg. - nel riportare Numenio sulla linea di Albino, può essere altrettanto pericoloso, storicamente, sostenere la non influenza di certi motivi orientali, perché si viene cosi ad opporre sem- pre la concezione orientale (come se esistesse in blocco una concezione orientale) a quella platonica, come se davvero l'interpretazione di Antioco di Ascalona e poi quella di Gaio, di Albino, e cosi via, sia l'unica e vera interpretazione di Platone, e non si dia il caso che quelle interpretazioni di Platone siano dovute a precise esigenze, precisabili storicamente, simili, almeno entro una diversa atmosfera culturale, alle esigenze che hanno dato luogo alle soluzioni gnostiche, ermetiche, ora- colari, magiche, cristiane. Il Dodds ha ora, nella sua magistrale rela- zione su Numenio, tenuta agli ~Entretiens sur l'antiquité classique" del 1957, chiarito molto acutamente tutte le difficoltà e le possibili solu- zioni relative a Numenio, riproponendosi anche il problema dei rap- porti di Numenio con lo gnosticismo e della sua possibile influenza sul- l'autore degli Oracoli Caldaici. Il Puech, storico dello gnosticismo, e che un tempo, nel 1934 (Mélanges Bidez), sulla scia del Norden, soste- neva l'orientalismo di Numenio, ha finemente detto, nel corso della discussione sulla relazione. del Dodds: "Quanto a Numenio, bisogna dire, credo, che vi è in lui, in partenza, uno sforzo di sistemazione del pla.tonismo, come, del resto, già indicavo nel mio articolo delle Mllan- ges Bidez... Senza dubbio parlai allora, nel 1934, impressionato dal- I'Agnostos Theos del Norden, di influenze orientali: non si sfugge al proprio tempo. Oggi mi sembra questione piu delicata definire ciò che esattamente ricoprono, nell'epoca considerata, i termini 'Oriente' e 'Occidente.' Eppure bisogna porsi il problema: cosa ha condotto Nume- nio a distinguere un primo e un secondo Dio? ~questo che differenzia il suo atteggiamento da quello del platonismo medio? Il primo Dio, per il platonismo è un Demiurgo. Si può derivare l'opposizione tra il Demiurgo e il Bene da una interpretazione sistematica del platonismo,  riallacciare esclusivamente l'una all'altra mediante una specie di conti- nuità dialettica? Si sottolinei che simile opposizione può prendere, e prende, nello gnosticismo, forme varie, distinte da quelle che ha in Marcione... Ad ogni modo, non v'è negli gnostici e in Numenio un problema analogo? Problema, d'altra parte, legato a quello della Mate- ria come male assoluto e a quello della condizione umana: si tratta di scaricare Dio dalla responsabilità del Male. Conseguentemente si imma- ginano degli intermediari tra il Bene supremo, o il Dio sommamente buono, e la Materia, o il mondo: delle ipostasi, degli arconti, degli angeli il cui capo sarà alla fine assimilato a Yavè, il dio della Genesi e della Legge. Quali erano, infatti, le entità suscettibili di assumere la responsabilità della creazione? Necessariamente, o il Dio della Bib- bia ebraica (ad un tempo de~iurgo e iegislatore), o il demiurgo del Timeo. In Numenio e negli gnostici v'è la stessa concatenazione di pro- blemi. Plotino, attaccando gli gnostici, attacca, sembra, ad un tempo Numenio. Al principio del trattato II 9, al capitolo l, se la prende~.come ha mostrato Dodds, con il vou~ lv i)aux_(qr: (l'intelletto in quiete), con il vou~ o con il.&eb~ &pyo~ (l'intelletto, o il dio inattivo, o 'pigro') di Numenio, ma la sua critica è volta anche, e insieme, contro gli gno- stici... Evidentemente, il problema dell'influenza che la gnosi ha potuto esercitare su Numenio è, come quello dello gnosticismo stesso, piu facile a trattare fenomenologicamente che storicamente" (Puech, in Les Sour- ces de Plotin, Entretiens, cit., pp. 36-38). Il Puech si rifà qui alla tesi oggi particolarmente sostenuta sullo "gnosticismo" e da lui stesso chiaramente espressa (cfr. H. Cb. Puech, La Gnose et les temps, "Eranos-Jahrbuch," 1951, B. XX, Mensch u. Zeit, Zurigo, 1952). Gli studiosi si sono oggi resi conto che lo "gno- sticismo" non può piu essere compreso solo,come un'eresia del cristia- nesimo (posteriore e interna al cristianesimo), come si riteneva basan- dosi sui testi gnostici trasmessici dai cristiani (Clemente di Alessandria, Origene, lreneo per gli gnostici Basilide e Valentino; Tertulliano per Marcione), in polemica con l'interpretazione gnostica del cristianesimo, ma che esso fu un movimento, un fenomeno religioso, molto piu com- plesso ed esteso, certo anteriore al cristianesimo, un modo di intendere, un tipo di esperienza religiosa che investf di sé sia tradizioni, misteri, miti greci, sia certe filosofie ellenistiche (in particolare il "platonismo"), sia la religione ebraica e poi la cristiana, sia miti e religioni di Oriente, diversificandosi a seconda, appunto, di quale fu l'ambiente e la cultura in cui venne operando. Oggi, dunque, non si vede piu nello "gnosti- cismo" né una "ellenizzazione del cristianesimo" (cfr. Harnack, Lehr- buch d. Dogmengeschichte, 1886; Buonaiuti, Lo gnosticismo, Roma, 82    1907; De Faye, Gnostiques et gnosticisme, Parigi, 1925; Burkitt, Cliurch and Gnosis, Cambridge, 1932), né, di contro, un'assoluta derivazione dalla religione egiziana, da quella iraniana e dai miti babilonesi (cfr. W. Bousset, Hauptprobleme der Gnosis, che ritiene il complesso delle figure gnostiche, Dio ignoto, arconti subordinati, il mondo male, e cosi via, di origine persiano-babilonese; Reitzenstein, che nel Piman- dro, Lipsia, 1904, ritiene lo gnosticismo di origine egiziana, rintrac- ciando forti affinità con l'ermetismo, e che nel Das iranische Erlosungs- mysterium, Bonn, 1921, sostiene la derivazione iraniana dello gnosti- cismo). Ma neppure, infine, si vede nello gnosticismo un mèro sincre- tismo, come hanno sostenuto W. Hohler (Die Gnosis, Berlino, 1911) e H. Leisegang (Die Gnosis, Lipsia), aspramente combattuti da Jonas (Gnosis und Spatantiker Geist, Gottinga). Il termine gnosticismo è usato in senso molto piu lato, e il problema gnostico si pone oggi in un modo nuovo. Lo gnosticismo appare ormai come un fenomeno generale della storia delle religioni la cui larghezza oltrepassa infinitamente i limiti e il terreno del cristianesimo, queste non sono eresie immanenti al cristianesimo, ma i risultati di un incontro e di un congiungimento tra la nuova reli- gione e uno gnosticismo che esisteva prima.di essa, che era inizialmente ad essa estraneo. Lo gnosticismo ha rivestito in alcuni casi forme cri- stiane o forme che, con il trascorrere del tempo, si sono sempre piu profondamente cristianizzate, al modo stesso che in altri casi ha preso forme pagane adattandosi alle mitologie orientali, ai culti dei misteri, alla filosofia greca, o alle scienze e arti occulte. Per quanto queste forme nelle quali si è manifestato storicamente lo gnosticismo siano state di- verse, esso dev'essere considerato un fenomeno specifico, una categoria o un tipo distinto del pensiero filosofico religioso: si tratta di un atteg- giamento che ha un andamento, una struttura, leggi proprie che l'ana- lisi, pervenuta· alla comparazione, può ritrovare sostanzialmente iden- tiche e con le medesime articolazioni alla base di tutti i diversi sistemi che noi possiamo, proprio in ragione di questo fondamento o 'stile' comune, raggruppare sotto una stessa etichet1:a chiamandoli sistemi gnostici" (Puech, La Gnose et le temps, cii:., p. 79). Si è cercato cosi di vedere lo "gnosticismo" come un tipo di espe- rienza religiosa, mediante cui, di volta in volta, a seconda degli ambienti, delle religioni o delle filosofie, si sarebbero riportati quei miti, quelle religioni,- quelle filosofie a quell'unico tipo di "gnosi" (conoscenza), in una trasformazione di quelle stesse filosofie, religioni, miti: fossero questi ultimi originari del mondo greco-orientale (misteri) o propri dell'Egitto o dell'Iran. Presi da queste considerazioni bisogna; per altro, 83    non vedere, ovunque, influenze gnostiche - o, per lo meno, di un certo gnosticismo - tenendo presente che, nonostante le scoperte piU, recenti di alcuni testi gnostici (lo gnosticismo prima era conosciuto solo attraverso i testi riportati dagli autori cristiani in polemica), le posizioni gnostiche da noi conosciute sono piuttosto tarde e risalenti al solo periodo del primo cristianesimo (1-n sec. d. C.) ed in relazione con esso. In realtà, sia i manoscritti manichei scoperti a Medinet Madi (Egitto), nel 1930, sia i tredici papiri contenenti 48 libri gnostici tra- dotti in copto dal greco, scoperti a Nag Hammadi (Egitto), nel 1946, piu che allargare nel tempo le nostre conoscenze sullo gnosticismo, hanno da un lato confermato l'esattezza delle citazioni di testi gnostici da· parte dei cristiani, dall'altro lato (in particolare gli scritti di Nag Hammadi che appartengono alla setta dei Setiani) lo stretto rapporto tra i Setiani e la Palestina e i Setiani e certi aspetti dell'ermetismo di Alessandria. Non solo, ma ritrovati tra questi ultimi testi tre dei libri ricordati da Porfirio contro i quali Plotino scrisse il suo trattato contro lo gnosticismo (Il, 9), meglio si vedono le ragioni che mossero sia un platonico-razionalista tipo Plotino, sia una posizione come quella cri- stiana a respingere la concezione gnostica come assurda, l'uno vedendo nello gnosticismo l'assoluta impossibilità di una deduzione logica del- l'universo - che per altro verso lo portò anche a polemizzare contro la concezione cristiana di Dio -, l'altra vedendo nello gnosticismo e nella sua interpretazione della figura del Cristo, un'ellenizzazione della pro- pria visione, riduttrice dd nuovo a vecchie posizioni, annullanti la storicità di Gesu. Per meglio intendere come si venne delineando nel I I - I I I secolo da un lato la "filosofia cristiana" in senso stretto, dall'altro lato il movi- mento neoplatonico, interessa ora brevemente e schematicamente - con ciò perdendo le molte sfumature - esporre la posizione degli gnostici. Innanzi tutto va precisato il significato assunto dal termine "gnosi" (conoscenza), entro l'àmbito delle sette gnostiche fiorite nel II secolo. Pur mantenendosi il significato originario e comune di "conoscenza," il termine è usato per indicare un particolare tipo di conoscenza. Non si tratta né di una conoscenza cui si giunge mediante il discorso, le normali vie della ragione, né di un atto intuitivo della mente, che rivela un principio discorsivamente analizzabile, bens(di un'improvvisa illu- minazione con cui ciò che si crede per fede viene, appunto, conosciuto e mediante cui si salvano l'uomo e le cose, per loro natura, in quanto esistenti, radicalmente ammalati, in preda al male. Si tratta, dunque, di una conoscenza soterica (salvificante), assolutamente gratuita, riser- vata ai soli eletti, agli iniziati, a chi abbia avuto, appunto, rivelata la 84    "gnosi," agli "gnostici," ai "pneumatikòi" (spirituali: in chi t: passato il "soffio," lo pneuma divino), come dirà Valentino, per natura supe- riori agli "psichici" (coloro che hanno SI un'anima, ma non lo spirito, per i quali è valido il co~flitto morale e la "fede") e agli "hylici" (i materiali: coloro che sono per natura presi dal corpo e dalla materia, dal male). Solo tale tipo di "gnosi," salvando, risolvendo in sé la fede, svela "chi fummo, che cosa siamo diventati, dove eravamo, da che cosa siamo riscattati, cosa ela rigenerazione" (in Clemente Alessandrino, Excerpta Theodoti, 78, 2, ed. Sagnard, 1947). In secondo luogo va detto che tale significato dato alla "gnosi" fun- ziona quando si tenga presente il radicale pessimismo che emerge da tutti i testi gnostici da noi conosciuti. Se solo l'Essere (Dio) in quanto Essere è perfetto e tutto in sé compiuto e perciò Bene, il mondo, tutto ciò che esiste non può essere l'Essere, ché altrimenti si identificherebbe con lui; il mondo, d'altra parte cosi pieno di mali ("avendo assistito a cose cosi orribili, cominciai a domandarmi quale ne fosse la causa, quale il principio, chi in tal modo tramasse contro gli uomini... No, certo, Dio": Valentino, in Contra Marcionitas, in Patrol. graeca, VII), non può essere frutto di Dio né sua emanazione, ma la manifestazione di un altro principio, ·di un principio decaduto da Dio, ribelle a Dio, e perciò opposto a Dio e che, dunque, è il Male. Esso, in quanto si rivela, plasma il mondo, il quale mondo è perciò male. Dio, dunque, è al di là del mondo, non ha prodotto il mondo, non è il reggitore del mondo, e, dunque, non può essere conosciuto né dal mondo, né attra- verso il mondo. Attraverso il mondo, opera del male, si coglie piuttosto il male che Dio, il facitore del mondo, il principe delle tenebre, che imprigiona nel suo costituirsi tutta la realtà in leggi meccaniche e neces- sarie, da quelle che regolano il firmamento e i corpi celesti, a quelle stesse che, a loro volta, determinano i destini terreni, i fati umani. "La regolarità appare allo gnostico come una ripetizione monotona e opprimente; l'ordine e la legge (il n6mos fisico e morale) come un giogo insopportabile... Il firmamento, i corpi celesti, in particolare i pianeti che presiedono al Destino, alla fatalità, sono esseri malvagi, sono la sede di entità inferiori, come il Demiurgo e gli angeli creatori o di dominatori demoniaci dalle forme bestiali: gli 'Arconti.' In una parola l'universo visibile, da divino che era, diviene diabolico. L'uomo vi soffoca come in una prigione, e, lungi dall'essere la manifestazione del vero Dio, porta il marchio della sua infermità e della sua perversa origine" (Puech, cit., p. 85). Si vede bene, allora, come solo la "gnosi" spezzi la.catena della necessità e del fato, liberi, salvi dal male, affranchi da ogni legge 85    (morale e fisica), congiungendo l'uomo a Dio, e come solo gli "gno- stici," coloro che sono stati eletti, possano essere maestri di conoscenza e siano la "potenza di Dio," il quale Dio, dunque, resta di là da ogni normale conoscenza, è "ignoto," "nascosto," "straniero," "abisso," "statico," "ozioso" (non nel senso che è indiscorribile e inattivo il Dio di certi platonici); solo gli gnostici, dunque, lo vedono, di una visione che è rivelazione (gnosi). Essi, dunque, potranno insegnare agli altri come si è strutturato il mondo, in che consista il male, quali pos- sano essere le pratiche per salvarsi, come l'anima possa riaffiorare a Dio. Entro i termini di una concezione religiosa, nella ricostruzione del tutto, si poteva benissimo, sia pur in un rovesciamento del concetto di ordine e del mondo, rivelazione del divino, usare, rotti dai loro contesti, frasi e passi di Platone, degli stoici, dei misteri, dei pitagorici, delle tradizioni magico astrologiche di origine iranica, degli allegorismi ebraici, di certe interpretazioni ermetiche dell'universo, reinterpretati in funzione di tale concezione. Si veniva a costituire, cosi, insieme a quella visione religiosa, a quella "gnosi," una religione, un complesso di riti e di culti, mediante cui gli eletti, gli gnostici, i pneumatici, si fanno salvatori, hanno capacità di agire sugli dèi e sui dèmoni, sugli spiriti del male, sugli astri demoniaci che stringono gli uomini nei loro destini (magia e teurgia), che dominano il mondo, per asservirli a se stessi, rompendo la catena del mondo. Fenomeno assai diffuso, certo la "gnosi" non si riduce a questo; dal n secolo in poi, veniamo ad avere una serie di sette, di forme diverse di "gnosi," difficilissime ad individuarsi e che soprattutto inte- ressano lo storico delle religioni. Ma, ancora, _va sottolineato un aspetto, quale chiaramente risulta dai documenti che abbiamo, e cioè come, almeno in principio, il Cristianesimo nel suo incontrarsi con gente che gnosticamente sentiva sé come portatrice della "potenza di Dio," po- tesse benissimo essere assunto come una delle posizioni gnostiche e potesse essere interpretato in chiave gnostica, si come, per altra via, poteva essere interpretato entro i termini della concezione di Filone l'Ebreo. E qui pensiamo allo sviluppo di una corrente del pensiero gno- stico, quale si rivela chiaramente attraverso ciò che ci è detto di Simon Mago, di Menandro e di Saturnilo di Antiochia, e dei loro presumibili successori, Basilide, Valentino, Marcione, forse Bardesane, da cui, pro- seguendo fin verso il vn secolo, si vennero costituendo gruppi diversi e molteplici (Ofiti o Naasseni, ossia "serpentini" in greco e in ebraico, "gnostici" veri e propri, Setiani, Arcontici, Audiani, e Basilidiani, Va- lentiniani, Marcioniti, Bardesaniti e cosi via). Particolarmente interessante è a questo proposito il racconto di 86    Simon Mago/3 riferito dagli Atti degli Apostoli. Il diacono Filippo "arrivato alla città di Samaria predicava loro Cristo. E la moltitudine concordemente prestava attenzione a quello che diceva Filippo, ascol- tandolo e vedendo i miracoli che faceva, poiché da molti, che avevano spiriti immondi, questi uscivano, gridando ad alta voce. E molti para- litici e zoppi furono sanati. Per la qual cosa fu grande allegrezza in quella città. Ma un certo uomo chiamato Simone stava già da tempo in quella città, esercitando la magia, e seduceva la gente di Samaria, spac- ciandosi per qualche cosa di grande: e tutti gli davano retta, dal piu piccolo al piu grande, e dicevano: questo uomo è la potenza di Dio [non va qui scordato che nel Vangelo di Luca l'angelo dice a Maria: 'Lo spirito santo scenderà sopra di te e la potenza dell'Altissimo ti coprirà con la sua ombra': Luca, l, 35],·la potenza di Dio che si chiama grande. E lo ubbidivano perché da molto tempo li aveva ammaliati con le sue magie. Ma quando ebbero creduto a Filippo, che evangelizzava loro il regno di Dio, uomini e donne si battezzarono nel nome di Gesu Cristo. Allora anche Simone credette, e battezzatosi divenne intimo di Filippo. E osservando i segni e i miracoli grandi che seguivano, usciva fuori di sé per lo stupore" (Atti degli Apostoli, VIII, 5-13). Venuti, poi, da Gerusalemme a Samaria Pietro e Giovanni, inviati dagli Apostoli a far discendere in quei di Samaria lo Spirito Santo con l'imposizione delle mani, Simone offerse agli Apostoli denaro dicendo: "Date anche a me questo potere, che a chiunque imporrò le mani riceva lo Spirito Santo." Pietro gli disse: "Il tuo denaro perisca con te, poiché hai giu- dicato che si acquisti con il denaro il dono di Dio" (Atti Apostr, id.). 13 Di Simone,. detto Mago, nato a Gitton, in Samaria, vissuto nel 1 secolo d. C., non sappiamo se non ciò che dicono i primi scrittori cristiani. Secondo le Omelie pseudo clementine Simone avrebbe studiato in Alessandria, dove anche avrebbe appreso le arti della magia e si sarebbe accostato alle interpretazioni di Filone l'Ebreo ("la menzione di Alessandria, il centro della scienza e della filosofia greche di quest'epoca, vtiol certo sottolineare le intime relazioni con la saggezza greca e con la scienza giudeo-ellenistica": Leisegang, cit., p. 49). Secondo le Ricognizioni, Simone, tornato in Samaria, avrebbe aderito alla setta che Dositea vi aveva fondato dopo l'esecuzione di Giovanni Battista, setta costituita di trenta discepoli (uno per ogni giorno del mese) e di una donna, chia- mata Luna o Elena; su tutti presiedeva Dositea, detto l'hestòs, il supremo, rappresentante• di Dio. Secondo Giustino (Apol. l, 26), Simone si sarebbe recato a Roma al tempo del- l'imperatore Claudio: "Aiutato dai dèmoni, fece prodigi di magia. Fu preso per un Dio e, come a un Dio, gli fu eretta una statua, nell'isola tiberina, tra i due ponti con la seguente iscrizione latina: Simoni deo sancto; quasi tutti i Samaritani e alcuni di altre nazioni lo riconoscono e lo adorano come loro prima divinià; una certa Elena, che lo accompagnava in tutti i suoi viaggi, e ch'era prima vissuta in un postribolo, passa per essere la sua prima Ennoia..." Di una sua opera, La grande rivelazione, lppolito ha con- servato alcuni testi (lppolito, Philosoph., VI, 7 sgg.). Poco o nulla sappiamo dei due discepoli diretti di Simone, Menandro della Samaria (cfr. Giustino, Apol. l, 26; Ireneo, Haeres., I, 23, 5) e Saturnilo (cfr. Ireneo, Haeres., 24, 1-2; Ippolito, Philos., VII, 28; Epifanio, Panar., 23, 1-2; Tertulli"ano, De anima, 23; Filastrici, Haeres., 31). Dopo il pentimento di Simone, gli Apostoli tornarono a Gerusalemme. Il racconto è molto indicativo. Simone è un uomo, che, prima dell'in- contro con i Cristiani, ha già in sé la "potènza di Dio," che incen- tratosi con gli "inviati" del Signore, si sente loro vicino, anche se da essi respinto, e si fa cristiano. ~ stato detto che questo "racconto riflette in piccolo la storia della gnosi eretica. Essa esisteva prima del Cristia- nesimo, si è fatta cristiana, i cristiani l'hanno respinta, ma essa pretende rimanere cristiana e passare per tale" (H: Leisegang, La gnose, trad. frane., Parigi, 1951, p. 49). E ciò, si può aggiungere, era possibile per il fatto che lo stesso Cristianesimo appariva come un tipo di "gnosi," par- ticolarmente negli ambienti della "gnosi" ebraica e dell'ebraismo elle- nizzato di Alessandria (si veda sempre Simon Mago e la sua vicinanza, nell'interpretazione allegorica del Vecchio Testamento, a Filone l'Ebreo). Simon Mago e, sulla sua scia, Menandro e Saturnilo, vedono nella rive- lazione del Cristo la "gnosi," per cui cercano di innestare il Cristo, ve- nuto a salvare l'uomo, entro i limiti della visione "gnostica" dell'Uni- verso, ove la redenzione umana di Cristo si trasforma in redenzione cosmica, e dove accanto agli elementi dell'interpretazione allegorica della Bibbia, giuocano non pochi elementi tratti dalle filosofie elleni- stiche (platonismo, pitagorismo), dai misteri greci, egizi, iranici, anche se, come abbiamo visto, se ne rovescia il significato, per ciò che riguarda il rapporto Dio-mondo, Dio-anima, particolarmente impostato dalle filo- sofie e dai misteri greci. Per Simon Mago la radice del grande albero dell'Essere, veduto in sogno da Nabuccodonosor (Daniele, IV, 7 sgg.), è il "divorante fuoco" del Deuteronomio, "tesoro del visibile e dell'intelligibile," esso Dio Padre, Yavè. Da tale "fuoco," uno e in sé conchiuso, si genera una serie di coppie. Essendo esso pensiero e parola, le prime coppie, enti a Dio coeterni (eom), sono Intelletto (N'iis) e Riflessione (eplnoia), e, quindi, voce e nome, ragienamento (loghism&s) ed esigenza (enthy- mesis). Da essi scaturisce il pensiero buono (èunoia) del padre, che, a sua volta, produce gli Angeli che dànno realtà a tutte le cose. Solo che gli Angeli, affermandosi, si distaccano dall'Uno padre, facendo, allegoricamente, prigioniera tunoia, la quale si determina in un corpo di donna, subendo una serie di trasformazioni (è stata Elena di Sparta e infine una prostituta siriana). Il corpo, dunque, la materia sono il frutto dell'orgoglio degli Angeli, del pensiero distaccatosi dalla radice prima. Il Padre, allora, per recuperare e liberare tunoia si manifesta in nuove forme, in Gesu, nello Spirito Santo e in Simone stesso, me- diante cui si salvano coloro che il Padre ha scelto (gli eletti), indipen- dentemente dalle opere e dalle azioni umane, tutte in sé malvage e 88    ribelli. Dio, attraverso Gesu, lo Spirito Santo e Simone, è venuto a salvare il Pensiero, non l'uomo, la realtà molteplice, che ritorna una nel pensiero uno di Dio, nell'unità del fuoco primo e ultimo (per lo scritto, La grande rivelazione, attribuito a Simone, e per i frammenti da cui si è ricavato quanto sopra cfr. Ippolito, Philosophumena, VI, 9 sgg.; lreneo, Adv. haeres.; Ricognizioni, Il, 7 sgg.; Omelie pseudo Clementine, II, 22 sgg.; San Giustino, Apologia prima, 26). Cosi, anche per Menandro e Saturnilo di Antiochia, seguaci di Simone, non del Dio ignoto e tutto in sé compiuto (donde sono scaturiti gli angeli, gli arcangeli, le potenze e le. dominazioni) sono frutto il mondo e gli uomini, ma degli angeli che, oramai lontani da Dio e dalla sua imma- gine, hanno, affermando se stessi e quindi ribellandosi a Dio, costituito malamente le cose e gli uomini, che sono quindi in parte buoni e in parte cattivi e demoniaci, e che non si salverebbero senza la gnosi dovuta al Cr!sto, il quale, ingenerato e incorporeo non si è manife- stato.come un uomo, ma come il /Ogos. "Gli angeli hanno fatto due specie di uomini, i buoni e i cattivi: poiché i dèmoni aiutano i malvagi, il Salvatore si è manifestato per annientare cattivi e dèmoni e salvare i buoni. Il matrimonio e la generazione [cioè la moltiplicazione degli uomini] sono opera del diavolo..., il quale, l'ultimo degli angeli, è il nemico incarnato dei precedenti- angeli e del Dio degli Ebrei" (Ireneo, Adv. haereses, I, 24, 2). Piu a un dramma cosmico, che non di persone, come era per Satur- nilo, tornano Basilide e il piu notevole dei cosiddetti gnostici eretici del n secolo, Valentino. Basilide di Alessandria,14 morto nel 138 circa (avrebbe scritto 23 o 24 libri di Esegesi al Vangelo, Incantagioni, un proprio Vangelo), invocate le rivelazioni di ignoti profeti, come Ham e Barcabba, rifacendosi a Pitagora e al mitico Ferecide, pone al principio un Dio ignoto, unico, invisibile, incomprensibile e innominabile, che ha in sé tutte le possi- bilità, i semi di tutto (lo Yavè degli ebrei, il Crono degli Orfici). Pura luminosità Dio, da lui in principio prolificano tre figli: il primo figlio, che, come raggio di luce che si riflette nella fonte luminosa da cui proviene, rimane in Dio; i l secondo figlio, che illumina le altre H Forse discepolo di Menandro (vedi sopra), Basilide insegnò ad Alessandria tra il 120 e il 138 circa, sotto Adriano e Antonino Pio. Secondo i basilidiani egli avrebbe rice- vuto la sua dottrina da un certo Glaucia, interprete di San Pietro. L'insegnamento di Basilide fu proseguito dal figlio lsidoro. Di un Vangelo di Basilide e dei suoi Commen- tari (in 23 o 24 libri) restano alcune citazioni; avrebbe composto delle Odi. Per i fram- menti di Basilide dr. Acta Arche/ai et Manetis, c. 55; Clemente Alessandrino, Stromala, IV, 12, 83, 88; III, l, 1-3; cfr. anche l'esposizione del pensiero di Basilide ad opera di lppolito, Philor., VII, 20 sgg.; Ireheo, Han-er., I, 24, 6. 89    semenze, ritornando quindi in Dio; il terzo figlio.che rimane a fof\damento delle semenze. Dio e le sue tre filiazioni costituiscono un tutt'uno, la potenza di tutto, rimanendo Dio sempre tutto in atto, per cui tra Dio e il resto della realtà vi è come un limite, un passaggio proibito, un orizzonte invalicabile, detto da Basilide "sfera solida" (steréoma). L'universo non è Cf?Stituito da Dio, ma da un nuovo essere 'scaturito da uno degli infiniti semi di Dio, il "grande Arconte," inferiore ai tre primi figli, ma simile al Padre per potenza, onde egli diviene principio di una serie di filiazioni intermedie tra la "sfera solida" e la sfera della luna; l'ultima di queste divinità è il Dio degli Ebrei che ha sede, appunto, nella lulfa. Egli quindi, avendo in sé il riflesso della potenza divina, trovandosi al limite della materia caotica, al di sotto della luna, ha costituito questo mondo e l'uomo. L'orgoglio del primo Arconte, che, separato da Dio a causa della "sfera solida," afferma se stesso, opponendosi a Dio, si riflette su tutta la sua filiazione fino al Dio degli Ebrei, che proclama sé unico e vero Dio. Il primo figlio di Dio, allora, l'unico che ha la conoscenza ("gnosis") autentica di Dio, si rivela al primo Arconte, che, convinto dell'errore, in cui era caduto per ignoranza, conoscendo il vero Dio, riflette a tutti i cieli e alla sua filiazione tale rivelazione, e tutti rientrano nell'ordine, finché un nuovo figlio di Dio, parola di Dio, come Dio eterno (eone), il Cristo, riscatta, rivelando la vera "gnosi" alla terra e all'uomo, l'opera del Dio degli Ebrei, abrogando la vecchia legge, e mediante sé e la "gnosi," condu- cendo l'uomo al Dio primo. Tale, sembra - le fonti, polemiche e in gran parte discordi, non permettono, in realtà, una ricostruzione esatta -, la visione di Basilide. Valentino/5 originario dell'Egitto, formatosi nell'ambiente religioso 15 Originario dell'Egitto, Valentino stesso sostiene d'esSere stato discepolo di un certo Teoda, diretto ascoltatore di San Paolo. Dopo aver predicato in Egitto, sappiamo che Valentino fu in Roma, prima sotto il vescovo Igino, poi sotto il vescovo Aniceto (dal 135 al 160 circa). Dopo aver rotto con la Chiesa, dalla quale fu cacciato, Valentino si ritirò in Cipro dove fondò una propria scuola. Di lui si citano lettere, omelie, salmi, e due opere Le tre tlature e il Vangelo della verità. Sulle fonti per ricostruire il sistema di Valentino, cfr. sopra, il testo. Dopo Valentino la sua scuola si sparse in tutto l'im- pero.. Tra i valentiniani orientali si citano: Marco, che insegnava in Asia Minore verso il 180, e di cui sappiamo qualcosa attraverso Ireneo; Teodoto, di cui abbiamo riferiti alcuni testi in Clemente Alessandrino, Excerpta ex scriptis Theodoti; Bardesane, nato ad Edessa nel !54, dove morl nel 222 circa, autore, sembra, di centocinquanta salmi con relative melodie, e di un libro Sul.destino (ritrovato in siriaco: cfr. ediz. F. Nau, in Patrologia syriaca), che, in realtà, fu composto da un suo discepolo, Filippo, in cui si vuoi dimostrare che gli astri non negano affatto la libertà degli uomini; Armonio, figlio di Bardesane. Tra i valentiniani che avrebbero predicato in occidente, si citano: Secondo, Eracleone (il miglior discepolo di Valentino, fiorito tra il 155 e il 180, e di cui si con- servano una quarantina di frammenti, estratti da un suo commentario a San Giovanni), 90    di Alessandria al tempo dell'imperatore Adriano (117-138 d. C.), cri· stiano dapprima, dopo il suo soggiorno a Roma (136-166), ruppe con la Chiesa. Visse, quindi, in Oriente e fondò a Cipro una propria scuola. A parte pochi frammenti, tratti da sue omelie, inni, lettere e i titoli di due sue opere, Le tre nature e il Vangelo della verità, nulla resta che si possa con certezza attribuire a Valentino. Una rielaborazione, forse, della concezione di Valentino, piu tarda (del m secolo circa), assai oscura, composta di testi diversi, con elementi propri di altre sette gnostiche ("ofitiche"), è la Pistis Sophia, un'opera gnostica, in copto, scoperta in Egitto sulla fine del xvm secolo dallo Askew e pubblicata dal Petermann nel 1851, il cui perno è la nar~azione della caduta e della liberazione dell'eone detto, appunto, pistis sophia, mediante cui si vuoi dimostrare che la fede ha da risolversi in conoscenza. Nonostante che a seconda.delle fonti usate (Ireneo, Adv. haeres., I, l; Ippolito, P.hilos., VI, 29) si possano ricostruire vari sistemi valen- tiniani, nel suo insieme abbastanza chiara risulta, nelle linee generali, la costruzione di Valentino. In quanto principio, il fondamento del tutto è in sé perfetto e uno, ingenerato, padre dei padri, Propadre (Propator), indicibile e invisibile, senza fondo, e perciò Abisso (Bythòs), perfetto in eterno (téleios aiòn), perfetto eone, tutto in sé compiuto, da nulla turbato ("negli sconfinati spazi sta_ in pace e solitudine immensa": lreneo, Adv. haeres., I, l, sgg.). Monade; dice Ippolito, è il Dio di Valen- tino, in quanto tutto è in sé solitario, unico, senza consorte e senza compagna (&~•Jyot; xcxt il.&-tjÀut;: Ippolito, Refut., VI, 29); pensiero tutto compiuto e perciò facente un tutt'uno con énnoia, mente, dice Ireneo, per cui énnoia è silenzio (sighè) e grazia (charis). L'unione, in eterno, di Pensiero e Mente (la prima delle coppie, delle syzyghiat) genera Intelletto (Nous), simile ed uguale a colui che l'ha emesso e solo capace di abbracciare la grandezza del padre. Questo intelletto - prosegue Ireneo nella sua espos1z1one del sistema valentiniano - ~ detto anche Unigenito (Monoghen~s) e Padre e Principio (Arch~) del tutto. Con lui fu emessa pure Verità (Al~theia). Questa ~ la tetrade pitagorica prima e originaria che chiamano anche Radice del Tutto: e ci~ Bythòs e Sigh~, quindi Nous e Al~theia. Ora Monoghès, resosi conto del perch~ era stato emesso, emise a sua volta Ragione (Logos) e Vita (Zoe) in quanto padre di tutti coloro che avrebbero dovuto essere dopo di lui, e principio e forma di tutto il Pléroma [il complesso, il "plenum" di tutte le filiazioni e coppie di eoni], quindi: da L6gos e Z~ furono emessi per Tolomeo (di lui, conservata da Epifanio, Ha~u., 33, 3-7, abbiamo una Lt!IUra a Flora, in cui si inizia alla gnosi una donn•). Altri valentiniani d'occidente sono: Fiorino, Teo· timo, Alessandro. 91    accoppiamento (sizighfa) Uomo (Ànthropos) e chiesa (ecclesia). Questa è l'ogdoade originaria, radice e sostanza del tutto, designata da loro con quat- tro nomi: Byth6s, Nous, L6gos e Anthropos. Ciascuno di essi è maschio e femmina: cosf il Pre-padre si è unito per sizighla alla.sua propria Mente (Ennoia), Monoghenito, cioè Nous, ad Alètheia, L6gos a Zoè, Anthropos a Ecclesfa. Ora questi Eoni emessi a gloria del Padre, volendo anch'essi glorificare il Padre da parte loro, dopo l'emanazione di Anthropos ed Eccle- sfa, emisero altri dieci eoni, i cui nomi sono... [Profondo e Unione, Senza vecchiaia e unità, Spontaneo e Voluttà, Immoto e Commistione, Unigenito e Beatitudine]. Ànthropos, a sua volta, con Ecclesfa emise dodici eoni a cui sono dati i nomi seguenti: lntercessore e Fede, Paterno e Speranza, Materno e Amorevolezza (Agàpe), Intelletto eterno e lntellezione, Ecclesiastico e Beatitudine, Desiderato e Sapienza (Sophfa). Questi sono i trenta Eoni... taciuti e non conosciuti: questo il loro Plèroma invisibile e spirituale, diviso in tre parti, ogdoade, decade e dodecade. Affermano che quel loro Pre-padre (Propator) è conosciuto dal loro Monogenito nato da lui, cioè da Nous, mentre è invisibile e irrangiungibile per tutti gli altri. Non solo, di contro ad essi, si beava contemplando il Padre e gioiva meditandone l'incommensu- rabile grandezza... Tutti gli altri eoni, pur restando immoti, bramavano vedere Colui che aveva emesso il loro seme e riconoscere quella radice senza principio. Ma l'ultimo e piu recente degli Eoni della dodecade, emesso da Anthropos e Ecclesfa, cioè Sophla, spiccò un balzo immenso e fu.scossa da passione senza l'amplesso del suo compagno Théletos (Desiderato). Questa passione è la ricerca del Padre; voleva, dicono, abbracciarne la grandezza. Ma non avendo potuto abbracciarla, poiché la cosa era impossibile, fu colta da immensa angoscia, di fronte alla grandezza dell'abisso, all'impossibilità di proseguire verso il Padre ed alla tenerezza per Lui: protesa com'era sem- pre innanzi, sarebbe stata totalmente inghiottita dalla dolcezza di Lui e si sarebbe dissolta nell'essere totale, se non si fosse scontrata in una Potenza solidamente costituita che, stando al di fuori della Grandezza ineffabile, era di guardia al tutto. Questa Potenza è detta...-Confine (Horos): fu essa a trattenere [Sophla], fermarla e, a fatica, ritorcerla indietro, convincendola che il Padre è irraggiungibile. La prima Passione (Enthùmesis), con l'Ango. scia che ad essa era sopravvenuta, si distolse (cosl) da quel rapimento con- templativo. Questo Confine (Horos) si chiama anche Croce (Stauròs) e Redentore (Lutrotés) e Affrancatore (Karpistés)... Per mezzo suo la Sophia fu purifi- cata e consolidata e restituita all'amplesso (sigizìa). Separatasi da lei Enthù- mesis con l'Angoscia sopraggiunta, essa... rimane entro il Pléroma, mentre Enthùmesis, insieme all'Angoscia, fu segregata e rimase fuori di questo: essa è sostanza spirituale (pneumatica), in quanto è un certo istinto naturale dell'eone, ma senza forma, poiché nulla afferra: per questo la chiamano frutto cattivo e principio femminile.... In seguito Monogenito emise un'altra coppia (sigizìa) per riguardo al Padre, cioè Cristo e Spirito Santo, e mentre il Cristo insegna [agli eonil 92    la natura della sigizìa... lo Spirito Santo insegnò ad essi, resi tutti eguali, a rendere grazie ed apprese loro la vera pace totale. E per questo beneficio, con una sola volontà ed un solo intendimento, tutto il Pléroma degli e011Ì, uniti il Cristo e lo Spirito Santo al coro comune,... raccogliendo insieme cia- scuno degli eoni ciò che v'era di piu bello e splendente... emisero, ad onore e gloria di Byth6s, una emissione suprema, quasi la bellezza e l'astro stesso del Pléroma, Gesu frutto perfetto, soprannominato anche Salvatore, Cristo, Logos e "il Tutto," poiché da tutti egli proveniva...: ed insieme con lui furono emessi gli angioli, sua scorta e, per [suo] onore, generati simili a lui.... Quanto poi a ciò che è fuori del Pléroma... la passione (enthùmesis) della sophia superiore, detta Achamoth [dall'ebraico Hokmah, "Sapienza," conoscenza divina], esclusa dal Pléroma insieme all'Angoscia, rigettata nel- l'ombra e nel vuoto... come aborto... andava alla ricerca della Luce che l'aveva abbandonata, ma non poteva raggiungerla, impedita com'era da Horos:... sopravvenne allora in essa un altro intento, quello che spinge a creare cose vive... Achamoth poi generò frutti a somiglianza [degli angeli], generazione spirituale a somiglianza della scorta del Salvatore... Già tre sostanze preesistevano di per sé: una dall'angoscia, cioè la mate ria, un'altra dal movimento di ritorno all'indietro, cioè l'elemento psichico una terza ciò che essa [Achamoth] aveva generato, cioè l'elemento spirituale [Achamoth] si volse allora a dare ad essa una forma... E dalla sostanza psi- chica formò il padre e re di quanto è fuori dall'eone, crèatore ·a sua volta di quanto è animato e materiale...; [quest'ultimo] creò le cose celesti e ter- rene,... foggiò sette cieli, al disopra dei quali è lui, ·il Demiurgo... Creato il mondo, quest'[ultimo] creò anche l'uomo materiale, non da questa terra arida, ma dall'essenza invisibile della materia disciolta e fluida; ed in esso insufBò l'elemento psichico... Ma quanto invece fu generato dalla Madre Achamoth è spirituale. L'uomo spirituale, che era nato dalla Sophfa, semi- nato quando avvenne l'insufBazione, rimase celato al Demiurgo... che come non aveva conosciuto la Madre, cosf non ne conobbe il seme... Questo uomo è il loro uomo ed essi vengono cos{ ad avere l'anima fatta dal Demiurgo, il corpo fatto di terra, la carne derivata dalla materia, ma l'uomo spirituale deriva dalla Madre Achamoth. Sono dunque tre realtà: ciò che è materiale... fatalmente destinato a rovina, essendo incapace di accogliere qualunque soffio di immortalità; ciò che è fornito di anima... posto a metà fra ciò che è spirituale e ciò che è materiale, che sta là dove terminerà di volgersi; quello che è spirituale... e questo... è il "sale" e la "luce del mondo" (Mt., 5, 13-14), che è stato emesso perché qui, unito a ciò che è psichico, si formi e sia elevato con esso nel movimento di ritorno. Il compimento supremo si avrà quando tutto ciò che è spirituale (cioè gli uomini pneumatici che posseggono la perfetta cono- scenza - gnosi - di Dio e di Achamoth) sia stato formato e reso perfetto con la gnosi. Gli "iniziati ai misteri" sono loro stessi (lreneo, Adv. haeres., I, l, l sgg.: dalla traduzione di F. Bolgiani, in La filosofia medievale, anto- logia di testi a cura di N. Abbagnano, Bari, 1963). 93    Sarebbe ozioso soffermarci sulle infinite sfumature, distinzioni, vena- ture diverse con cui si presenta la "gnosi" ·nei molti aspetti che prese sia con i prosecutori di Valentino in Egitto e in Siria (Axionico, Marco, Teodato, Bardesane: Bardesane, originario della Mesopotamia, predicò ad Edessa, ritenendosi il vero interprete del Cristo, ch'egli sosteneva non essere nato da donna, né, in quanto 16gos di Dio, avere preso forma umana: di contro a Dio, il diavolo e il male hanno una realtà per sé e non sono quindi eoni fuorusciti o decaduti dal pléroma; di qui l'eterna lotta tra il bene e il male, tra la luce e le tenebre); sia in occidente con Secondo, Eracleone, Tolomeo (di Tolomeo, conservataci da Epifane, nel suo Panarion, abbiamo una Lettera a Flora, in cui Tolomeo inizia una donna colta, Flora, all'idelogia della "gnosi"; esponendo la medita- zione valentiniana sugli eoni e sulla loro traduzione in termini pitagorici, costituendo essi una ottava, una decade e una dodecade). Accanto- nate inoltre le molte sett~ gnostiche a carattere popolare, cui fu dato genericamente il nome di sette "serpentine" (ofiti o naassem), per la funzione data da tutte al serpe (venga esso inteso come il circolo vitale che regge il tutto in unità, stringendo il mondo nella necessità, nel male, o venga inteso come il principio vitale, l'anima, che sfugge dal corpo, o che ha la capacità di rinnovarsi, per.cui il serpente rappresenta anche il simbolo della generazione, a seconda di vecchi miti e misteri), e, accantonata la setta risalente al mitico Carpocrate e quella detta dei Barbelognostici,16 non si possono qui, per la diffusione e l'influenza che ebbero, lasciare da parte da un lato il Marcionismo e, dall'altro lato, il Mandeismo e il Manicheismo. Marcione,11 nato a Sinope, nel Ponto, nell'85 d.C. circa, dapprima 16 Accanto a Basilide e a Valentino, Carpocrate è ritenuto il fondatore della terza grande "gnosi" alessandrina. Contemporaneo di Basilide e di Valentino la sua figura e · personalità sono leggendarie. Secondo Clemente Alessandrino (Strom., m, 2), il figlio di Carpocrate, Epifania, morto a f7 anni, avrebbe scritto un trattato Sulla Giustizia. "Barbelognostiche" son dette quelle sette il cui culto e la cui dottrina s'incentrano sulla figura del Barb~lo, "in quattro è Dio," in ebraico Barbhé Eliha (la tetrade costituita dal Padre, Fi~lio, Pneuma femminile, Cristo}: si son fatti rientrare sotto questa etichetta i Nicolaiti, i Fibioniti, gli Straziotici, i Levitici, i Barboriti, i Coddiani, gli Zacheeni e i Barbeliti. Si confronti particolarmente, Epifania, Panarion. l T Di Marcione sappiamo che nacque a Sinope, nel Ponto, nell'85 d. C., e che mori a Roma nel 160 circa. Per il resto vedi sopra, il testo. Della sua opera, Antitesi, abbiamo notizie attraverso S. Giustino, Sant'Ireneo, e particolarmente attraverso Tertulliano (De fJI'~scriptione, Adv~sus Mare. libri.V, D~ carne Christi). Per una ricostruzione del testo dell'opera di Marcione, cfr. A. von Harnack, Mart:ion, Lipsia 1921, il quale sostiene che Marcione non è da considerare affatto entro l'àmbito della gnosi (vedi, ora, di contro, A. C. Blackmann, Mart:ion and his lnflu~nce, Londra, 1949). Discepolo di Marctone fu un certo Apelle, che dopo avere ascoltato Marcione a Roma, predicò in Alessandria. Tor- nato a Roma vi mori nel 180 circa. Scrisse un libro sui Sillo6ismi (citato da Sant'Am· 94    aderente alla Chiesa cnsuana, se ne distaccò per fondare una nuova Chiesa, la "Vera Chiesa di Cristo." Egli visse, predicò e costitu1 la sua Chiesa in Roma circa negli anni in cui visse a Roma anche Valentino. Figlio di un vescovo cristiano, la sua interpretazione del cristianesimo gli valse fin dal principio l'esclusione dalla Chiesa di Sinope, ad opera di suo padre. A Roma, entrato in quella Chiesa, in silenzio lavorò intorno ad un'interpretazione del Nuovo Testamento e al rapporto in cui porre il Vecchio con il Nuovo (di qui la sua opera intitolata Antitesi). "Terminato il suo lavoro, Marcione si presentò dinanzi alla comunità cristiana ed invitò i presbiteri a prendere posizione sulla sua opera e la sua dottrina. Le discussioni si conchiusero con un categorico rifiuto della tesi di Marcione e con la sua esclusione dalla Chiesa romana. Marcione, convinto della verità del suo Vangelo ne trae le conseguenze. Sarà il riformatore del Cristianesimo primitivo. Non è una setta, ma una Chiesa sempre piu numerosa, composta di comunità particolari soli- damente organizzate, la vera Chiesa del Cristo, ch'egli erige di fronte alla Chiesa cattolica, assolutamente convinto di agire da autentico suc- cessore dell'Apostolo Paolo. Verso il150, Giustino annota che il Vangelo di Marcione si estende su tutta l'umanità. Tertulliano conferma la testi- monianza di Giustino: 'La tradizione eretica di Marcione' - scrive - 'ha riempito l'universo.' Intorno al 400 si trovano ancora dei marcioniti a Roma, in Egitto, in Palestina, in Arabia, in Siria, e a Cipro. Marcione è divenuto eretico, perché, di tutti i cristiani del suo tempo, è stato il solo filologo, il solo a non interpretare le Scritture.del Vecchio Testa- mento e del nascente cristianesimo per via di allegorie, cercando invece di intendere le scritture in senso proprio e letterale..." (Leisegang, cit., p. 186). In realtà Marcione, muovendo da un attento studio delle lettere di Paolo (ai Romani e ai Galati), rileva la netta distinzione tra il Dio proclamato dal Cristo, Dio ignoto, perché persona e libertà, Dio di bontà e di amore, e il Dio del Vecchio Testamento, Dio degli eserciti, di un popolo, Dio vendicativo e giusto, Dio di punizione. Cristo, dun- que, figlio di Dio, non può essere figlio del Dio degli Ebrei. Cristo, perciò, non rivela il Dio degli Ebrei, il facitore del mondo, e dell'uomo, ma un Dio fino ad ora ignoto, l'ignoto Dio del discorso dell'Areopago di Paolo. Ques~o mondo, perciò, intessuto di male e di dolore, questi uomini, caduti con il peccato di Adamo, sono il frutto del Dio "giusto" e puni- tivo, del Dio della Legge e del Vecchio Testamento. Col Cristo, invece, brogio, De Paradiso, 28), in cui dimostrava che i libri di Mos~ sono pieni- di errori, e un libro intitolato Rivelazioni (cpczvcp6!acLt;) in cui narrava le rivelazioni cha avrebbe avuto una certa Filomena, apparte,nente alla setta marcionita. 95    figlio del Dio buono, si rivela un nuovo Djo, un Dio fino adesso ignoto. I profeti prima di Cristo hanno predicato il primo Dio, il Dio della Legge. L'albero del male, che non può dare che cattivi frutti e \ii cui parla il Cristo - interpreta Marcione - è il Dio del Vecchio Testa- mento; l'albero del bene, che non può produrre che frutti buoni, è il Padre di Cristo, il nuovo Dio, il Dio dell'amore. Il Dio di Cristo non è perciò l'autore di questo mondo, ·egli anzi è estraneo a tutto il mondo, e se interviene per salvare l'uomo e il mondo, il suo intervento è asso- lutamente gratuito. Libero dal mondo, oltre il mondo, Dio, mediante il proprio atto, viene a salvare l'uomo dal vecchio Dio e dalla Legge, con un atto di suprema grazia e di miseri<;ordia, proprio perch~ il Dio finora ignoto non ha nulla a che fare con il mondo quale è. Di qui, nell'interpretazione che Marcione dà del Vangelo - egli assume a prototipo il Vangelo di Luca - e delle lettere di Paolo - egli sostiene che gran parte delle lettere paoline sono apocrife, o fin dal principio sono state intese in chiave giudaica, vedendovi un rapporto col Vecchio Testamento, contraddittorio con il piu intimo significato della buona novella - la netta opposizione tra il Vecchio e il Nuovo Testamento, che diviene opposizione tra il mondo malvagio e opera di un Dio, di un demiurgo cattivo, e il dio· buono e "straniero," ignoto, che salva. l'uomo mediante il figlio suo, Cristo, da nulla preparato, assoluto e nuovissimo atto di rivelazione, per cui l'uomo può "conoscere" (gnosi), attraverso il figlio, il Dio buono. Questa la buona nuova, il Vangelo di Marcione, onde la necessità di epurare gli altri Vangeli, le Lettere di Paolo, gli Atti degli Apostoli dalle interpretazioni ebraiche, che sottil- mente distruggono il significato piu vero del Vangelo. Di qui, in nome di Cristo, di contro alla Chiesa di Roma, l'esigenza di erigere la vera Chiesa di Cristo. Fede per fede, il Vangelo di Marcione poteva valere, sul piano del- l'interpretazione del Cristo e della funzione nella storia del mondo e della salvazione dell'uomo, tanto quanto i Vangeli, posti dalla Chiesa come autentici. Sotto questo aspetto, storicamente, l'opposizione a Mar- cione della Chiesa ufficiale, già costituitasi e avente già, anche se ancora estremamente fluttuante, un suo primo corpo dottrinario, è un'opposi- zione che va considerata non sul piano del vero e del falso, della eresia o meno, ma su quello di due modi diversi d'interpcetare la rivelazione di Dio mediante il Cristo. Senza dubbio, come già dicevamo, vanno, entro l'àmbito della "gnosi," tenuti presenti certi dati e, particolarmente, la formazione cul- turale, la tradizione religiosa, l'ambiente entro cui si sono venute svi- luppando le varie interpretazioni del Cristo. Cos1, la· "gnosi,. fiorita in 96    ambiente ebraico-alessandrino, sulla linea di Filone l'Ebreo, in cui si innestano tradizioni platoniche e stoiche, sia pur rovesciate, ha dato risultati e costruzioni assai diverse dalla "gnosi" che ha dovuto fare i conti con altre tradizioni e religioni, mantenendole anche se trasfigu- rate (il che, d'altra parte, è pur testimoniato, dal successo che ebbero in quegli ambienti in cui si formarono). E qui particolarmente pen- siamo al Mandeismo e al Manicheismo, il quale ultimo aYeva dietro di sé una propria Bibbia, l'Avesta. Ancora vivente oggi in una zona della Babilonia meridionale, il "mandeismo" (da manda, che è l'equivalente in aramaico del greco gnosis) si venne formando nel 1 secolo d. C. nella bassa Mesopotamia, indipendentemente dal Cristo, che viene, anzi, respinto, una volta cono- sCiuto dalla setta mandea come falso profeta. Dal regno della luce, costi- tuente nella sua unità il divino (detto la Prima mente, la Prima vita, Re della luce), provengono, in una serie di determinazioni, le anime, che, tuttavia, nel loro determinarsi ed esserci si allontanano da Dio, assumendo, in quanto.limiti estremi, figura e perciò corporeità che pre- suppone, quindi, una materia eterna e informe. Questo mondo, dunque, è limite e male, e limiti e mali sono le sue leggi. A liberare le anime Dio invi~ sulla terra la gnosi della vita, personificata nel.profeta, che i Mandei vedono in Giovanni Battista; egli, appunto, attraverso il bat- tesimo lava, salvandole, le anime, che cosf si liberano dal male. E in un testo, certamente scritto in epoca piu tarda (la letteratura mandea fu raccolta in un corpus di scritti sacri nel vn secolo circa: le opere fon- damentali sono Il tesoro- Ginzii- e il Libro di Giovanni- Sidra d'Yahya), allorché si ebbe conoscenza del· Cristo, si legge: Quando Giovanni vivrÌi. al tempo di Gerusalemme, prender~ l'acqua del Giordano e compirà il battesimo, allora verr~ Gesu Cristo, andr~ girando in umilt~, ricever~ il battesimo da Giovanni e diverr~ saggio attraverso la saggezza di Giovanni. Ma poi falserà la parola di Giovanni, cambier~ il battesimo nel Giordano e predicher~ sacrilegio e menzogna nel mondo. Cristo divider~ i popoli, i dodici corruttori [apostoli] se ne andranno girando per il mon'do. In quel tempo guardatevi, voi che siete nel. vero... (in H. v. Gla- senapp, Le religioni non cristiane, trad. it., Milano, 1962, pp. 220-1). Entro questa atmosfera, ma in un approfondimento estremamente intellettuale e colto di un'altra tradizione, di una religione storicamente delineatasi da secoli in Persia, lo Zoroastrismo e il Mitracismo, che viene ora sistemata e interpretata nei termini propri della "gnosi," si muove, nel delineare i motivi fondamentali della sua religione, Mani, di origine persiana, formatosi in una setta battista della bassa Babilonia, 97    ma da essa distaccatosi fin da giovane, e vissuto, poi, in Persia nel corso del m secolo. Abbiamo accennato ora a Mani/8 perché, insieme al "man- deismo," il "manicheismo" - tenuto conto della sua enorme diffusione in tutte le direzioni: dalla Persia al Turchestan cinese, ove a Tlirfan e nelle grotte di Tun-huang vennero al principio del xx secolo ritrovati testi manichei in lingua persiana, partica, sogdi, uighurica o antico turco, cinese, all'Africa settentrionale, ove a Tebessa, in Algeria, furono scoperti nel 1918 testi manichei in lingua latina, e dove in Egitto nel 1931 furono trovati papiri manichei in copto, a Cartagine, a Roma, in Gallia, in Spagna - il "manicheismo" chiarisce bene cosa si vuoi dire quando si sostiene che lo "gnosticismo" non è stato soltanto una "eresia" sorta da un'interpretazione diversa da quella ormai stabilita dalla figura del Cristo, ma un atteggiamento storicamente determina- bile, fondato sul concetto di rivelazione, i cui esiti sono stati diversi a seconda, ripetiamo, delle tradizioni, dei culti religiosi, degli ambienti culturali in cui ci si è mossi. b) Il corpo degli "scritti ermetici." Sembra ora chiaro in che senso (piuttosto limitato rispetto alla "gnosi" pessimistica) si possa parlare di "gnosi" anche per il gruppo dei testi, probabilmente composti tra il n secolo a. C. e il 1 d. C., ma raccolti e ordinati nel corso del II se- colo d. C., che, andato sotto il nome di Ermes Trismegisto, costituisce il cosiddetto "corpus hermeticum " (diciotto trattati, di cui il primo fu intitolato Pimandro "pastore di uomini" - che Marsilio Ficino estese a tutta la raccolta -, piu un dialogo, Asclepius, traduzione latina, forse di Apuleio, di un testo greco dal titolo Aoyor:, 'téM~or:,, Discorso per- fetto, perduto; piu ventidue citazioni estratte da Stobeo, e altri quattro lunghi frammenti di un'opera intitolata K6p1) xoa!Lou, Pupilla del mondo). Abbiamo già detto sopra, discorrendo della prima tradizione ermetica, dello stretto rapporto che corre tra certi testi alchimistico- magici della tradizione che fa capo a Bolo-Democrito e a Bolo-Ostane, certi testi astrologici, e la parola di Ermes Trismegisto (sin dai tempi piu antichi Ermes greco, dio della parola, interprete e messaggero di Zeus, viene identificato con Thot egiziano, dio dellà parola e della scrit- 18 Mani, nato nel 216 d. C., a Mardinu (presso Seleucia Ctesifonte), da Patek, per- siano, emigrato in Babilonia, ove avèva aderito a una setta battista, affine a quella mandea, ricevette fin da giovane un insegnamento fortemente religioso. Vissuto per un certo periodo in India (Belucistan), 240-242, recatosi in Persia ebbe dal sovrano Sapore I (nel 244 circa) il permesso di propagare i suoi insegnamenti. Protetto anche dal successore di Sapore, Hormizd, Mani fece lunghi viaggi. Asceso al trono, nel 274, il re Bahram l, dedito allo zoroastrismo ortodosso, Mani fu accusato di eresia. Incarcerato a Gundeshahpur, sul prin- cipio del.277, mori nel 277 stesso. Secondo la leggenda fu crocefisso dopo essere stato scorttcato 98    tura, lo scriba di Osiride, del libro che mantiene), rivelatrice non solo della ragion d'essere della realtà, ma perciò stesso della sua struttura per cui, mediante la rivelazione dovuta alla parola di Ermes, si pos- sono ripercorrere i modi con cui la natura si è costituita, afferrando nessi e simiglianze, fino a ritrovare l'unità della realtà entro noi stessi e, attraverso noi, sopra noi in Dio, vincendo la natura con la natura. Ora, ciò che piu colpisce nei vari testi del "corpo ermetico" è che lo studio delle forze occulte della natura, della seminalità della natura (onde si potrebbe, cogliendo le simpatie tra gli elementi naturali, me- diante cui si costituiscono le cose, adeguarsi a quelle simpatie stesse, trovando nell'ordine della natura il proprio posto, e con ciò salvandosi, in un giuoco con la natura e in un'operazione sulla natura stessa) e la ricerca della verità trovano il proprio fondamento in una intuizione originaria, in un'illuminazione, condizione della ricerca stessa, che, pro- prio per questo, non la si raggiunge mediante la ricerca. Simbolica- mente, perciò, si 'può dire che tale intuizione è dovuta, appunto, a una rivelazione, a un messaggero della divinità, a un intervento extraumano. Una volta, avendo cominciato a riflettere sugli enti (ne:pl -r:6lv 1Sv-r:6lv), mentre il mio pensiero spaziava nelle altitudini celesti e i miei sensi cor- porei erano impastoiati si come avviene a· chi sia accasciato da un pesante sonno o per eccessivo nutrimento o per una grande fatica fisica, mi sembrò che mi si presentasse un essere di gigantesche proporzioni, al di là di ogni misura definibile, che mi chiamò per nome e mi dissi!: "Cosa vuoi ascoltare e vedere, cosa mediante il pensiero apprendere e conoscere?" Ed io: "Ma tu, chi sei?" "Io," rispose, "io sono Pimandro, il Niis della sovranità asso- luta. So quello che vuoi, ed ovunque io sono con te." Ed io allora: "Voglio avere la scienza degli enti, comprendere la natura, conoscere il divino. Quanto!" esclamai, "desidero ascoltare." Mi rispose: "Tieni ben ferino nel tuo intelletto tutto quel che vuoi apprendere, ed io ti insegnerò" (Corp. Herm., I - Pimandro -,I, 3). Ora, sia pur tenendo conto della diversità tra i vari scritti del Corpus, sia pur riconoscendo che in.alcuni vi è un dualismo tra il divino ignoto e indicibile e il mondo e che in altri, invece, è accentuato un monismo animistico oel tipo stoico, in realtà l'impostazione generale di tutti gli scritti scopre che il motivo della rivelazione si riallaccia al piu antico motivo della divinazione, della intuizione profetica di origine pitago- rica da un lato e religioso poetica dall'altro lato. Cosf, evidentemente, obnubilati i sensi, dopo aver cercato attraverso tecniche, che sappiamo antichissime (sicuramente usate nei culti dionisiaci) di eliminare ogni distrazione, ogni dispersione, giunti ad una incantata concentrazione, 99    in una specie di sogno, l'atto intuitivo della mente, la visione puramente intellettuale, da cui può cominciare il discorso, viene assunta come rive- lazione, come la presenza di una forza, di una voce, dell'intervento di un'anima, di uno spirito, condizione dell'analisi, del discorso, a cui solo esseri eccezionali (in tal senso gli eletti) possono giungere. Ciò che vien dopo sono ipotesi perfettamente razionali, possibili ricostruzioni del- l'ordine del tutto nell'Unità divina, sia che ci si ispiri a certe pagine platoniche, sia che ci si Ispiri alla visione ontico-teologica e animistica di origine stoica, ove dalla dispersione dell'immediatezza sensibile, posta la divinità una come condizione della pensabilità del reale, si torna all'Uno, comprendendo come tutto in Dio ·riposi ed abbia la sua ra- gione. E tale comprensione è quella "conoscenza," la gnosi che salva, mediante cui, alla fine, è dato all'uomo, essere bifronte, da un lato volto alla sensibilità e perciò al molteplice, dall'altro all'unità - per cui in questo senso nell'uomo che attua in sé conoscenza s'incentra l'universo - è dato all'uomo d'indiarsi, di cogliere in sé l'universo e Dio, divenendo uno in Dio. Tale - si conclude il Pimandro - è la fine felice per coloro che pos- seggono la conoscenza (la gnos•): divenire Dio. Ebbene, cosa tardi allora? Non vai adesso, che hai da me ereditato tUtta la dottrina, a farti guida di coloro che ne sono degni, sf che il genere umano, grazie a te, sia salvato da Dio? (Corp. Herm., I - Pimandro -, 26). E nell'Asclepio, ove si punta sull'Uno Tutto e sul tutto Uno, e sull'uomo che, in quanto capacità - sia pur per via intuitiva - di cogliere che l'Unità è molteplicità e la molteplicità è Unità, per cui l'uomo può ripercorrere la via all'in giu e- la via all'in su, facendosi centro dell'Universo, simile a Dio, si esclama: Gran meraviglia è l'uomo, o Asclepio, animale degno di venerazione e di onore, che prende la natura di un dio come se fosse egli stesso un dio (Asclepio, 6)•.. Solo tra i viventi, l'uomo è duplice. Semplice è una delle parti che lo compongono, quella che i Greci chiamano "essenziale" (oòat6>81jc;} e noi "formata a simiglianza del divino." Quadruplice è l'altra parte, quella che i Greci chiamano " materiale "(~ÀLx6v) e noi "mondana," di cui è fano il corpo, che racchiude la parte dell'uomo che abbiamo detto divina... (Asclepio, 7). Mediatore tra la divinità e gli uomini, Ermes Trismegisto, è la parola del dio, che simbolicamente, per via di segni, oscuri - ermetici - per chi sia preso dai sensi e volto verso il basso, rivela agli iniziati la 100    struttura dell'Universo scaturito dall'Unità del divino, esso stesso Uni- verso nell'unità divina, e la posizione che nel Tutto e in Dio ha l'uomo. Si capisce cos(come in molti scritti del corpus ·si sostenga che il dio uno è inconoscibile e indicibile (nel senso che abbiamo visto per Albino, Apuleio, Numenio), ch'esso da un lato possa esser detto lo stesso cosmo e dall'altro lato il Padre, il Bene, ilPoieta; che si possa sostenere che il primo Dio, il Padre indicibile, il primo Niis, sia ad un tempo il figlio, il secondo dio, il Niis, donde derivano gli dèi e le,anime; che la materia considerata a sé sia il limite, la dispersione, l'insieme del male, il plèroma del male (7tÀ/jpea>(.Lot nj~ xor.x~: VI, 4); che l'uomo, in quanto anima e corpo, abbia una posizione centrale, per cui nell'uomo si riu- nisCe in unità l'universo tutto, onde l'uomo è simile a Dio; che senza bisogno di alcun salvatore, l'uomo possa, attraverso il suo stesso pen- siero (rivelazione della divinità), liberandosi dalla corporeità, o meglio comprendendo la corporeità, risalire, conoscendo, alla divinità, sempre tutta in atto, una in principio e una in fine. Taie la liberazione, che si attua attraverso la "gnosi" (evidentemente ben diversa dalla • gnosi" cosiddetta eretica). La pura filosofia, quella che non dipende che dalla pietà verso Dio, non deve interessarsi delle altre scienze, se non per ammirare come il ritorno degli astri alla loro prima posizione, le loro soste predeterminate e il corso delle loro rivoluzioni obbediscano alla legge del numero, e per giungere, mediante' la conoscenza delle dimensioni, qualità, quantità del mondo terre-· stre, delle profondità del mare, della forza del fuoco, delle operazioni e della natura di tutte le cose, condotta ad ammirare, ad adorare e benedire l'arte e l'intelligenza di Dio. Essere musico non in altro consiste se non nel sapere come si ordina l'insieme tutto dell'universo e quale ne sia la divina ragione, poiché quest'ordine, in cui tutte-le cose particolari sono state riunite in un tutto unico da una ragione artefice, produrrà una specie di concerto infinitamente dolce e vero, in una divina musica... La pura e santa filosofia consiste nell'adorare la divinità con anima semplice, con semplice cuore, riverire le opere di Dio, render grazie infine alla divina volontà, che, sola, è infinitamente piena di bene: tale la filosofia che non sia toccata da alcuna malvagia curiosità (Asclepio, 13-14). Questo l'oracolo di Erme$ Trismegisto, questa la religiosità - pio che la filosofia - degli scritti del corpus ermetico: una intuizione della realtà come vita, come· ordine, come bellezza, in cui si risolve anche il male.e il limite, qualora esso sia visto come un momento dell'ordine divino. E tale visione non è, naturalinente, esprimibile se non per sim- boli, per immagini, per figure. • Quando la nostra mente" - scrive il Garin discorrendo di Marsilio Ficino traduttore del Pimandro e degli 101    altri opuscoli teologici - "si rende conto che l'oggetto sentito non è che un segno, e l'oltrepassa, non raggiunge perciò il vero nella ridu- zione logica, che sarebbe al contrario un impòverimento, e quindi un allontanamento estremo. La verità si coglie afferrando con una visione mentale il numero e il ritmo, e cioè quell'anima degli esseri che l'ar- tista raggiunge nelle sue creazioni, ove non fa che tradurre l'atto stesso con cui il divino artista viene creando il tutto. Conoscere è vedere diret- tamente l'atto costitutivo di ogni ente reale, quella vita nascente che è la fonte onde ogni cosa scaturisce; perché in ogni cosa è la vita e l'anima, ossia il prolungarsi estremo di un raggio divino" (Immagini e simboli in M. Ficino, in Medioevo e Rinascimento, Bari, 1961 2, p. 302), entro cui è posto l'uomo, nella cui struttura "antologica va cercato il segno incancellabile di una dignità che lo distacca dalla fatale necessità del mondo materiale, dalla necessità terribile della morte: solo che la sua nobiltà è in fondo una nobiltà di nascita, non una conquista delle opere e un premio della virtu" (ib., p. 299). E cosi, rifacendosi al Festu- gière, ha con molta precisione sottolineato ancora il Garin: "Per quanto sia lecito, ed anzi opportuno, porre una chiara distinzione tra il Piman- dro e l'Asclepio e gli scritti teologici pa una parte, e gli innumerevoli trattati magico-alchimistici dall'altra, è pur vero che non si deve dimen- ticare la sottile e profonda parentela sotterranea che unisce i primi alla tradizione occultistica, astrologica, alchimistica dei secondi. E l'accordo è proprio nell'idea di un universo tutto vivo, tutto fatto di nascoste corrispondenze, di occulte simpatie, tutto pervaso di spiriti; che è tutto un rifrangersi di segni dotati di un senso riposto; dove ogni cosa, ogni ente, ogni forza, è quasi una voce non ancora intesa, una parola sospesa nell'aria; dove ogni parola ha echi e risonanze innumerevoli; dove gli astri accennano a noi e si accennano fra loro. E si guardano e ci guar- dano, e si ascoltano e ci-ascoltano; dove tutto l'universo è un immenso, molteplice, vario colloquio, ora sommesso e ora alto, ora in toni segreti, ora in linguaggio scoperto; - e in mezzo v'è l'uomo, mirabile essere cangiante, che può dire ogni parola, riplasmare ogni cosa, disegnare ogni carattere, rispondere a ogni invocazione, invocare ogni dio (com'è noto i termini di cui mi servo sono della tecnica astrologica: cfr. Tolomeo, Tetrab., I, 15-16; Firmico Materno, VIII, 2) (Garin, Magia e astrologia nel Rinascimento, in op. cit., p. 154). c) Sotto questo aspetto, entro i termini di questa visione vitale è simpatetica dell'Universo da un lato e, dall'altro lato, della visione di un Universo malefico, retto da dèmoni decaduti e malvagi che stringono in leggi fatali (astrali) il mondo ("gnosi," propriamente detta), assumono un loro particolare significato gli Oracoli caldaici (XocÀ8ocLxi MyLoc), composti, sembra, da un certo Giuliano, vissuto sotto Marco Aurelio, che fu per primo definito teurgo (&e:oupy6c). Secondo il Bidez (Vie de Julien, p. 369, n. 8) fu lo stesso Giuliano a farsi chiamare teurgo per chiarire che egli "agiva sugli dèi," li "faceva" (nell'Asclepio si legge che "deorum fictor est homo"), e che non era un semplice teologo, non parlava cioè solo degli dèi. La Suda riferisce che egli era figlio di un "filosofo caldeo," dallo stesso nome, che aveva scritto un'opera sui dèmoni, e che lo stesso Giuliano aveva scritto 0e:oupynX (Theurghika = Libri teurgici), Te:Àe:cr·nxX (Telestika = Perfezioni ecc.), A6yLoc 8' È1twv (L6ghia d' epòn = Oracolt). "Che questi oracoli in esametri fossero (secondo una congettura del Lobeck) appunto gli Oracula Chaldaica, sui quali Proclo scrisse iln ampio com- mento (Marino, Vita Procli, 26) è dimostrato, senza alcun dubbio, dal riferimento che si trova presso uno scoliasta di Luciano aa -.e:Àe:cr-.Lxi 'IouÀLocvou & llp6XÀoc; U7tOfLVY)fLOC"(~e:L, o!c; o llpox6moc; civ-.Lq~& éyye:-.ocL ('le Perfezioni di Giuliano, che Proclo commenta e contro cui polemizza Procopio': Luciano, Ad Philos., 12, IV, 224, Jacobitz) e dall'affermazione di Psello secondo la quale Proclo 'si innamorò degli l~(verst) chiamati MyLoc (oracolt) dai loro ammiratori, in cui Giuliano espose le dottrine caldaiche' (Script. Min., I, 241, 25 sgg.): &e:o7tocpX8o-.oc ('doni degli dèi': Marino, Vita Procli, 26). Da dove li abbia davvero ottenuti, non lo sappiamo... Naturalmente, è possibile che Giuliano li abbia falsificati, ma il loro linguaggio è talmente biz- zarro e gonfio, il loro pensiero talmente oscuro ed incoerente da sugge- rire l'idea dei discorsi pronunciati in stato di trance dagli spiriti guide dei medium moderni, piuttosto che l'opera meditata di un falsificatore. Anzi non sembra affatto impossibile, alla luce di quanto sappiamo della teurgia posteriore, che essi abbiano avuto origine dalle 'rivelazioni' di qualche visionario o di qualche medium estatico e che tutto il com- pito di Giuliano si sia ridotto a metterli in versi come afferma Psello (Script. Min., I, 241, 29), o la sua fonte Proclo. Il che corrisponderebbe alla prassi degli oracoli ufficiali, cosi come noi la conosciamo, e la tra- sposizione in esametri offrirebbe la possibilità di introdurre nella fila- strocca una parvenza di significato e di sistema filosofico. Nondimeno il pio lettore avrebbe avuto ancora molto bisogno di qualche spiega- zione o commento in prosa, e sembra che Giuliano abbia fornito anche questo (cfr. Proclo, In Tim., 246 f, 277 d; Marino, Vita Procli, 26; Damascio, II, 203, 27)" (Dodds, Theurg., "Journal of Roman Stu- dies," 37, 1947, ora in l Greci e l'i"azionale, trad. it., Firenze, 1959, pp. 337-8). Anche se difficile. è ricostruire la struttura degli Oracoli cal- 103    daici, liberandoli dai commenti di Porfirio, di Giuliano, di Proclo, sem- bra ch'essi si distinguessero in due parti. Innanzi tutto gli Oracoli (cfr. in Kroll; De oraculis chaldaicis, "Breslauer Philol. Abhand.," 1894) presentano una visione dell'Universo assai simile a quella di Numenio di Apamea, del Pimandro, in realtà di tutta la letteratura religioso-filosofica in chiave platonico-stoica, in forma molto vaga e contraddittoria nell'uso dei termini, piu che nell'intimo significato. Si pone una triade divina, costituita di tre intelletti - Or. Ch., pp. 12-22 Kroll, - di cui il primo è chiamato anche Padre, o Intelletto del Padre, mentre il secondo è intelletto in quanto determinazione dell'Intelletto primo, il quale intelletto primo perciò è e non è intelletto, e il terzo è tale in quanto dialetticamente risolve in sé il primo e il secondo intel- letto, costituendo l'unità vivente della realtà tutta (anima mundi), tutta proveniente dal primo Intelletto, il Dio inconoscibile in sé, che inteso come forza vitale (non a caso si dice che la sua essenzialità è fuoco), si manifesta negli intelligibili e quindi nelle cose. Il Padre ha in sé in forma compiuta tutte le cose e le ha date al secondo intelletto (p. 14 K.), [per cui] il primo fuoco non fa discendere la sua potenza fino alla materia con una diretta azione, ma mediante l'intelletto [secondo]: è un Intelletto, scaturito dall'Intelletto, che è l'artefice delmondo fatto di fuoco (p. 13 K.). Monade il Dio, diade è detto l'Intelletto secondo, perché possiede i "due caratteri, di avere in sé gl'intelligibili e di costituire sensibilmente i mondi" (p. 14 K.). Tutto il mondo dell'intelligibile, pensante-pensato, è perciò in Dio e in tal senso oltre l'intelletto secondo, per cui in Dio, in atto, forza vitale, si risolvono anche le cose, per cui, alla fine, il primo Dio è indefinibile. Esiste un certo intelligibile (TL V01j-r6V), che ti è necessario intuire con l'acutezza dell'intelletto, poiché se tu propendi il tuo intelletto verso questo intelligibile cercando di apprenderlo come un oggetto determinato, non riu- scirai a concepirlo. Esso è come forza di potente spada" che tutta brilla e irraggia ferendo gli occhi col suo intelligibile fulgore. Non è dunque con un violento sforzo che si deve concepire tale intelligibile, né tendendo allo estremo la fiamma dell'Intelletto, che tutto misura, tranne quell'Intelligibile. Bisogna tentare di afferrarlo non per diretta visione, ma, dirigendo su di lui il puro sguardo del tuo intelletto che ha volto le spalle ai sensibili, tendere verso l'Intelligibile un intelletto vuoto di ogni pensiero, finché tu giunga a conoscerlo, poiché esso sfugge alla determinazione dell'intelletto (p. 11 K.). Sf come un torrente che scorre, l'Intelletto del Padre (il primo Intelletto), nel suo infaticabile consiglio (~ouÀji: boulè), emetteva le idee del suo pen- 104    siero che assumevano tutte le forme: ed esse scaturivano tutte dalla stessa unica fonte. Dal Padre, infatti, veniva il consiglio e il compimento di tale consiglio. Le idee, cosi, mediante il Fuoco intelligente furono distribuite e distinte in altre idee intelligenti. SI, perché il supremo signore (&vot~) ha fatto preesistere al mondo dalle mille forme un immortale sigillo (-rUno~) intellet- tuale. E via via che il nostro mondo, nel suo disordinato cammino, cerca di seguire la traccia del sigillo, è apparso un ordine informato di bellezza, ornato delle idee di ogni specie. Unica ne è la fonte, e da essa le idee sca- turiscono rombando, pensieri intelligenti scaturiti dalla paterna fonte... La prima fonte, in sé perfetta, del Padre ha fatto scaturire queste primigenie idee (&.px_ey6vouç l8éotç) (pp. 23-4 K.). Nell'unità del primo Intelletto, dunque, si costituisce la dualità del secondo intelletto, ed in esso, termine medio, che articola (auvéx_et) i due primi intelletti, scaturisce il terzo intelletto, mediante cui il tutto si ricollega all'unità vivente, in una tensione (anima mund•) tra i due termini, per cui, non a caso, negli Oracoli si legge che l'anima è da un lato intelletto e dall'altro lato soffio divino, e perciò amore (lp(l)ç ), consistente appunto nella tensione, nella ricerca della propria imma- gine rintracciabile ovunque, e mediante cui l'anima torna a identifi- carsi col tutto, cioè con il Dio vivente, fuoco luminoso e seminale, da cui scaturisce tutta la luce, i semi di tutte le cose ("Quanto alla scin- tilla dell'Anima, avendola formata mescolando due elementi accordati, l'Intelletto e il soffio divino, il Primo Intelletto vi aggiunse il casto amore, augusto legame che unifica tutte le cose e le sorpassa": p. 26 K.). La suggestione degli Oracoli caldaici non sta tanto nel tentativo di una ricostruzione logico-antologica del tutto, quanto nella visione finale di un tutto vivente e animato dal Dio primo, logicamente ignoto, ma ovunque presente nei suoi infiniti raggi, egli punto luminoso, esistente nella totalità della luce, e di cui tutte le cose sono fatte, limiti, se prese a sé, ma che si sciolgono nel primo fuoco, qualora vengano ricon- dotte alla loro unità dalle anime che in ogni cosa possono ritrovare la propria immagine. Si vede bene cos(il significato dell'altro aspetto degli Oracoli, la strutturazione di un culto del sole e del fuoco (cfr. pp. 53 sgg. K.), accanto all'evocazione magica, per via di amore, degli dèi (le luci), mediante cui, per simpatie, operare sugli dèi stessi e sugli spiriti (teurgia), in una riproduzione della magia della natura, tutta vivente di segreti accordi e. simpatie, dalla cui scoperta dipende la comprensione del tutto, e, quindi, di Dio. Di qui, anche, il tema fon- damentale di tutta la sapienza magica, che verrà discussa a lungo dai commentatori neoplatonici degli Oracoli caldaici (da Porfirio a Giam- blico, a Prodo) e cioè la possibilità, entro i termini della simpatetica 105    universale, poste precise relazioni mimetiche tra,tutte le cose, di far convergere su noi le potenze divine, le luci supreme, mediante la ras- somiglianza. Di qui l'importanza di saper costruire cose, o statue, imma- gini di dèi, che, se davvero si riesce a far simili alle potenze evocate, alle anime desiderate, richiamano, sempre entro i termini della cognatio e della simpatia universale, quelle potenze stesse. Sotto questo aspetto sc;mbra evidente in che senso si può parlare di due magie, una quella naturale, fondata sul motivo dell'unità vivente del tutto e consistente in un rintraccio dei nessi, delle simpatie, dei segni, dei simboli, dei rap- porti correnti tra le cose, tra le luci, tra gli astri, nell'unità di un tutto il cui fondamento è la seminalità; l'altra, fondata sempre sulla stessa concezione, ma, diciamo, artificiale, operativa, cioè volta a costruire.. immagini, fare dèi (l'efficere deos dell'Asclepio), statuette e cos{ via, mediante certe precise tecniche (ricavate da antichi rituali egiziani della tradizione magico-alchimistica) con cui evocare l'anima, le potenze di- vine, rispecchiarle (di qui anche la suggestione degli specchi e perciò stesso degli astri: cfr. anche Apuleio, De magia, 13 sgg.), per dominarle essendo da esse dominati. Dirà Proclo: I maestri dell'arte ieratica hanno scoperto in base a quello che avevano sott'occhio, il modo di onorare le potenze superiori, mescolanl;lo taluni ele- menti ed altri togliendone in misura appropriata. Se mescolano, è perch~ hanno osservato che ognuno degli elementi separati possiede qualche pro- prietà del dio, ma non basta per evocarlo; cosf mescolando un gran numero di elementi diversi, uniscono le influenze ricordate sopra, e con tale somma di elementi compongono un corpo unico simile all'unità precedente la disper- sione dei termini. Cos(fabbricano spesso, con tali mescolanze, delle imma- gini e degli aromi, impastando in un medesimo corpo i simboli prima divisi, e producendo artificialmente tutto quello che la divinità comprende in s~ per essenza, riunendo la molteplicità delle potonze che, separate, perdono ognuna la propria efficacia, e che, invece, riunite, si combinano per ripro- durre la forma del modello" (da Festugière, La révél., anche Garin, Elezioni e problema dell'Astrologia, V Conv. Int. St. Uman). Sotto questo aspetto assai vasta fu l'influenza degli Oracoli caldaici, insieme a quella esercitata dal corpo degli scritti· ermetici, soprattutto nell'àmbito degli interpreti del pensiero di Plotino. Diremmo, anzi, che, se Plotino, nella sua polemica da un lato contro la visione di un dio trascendente e ignoto, difficilmente riconducibile alla sua funzione di fonte e causa di tutta la realtà (certo gnosticismo e certo rarefatto platonismo tipo Attico) e dall'altro lato contro la concezione di un dio persona, libertà, e volontà (altrettanto assurdo), decisamente accolse 106    l'aspetto della magia che dicevamo naturale o razionale, pur respin- gendo l'altro aspetto della magia, quello teurgico, non determinabile scientificamente e irrazionale, il peso dato, nell'interpretazione che det- tero di Plotino già Porfirio ma piu decisamente Giamblico, alle sirni- glianze, ai vincoli, alle simpatie, può essere l'indice della possibilità di vedere in Plotino una precisa concezione logico-naturalistica, piu che logico-matematica, che punta su di una comprensione del tutto in termini platonico-stoici, in una esatta deduzione logica. Gli avvenimenti dell'Universo si svolgono non già in virtu di ragioni seminali, ma in virtu di potenze formali che abbracciano in sé persino quelle pot~nze che stanno al di sopra di ciò che si regola sulle ragioni seminali; perché nelle ragioni seminali non è inerente nulla di quanto esorbita dalle ragioni seminali stesse né del contributo che la materia apporta al tutto, né delle vicendevoli influenze esercitate tra cosa e cosa... Quanto ai segni, essi non hanno il fine prefisso e diretto di preannunciare; no, ma poiché le cose avvengono nel modo descritto, l'una trae dall'altra il suo presagio; poiché, siccome l'universo è uno e appartiene all'Uno, cosi una cosa può ben essere conosciuta dall'altra; dal causato la causa, e il conseguente dall'antecedente e il composto da una delle sue parti costitutive... Ora, se è esatto questo nostro argomentare, i dubbi, oramai, potrebbero cadere - persino quello che si riferiva alle pretese influenze maligne originate dagli dèi, per le seguenti ragioni: non sono "decisioni" le fonti degli influssi, ma tutto che viene di lassu - nel mutuo cozzo tra lè parti, conseguenza dell'unica vita universale - sorge per necessità di natura; le.cose, di per se stesse, aggiun- gono un contributo non scarso agli accadimenti; e mentre gl'influssi, presi ad uno ad uno, non sono maligni, in quel loro mescolarsi generano qual- cosa di nuovo; il vivere, inoltre, esiste non già per amore di un· singolo ma in funzione del tutto e, infine, la natura sottostante esperimenta qualcosa di diverso da quel che aveva ricevuto e non riesce a dominare la influenza ricevuta. Ma le influenze magiche, come spiegar/e? Con la simpatia: re- gnano, nativamente, un accordo tra le cose affini e un contrasto tra le estra- nee; inoltre, pur nella loro variopinta ricchezza, le potenze diffuse contri- buiscono tuttavia all'unità del vivente universale. E, difatti, pur senza alcun ordigno magico, quante cose sori come tratte per incantamento! Ond'è che vera magia, in seno all'universo, sono da un carito l'Amore e dall'altro la Contesa. Incantatore primordiale e stregone, egli è colui che gli uomini conoscono proprio bene onde ricorrono, per avvalersene, gli uni con gli altri, ai suoi filtri ed ai suoi incantesimi. E, per certo, poiché essi natural- mente amano e gli ingredienti che eccitano amore hanno una forza d'attra- zione tra di loro cos{ è venuto fuori l'aiuto dell'arte amatoria per mag{a, applicando, cioè, per contatti, a differenti persone ingredienti differenti, che hanno il potere di trarle insieme e contengono la bramosia erotica nella loro composizione; e cod essa annoda un'anima con l'altra come chi legasse tra di loro piante staccate. E si avvalgono, per di piu, di figure efficaci, anzi atteggiandosi in una determinata posizione attirano su se stessi, senza ru- more, inBuenze, appunto perché stando all'unità universale, agiscono su di un unico centro; in realtà a voler supporre un mago siffatto fuori dell'uni- verso, egli allora non potrebbe esercitare né'le sue suggestioni né i suoi scongiuri per quanti incantesimi o esorcisttli. egli faccia; ora però, poiché non lavora, per cosf dire, in un luogo diverso dal mondo, ~ in grado di attrarre, sapendo per qual via una cosa si trasporti verso l'altra in seno al vivente... In realtà si attuano quei suoi esaudimenti solo perché tra parte e parte dell'Universo segua la simpatia, come in una corda tesa: questa, infatti, scossa dal basso, ha una vibrazione anche in cima; anzi, tante volte, mentre vibra l'una, l'altra ne ha, per cosf dire, il senso, per legge di con- sonanza, in quanto, ci~, ~ accordata anch'essa a un'unica intonazione; che se, da una lira, la vibrazione si propaga finanche in un'altra - sino a tal punto giunge la virt6 della simpatia! -, ebbene, anche nell'Universo, do- ttli.na un'armonia unica, pur se risulti da contrari, vero ~ ch'essa nasce tanto dai simili quanto dai contrari onde in tutto regna l'affinità... (Plotino, Enn~adi, IV, 4, 39-41). Lo "stoicismo" di Marco Aurelio. La consapevolezza profonda e meditata che la realtà è quella che è, che tutto avviene come deve avvenire, che l'uomo, momento di questa realtà, è tale entro l'arco della sua vita, per cui, umanamente, prima di nascere e dopo la morte, è il nulla, portava un cinico come Demonatte a sostenere che l'unica via di salvezza è per l'uomo, abbandonati ogni timore e speranza, risolvere se stesso esclusivamente sul piano umano, realizzando una misura, che non è data, ma che è frutto, volta a volta, del nostro stesso medi- tare. La stessa consapevolezza portava, nella stessa epoca, un uomo come Marco Aurelio (121-180),27 imperatore romano (dal161), cinicamente, ad 27 Nato a Roma, sul Celio, il 26 aprile 121 d. C., da M. Annio Vero, originario della Spagna, appartenente a una nobile famiglia, che aveva ricoperto alti uffici, e da Domizia Lucilla, gli furono imposti i nomi dei due nonni, M. Annio Catilio Severo. A ~i anni Adriano lo designò a far parte dell'ordine equestre, a otto del collegio dei salt. Rimasto a nove anni orfano del padre, adottato dal nonno paterno, che si occupò, insieme al bisnonno materno, della sua educazione e che gli dette il nome di M. Annio Vero, fu avviato agli studi di filosofia da Diogneto. Esaltatosi per la filosofia, come costume di ·vita, si sottopose a privazioni, vivendo in forma austera e rigidissima. Adriano, che aveva per il giovinetto una viva simpatia e che molto apprezzava le sue doti, giuocando sul suo nome (M. Annio Vero), lo chiamava "verissimo." Nel 136 si fidanzò con la figlia di L. Ceonio Commodo, designato dall'imperatore Adriano a suo successore. Alla mprte di Ceonio (138), Adriano adottò Antonino, zio di Marco Annio Vero, a patto che Antonino adottasse a sua volta il figlio e il nipote di Ceonio. Morto Adriano nel luglio del 138, Antonino Pio non solo adottò il figlio e il nipote di Ceonio, ma anche Marco, che assunse il nome di Marco Elio Aurelio Vero; cosi venne presto indicato dall'impera- tore come suo successore. Marco ebbe il titolo di Cesare, fu nominato questore nel 138-139, console nel 140. Nel 145 sposò Faustina, figlia di Antonino Pio. Marco Aurelio si preparò allora con coscienza e serietà di studioso al suo "mestiere" di imperatore. Con il celebre Frontone studiò retorica latina, con Erode Attico retorica greca. Se da Diogneto, com'egli stesso dice (Ricordi, 1, 6), fin da giovane aveva sentito avversione a perseguire cose stupide e vuote, una gran diffidenza per le chiacchiere di fattucchieri e di maghi, per incantamenti e scongiuri, e aveva.preso familiarità con la filosofia, l'amore per le parole libere e franche; in questo periodo, frequentando lo stoico Apollonio, aveva appreso la capacità di non affidarsi al caso,. il suo sguardo rivolto soltanto e incessan- temente a vie razionali, la capacità di non impazientirsi dovendo dare direttive a qual- cuno (Ric., I, 8). E se da Frontone aveva appreso di quanta invidia, di quanta malizia, di quanta ipocrisia sia formata la tirannide, e che i patrizi sono persone degne di poca considerazione (Ric., I, Il), dallo stoico Giunio Rustico (figlio o nipote di Giunio Rustico Aruleno, due volte console, collega nel 119 di Adriano nel suo terzo consolato, una volta praef~ctus urbis) aveva appreso a non sentire piu inclinazione dannosa per le ambizioni dei solisti, l'avversione a comporre trattati su problemi astratti, a declamare pretenziosi discorsi per esortare alla filosofia (chiare frecciate contro Frontone), l'avversione alla retorica, alla poesia, al parlare forbito, l'abitudine a leggere con molta attenzione, a non accontentarsi di capire press'a poco, l'essersi incontrato con i ricordi di Epitteto, che gli furono donati da Giunio (Ric., l, 7). In questo stesso periodo Marco Aurelio frequentò il platonico Alessandro, il peripatetico Claudio Severo (console nel 146), il giurista L. Volu- sio Meciano, gli stoici Claudio Massimo (console, legato, procuratore imperiale) e Cinna Catulo, il platonico Sesto di Cheronea, nipote di Plutarco (cfr. Ric., I, pauim). - Morto Antonino, Marco, il 7 marzo 161, sali al trono col nome di Marco Aurelio Antonino. Egli si associò al trono il fratello adottivo, che prese il nome di Lucio Annio Vero. Dopo gli anni pacifici di Antonino, gli anni in cui governò Marco Aurelio furono estre- mamente gravi per l'unità dell'Impero. t storia nota. Marco Aurelio dovette combattere in Oriente contro i Parti, mentre, sotto la spinta dei Goti, popolazioni sarmatiche e ger· maniche sfondarono le difese romane e penetrarono in Rezia, nel Norico, in Pannonia, in Mesia. I Quadi e i Marcomanni, varcate le Alpi, assediarono Aquileia e sconfissero l'esercito romano. Marco Aurelio e Lucio Vero mossero contro i barbari. Lucio mori nel 169; nel 175 Marco riusd a respingere gl'invasori oltre la sinistra del Da.nubio. Marco Aurelio fu quindi costretto a ristabilire ordine in Oriente, mentre di nuovo Marcomanni e Quadi insorgevano. Accorso contro di loro, Marco Aurelio mori, presso Vindobona (Vienna) nel 180. A lui successe il figlio Commodo. Di Marco Aurelio davvero si può 148    accantonare qualsiasi dottrina sulla struttura e il senso della realtà, tutta, in sé, né buona né cattiva, fluida e mutevole, senza significato. Le cose sono avvolte in un certo cotale velo, da sembrare a filosofi non pochi e non certo volgari del tutto incomprensibili. E persino gli stoici le ritengono ben difficilmente comprensibili. Ogni ipotesi del resto è passibile di modificazione. Dove, infatti, è colui che non debba mutare qualche conclusione? Passa in rivista dunque cose ed oggetti: ben piccola la loro durata; ben piccolo il loro valore... Passa quindi in rivista le abitudini dei cuoi contemporanei: modi di vivere che a fatica si riuscirebbe a tollerare pure in chi è piu gentile e educato, per non dire che anche costoro riescono appena a sopportare se stessi. In tenebra si grande, in tanto sozza condizione, in si grande flusso di cose e di tempi, del moto e delle cose trascinate al moto, quale realtà può venir pregiata o può in qualche modo incontrare il nostro entusiasmo? Non lo so immaginare (Ricordi, V, 10). Tutto è opinione: chiaro è a qu~sto proposito il detto del cinico M6nimo... (Il, 15). Il tempo dell'umana vita è un punto; la sua materiale sostanza un perenne fluire; la sensazione tenebra; la compagine di tutto l'organismo, immanca- bile corruzione; il principio vitale, l'aggirarsi di una trottola; la fortuna non si può indagare; la gloria, cieca. In breve, le funzioni dell'organismo sono un fiume; quelle dell'anima, sogno e vanità; ed è guerra la vita, viaggio di un pellegrino; oblio la voce dei posteri. E, adesso, a che cosa ti puoi affidare? (Il, 17). Tutto dura un giorno, e chi ricorda e chi è ricordato (IV, 35; cfr. anche IV, 33). Tutto avviene per alterna mutazione... Ogni cosa è in un certo qual modo seme di un'altra che da quella dovrà prove- nire... (IV, 36). La totalità dei tempi è quasi un fiume, formato dagli eventi; corrente che a forza travolge. Non vedi? Le singole cose, appena venute, già sono trasportate via; un'altra cosa viene trasportata. E anche questa sarà portata via (IV, 43; anche VI, 15). Volgi lo sguardo sulle umane vicende, conscio della loro precarietà, del loro scarso valore: ieri, tanta boria; domani, mummia o cenere... (IV, 48; anche V, 33). Quanto poi alle cose della vita, quelle che appaiono tanto degne d'onore, sono vacuità, mar- ciume, piccolezze, cagnolini che si mordono l'un l'altro; ragazzini che rissano e che si divertono a rissare, poi ridono e subito finiscono col pian- gere... (V, 33). Nulla di nuovo: ogni cosa, sempre quella; e insieme ogni cosa rapidamente trapassa (VII, 1). Per altro verso, invece, quella stessa consapevolezza porta Marco Aurelio a rendersi sempre piu conto che un qualche significato da dare dire che governò filosofando, e filosofò go\'ernando, cercando di attuare quello ch'era stato l'ideale politico di molti pensatori stoici. Oltre ad alcune lettere in latino, a Frontone e ad Erode Attico, di Marco Aurelio restano frammenti di suoi discorsi, e 12 libri di sue riflessioni, in greco: T« c!<; éotuT6 (Tà ~is h~aut6n}, A se st~sso, andati sotto vari titoli: Colloqui con s~ st~sso, IUcordi, P~nsi"i, Note p"sonali. Furono scritti tra il 166 circa c il 180. 149    alla vita non proviene dal di fuori, né dalla contemplazione di un ordine dato e che solo sia da conoscere, ma da un continuo approfon- dimento di se stessi, da un continuo scavare·dentro ("Scava nella tua interiorità; dentro di te sta la fonte del bene": lv8ov axoc1t"t'e:' !v8ov ~ 7t'l)~ -rou à.yot-3-ou: VII, 59), mediante cui sapere, volta a volta, come comportarsi, e rivelante nell'uomo una capacità di misura che dimostra la sua libertà, anche in un mondo che è quello che è, in cui illusione e fanatismo è credere di poterlo modificare. E adesso, a che cosa ti puoi affidare? A una sola, a un'unica cosa: la filosofia. E questa ti permetterà di conservare l'interiore dèmone senza violenza e danno: signore dei piaceri; capace di agire senza intraprendere nulla a caso; immune da menzogna e da simulazione; libero dal bisogno che altri faccia o no qualche cosa. Ancora, questo dèmone dovrà accettare gli eventi e tutto quello che gli càpita, convinto che tutto viene di là, da un luogo misterioso da cui egli pure un giorno è venuto... (II, 17). Il nostro reggere con intellettuale luce d'azione... è l'esperienza del divino e dell'umano (III, 1). [Indagando se stessi, scavando nella nostra interiorità, scopriamo noi stessi quale attività egemonica] e l'egemonico è ciò che eccita se stesso e si rivolge e si rende quale vuole... (V, 8), [per cui] unicamente buone o cattive sono le cose che dipendo_no da noi... (VI, 41). In tale senso vicinissimo a Epitteto, da Marco Aurelio a lungo medi- tato e piu volte citato (cfr. l, 7, 8; IV, 41; VII, 19, 2; XI, 34, 36), Marco Aurelio poteva trasformare il primo atteggiamento di abbandono, di disprezzo e di nausea per le cose, vane tutte, in un atteggiamento oppo- sto - che non modifica nulla se non se stessi -, in un amore per tutte le cose ("l'unica cosa che rimane a chi è buono, come propria caratte- ristica, è l'amore, l'atteggiamento di un'anima serena e tranquilla che accolga gli eventi a lei destinati"; III, 16), in un rispetto per ogni· uomo, che in quanto tale ha la capacità di trasfigurarsi da cosa accanto a cosa, da mezzo in fine, di assumere entro i termini dei rapporti umani, di volta in volta, il proprio posto, costruendo se stesso ("ogni uomo è mio affine, non certo per identità di sangue o di seme, ma in quanto partecipe di una mente e d'una funzione che è divina..., la funzione, !"egemonico,' cui spetta il sovrano dominio": Il, l, 2; "ama, dunque, ma davvero, gli uomini cui la sorte ti ha posto accanto": VI, 39). E se ciò, ripetiamo, non modifica la realtà, modifica il nostro modo di atteggiarsi verso gli altri, in una continua consapevolezza del nostro dovere (formale), che, in conclusione, può, di volta in volta, modificare lo stesso umano rapporto, ogni volta nuovo. Vane e senza significato le cose, vani e senza significato gli uomini (se presi a sé, finché restano presi dalle cose, dispersi e molteplici, le stesse cose e gli uomini - iden- tici, finché esteriorità - assumono un senso quando, attraverso se stessi, scoprendo sé come razionalità, cioè come capacità ordinatrice (egemo- nico) e come misura, si comprende delle cose e degli uomini la vanità e l'insignificanza, per cui tutto, insignificante in quan•o esteriorità, assume un suo posto, un suo senso, in quanto interiorità, entro i termini della nostra opinione. In nessun luogo piu che nell'anima, con maggior tranquillità, con piu facilità, un uomo può ritirarsi... [e troverà pace]. E con questa pace voglio intendere disposizione di ordine perfetto (IV, 3). Di tutte le cose devi scor- gere la volgarità e quella loro magnificenza, per cui appaiono tanto impor- tanti, la devi togliere via... (VI, 13). Bisogna sapetsi valere di chi è signore della propria anima [l'egemonico o il divino che è in noi], per opera del quale l'uomo non può essere toccato dal piacere, non può essere vulnerato da nessun dolore, né colpito da nessuna violenza...; pronto ad accogliere amoroso, con l'anima tutta quanta, quello che accade e quello che gli viene assegnato, tutto... Quest'uomo sa che in suo potere è soltanto la propria interiorità e pensa senza interruzione alle cose proprie, quelle che l'uni- versale connessione degli eventi gli arreca... In realtà il destino a ciascuno attribuito viene portato a uguale mèta dal destino universale, e parimenti a uguale destino procede. Tiene ancora presente nel ricordo che quanto pos- siede razionalità gode di natura profondamente affine; che è proprio del- l'uomo prendersi cura di ogni uomo... (III, 4). Togli il giudizio della tua mente e sarà tolto il "sono stato offeso"; togli il "sono stato offeso" e sarà tolta l'offesa (IV, 7). Se provi dolore per qualche offesa che è fuori di te, non questo fatto singolo precisamente ti turba, bensf il giudizio che tu vieni facendo su quello (VIII, 47). O meglio, in sé non esistono né un'interiorità né un'esteriorità, ma interiorità ed esteriorità sono due modi diversi di atteggiarsi di fronte alla stessa realtà: irrazionalmente (e allora siamo presi dalle cose, deter- minati, passivi, dispersi); razionalmente (e allora tutto dipende da noi, nella consapevolezza che ragionevolmente il tutto si organizza razional- mente; ha una sua ragion d'essere). E a ciò si giunge non dal di fuori, non accettando supinamente, scolasticamente, una o altra dottrina, ma indagando, scavando se stessi, pensando - e tale è stato l'insegnamento piu alto di un Seneca e di un Epitteto -, non attraverso una sapienza già data, o librescamente assunta (dice Marco Aurelio a se stesso: "lascia andare i libri, non è piu tempo di simile cura": II, 2; " scaccia quella sete di libri, se non vuoi giungere a morte mormorando, ma vera- mente sereno e grato agli dèi dal profondo del cuore": II, 3; "Da Rustico ho imparato l'avversion~ a comporre trattati su problemi astratti, 151    a declamare pretenziosi discorsi per esortare alla filosofia, a farmi vedere uomo intellettuale e studioso, benefico solo per colpire le menti altrui; l'avversione alla retorica, alla poesia, al parlare forbito": I, 7); ma attra- verso una sapienza frutto di quello stesso meditare ("da Apollonia ho imparato il tono libero del mio carattere... quel mio sguardo rivolto soltanto e incessantemente a vie razionali": l, 8), che scopre all'uomo come l'uomo è pensiero, razionalità che è tale in quanto esercizio, che costruisce sé mediante lo stesso pensare. Di qui, anche la forma letteraria dell'opera di Marco Aurelio, che non è affatto un trattato, né una doxografia, né un'esposizione logico- dottrinaria, né un insegnamento ("se da: Rustico ho imparato l'avver- sione a comporre trattati su problemi astratti..., se da Sesto ho impa- rato ad esser ricco di dottrina senza farne continua mostra": I, 7, 9), ma la presentazione - unica forma d'insegnamento - del proprio ripensamento, del proprio meditare, del continuo discorso a se stesso (èis heautòn). Marco Aurelio, cosi, nei termini del dovere formale del- l'uomo (ciascuno, meditando su se stesso, assume il posto che gli com- pete nell'ordine sociale, costituendo quell'ordine), cerca di determinare il proprio posto che natura e sorte gli hanno dato, rendendosi conto del proprio dovere di imperator~ e della funzione che nell'ordine sociale gli compete, per il bene della comunità: e ciò è dovere di ogni uomo, per quella comune ragione che ci fa tutti fratelli ("a Severo, mio fratello, debbo anche l'aver potuto conoscere per mezzo suo Tdsea, Elvidio, Catone, Diane, Bruto, e l'aver potuto far sorgere in me il desiderio di un governo, in cui la legge abbia vigore per tutti; informato, questo governo, a uguaglianza e a libertà di parola, un regno capace di rispet- tare per suprema ragione la libertà dei sudditi": I, 14}, giorno per giorno. E.un diario è, appunto, il libro di Marco Aurelio, non a caso intitolato -ra e:tç lotu-r6v (tà èis heaut&n), cioè a se stesso, in genere tradotto con Colloqui con se stesso, o con Ricordi e Pensieri, o Note personali. L'opera, che si divide in 121ibri, non fu scritta tutta insieme, né secon4o l'ordine dei libri quali noi leggiamo (sembra che il I sia stato composto per ultimo, mentre i libri II, III e XII siano stati scritti per primi: certo, l'insieme, tra il 169 e il 180; Marco Aurelio era stato nominato imperatore nel 161, mori nel 180, e gli anni tra il 169 e il 180 furono i piu gravi del suo regno, in guerre continue, in cui egli dovette assu- mc;rsi le piu alte responsabilità per sé e per l'impero, di cui si sentiva il servitore). Il filo conduttore dei Ricordi di Marco Aurelio sta proprio in questo suo sforzo continuo di chiarire sé a se stesso, attraverso cui cogliere, di volta in volta, ciò che a se stesso compete, imparare a essere uomo, a compiere il proprio ufficio consapevolmente ("non agire mai 152    contro il tuo volere; e nemmeno senza proporti quale mèta un comune bene, senza opportuna ponderazione; né, d'altra parte, dubitoso e in- certo... Quel Dio che dimora dentro, in te, sia il tutore di un uomo virile, venerabile per gli anni, conscio di una sua naturale politicità, romano, imperatore, già pronto per il suo posto...": III, 5). D'altra parte, se, stoicamente (epitettianamente}, saper pensare è realizzazione piena della verace natura dell'uomo (per cui primo dovere dell'uomo è imparare a pensare} e saper pensare è costituire in armonia e ordinatamente le proprie impressioni, per cui quello stesso mondo che appare nell'immediatezza sensibile e dispersa disordinato, indivi- dualmente insignificante e senza senso (o, per altro verso, prendendoci unilateralmente, ci determina dispersivamente, per cui patiamo la realtà quale appare, molteplice e senza senso, dandole un significato, un valore che non ha), si risolve, invece, in quanto razionalmente ordinato e non piu visto individualmente, unilateralmente, come unità, ove tutto ·ha un suo giusto posto, che, dunque, dipende da noi, dal nostro modo d'essere ragionevoli o meno. Ogni natura basta a se stessa, quando procede sulla retta via. E una natura razionale procede sulla retta via quando non dà il suo assenso a immaginazioni menzognere e oscure; quando dirige i propri impulsi alle sole opere che hanno quale mèta il bene comune; quando ricerca o evita quelle cose sole che sono in nostro potere; quando ama tutto quello che le viene assegnato dalla comune natura. Ogni singola natura è parte di quella comune a quella guisa che natura di foglia partecipa alla natura della pianta; con la sola differenza che in questo caso natura di foglia è parte di una natura insensibile, irrazionale, e che può subire coercizione; invece natura d'uomo è parte di una natura che non ammette coercizione, intelli- gente e giusta, dato che distribuisce ai singoli, con uguale criterio e secondo il merito, parte di tempi, di sostanza, di causa, di attività, di vicende. E devi compiere la tua osservazione non isolando per ogni fatto un singolo parti- colare, rispetto ad un altro particolare uguale, ma considerando nel loro complesso particolari di un singolo fatto e in relazione a quelli d'un altro, pur nel loro complesso (VII, 7). Non solo, ma poiché l'uomo, attraverso il suo stesso pensare, scopre sé come attività unificatrice, come ragione che è tale non in sé, ma in quanto organizzazione di sé, come attività egemonica di un se stesso, molteplicità e passioni - non a caso Marco Aurelio riprende il vecchio termine stoico "egemonico" per intendere la razionalità - realizza- zione del proprio soffio vitale (pnéuma) in un ordine e in una misura delle passioni, in cui, appunto, consiste la razionalità, nulla vieta di fare l'ipotesi che la stessa essenza del tutto, la sua natura, il divino, 153    sia questa stessa forza vitale che si realizza ordinando il tutto in unità, socievolmente ("la Mente dell'universo ha carattere socievole": 6 -rou 15ì-.ou vou~ xotvwvtx6~: V, 30), e di cui, dunque, il nostro "ege- monico" è un momento, un aspetto, mediante cui non solo si è capaci di porre ordine in sé scoprendo attraverso sé l'ordine e, perciò, la provvidenza del tutto ("o una cosa o l'altra: confusione, accozzamento e dispersione, oppure unità, ordine, provvidenza": VI, 10), ma anche, accettando consapevolmente il proprio posto - e ciò spetta a ciascuno - di rispettare gli altri, riconoscendo negli altri se stesso, la propria razio- nalità, in un amore di sé che è amore degli altri (socialità), in un amore del tutto che è amore di Dio. L'umanità steS&a, dunque, in quanto razionalità, esiste in quanto ordine e unità consapevole, in cui ciascuno ha il suo posto e in cui ciascuno è uguale all'altro in quanto capacità razionale, in quanto in tutti, come razionalità, è una scintilla dell'unica razionalità divina che ci fa tutti parenti. Quell'uomo è mio affine, non certo per identità di sangue o di seme, bens{ in quanto partecipe di una mente e di una funzione che è divina (Il, 1). In un organismo unificato le membra del corpo hanno una determinata funzione; ebbene, la stessa funzione, pur separati l'uno dall'altro, hanno i viventi razionali, congegnati in vista di un'unica profonda collaborazione. Anzi, nconcetto di questo fatto ti sarà piu chiaro qualora tu ripetessi piu volte a te stesso: "Io sono membro di una schiera, schiera ordinata di creature razionali." Al contrario, se tu dici che ne sci soltanto una parte, non ancora con tutto il tuo cuore ami gli uomini; non ancora il far bene a qualcuno ti dà gioia completa. Parimenti, compi questo beneficio soltanto come cosa dovuta, non sci ancora convinto di far bene a te stesso (VII, 13). Ci sono due verità alle quali potrai volgere intento sguardo. La prima è questa: le cose non arrivano a toccare l'anima;. bensf rimangono fuori come sono; il turbamento proviene solo dall'interiore valutazione. La seconda: tutte queste cose che vedi, quanto rapidamente si mutano e piu non sono!... Se la facoltà intellettiva è comune per tutti; se la ragione, in quanto siamo razionali, è pure comune; se cosf è, la ragione, in quanto imperativa delle cose che si debbono fare o meno, è anch'essa comune; quindi anche la legge è comune; quindi siamo anche·cittadini, partecipi di wi'organizzazione statale, quasi una Città, uno Stato, insomma. In realtà nessuno potrà dire che tutto il genere umano partecipi a qualche altra città in tal modo comune a tutti. E di qui, da questa città universale, vengono a noi intelligenza, razio- nalità, legalità... (IV, 3, 4). Solo va sottolineato che ciò Marco Aurelio non pone come dogma, ma vi giunge attraverso la stessa riflessione morale, che, scoprendo l'es- senza dell'uomo, la sua natura come attività razionale, può far porre 154    come ipotesi che, appunto, lo stesso principio e fine del tutto è la razio- nalità, intesa come ordine e socialità. L'opzione di Marco Aurelio per la tesi di fondo dello stoicismo riflette chiaramente il significato della morale di Marco Aurelio intesa come conflitto, se vogliamo, tra il momento cinico e il momento stoico che si scioglie dalla sua rigidità antologica per divenire postulato e dovere morale, cui si giunge mediante la stessa riflessione sul nostro essere uomini, che costituisce e costruisce la nostra persona. E l'uomo resta, sempre, dilacerato tra una realtà che è quella che è, indifferente, insignificante, inutile, tra cui vi sono gli uomini, che sono quello che sono, ove tutto è monotono, noioso, ove si nasce e si muore, ove tutto non merita nulla; e una realtà che rivis- suta razionalmente appare ordinata e costituita secondo una piu profonda ragion d'essere, per cui quellà stessa realtà, quegli stessi uomini, pur rimanendo quali sono, un nulla, foglie che vanno, foglie che vengono ("fragili foglie anche i bimbi tuoi, fragili foglie anche questa gente che ulula..., fragili foglie per non differente condizione anche le stirpi desti- nate a ricever la fama dei giorni venturi...; ma poi vento le getta per terra e, successivamente, la selva altre, invece di quelle, ne genera; e fugacità di un istante a tutti è comune; ma intanto tutte queste cose tu vai perseguendo oppure fuggendo, proprio convinto che.la durata ne sia eterna; ancora un poco e chiuderai gli occhi, e per colui che ti accompagnerà al rogo, altri farà il lamento funebre": X, 34), li com- prendiamo come a noi vincolati, li vogUamo per quel che sono, li accet- tiamo volontariamente sapendo ciascuno giuocare la propria parte (Marco Aurelio la sua parte di Imperatore), in un rispetto delle varie parti, che è rispetto della comune ragione, che ci fa tutti fratelli. L'uomo, dunque, che è uomo in quanto ragione, cioè in quanto capacità di portare ordine e misura in sé,·di volta in volta obbietti- vando il valore delle cose, sapendo ciò che valgono - né molto né poco - non facendosi prendere dalle cose stesse, è ·tale in quanto è già in se stesso armonia di una molteplicità, è società, ove non una parte vale piu dell'altra,.ma sono tutte uguali nell'unica ragione ("egemonico") che le articola. Sotto questo aspetto anche gli altri (tali finché si resta sul piano del sensibile, dell'immediatezza, della passione, del dare piu valore ad una piuttosto che ad altra cosa) sono noi stessi, per cui in essi vogliamo noi; cioè, appunto, la comune razionalità che ci fa sociali, membri di un'unica città ("d'altra parte, tu sei uomo pro- teso a compiere, comunque sia, il bene dell'umana comunità": XI, 13; "o uomo, fosti cittadino di questa grande città; qual differenza per te, se per tre o cinque anni?": XII, 36; "siamo nel mondo per reci- proco aiuto, come piedi, come mani, come palpebre, come i denti di 155    sopra e di sotto in fila; in conseguenza è contro natura ogni azione di reciproco contrasto": Il, 1). L'amore per gli altri- amore per noi- non è, dunque, un amore in funzione di un aldilà, di un premio, di un Dio che cosi vuole, di averne indietro riconoscenza o che sia (cfr. VII, 73), ma è un amore che si risolve tutto entro i termini dello stesso orizzont~ umano, in un desiderio e in una volontà di costruire un mondo umano quale dovreb- b'essere per natura, cioè razionalmente ("sempre si ricordino le ragioni con le quali fu dimostrato che l'universo è come una città": IV, 3). Nulla individualmente eterno, ché tutto, l'uomo compreso, sia come corpo, sia come forza vitale (nei suoi tre aspetti: facoltà egemonica e coscienza di sé, il dèmone proprio, soffio vitale e anima: cfr. Il, 2), si trasforma, riemerge, ritorna al tutto, unico.eterno; in tale consapevo- lezza- lunga o breve che sia la vita: un nulla; sempre uguali le cose: vanità - dobbiamo essere noi stessi, simili "ad un promontorio contro il quale incessantemente si infrangono le onde e quello sta saldo, e si abbonacci intorno a lui la gonfia protervia del flutto" (IV, 49), sempre, nell'istante, nel presente ("solo l'istante presente è quello di cui l'uomo dovrà sentire privazione; effettivamente questo solo egli ha, e ciò che non/si ha non si può perdere": Il, 14). Iri. effetto il passato non è piu e il futuro non c'è, e la vita autentica è fuori del tempo, nell'a~timo in cui siamo noi stessi. Se ogni cosa assume un senso nella nostra con- sapevolezza, nella retta ragione, non c'è un prima e un poi, ma, ap- punto, ogni volta, l'attimo, e la virtuosità è tale in ogni istante, né v'è passaggio da una minore ad una superiore virtu e viceversa. Noi siamo, dunque, impegnati tutti in ogni istante, siamo in ogni attimo chiamati a decidere di quello che siamo, e, appunto, in ciò si abolisce il timore e la speranza che sono sempre immagini, rappresentazioni passionali. In ogni momento, essendo noi figli del nostro meditare, che ci costruisce e ci genera quali siamo, risolviamo nel presente il nostro passato. Vi- viamo, perciò, insieme, nel tempo (i momenti del processo in cui si scandisce il ritmo della realtà) e nell'eterno (il presente) in cui la realtà tutta si risolve nella consapevolezza che ne abbiamo (tale l'in'terpre- tazione del motivo stoico dell'" eterno ritorno," che da temporale diviene atto della consapevolezza morale). Né buona né cattiva la realtà, essa è sempre quella che è, onde rimaniamo imperturbati, o, pur soffren- done o gioendone, sappiamo in che consistono tali sofferenze e gioie, per cui non siamo piu presi da esse, non le patiamo piu. E perciò, morti anche in questa vita, vivi solo in quanto razionalità, che ci perde o nel tutto o negli altri, piu non temiamo la morte, ché in ogni momento monamo. 156    Anche nell'ipotesi che tu debba vivere anni tremila e altrettanti anni diecimila, in ogni modo ricòrdati d'una cosa: ne~suno perde una vita diversa da quella che in quell'istante egli ha; né altra vita vive se non quella che in quell'istante egli perde. A egual punto, dunque, perviene una vita lun- ghissima e una vita del tutto breve. Vedi che il presente è per tutti uguale, ciò che via via si· allontana non è piu nostro, e il tempo che via via tra- scorre è istante brevissimo. Infatti, non si può perdere il tempo trascorso e nemmeno il tempo futuro; come sarebbe possibile che ci venisse tolto ciò che non si ha? Insomma di questi due fatti bisogna tener vivo il ricordo: il primo, che tutto perennemente è sempre d'un solo aspetto e che si aggira quasi in un cerchio e che non fa differenza in nulla se si dovranno vedere le medesime cose per cento, per duecento anni oppure per un tempo che sia senza limiti. Secondo fatto: chi muore carico di anni e chi muore subito perde una stessa cosa. Vedi bene che solo l'istante presente è quello di cui l'uomo dovrà sentir privazione; effettivamente, questo solo egli ha e ciò che non si ha non si può perdere (Il, 14). Se un uomo considera unico bene l'istante; se giudica'egual cosa aver compiuto azioni conformi a retta ragione in grande numero o in numero piu esiguo; se non fa differenza alcuna, questo uomo, del poter contemplare il mondo per un tempo piu lungo o piu breve; a costui certo la morte non costituisce motivo di paura (XII, 35). O uomo, fatti cittadino di questa grande città: qual differenza per te, se per tre o cinque anni?... È la medesima cosa che se il·capocomico che l'aveva chiamato, congedasse poi l'attore dal teatro. "Ma non sono arri- vato a rappr~sentare tutti i cinque atti: soltanto tre." Hai ragione; ma nella vita anche tre anni soltanto costituiscono l'intero dramma (XII, 36). Cia-· scuno vive questo istante ch'è presente: tutto il resto è vita trascorsa o incerta (III, 10). Cerca di mettere a profitto l'attimo presente con giusta ragione e con giustizia (IV, 26) (cfr. anche IV, 48]. Sono formato di fra- gile corpo e di anima. Per quanto riguarda il corpo, tutto riesce indifferente; del resto, neppure gli è concesso di far differenza alcuna. Alla mente, invece, sono indifferenti quelle cose che non siano sue operazioni. Quante cose invece dipendono dalla sua attività dipendono tutte dal suo poterei anzi, fra queste, a dir la verità, la mente si preoccupa solo di quante si riferi- scono al presente; le future e le trascorse sono operazioni sue già compiute e ormai indifferénti (VI, 32). Sotto questo aspetto Marco Aurelio è assai vtcmo non solo a certi motivi cinici, ma anche, indipendentemente dai presupposti fisici del- l'epicureismo, a certe conclusioni dell'etica epicurea. Ma forse il turbamento tuo proviene dal considerare la sorte a te asse- gnata nell'universale destino? In tal caso devi ricordare il dilemma famoso: o provvidenza oppure atomi... (IV, 3). O una cosa o l'altra: confusione, accozzamento e dispersione, oppure unità, ordine, provvidenza. Se ha valore la prima opinione, perché tanto desiderio di indugiare in una mescolanza 157    dovuta al caso?... Oh! verrà certo anche per me il momento della disso- luzione, qualunque cosa io cerchi di fare. Se invece ha valore la seconda ipotesi, adoro, me ne sto tranquillo, nutro fiducia in colui che governa (VI, 10). Morte: o si tratta di dispersione, se vi sono gli atomi; o annienta- mento; o anche cambio di dimora, se ci attende un'altra unione (Sul piano umano uguali sono le conclusioni]. O necessità di prefissato destino, o posto dal quale non si può sfuggire; oppure provvidenza che può essere placata; oppure, infine, confusione senza guida alcuna, un regno del caso. Se si tratta di una necessità dalla quale non si può sfuggire, perché tanto ti occupi? Se invece c'è una provvidenza che può essere placata, rendi in tale caso te stesso degno dell'aiuto che dalla divinità può provenire. Da ultimo, se regna confusione senza nessuno che governi, stai contento perché in tem- pesta cosi grande per conto tuo hai in te stesso mente capace di guidare e condurre (XII, 14)... E che cosa c'è di diverso, allora, in certo senso, se ci fossero veramente gli atomi e le singole parti della materia? Insomma, se vi è un Dio, tutto procede bene; se un caso, ebbene non procedere tu pure a caso (IX, 28). Sembra chiaro, cosi, in che senso Marco Aurelio, tra epicureismo nei suoi fondamenti fisici -, e stoicismo - nel suo motivo della divinità intesa come razionalità, che nel suo costituirsi pone tutto come è bene che sia, in un ordine sociale - abbia optato per lo stoicismo, in cui la realtà, tutte le cose, nella loro necessità, nel loro inesorabile esserci, portano a postulare un principio razionale e provvidenziale e perciò stesso un fine, che diviene, umanamente, un dover essere, che, per altro verso, s'incentra, come vedevamo, nella nostra stessa interio- rità, nello stesso amore per noi e per gli altri, che è, appunto, amore per la razionalità comune, per il bene, per Dio, principio e fine. Tale la religiosità di Marco Aurelio: certo lontanissima dalla fede, dalla speranza, dall'amore dei Cristiani, e dal loro concetto di uomo, che, attraverso il Cristo si salverà e risorgerà personalmente, in eterno, in quanto uomo; tutto questo per Marco Aurelio è irrazionalità, antro- pomorfismo, orgoglio, disumanità, immoralità, prepotenza, asocialità, rottura contro lo Stato costituito a somiglianza della politèia cosmica. Entro i termini dello "stoicismo" si delinea bene, ora, il significato dato all'Impero da Marco Aurelio, e la funzione che nell'Impero deve assumere il sùo capo, che, in un'accettazione consapevole del suo posto, datogli dalla stessa ragion d'essere del tutto, deve tradurre in termini legali quella che è la stessa socialità dell'universo, la sua giustizia, in un'armonia che sia rispetto della funzione e del posto di ciascun citta- dino. Sotto questo aspetto si compie con M::rco Aurelio quella linea politica che, in una giustificazione dell'Impero di Roma, aveva preso le sue mosse, come abbiamo veduto, con Diane Crisostomo, e che si 158    venne realizzando da Vespasiano a Marco Aurelio (cfr. sopra), in una ripresa, appunto, assai duttile di certi motivi stoici - la legge univer- sale, l'imperatore incarnazione della ragione sociale del tutto, il re filàntropo, ciascuno al suo posto, ciascuno in funzione dell'unico Stato -, usando anche certi aspetti delle Leggi di Platone e il motivo della giusta misura (i doveri medt), di Aristotele, dove, infine, non poche volte si sente la presenza dell'ideale "res-publica" di Cicerone. Particolarmente indicativi sono, su questa linea, i nomi fatti da Marco Aurelio, cioè Trasea, Elvidio, Catone, Bruto, dai quali egli avrebbe tratto ispirazione per il proprio concetto di Stato e di governo, dove l'imperatore non è un desposta, ma un pater e un correttore: "attraverso essi ho potuto far sorgere in me il desiderio di un governo in cui la legge abbia vigore per tutti; informato, questo governo, a uguaglianlZa e a libertà di parola, un regno capace di rispettare per suprema ragione la libertà dei sud- diti" (1, 14). "Relitto di città, chi stacca l'anima propria dall'anima comune degli esseri razionali, anima che è una sola" (IV, 29). Di qui, entro i termini della propria posizione di imperatore, la filantropia di Marco Aurelio, la sua clemenza, la sua misura nel governo, il suo tratto e il suo sentirsi "pater" dell'umana famiglia, in una, in fondo, vis- suta e sofferta pietà per gli uomini tutti e per se stesso: "causa ultima dell'universo è un torrente che tutto spazza via. Di che poco conto sono queste creature sociali e politiche, questi minuscoli e piagnucolosi esseri umani, che immaginano di praticare una vita di filosofi" (IX, 29).La preparazione culturale. Diogene Laerzio. Entro questa atmo- sfera, se Marco Aurelio poteva, sul piano di una possibilità etica, optare per un certo "stoicismo," che nelle sue serissime conclusioni aveva la possibilità, sul filo dell'orizzonte umano, di incontrarsi con l'epicurei- smo, la consapevolezza di Marco Aurelio,.del resto, come abbiamo veduto, estremamente diffusa, dell'impossibilità teoretica di oltrepassare la stessa ragione, conduceva, sul piano di un'indagine piu strettamente scientifica, nell'àmbito delle scuole, a discutere quali fossero le ipotesi, non contraddittorie, cioè non piu possibili d'essere dialetticamente con- futate, che permettessero una deduzione, una spiegazione del reale. Abbiamo già visto quali: dal "pitagorismo," inteso come logica mate- matica mediante cui si poteva rendere pensabile la realtà, e con cui si poteva, assUmendo l'aspetto piu formale dell'analitJca aristotelica e certi motivi della logica proposizionale e del sillogismo ipotetico del primo stoicismo, trovare una ragione della costruzione platonica del Timeo; a un tipo di platonismo stoicheggiante e vitalistico a cui si avvicinano certi testi del corpo ermetico, in una conclusiva visione di sfondo entro cui fossero riprese e giustificate le varie esperienze ed ipotesi storica- mente delineatesi. Nei termini di tale piu vasta silloge, in un tentativo di deduzione logica, che non oltrepassasse, contraddittoriamente, i limiti della razionalità, ed entro cui, appunto, si potesse rendere conto anche delle varie esperienze religiose, si venne a muovere, nel corso del m se- colo d. C., il pensiero di Plotino. Peraltro si capisce cos!, sempre entro l'àmbito delle scuole e della piu generale preparazione culturale dei cit- tadini dell'Impero, da un lato il fiorire di sillogi, di epitomi, isagogi, di raccolte di questioni su singoli problemi (dossografie) su cui discutere, dall'altro lato di opere ove vengono messi in discussione gli argomenti piu svariati, anche senza ordine, in una delineazione chiara di quelli che furono i vivi e molteplici interessi di una certa epoca. E qui, per ciò che riguarda l'aspetto piu largo e divulgativo, rispon- dente alle esigenze diffuse di un pubblico piu vasto, particolarmente pensiamo all'opera del latino Aulo Gellio (nato sotto Adriano, morto sotto Marco Aurelio, discepolo di Calvisio Tauro e di Peregrino, amico di Attico, di Frontone, di Favorino, viss.uto tra Roma ed Atene), le Notti attiche, e a quella dell'egiziano Ateneo (originario di Naucrati, vissuto tra la seconda metà del n secolo e la prima del m), l sofisti a convito (Deipnosofistt), che, preziosissime come fonti (evidentemente se assunte criticamente), vanno soprattutto considerate in quanto indici precisi di una molteplicità di interessi, di tutta un'atmosfera culturale~ Per il primo aspetto, invece, sembra di particolare inter~sse ricor- dare i Placita di Aezio, vissuto tra la fine del I secolo d. C. e la prima metà del II. Il Diels (Doxographi, Prol., pp. 99-102), nella sua rico- struzione dei Dossografi greci, ha mostrato che Aezio è autore di una dossografia intitolata l:uvatyCùy1} 'CblV &.pcaxoV'f:CùV (Raccolta dei pa- reri, o Placita), perduta, di cui ritroviamo traccia nei P/acita philoso- phorum (del 177 circa), attribuiti a Plutarco, in Teodoreto - Iv-v se- colo -, in Nemesio - Iv-v secolo - e nelle Ecloghe di Stobeo (v secolo d. C.). I Placita di Aezio deriverebbero a loro volta dai Vetusta Placita, un'epitome in 6 libri delle Opinioni dei fisici di Teofrasto, composta entro l'àmbito della scuola di Posidonio, nella prima metà del I secolo a. C., alla quale non poco avrebbe attinto Cicerone. Ma accanto al filone dossografico, facente capo ad Aezio e allo pseudo- Plutarco, non va scordato un secondo filone che risalendo a un'altra epitome in 2 libri delle Opinioni dei fisici di Teofrasto, composta nell'àmbito della prima scuola teofrastea, si arricchi poi di nuovi testi e frammenti, particolarmente stoici (da tale epitome attinsero, per le loro discussioni e ricostruzioni, Sozione, Cicerone, Ario Didimo, l'au- tore della Stromateon Ecloga, andata sotto il nome di Plutarco, Ippo- 160    lito, Diogene Laerzio). Ora, a parte l'interesse che hanno questi fram- menti dossografici come fonti e testimonianze di opere antiche andate perdute, ciò che qui va sottolineato è da un lato la loro funzione di materiale per le discussioni,. dall'altro lato la loro impostazione dovuta a Teofrasto, che venne determinando non solo una certa delineazione di problemi, ma anche, di volta in volta, a seconda di interessi diversi, la struttura stessa della discussione in senso dialettico, cioè secondo il metodo aristotelico di presentare le varie soluzioni di certi problemi, si che fosse possibile il confronto dialettico, e, attraverso questo, il rintraccio di quelle ipotesi non piu dialettizzabili (in questo senso è chiaro perché Aezio sia stato detto "peripatetico"); ciò poteva por- tare, in un àmbito metodologico, o ad accettare una o altra ipotesi, cavata dalla discussione di testi platonici, aristotelici, stoici, senza con questo negare in pieno l'una o l'altra ipotesi; dell'una o dell'altra con-.cezione, se negate dialetticamente, si potranno sempre dialetticamente recuperare altri. aspetti, e cosi via. Di qui, anche, entro i termini di una discussione scientifica delle condizioni del sapere, accanto alle "introduzioni" per una lettura delle opere di Platone o di Aristotele, ai commenti di certe opere di Platone o di Aristotele, scaturisce l'interesse per le sillogi di certi filoni di problemi e di soluzioni comuni di certi problemi, per le quali ci si venne servendo delle prime distinzioni in scuole della storia del pensiero, ove soprattutto si tenne presente il criterio delle "successioni" (8tat8oxatt: diadochàt), sempre ordinate dialetticamente. Tale filone ebbe il suo primo rappresentante in Sozione, vissuto nel II secolo a. C., autore appunto di un'opera intitolata Successioni, e proseguitosi tra il II e il I secolo a. C. con Eraclide Lembo, Sosicrate, Nicia di Nicea. Per altro verso, invece, in particolare tenendo conto, via via, del- l'ideale di vita, che trova il suo fondamento in una o altra conce- zione, e dell'importanza che per avviare alla virtu assume in campo stoico l'esempio, si comprende come si sia venuto formando l'interesse per la ricostruzione della vita dei filosofi, che risalendo alle Vite di Ermippo e di Antigono di Caristo del m secolo. a. C., e alle Vite di Satiro, di Neante di Cizicci e di Diocle di Magnesia, tra il 11 e il I secolo a. C., ha dato luogo, tra il I e il 11 secolo d. C., ad un largo fiorire di Vite degli uomini illustri. Entro questa prospettiva, tali raccolte, manuali, sillogi, successioni, antologie, assumono un non indifferente valore storico, non solo come fonti per la conoscenza di opere perdute - sotto questo aspetto, evi- dentemente, da prendere tenendo conto del tempo in cui sono state composte, e della loro strutturazione prospettica -, ma sopratt\Jtto come indicazioni del materiale posto in discussione, e, quindi, degli interessi culturali di certe epoche, e, perciò, sembra, non si può dire che siano dei mèri centoni, o ope~a di eclettici privi di un pensiero originale. Non questa, certo, fu la loro funzione. È in questa delineazione che va considerata, proprio sulla prima metà del m secolo l'opera di Diogene Laerzio,28 Le vit~ d~i filosofi, che, nel tentativo di presentare, sempre documentatamente, gli aspetti molteplici con cui si è venuto formando il pensiero greco, si è valso, ad un tempo, delle succe-ssioni, delle vite, delle dossografie e delle cronografie, in una fusione di vari filoni storiografici, e in una rico- struzione del pensiero greco su grandi direttrici dialettiche. "Le Vit~ di Diogene Laerzio," è stato detto, "sono una esposizione della filo- sofia greca quasi divulgativa, anche superficiale, se si vuole, ma senza il difetto di sintetizzare in facili schemi l'enorme materiale, un'amo- 2 8 Diogene Laerzio visse, proba~mente, nella prima metà del III secolo. Nel IV secolo, Sopatro di Apamea, discepolo di Giamblico riportava nelle sue 'Ex).oyetl 3Leicpopo1 (Eglogh~ divn-s~) testi di Diogene; Diogene, per altro, in IX, 116, cita Sesto Empirico e Saturnino discepolo di Sesto, sottolineando che Sesto era stato discepolo di Erodoto, a sua volta discepolo di Menodoto; poiché Galeno, che non cita Sesto, cita Erodoto, e sappiamo che Galeno visse fin circa il 200, si è sostenuto che, dunque, Sesto avrebbe scritto tra il 200 e il 220, e che Diogene avrebbe, perciò, dovuto scrivere la sua opera tra il 220 e il 250 circa. Non sappiamo dove nacque e molto si è discusso anche sull'appellativo Lan-aio. Secondo il Wilamowitz (Epin. Gd MIIIUs., "Philol. Unters.," 111, 1880) AOtépTIO~ è un signum dedotto dall'omerico 81oycvèç AetcpTLet3'1) (dioghenès Laerti4de) (cfr. 'E. Schwartz, Rea/ Enr., V, l, col. 738; anche M. Gigante, in trad. it. delle Vite dei filosofi, Bari, 1962, p. XXVIII). Da Diogene stesso sappiamo (1, 63; VII, 31; VIII, 75; IX, 43; I, 120; IV, 65; VI, 79; VII, 164) ch'egli scrisse un libro di epigrammi intitolato Pijmmetros (Libro di m~tri di ogni tipo), intorno a tutti gli illustri estinti (1, 63), che usò poi, per quel che riguarda i filosofi, nella stesura della sua opera maggiore pervenutaci. L'opera maggiore di Dio- gene nei codici piu ant!<h; è andata sotto il titolo ~I.Àoa6cpC1111 ~LCIIII xetl 3oy!JoliTCilll auvetyCilylj~... (Vite di ll•'JJ?fi e raccolta di opinioni!. Le Vite, dedicate a un'ammiratrice di Platone (DI, 47), si dividono in dieci libri e si aprono con un Proemio di notevole importanza poiché vi si determina il criterio dell'opera. Nel primo libro si espongono vita e pensiero di: Talete, Solone, Chitone, Pittaco, Biante, Cleobulo, Periandro, Anacarsi lo Scita, Mùone, Epimenide, Ferecide. Nel s~condo libro ai tratta di: Anassima.ndro, Anassimene, Anassagora, Archelao, Socrate, Senofonte, Eschine, Aristippo, Pedone, Euclide, Stilpone, Critone, Simone, Glaucone, Simmia, Cebete, Menedemo. Il terso libro è dedi- cato a Platone: biografia, opere, dottrina, dossografia. Il qu~o libro tratta di: Speu- sippo, Senocrate, Polemone, Cratete platonico, Crantore, Arcesilao, Bione, Lacide, Car- neade, Clitomaco. n quinto libro è dedicato ad Aristotele e alla sua scuola: Aristotele, Teofrasto, Stratone, Licone, Demetrio, Eraclide. Nel libro sesto si tratta di: Antistene, Diogene di Sinope, Monimo, Onesicrito, Cratete, Metrocle, Ipparchia, Menippo, Menedemo. n libro settimo è dedicato allo stoicismo: Zenone, la logica stoica, l'etica stoica, la fisica stoica, Aristone, Erillo, Dionisio, Cleante, Sfero, Crisippo. Il libro ottavo tratta di: Pita- gora, Empedocle, Epicarmo, Archita, Alcmeone, lppaso, Filolao, Eudosso. Nel libro nono si espongono le vite e le opinioni di: Eraclito, Senofane, Parmenide, Melisso, Zenone di Elea, Leucippo, Democrito, Protagora, Diogene di Apollonia, Anassarco, Pirrone, Timone. Il libro decimo è dedicato ad Epicuro. 162    rosa raccolta delle varie notizie sparse in innumerevoli libri, non sem- pre facilmente accessibili. In esse la filosofia non è unicamente l'atti- vità speculativa, è un concetto piu ampio, che investe ogni minimo particolare della vita dell'uomo: una vita che nel filosofo è l'espres- sione sensibile della ricerca interiore. E questo punto di vista caratte- rizza già l'atteggiamento eccezionale di un pubblico, frutto di lunga tradizione, verso i propri filosofi...: è una rappresentazione ideale di una mitica società di saggi e di grandi a colloquio" (Pasquinelli, Intro- duzione a I Presocratici, l, Torino, 1958, p. XXXI). Non possiamo dire a quale delle filosofie esposte particolarmente aderisse Diogene Laerzio (forse, si è detto, all'epicureismo, dato che un libro intero delle Vite, l'ultimo, il X, è dedicato ad Epicuro, di cui riporta le tre celebri lettere e le massime, e a cui Diogene si avvicina con grande simpatia; forse allo scetticismo, le cui tesi, particolarmente l'aspetto dialettico critico, sono esposte con aderenza e precisione; forse al platonismo, si è aggiunto, essendo l'opera dedicata ad un'am- miratrice di Platone: cfr. III, 47). In realtà, ciò che qui preme sotto- lineare, come indice di tutto un atteggiamento culturale, scientifica- mente valido, e rispecchiante un ampio pubblico, è" da un lato la pre- sentazione oggettiva di piu correnti.di ·pensiero e, dall'altro lato, proprio per quella stessa oggettività e chiarimento dell'ideale impegno alla ricerca di ciascun filosofo, 'l'offerta di una discussione dialettica, basata sull'analisi delle possibilità logiche dell'assunzione dell'una o dell'altra ipotesi (di qui, come chiaramente appare, l'insistenza di Diogene Laerzio sull'aspetto dialettico della corrente scettica, con par- ticolar riguardo ad Enesidemo), senza privilegiarne una o altra. d) Le scienze e la logica: lo "scetticismo" di Sesto Empirico. Tolo- meo e Galeno. Abbiamo già detto che nel corso del n secolo, entro i termini della ricerca metodologica sopra discussa e che ha le sue piu lon- tane origini nel tipo di ricerca proprio della scuola di Aristotele, si assu- mono a contenuto di indagine i diversi piani di fenomeni: dai fenomeni naturali e dalla possibilità di una loro calcolabilità ai fenomeni apparte- nenti alla natura umana. E poiché sia per l'una ricerca che per l'altra, sul piano della discussione delle varie ipotesi avanzate, nella deter- minazione dei pro e dei contra si trattava di precisare le condizioni che permettono una discriminazione e perciò la possibilità o meno di un giudizio, l'indagine stessa diviene, innanzi tutto, studio del giu- dizio, cioè logica. Non a caso, abbiamo visto, anche in certe sillogi che sono andate sotto il nome di "platoniche," in altre che sono state dette "pitagoriche," in altre "stoiche" e anche nei commentatori di 163    Platone e dei libri logici di Aristotele, l'aspetto prevalente è l'indagine logica, lo studio delle condizioni che permettono uno o altro discorso. Qui, sembra, s'inserisce - e assume il suo piu alto significato sto- rico - l'appello di Sesto Empirico,29 vissuto tra la fine del II e il principio del m secolo, il suo continuo richiamo entro i termini della ricerca (scepsi) a tener sempre presente, metodologicamente, il peri- colo, nei limiti del giudizio, di extrapolare da quei limiti stessi, di oltrepassare quei divieti. Sotto questo aspetto l'opera di Sesto (sia le /potiposi pi"oniane in- tre libri, sia il proseguimento e l'approfondi- mento delle Ipotiposi, l'Adversus Dogmaticos, in 5 libri, e l'Adversus Mathematicos, in sei libri, titolo abbastanza recente, con cui si è soliti indicare il complesso degli 11 libri) ha un altissimo valore metodo- logico, è l'ultima voce di serietà scientifica, l'ultima "logica" dell'anti- chità. L'opera di Sesto non va considerata solo come una sistemazione 29 Scarsissimc le notizie intorno a ·Sesto, detto Empirico perché sembra sia stato medico (Esculapio dette inizio alla nostra anc: Adv. Math., I, 260) appartenente all'indi- rizzo "empirico," o meglio al nuovo indirizzo metodico-empirico (cfr. Pyrrh. hypot., I, 236; Adv. Math., VIII, 191), scaturito dalla polemica di Mcnodoto. Non sappiamo con esat- tezza quando visse: citato da Diogene Laerzio, che scrisse nella prima metà del 111 secolo, insieme al discepolo di Sesto, Saturnino (cfr. Diogene Lacrzio, IX, 87, 115), di Sesto non fa alcuna menzione Galeno, vissuto tra il 130 c il 200 d. C., che, invece, accenna a Erodoto, discepolo di Menodoto, maestro di Sesto. Poiché, per altro verso, sappiamo che Ippolito, nella sua opera contro gli eretici, composta tra il 220 e il 230, avrebbe usato argomentazioni di Sesto, si è potuto, verisimilmente, sostenere che Sesto sarebbe vissuto tra la fine dd n secolo e il principio del 111 e che avrebbe composto le sue opere tra il 200 e il 220 circa. Non sappiamo dove sia nato. Sesto è nome latino: "nostri," tuttavia, egli dice leggi e costumi greci. Senza dubbio fu ad Atene, ad Alessandria e a Roma (dr. Adv. Math., l, 246; Hypot., Il, 98; III, 221; Adv. Math., 15 e 95; Hyp., I, 149, 152, 156; III, 211; cfr. anche Dal Pra, cit., pp. 375 sgg.). Probabilmente l'opera di Sesto è pcevenuta intera, tranne due scritti intitolati Memorie mediche e Memorie empiriche (forse uno scritto unico), citato dallo stesso Sesto (Adv. Math., l, 61; VII, 202). Di uno scritto, Sull'anima, cui Sesto fa menzione (Aiv. Math., VI, 55), si è pensato (Robin, cit., p. 198) che sia in realtà un rinvio alle pani delle opere pcevenute in cui Sesto tratta dell'anima, si come è il caso di altri accenni a trattazioni che si ritrovano, poi, nd complesso dd corpus dell'opera· di Sesto. Due sono le opere pervenuteci di Sesto: Schizzi pirroniani (o lpotiposi pirroniane) in tre libri (I libro: significato c limiti dello "scetticismo," inteso come metodo; esposizione dei tropi dello scetticismo; Il libro: significato c limiti della logica dogmatica; III libro: critica della fisica c della morale dei dogmatici); un'opera in due parti, intitolate la prima Contro i dogmatici, in cinque libri, la seconda Contro i matematici, in sei libri (si è soliti indicare le due parti con l'unico titolo, desunto dalla seconda parte, Contro i matematici). I primi due libri Contro i dogmatici sono dedicati ad una precisa critica della logica, mediante cui Sesto può, nei libri terzo c quano, mettere in discussione la fisica dogmatica, e, nel quinto, le posizioni morali. l sei libri Contro i matematici, cioè contro coloro che dànno un valore assoluto al sapere (màthema) sono dedicati ai grammatici, ai rctori, agli aritmeti.:i, ai geometri, agJi astronomi, ai musici. Discepolo di Sesto fu, secondo Diogene Lacrzio (IX, 116), un ceno Saturnino, che Diogene indica come 6 xu&rjviiç (kythenas), che non sappiamo cosa significhi (il Bro- chard, Les sceptiques grecs, Parigi, 1887, p. 327, n. l, correggendo 6 xu&ljviit; in 6 xot6'-f)(liit;, l(ath'hemàs, legge il "nostro contemporaneo").] organica da un lato della topica e dei tropi, delle argomentazioni, susse- guitesi nel tempo da parte dei cosiddetti scettici, che· dimostri, in parti- colare per certi accademici, l'illegittimità logica del passaggio da una posizione arcesilao-carneadiana a una tesi stoico-platonica, dall'altro lato delle tesi dogmatiche, sia in fisica sia in etica, sia nelle singole scienze, professoralmente insegnate, mediante cui, all'interno di ciascuna, e dia- letticamente nei confronti dell'una con l'altra, dimostrare la contraddit- torietà di ogni ipotesi se assunta come assoluta. Ma è proprio in questa dialetticità che consiste il nocciolo dell'appello di Sesto: egli non nega l'una o l'altra ipotesi, in quanto tale e in quanto logicamente possibile, bensl nega la legittimità di assumere come esclusiva, come vera, l'una o l'altra ipotesi, anche se assunta, sia pur per la dichiarata incompren- sibilità della realtà in sé, come probabile, optando, attraverso la discus- sione dei pro e dei contra, per quella ipotesi che può esser piu utile per una certa condotta di-vita, la cui validità è perciò stesso presunta, niente affatto scientificamente fondata, e, dunque, disonestamente imposta. Di qui appunto, nei confronti del " sapere " in generale, il riferirsi da parte di Sesto, che fu, come egli stesso dichiara, medico, al metodo della ricerca medica, quale si era delineato nelu secolo, particolarmente attra- verso Menodoto (cfr. sopra), nella nuova accezione che aveva preso l'in- dirizzo empirico (cfr. sopra) (questa sembra la ragione per cui Sesto fu detto empirico), per·cui la ricerca scientifica, non presupponendo di giungete alla verità - onde non, si può dire che la verità è afferrabile né che non è afferrabile - rimane, di volta in volta entro i termini delle possibili esperienze, determinazione di un'ipotesi che spiega un certo complesso di fenomeni, ma che può di volta in volta cangiare, a seconda dei "segni rammemorativi," lasciando sempre aperta la ricerca (scepst). Chi intraprende una qualsiasi ricerca, conviene che metta capo o alla scoperta di ciò che cercava, o alla negazione di esservi riuscito e alla confes- sione che la cosa è incomprensibile, o alla persistenza nella ricerca stessa. Cosi, anche, di coloro che le loro ricerche volsero alla filosofia, alcuni avreb- bero affermato di aver trovata la verità, altri avrebbero dichiarato trattarsi di cosa incomprensibile, altri persisterebbero tuttora a cercare. Ritengono di averla trovata coloro che, con denominazione particolare, sono chiamati "dogmatici" ("coloro che assentono a qualcuna ddle cose che sono oscure e formano oggetto di ricerca da parte delle scienze": I, 13), come gli aristo- telici, gli epicurei, gli stoici e altri. Ne dichiarano l'incomprensibilità i ·seguaci di Clitomaco c di Carneade e altri act:ademici. Continuano a cercare gli Scet- tici (Py"h. hyp., l, 1). Lo scetticismo esplica il suo valore (diciamo "valore" senza annettere a questa parola nessun sottile significato, nel senso suo semplice in rapporto al verbo "valere") nel contrapporre i fenomeni e le percezioni intellettive in qualsiasi maniera, per cui, in seguito all'ugual forza dei fatti e delle ragioni contrapposte, arriviamo anzi tutto alla sospensione del giudizio... (l, 8). Di qui, dunque, la preliminare e fondamentale discussione sul "giu- dizio " e sul "criterio." Mediante una ripresa sistematica dei tropi, da Enesidemo ad Agrippa, si pone in forse la validità di ogni giudizio che si fondi sulla "analisi" (implicante che i termini del giudizio siano "inerenti" l'uno all'altro, donde i termini, anche se parole significanti, debbono pur sempre indicare una presunta realtà per sé}, si come per altro verso di ogni giudizio che pur implicando che i suoi termini sono rappresentazioni, dovute alle impressioni sensibili, e che il discorso è perciò non tra termini, ma tra proposizioni, arresti infine la propria ricerca, passando dal possibile discorso, fondato sui segni rammemora- tivi, alle cause prime per via analogica. Se di qui risulta chiara la critica di Sesto alla "causa," alla "deduzione" e alla "induzione," al "procedi- mento sillogistico" e alla "analogia," ai "segni indicativi," altrettanto evidente è in che senso Sesto, senza extrapolare dalle possibilità umane, accantonato sia il tipo di logica aristotelica sia quello di tipo cleanteo- stoico sia, infine, sul piano scientifico, l'illecita assunzione di una ipotesi perché piu probabile e utile alla vita, sostenga, riallacciandosi in ciò alla logica del primo stoicismo - si veda sopra, I vol., Zenone -, la positività di una logica fondata sui "segni rammemorativi." Sesto, cosi, ne deriva da un lato la necessità di sospendere il giudizio sulla realtà in sé (da qui il rovinare di tutte quelle scienze che fondano la loro costru- zione su di un "sapere," màthemti, che scambi l'ipotesi temporale, dovuta cioè a un complesso di segni rammemorativi con la verità, e di tutte quelle "morali" che trovino il loro fondamento su quei principi, quali ch'essi siano, dogmaticamente sostenuti}; dall'altro lato entro i termini di come si formano i giudizi, entro i termini di un discorso temporale, fondato sulle implicazioni rammemorative delle impressioni, la possibilità di un discorso orizzontalmente verace e capace di cangiare a seconda delle impressioni stesse e delle esperienze, per cui appunto, la ricerca resta sempre aperta: una la formazione e la validità del discorso, molte, nel costituirsi "storico" (empirico) del discorso, le possibili verità, tra cui anche quelle, probabili, se cosi ridimensionate, dei dogmatici. L'appello di Sesto Empirico e la sua indagine portavano, sul piano della ricerca scientifica, razionale; a prospettare una metodologia gene- rale, formalmente valida per ogni tipo di ricerca, in campi ben deter- minati di fenomeni. Il discorso di Sesto e il suo prmpettare limiti e validità dei giudizi derivava dal lungo dibattito sul significato della 166    ricerca medica, quale si era delineato, nelle conclusioni cui si era giunti, particolarmente nel caso dell'ultima scuola empirica derivata da Meno- doto (cfr. sopra). Nell'ambito dell'indagine medica, di contro ai dot- trinari (fossero "pneumatici" o "metodici" analogisti), dopo la pole- mica violenta di Menodoto, ch'era giunto a negare sul piano della pura empiria qualsiasi possibilità di "giudizio," si venne sostenendo con Teoda di Laodicea, riconosciuta la validità sul piano polemico del- l'appello all'empirismo di Menodoto, che l'esperienza non si riduce a una mèra raccolta di dati, ma è un metodo che non implica affatto l'oltrepassamento dell'esperienza stessa, né un passaggio, per analogia, dal noto all'ignoto, ma un passaggio, nel ricordo, dal simile al simile, ché i fatti stessi non sono noti in sé, presi ciàscuno per sé, ma si fan noti mediante il ricordo di altri fatti-impressioni, in un discorso coe- rente per sé, ma che non presume affatto alla verità. Se da uii lato lavoro serio e proficuo è non uscir fuori dall'esperienza, non ricorrere all'analogia, dall'altro lato esperienza significa non raccÒlta di dati accanto a dati, non enumerazione all'infinito, ma confronto di dati, osservazione del loro ripetersi, secondo una certa costanza, oppure no, si che alla base di dati-rappresentativi, segni "rammemorativi" e non "indicativi" di strutture in sé o di cause prime (accanto all'autopsia, diretta e personale raccolta di dati, e all'historfe, raccolta di dati osser- vati nel tempo da altri, si pone in tal modo la cosiddetta mfmesis), si possa, in un calcolo dei dati, in ricordi di dissimiglianze e simiglianze, determinare ima certa sintomatclogia, in una descrizione (schizzo, ipo- tipost) di un complesso di fenomeni, che non presume affatto di essere una definizione valida per sempre. Entro questo complesso di indagini e di ricerche, nella sistemazione in un sol corpo coerente (tale da spiegare certi complessi di fenomeni, senza far violenza ai dati sperimentali) del sapere matematico, geogra- fico, astronomico e astrologico per un lato, e del sapere medico e opera- tivo della medicina per un altro lato, si collocano le opere di Claudio Tolomeo (fiorito tra il120 e il151) e di Galeno (130-200). Esse, appunto, attraverso l'autopsia e l'historie, attraverso le dossografie, non presen- tano solo, l'uno nel campo dell'astronomia, dell'ottica, della matematica, l'altro in quello della medicina e delle ipotesi filosofiche atte a spiegare situazioni e condizioni del corpo e dell'animo umano, un insieme di scoperte o di dati raccolti nel processo del tempo. Esse, anche, in una rielaborazione di quei dati, di quelle scoperte, in un accantonamento di quelle ipotesi che cadevano in contraddizione con i dati dell'espe- rienza usando i materiali offerti, nell'uno o nell'altro campo, dalle varie istorie, dai risultati conseguiti da questo o quello scienziato o filosofo, 167    presentano un quadro coerente e complesso, basato su ipotesi proba- bili, veraci in quanto capaci di spiegare. entro i termini di quelle esp(- rienze e di quelle situazioni tecniche, un insieme di fenomeni, e capaci di rendere possibili calcoli e misure. "L'astronomo," scrive Tolomeo, "deve sforzarsi per quanto è possi- bile di far concordare le ipotesi piu semplici con i movimenti celesti; ma se ciò non riesce, deve assumere quelle ipotesi che possono conve- nire" (Almagesto). Tolomeo 80 è, in realtà, l'ultimo epigono della grande tradizione della scuola scientifica (astronomica) di Alessandria. Non a caso- entro l'àmbito ora veduto- Tolomeo, che visse ed operò ad Ales- sandria, si riallacciò ad lpparco di Nicea (cfr. sopra), non solo racco- gliendone le osservazioni e le scoperte, i calcoli e le misurazioni, ser- vendosi anche delle esperienze e delle scoperte posteriori ad Ipparco, rimaste tuttavia puntuali e disarticolate da un unico "sapere," ma appli- cando di lpparco il metodo indipendentemente da superiori ragioni, sulla linea del "peripato " di Alessandria. Tolomeo, cosi, opera sp due piani. l) Riprende tutto il materiale osservativo offerto dagli astronomi precedenti, ne rivede critiqunente la rielaborazione, ne controlla i risul- tati, fa osservazioni proprie!, si rende conto dei movimenti e dei rapporti tia i mondi in rappresent<(zioni geometriche; di qui l'approfondimento della teoria geometrica degli epicicli e degli eccentrici, in particolar modo per ciò che riguard:). la luna e la dislocazione dei piccoli pianeti, e l'approfondimento in (jttica, cui Tolomeo ha dedicato un'opera a parte, della teoria della rifrazione, sottolineando l'esistenza della rifra- zione atmosferica dal cui studio geometrico si possono calcolare gli errori cui la rifrazione atmosferica può condurre nelle oservazioni dei movi- menti stellari. T ali rappresentazioni geometriche permettono poi calcoli numerici mediante cui (postulata per quei calcoli stessi là terra al centro dell'universo in un punto sferico di riferimento) misurare le distanze e i movimenti concordanti con le osservazioni che cosi vengono spiegate (di qui l'approfondimento della geometria sferica delineata di contro 80 Scarsissime sono le notizie sulla vita di Claudio Tolomeo. Sappiamo ch'egli lavorò, in Alessandria, in cui fece le proprie osservazioni sui cieli, dal 127 circa al 151. Accanto alla sua opera piu celebre la Mcx&tJ!U'-nxiJ ~r.ç -rijç mpovo~!czç (SinlllSsi mtlle- mlllica dell'astronomia), detta anche la grande (~1}, megille), per distinguerla da una rielaborazione minore, e poi, per ammirazione, la grandissima (I'CYI.a-nj, meglliste), donde, infine, da una trascrizione araba (La grandissima,.Al maghesm}, il titolo di.Alrruwesto, vanno ric:ordate le seguenti opere j,ervenuteci: Ipotesi sui pianeti, Fasi delle nelle fisse, La pida geografica (in otto libri: alcune parti si dubita siano di Tolomeo; in altre parti sembra che Tolomeo abbia ricaleato l'opera del suo predecessore Marino di Tiro), l'Ottica, l'.Acustica, il Tetrabiblion (o Opus quadrip•titum, eanone, com'è stato detto, dell'astrologia elleriistiea), Del criterio ! dell'egemonico. 168    ad Euclide dal matematico Menelao di Alessandria, autore di un'opera perduta sul Calcolo delle corde e di un trattato in tre libri, conserva- toci dalla tradizione araba, gli Sferici, in cui è fondata la trigonometria: cfr. Almagesto, l, 9 e 11). 2) Tolomeo sistema il tutto, sintatticamente in un solo ordine, s1 che senza violentare i dati osservati - molteplici e separatamence presi in opposizione tra di loro -, quei dati vengono spiegati l'uno in rela- zione all'altro, offrendo un tutto organicamente articolato e possibile d'essere tradotto, appunto, in termini geometrici e risolto in formule di calcolo. Quello ch'era stato il lavoro di Euclide per il sapere geometrico, è ora il lavoro di Tolomeo per l'astronomia. Di qui, anche, il titolo dell'opera sua (M«&1J!J.«:nx~ a\lv-rcx~~c;: Mathematikè s<Yntaxis), ch'ebbe maggior successo e che, com'è noto, ha determinato per secoli tutto il sapere relativo alla costruzione dell'universo, una volta assunto, non criticamente, come sistema definitivo e non come ipotesi (la Sintassi matematica, detta anche la grande - f.LEYrXÀl): megàle -, per distin- guerla da una rielaborazione minore, e, poi, per ammirazione, la gran- dissima - f.LEYLOTrJ meghiste -, è rimasta nota col nome di Alma- gesto, trascrizione araba dell'articolo - in arabo al - e magesto - trascrizione araba dal greco meghiste). Di qui, non contraddittoriamente, anzi come l'ipotesi che meglio poteva permettere la spiegazione dei movimenti e delle leggi regolanti l'universo, la ripresa e piu compiuta dimostrazione della validità della ipotesi geocentrica, che, entro lé possibili conoscenze di allora, meglio della ipotesi eliocentrica, sostenuta da Aristarco, permetteva non tanto la "salvazione" dei fenomeni in senso platonico, quanto la misurazione e la spiegazione dell'ordinamento e delle leggi regolanti il movimento del tutto, facente perno sulla terra, al centro, e scandentesi in una serie di movimenti entro la sfera contenente tutto l'universo (la prima sfera motrice). Sempre entro l'àmbito dell'astronomia - e per gli stessi inte- ressi- va veduto il tentativo di Tolomeo di rendere misurabile e perciò calcolabile il complesso delle influenz.e stell;ari nelle cose e, particolar- mente, sugli uomini, cerc;mdo di rendere conto sul piano geometrico - con il metodo lineare e non trigonometrico còme nell'Almagesto - delle incidenze e rifrazioni, dell'insieme delle credenze astrologiche. Se Vettio Valente sosteneva che l'astrologia è la regina delle scienze, Tolomeo, nel Tetrabiblion (Opus quadripartitum, in 4 libri), fece il tentativo di renderne ragione. Egli, peraltro, se da un lato si riallacciava, su di un piano sperimentale, ai suoi studi di ottica (cfr. Ottica), dal- l'altro lato, facendo tesoro degli studi di acustica (gli Armonici di Tolo- meo, in tre libri, sono una approfondita e sistematica esposizione delle 169    diverse teorie musicali), che culminano con interessanti· considerazioni sull'influenza della musica sull'animo e sul rapporto dei suoni con l'ar- monia delle sfere (riprendendo teorie pitagoriche, platoniche e aristo- teliche), poteva, su di un piano ipotetico, approfondire i motivi delle influenze stellari e la tesi delle "simpatie," mediante certi risultati del- l'Ottù:a e della Armonia. Galeno,81 nato a Pergamo nel 129 circa, fu uno dei medici piu colti 31 Nato a Pergamo nel 129-130, Galeno ricevefte fin da ragazzo una buona edu- cazione particolarmente nelle matematiche e nelle varie concezioni filosofiche. Poi, per volontà del padre, che aveva avuto in sogno il consiglio, da parte di Asclepio, dio della medicina, di avviare il figlio agli studi medici, molto coltivati in Pergamo, dove sorgeva un celebre "ospedale" (tempio di Asclepio), Galeno, a diciassette anni, entrò a far parte dei "figli di Asclepio." Galeno, che abbondantemente parla di se stesso nelle sue opere, dice che fu avviato alla medicina da un "anatomista," da un "ippocratico" e da un "empirista." Dopo la morte del padre, visitò le maggiori scuole mediche del tempo: Smirne, Corinto ed Alessandria: si specializza in anatomia, ma, ad un tempo, cerca di rendersi conto del significato scientifico della medicina; ciò lo porta non solo ad ascoltare i "metodisti," ma a preoccuparsi sempre di piu delle ipotesi filosofiche, per cui frequenta anche le grandi scuole di filosofia (non è senza interesse ricordare che a Smirne ascolta Albino: cfr. sopra). Verso il 158, tornato a Pergamo, viene nominato medico della scuola dei gladiatori, specializzandosi in chirurgia e in dietetica. Tra il 161 e il 166 è a Roma, clinico di fama, maestro e conferenziere ascoltato. Nel 166 torna, improvvisamente, in Oriente: si è detto a causa di un'epidemia scoppiata a Roma (in realtà.sappiamo che in. Oriente l'epidemia fu ancora piu grave); si è detto perch~ profondamente odiato e ostacolato da certi circoli romani. Fu in Cipro, in Palestina, in Siria, sempre attento osservatore, sempre alla ricerca di rimedi terapeutici. Tornato a Pergamo, vi riprende la sua funzione di medico dei gladiatori, finch~ viene chiamato da Marco Aurelio ad Aquileia, dove l'imperatore stava per muoversi contro i Sarmatici e i Germanici. Dopo la morte di Lucio Vero (169), Galeno, insieme a Marco Aurelio, tornò a Roma. Fu medico personale di Marco Aurelio e di suo figlio Commodo. A Roma rimase piu di vent'anni. Nel 192, in un incendio, andarono persi molti suoi trattati. Sembra che dopo, lasciata Roma, sia tornato a Pergamo, dove mori nel 200 circa, a settanta anni. Il pre- nome Claudio, non documentato prima del Rinascimento, è forse dovuto a un'errata decifrazione del C/. Galenus dei codici latini: C/. stava, probabilmente, per C/4rissimus. Della vastissima opera di Galeno sono giunti oltre una cinquantina di. scritti. Sull'ordine dei propri libri  ~ -rwv !a(c.)v ~1{3ÀL<o>Y); Dei propri libr. (De: pl -rwv !8(6lv ~L~À(c.)v); (Depl L'ottimo medico è anche filosofo (0 - r L 6 clptcrt"O<; lct-rpòç xcxl cpLÀ6aocpot,;); Le sette: a coloro che vi si iniziano (De:p(Gt~Y -roit; claatyo!dvott;); La migliore dottrina {De:pl Tijt,; ~(cn"l)t,; 3t3czaxrùJatt;); Avviamento alle arti (Dp~Òt,; iKl -Mt,;~);lcostumidell'animoseponoitHnperamentidelcorpo(0-rt-rat!t;-roii a&lj.Lat-rot,; xpciaccnv atl Tijt; M iit; 3uv~!J.CLt; brovrcxL); DÙiposi e cura delle pas- sioni e dei vizi di ciascuno (ficp{ -rwv 13L6lv hccicrt"q> ncx6wv Xatl ci(JGtp'n'I!Ui-r6lY Tijt; 3tcxyY&lac6lt;}; Medicina empirica (D c p l Tij<; lcx-rptxij<; l:rmtpLcxt,;); lpotiposi empirica ('Tmmm<o>att,; l:~mtptx-1)); Le parti della medicina (De:p -rwv Tijt; lat-rpr.xijt; ~wv); Introduzione dialettica o lnstitutio logica (Elacxy6lyij 3LCXÀI:X-nxf)); Sulla dimostrazione (De:pl ~no3c~); Intorno ai sofismi linguistici {De:pl -rwv natpti -ri)v Ài~LY croq~ta!Ui­ -r<o>v); Le qualita incorporee (•Qn atl noL~ cia&lj.LGt'ratL); Commenti sulla natura dell'uomo, a Ippocrate (Dcpl cpUac6lt; Mp&lnou); Commenti alla dinll, a lpprocrate (Dcpl 3tatLn')c; 61;t<o>v); Sulla dieta di lppocrate nelle malattie acute (Dcpl Tijt; 'I=xpci-rout; 3tat(n'jt; l:nl -rwv 61;é<o>v YOa'IJ!Ui'r6lY); Commento al Prorretico di Ippocrate (Elt,; 'rÒ npopp'l)-rtxòv 'I=xpci-rout;); Del coma in lppocrate (Dcpl -roii TtGtp' 170    dell'antichità. Il suo nome viene sempre avv1cmato a quello di Ippo- crate (i due punti estremi dell'arco della medicina antica) e a quello di Tolomeo (i due grandi sistematori della propria scienza, che per secoli ne diverranno gli autori). Dal suo lavoro, sul piano piu stret- tamente sperimentale, derivarono a Galeno scoperte di somma impor- tanza (in anatomia: descrizione delle ossa, dei muscoli, dei nervi, distin- zione dei nervi in nervi motòrii e nervi sensòrii, particolar riguardo della cassa cranica; in fisiologia: descrizione del funzionamento del sistema circolatorio, ove si sostiene, di contro ad Erasistrato, che il sangue circola sia nelle arterie che nelle vene, funzione del midollo spinale con relative ripercussioni sui nervi cranici e cervicali, mediante cui si spiegano le localizzazioni delle paralisi; in patologia: ogni disor- dine funzionale deriva da una lesione organica; in psichiatria: studio accurato delle passioni dell'animo). Dalle sue riflessioni, invece, sul piano piu vagamente teorico, non poche volte gli derivarono cantonate pericolose per piu approfondite ricerche (particolarmente in fisiologia, dove, per spiegare certe funzioni, Galeno è ricorso alla teoria finali- stica e a quella delle cause di origine aristotelica, alla teoria del soffio vitale dei "pneumatici," e a quella stoica che ogni nostro organo è per provvidenza dell'unica ragion d'essere del tutto, Dio, sistemato là dove è bene che sia; la teoria dei quattro umori, secondo· cui, preva- lendo l'uno o l'altro si ha uno o altro dei temperamenti: sanguigno, flemmatico, collerico, malinconico). Ora, per capire, entro l'arco della 'l1rnoxpci-;cL x&!(J4'n11;); Sulle prognosi di lppocrate (Eli; -ronpO)'VCa)O'TI.XW 'I=xpci- -rouç); Sulle articolazioni (IIcpl ap&pc.>v); L'officina del medico (Ktlt-r' !ot-rpciov); “Le settimane” (Ilcpl i()3o!Lii8c.>v); “Sull'uso delle parti del corpo umlltJo (IIcpl XPC!«ç 'riiiv lv liY&p&lnou a&I(J4TL IJ.Op!c.>v); “Indagini anatomiche” (IIcpl -rC..V ciwl-ro~J.~.Xél)v ·iyxcLpijacc.>v); Placita di lppocrate e di Platone (IIcpl -rél)v XCI&' '17rn0xpci'n)V XDil Dl.ciTc.>VGt 3oyiJ.ci-r6>11}; Gli elementi secondo lppocrate (IIcpl -rél)v XCI&' 'l=xpci'n)v a-roLxc!c.>v); “Sui temperamenti” (IIcpl xpciO'C6>v); Sulle facol~ naturali (IIcpl q~UO'U(él)v 3u~v}; L'uso dd respiro (ttcpl xpc!otç ciwlnvoijç}; Se per natura v'è sangue nelle arterie (El XGtri. q10cn11 lv &p'n)p!«Lt; citi(J4 ncpLixCTl&L}; [Se l'animille sia qual è nel- l'utero: El ~él)ov -ro xa:ri. yataTp6t;]; Igiene ('Tywvci); L'ottima costituflione del corpo (IIcpl clp!O'T"I)t; XGtTatO'XICUi'jt; ToU a&!IJ.GtTOt;); Sulla buona costitut:ione (IIcpl. cù~(ocç}; Sugli abiti morali (IIcpll&uç); Se llll'igiene serve di piu la medicina o la ginnastial (IIpbrcpov !ot-rpurijç f) yu1J.IIGtO'Turijt; lo-n -ro òyl.cLv6v); Sull'eserciflio della piccol11 palÌa (Ocpl -rou 3L« Tijç O'IJ.(xpatt; a~atLp~ 'Y'IJ.Vata!ou); Sinopsi sui polsi (~6volj/Lt; m:pl O'qiUY~"); Sugli alimenti liquidi (IIcpl Àe7mlll06cnjç); Sulle facolta degli alimenti (IIcpl -rpoq~él)v 3uvci1J.Cc.>t;}; Sui· temperamenti e le facol~ dei medicamenti semplici (IIcpl xpciacc.>t; xa:l 8uvci~J.Cc.>t; -rél)v cin).él)v qlatpjl.cixc.>v); “Sulla compotiflione dei farmaci” (IIcpl auY&ém:c.>ç qlatp~v); La teriaca (IIcpl Tijç &JjpL«Xijc; l); Sui rimedi da pre- 'flarare (IIcpl clv-;c!'{3atllo~v); Sulla conct#enaflione delle cause (IIcpl -rél)v auvcx-nxél)v etl-r!c.>v); Sulla diffit:oltlJ della respirat:ione (IIcpl 8uanvo~l; I tumori contro natura (IIcpl -rél)v natp« qiUcnV ISyxc.>v} La cura per flebotomia (IIcpl q~>4o-roiJ.!«ç.&cpat- ncu-nx6vl; L'arte medica (TtrnJ !ot-rpudjl; [Uso dei farmaci e dei clisteri: forse di Severo, vissuto nel v-VJ secolo); [Come ti possono riconoscere i simulatori di malattie]. vastissima opera di Galeno, le oscillazioni e le contraddizioni derivate dall'innesto dei due piani, da un lato va tenuta presente la sua forma- zione e l'epoca in cui scrisse questo o quel trattato (piu teorici quelli scritti in gioventu, piu sperimentali quelli scritti in vecchiaia), dall'altro lato, soprattutto, la grossa discussione sorta in medicina, nel corso del II secolo, tra "dogmatici," "metodici" ed "empiristi" puri. Di Galeno, attraverso Galeno stesso, sappiamo molto. Uomo senza dubbio di eccezione, di temperamento inquieto, estremamente ambi- zioso (in un certo momento della sua vita, clinico di moda che affa- scina non solo per la sua bravura tecnica, per le sue diagnosi e per il suo specifico sapere medico, ma anche per le sue teorie), Galeno fu educato da un padre intellettuale, l'architetto Nicone, che lo avviò fin da ragazzo ai piu rigorosi studi della matematica e del sapere in generale (filosofia), ai quali, sempre per volontà del padre, si aggiunsero fin da quando aveva diciassette anni gli studi di medicina. Allievo, in Pergamo, dov'era una celebre scuola medica, di un anatomico, di un ippocratico e di un empirista, Galeno, morto il padre, visitò, nel giro di nove anni i piu famosi centri di medicina - Smirne, Corinto, Ales- sandria-, frequentando, ad un tempo, anche le maggiori scuole filosofiche. Nel 158, a Pergamo, diviene medico dei gladiatori, specializzan- dosi in chirurgia. Nel 162 è a Roma, dove acquista grande fama. Nel 166, forse a causa di un'epidemia, lascia Roma. Viaggia in Oriente; è a Cipro, in Palestina, in Siria; ovunque prosegue le sue osservazioni, raccoglie cartelle cliniche, cerca di rendersi conto delle varie concezioni che possano servire a comprendere il funzionamento del corpo umano. Poco dopo essere tornato a Pergamo, dove riprende il suo pòsto di chi- rurgo presso la scuola dei gladiatori, viene. richiamato in Italia, ad Aquileia, dall'imperatore Marco Aurelio, di cui divenne medico di fiducia. Morto Marco Aurelio, lo fu di Commodo. Rimase a Roma, medico celebre, dedito alla pratica medica e alla redazione definitiva delle sue opere, fin verso il 199. Tornato a Pergamo vi mori nel 200 circa. E qui vanno sottolineate due cose: Galeno cominciò a scrivere fin da quando aveva diciotto anni e non fu solo formato nell'arte medica e nelle varie teorie mediche in discussione; egli, fin da giova- nissimo, venne anche formato dagli studi matematici e dagli studi rela- tivi al "sapere" in generale, dibattutissimi nelle scuole filosofiche. E cosi va ricordato che prima del 165 sembra ch'egli avesse già composto le sue maggiori opere teoriche, insieme a quelle di anatomia e di fisio- logia, mentre i grandi trattati di terapia e di patologia, le opere piu strettamente tecniche e frutto della sua lunga opera di sperimentatore, sarebbero state composte durante i suoi soggiorni romani. Non è questo 172    che un accenno, ma ciò va tenuto presente da chi voglia ricostruire la personalità e la concezione medica di Galeno, senza ricorrere alla facile etichetta del "Galeno eclettico." In realtà, l'opera di Galeno è estrema- mente problematica, e sorge da un continuo dibattito tra la tesi estrema dell'empirismo di un Menodoto, che, sia pure per polemica, giungeva, dimostrando il pericolo che nella ricerca medica è rappresentato da qualsivoglia teoria in astratto, a negare la possibilità di fondare una scienza medica, e l'esigenza - propria, del resto, alla discussione delle scuole filosofiche - di cogliere, attraverso l'esperienza stessa (che altri- menti rimarrebbe come non fatta, se si limitasse ad una pura enume- razione), le condizioni che permettono di dare un senso, cioè di domi- nare e ordinare i dati dell'esperienza. Gli stessi "segni rammemora- tivi" - fondamentali in medicina - hanno un'utilità, solo quando ci si renda conto di come, costituendosi insieme, l'uno implichi necessa- riamente l'altro; la stessa esperienza perciò funziona solo quando si giunga da un lato a determinare come è che si pensa, come cioè si costituiscono i giudizi (logica: cfr. Institutio logica), e dall'altro lato, quando, in quanto si giudica, implicando ciò la definizione e, perciò, il genere prossimo e la differenza specifica, si determinano le cause di un certo gruppo di fenomeni. Per gli dèi, per quanto riguarda i miei maestri, anch'io sarei caduto nell'aporia dei Pirroniani, se non avessi posseduto gli elementi della geome- tria aritmetica e logistica (ÀoyLG't'LX~), in cui fin dall'inizio avevo fatto pro- gressi, istruito per molto tempo da mio padre, il quale aveva ereditato la teoria dal nonno e dal bisnonno. Vedendo; dunque, che non solo mi appa- rivano chiaramente vere le questioni relative alle previsioni delle eclissi [...lacuna], ritenni fosse meglio valersi del tipo delle dimostrazioni geome- triche; e infatti riscontravo che gli stessi dialettici piu esperti e i filosofi, pur essendo discordi non solo tra di loro, ma anche con se stessi, tutti, nello stesso modo, esaltano comunque le dimostrazioni geometriche (Galeno, De propriis libris, XI). Tale fu lo sforzo continuo di Galeno, nel suo tentativo di delineare, proprio perché sia possibile la diagnostica, e.perciò stesso non solo la terapia, ma un'azione preventiva, un complesso di principi teorici, di quadri clinici, di cause entro cui ordinare un certo insieme di fenomeni o provederne altri, insieme al rintraccio di quelle che sono le condizioni formali che permettono una deduzione. Se da un lato, cosi, Galeno riprendeva certi aspetti della logica for- male di Aristotele (in particolare la costruzione dei sillogismi, quale appare negli Analitici Primi: cfr. lnstitutio logica; secondo Averroè a Galeno risalirebbe la quarta figura del sillogismo), si capisce come, 173    dall'altro lato, Galeno per spiegare, particolarmente in fisiologia, le funzioni dell'organismo, volte al mantenimepto ed equilibrio del tutto in una specie di finalità naturale, assumesse, ·sia pure per ipotesi, il finalismo biologico di origine aristotelica; e che, per spiegare il fatto vita- lità, ricorresse all'ipotesi stoica (propria della corrente stoico-vitalistica, risalente forse a Posidonio, che non poche volte Galeno cita) delle forze, degli "spiriti" vitali, per cui il "pneuma" si realizza come "spi- rito cerebrale" (pneuma psichico), · come "spirito vitale," o animale, vero e proprio, che dà vita e che dalla sua fonte, che è il cuore; muove il sangue nelle arterie, e come "spirito naturale," che dalla sua fonte, che è il fegato, mette in movimento il sangue nelle vene. Di qui, nell'àmbito di questa concezione dell'uomo che in piccolo (micro) ripete il grande (macro) cosmo, la teoria - di chiara origine ippocra- tica - dei temperamenti (i quattro elementi, fuoco, aria, acqua, terra, le cui potenze o qualità sono il caldo, il freddo, l'umido e il secco, si ritrovano nell'organismo umano come sangue, forza vitale vera e propria, come flegma, bile gialla e bile nera; dal sangue, che ha in sé in circolo i quattro umori; si determina o l'equilibrio degli umori o il prevalere dell'uno o dell'altro, donde i temperamenti: sanguigno, flemmatico, collerico e malinconico). Non è qui il caso di soffermarci sulla patologia e sulla terapeutica di Galeno. Basti· ricordare che esse si fondano sulla sua biologia: si sostiene che la salute consiste in un'ar- monica ed equilibrata resultante delle forze operanti nell'organismo, e la malattia in una rottura dell'equilibrio, in un eccesso o difetto delle forze vitali, e che compito del medico è, attraverso una conoscenza pre- cisa dell'anatomia e della fisiologia, ed un'analisi minuta e ampia dei sintomi, operare sulla natura, si che la natura ritrovi il suo equilibrio.A seconda dei testi di Plotiilo sui quali si verrà puntando - chi direttamente lo ascoltò profondamente fu colpito dalla sua forza intel- lettiva e dalla dirittura ascetica della sua vita: cfr. la Vita scritta da Porfirio - si potranno reinterpretare in termini simbolico-allegorici certe precedenti effettive credenze nei misteri, nella funzione della magia e nelle pratiche teurgiche, sostenendone l'assurdità, se prese in forma non allegorica, assumendo dai vecchi riti, culti, misteri, l'orfico.in particolare, tutto ciò che poteva servire a indicare plotinianamente il ritorno dell'anima a se stessa e al divino, in termini etico-religiosi (ciò specialmente si vede in Porfirio, quando si tengano presenti le due fasi del pensiero porfiriano: prima e dopo l'incontro con Plotino); oppure si potrà, mettendo in evidenza certe espressioni religi<>so-miste- riche e l'indiscorribilità del contatto con runo, o del farsi uno nel- l'anima di ciò che vien compreso, entro i termini della concezione del- l'universo di Plotino, riprendere il motivo secondo cui tutte le cose sono anime, dèi, aventi perciò una loro potenza e il motivo della libe- razione dell'anima, che rifacendo propria tutta la realtà, si salva dive- nendo simile al dio e con ciò stesso divenendo assoluta potenza e libertà. Entro questo quadro, cosi, si giustificavano non solo certi misteri, ma anche certe pratiche teurgiche (ciò si vede bene in Giamblico, disce- polo di Porfirio, e piu tardi in Proclo, i quali cercheranno di mostrare quali siano le tecniche mediante cui, comprese certe potenze, certe anime, si afferra l'anima, che può essere anche uno o altro elemento, uno o altro simbolo, e si mette nelle cose, per poi dominare altre cose, altri dèi: di qui, attraverso la magia imitativa, si cercava di determinare le possibilità di una magia operativa). Lo stesso Porfì.rio/ nato forse a Batanea, in Siria, nel 233-34, detto anche di Tiro, avendovi vissuto per un certo periodo, narrando il suo primo incontro con Plotino, avvenuto in Roma, nel 263 circa, scrive: "Nelle adunanze, Plotino sembrava uno che conversasse e nessuno vi l Nacque forse a Batanea, in Siria, nel 233-234 (fu detto anche di Tiro, avendovi vissuto j)<'r un certo periodo). "Io, Porfirio, avevo inoltre anche il nome Basilio, essendo chiamato nell'idioma patrio, Maleo - tale pure era il nome di mio padre. Ora Maleo significa re: cioè Basileus [Basilio], se si vuoi renderlo in lingua greca" (Vita Plot., 17). A Cesarea di Palestina conobbe Origene ed entrò in dimestichezza con lui. Ebbe qui i primi contatti con la scuola cristiana. Ad Atene ascoltò Longino Cassio, che, insieme a Plotino, era stato, in Alessandria, discepolo di Ammonio Sacca. Longino Cassio, di cui Plotino diceva: "filologo si, ma filosofo no, affatto!" (Porfirio, Vita Plot., 14), iniziò Porfirio alla filosofia platonica e, particolarmente, alla retorica, in cui Longino fu celebre (di Longino si hanno frammenti di un Trattato di retorica; perduti sono andati i libri Sul Fine e Sui principi; si è oggi convinti che il trattato Sul sublime non sia di Longino}. A trenta anni circa Porfirio andò a Roma, dove, conosciuto Plotino, ne divenne, insieme ad Amelio, uno dei piu fedeli discepoli e collaboratori. "Nel decimo anno del regno di Gallieno [263], io, Porfirio, giunsi dalla Grecia in compagnia di Antonio Rodio. E appresi che Amelio, pur frequentando la scuola di Plotino da diciotto anni, non aveva osato ancora scrivere altro che gli Sco/ii, i quali peraltro non avevano ancora raggiunto il centinaio. Platino, nel decimo anno del regno di Gallieno, aveva, all'incirca, cinquantanove anni, ed io, Porfirio, allorché m'incontrai la prima volta con lui, avevo trent'anni" (Vita Plot., 4). Alla scuola di Plotino, Porfirio abbandonò molte delle sue vecchie opinioni, o meglio le riordinò entro i termini della concezione plotinica. Collaboratore e amico di Plotino, visse intensamente la vita della scuola j)<'r cinque anni, finché ammalatosi di esaurimento nervoso, su consiglio dello stesso Plotino, si recò in Sicilia (nel 268 circa) per rimettersi in salute. In Sicilia (al Lilibeo) soggiornò due anni. Nel 271 - Platino era morto nel 2 7 0 · - tornò a Roma, dove riprese la sua attività di maestro proseguendo l'insegnamento di Plotino e dedicandosi all'edizione degli scritti di Plotino, che pubblicò tra il 300 e il 304. Porfirio mori a Roma nel 305. Porfirio scrisse molto. Per una ricostruzione del P<'nsiero di Porfirio, vanno tenuti presenti i j)<'riodi in cui si suddivide la sua produzione: l. Prima dell'incontro con Plotino; 2. Durante il soggiorno romano alla Scuola di Plotino; 3. Durante il soggiorno in Sicilia e il secondo a Roma dopo la morte di Plotino. Appartengono al primo j)<'riodo: La filosofia desunta dagli oracoli (frammenti); Questioni americhe (framm.); Storia della filosofia in 4 libri, di cui resta solo il l, La t•ita di Pitagora (il II era dedicato a Empedocle, il III a Socrate, il IV a Platone: ne restano una ventina di frammenti); Introduzione all'astrologia di Tolomeo; Commento agli Armonici di Tolomeo (framm.); Sulle immagini (framm.). Appartengono al secondo j)<'riodo, frutto dell'attività scolastica, Commenti a opere di Platone (al Crati/o, al Sofista, al Parmenide, al Timeo, al Filebo, al Convito, al Fedone, alla Repubblica); una Discussione con Amdio; una discussione sullo scritto di Eubulo, scolai-ca dell'Accademia di Atene, Ricerche platoniche (di questi scritti abbiamo solo notizia); un Commento a L'affermazione e negazione di Teofrasto (J><'rduto); Commenti alle Categorie di Aristotele (framm.), al De interpretatione di Aristotele (framm.), alla Fisica di Aristotele, al XII libro della Metafisica di Aristotele, all'Etica di Aristotele e ad alcuni passi del De anima di Aristotele (di questi commenti son rimasti pochi fram- menti e notizie); lntroduzion~ o lsagoge alle Categorie; lsagoge ai Sillogismi categorici. Appartengono al terzo j)<'riodo: Contro i Cristiani in 15 libri (framm.); Lettera al sacer- dote Anebo (framm.); Cronografia (framm.); Sul ritorno dell'anima (framm.); Sull'asti- nenza (framm.); Sul dio sole (framm.); Commenti agli Oracoli Caldaici (citati nel Ritorno dell'anima); Lettera a Marcel/a (framm.; Porfirio sposò in vecchiaia la vedova Maccella j)<'r aiutarla ad allevare i figli); L'antro delle Ninfe (framm.); Sul "conosci te stesso" (notizie); Gli slanci dell'anima verso l'intelligibile o Sentenze; Vita di Plotino, premessa all'edizione delle Enneadi, e Commentari ad alcuni trattati delle Enneadi. 2,35    vedeva affiorare, a tutta prima, la forza della costn,1zione logica rac- chiusa nel suo ragionamento. Io stesso, Porfirio, ebbì quindi a subire una s,imile impressione, quando lo udii la prima volta. Mi spinsi perciò a presentargli un saggio critico, in cui tentavo di dimostrare, contro la sua tesi, che gli intelligibili hanno esistenza fuori dell'Intelletto. Egli se lo fece leggere da Amelio e, a lettura finita, con un sorriso: 'è fac- cenda tua,' disse, 'o Amelio sciogliere i dubbi, nei quali, per mancata conòscenza della nostra dottrina, Porfirio è caduto.' Amelio scrisse un libro, tutt'altro che breve, Contro le aporie di Porfirio. lo scrissi di bel nuovo in risposta al suo scritto. Amelio vi replicò ancora. Alla terza volta, sia pure con un po' di fatica, io, Porfirio, compresi il loro pen- siero e mi convertii. Stesi una Palinodia che lessi in seno alla riunione. D'allora in poi, anche in rapporto ai libri di Plotino, fui considerato l'uomo di fiducia. E fui io a destare nel maestro stesso l'ambizione di articolare e di sviluppare, per iscritto, i suoi pensieri" (Vita Plot., XVIII, 90-93). Prima di conoscere Plotino, Porfirio, che a Cesarea aveva conosciuto Origene, che ad Atene aveva ascoltato il retore e platonico Longino Cassio, e ch'era stato ad Alessandria, aveva fortemente subito l'influenza delle dottrine religioso-misteriche, diffusissime, che senza dubbio erano state presenti anche a Plotino, ma che Porfirio non aveva criticamente discusso, né risolto in una costruzione logica. È certo che Porfirio fu da giovane attratto dalle suggestioni dei maghi e dei teurghi, dando un particolare significato a ciò che si poteva desumere dalle sedute in cui si evocavano gli spiriti, in una interpretazione simbolica di ciò che.quegli spiriti evocati dicevano (oracolt). Di qui l'opera di Porfirio, dal significativo titolo Sulla filosofia tratta dagli oracoli (ne:pt njç ~x Àoy(Cùv qnì..oao'P(otç), pubblicata prima che Porfirio en- trasse in contatto con Plotino, e dai cui frammenti si ricava, appunto, che Porfirio si serviva di oracoli dovuti, com'è stato detto, a "medium" durante sedute spiritiche, e che l'opera era una specie di trattato di teurgia, da cui si potevano ricavare tecniche e pratiche rituali mediante le quali ricondurre l'anima alla propria divinità. In questo stesso pe· riodo preromano, Porfirio scrisse un'opera in quattro libri dedicata alla ricostruzione piu che del pensiero, del modo di vita di filosofi, o, meglio, di vite ispirate, demoniache, indicazioni mediante cui salvare l'anima, e in cui egli, riallacciandosi a una certa tradizione platonica (partiro larmente a Moderato di Gades), vedeva il piu profondo significate della filosofia: non a caso, cosi, i quattro libri erano dedicati il prime a Pitagora, il secondo a Empedocle, il terzo a Socrate, il quarto a Pla· tone. Di essi è giunto solo il primo, la Vita di Pitagora; degli altri non sono rimasti che una ventina di frammenti. Già indicativa di un certe modo di intendere il filosofare è l'architettura dell'opera; la Vita d1 236    Pitagora, poi, dà il metro esatto dei termini entro cui Porfirio, nel rico- struire il significato del pitagorismo, vedeva la funzione ascetica della filosofia nell'evocazione del proprio dèmone, e nella traduzione in ter- mini simbolico-numerici di tutta la realtà, che Pitagora avrebbe desunto dagli Egizi, dai Caldei, dai Fenici e dai Magi (cfr_ Vita Pit., 6; interessante è ricordare che Porfirio ricostruisce la vita di Pitagora met- tendo insieme i testi piu diversi, tratti da Cleante, Apollonio, Davide di Samo, Lico, Eudosso, Dionisofane, Dicearco, Nicomaco, Antonio Diogene, Moderato). E cosi è altrettanto indicativo che Porfirio abbia scritto, sempre in questo primo periodo, un'Introduzione all'astrolo- gia di Tolomec. (EtaatywyYj etc; -r~v <Ì.7ton:ÀEafJ.Ot'rtx~v -rou IhwÀEfJ.Ot(ou) e un trattato Sulle immagini. Senza dubbio l'incontro con Plotino pro- vocò in Porfirio una crisi, ma piu teoretica che morale. Egli, evidente- mente, rivide le. proprie credenze al lume del rigoroso metodo ploti- niano, scoprendo il significato delle proprie esigenze etico-religiose, e dando ad esse, entro i termini della concezione di Plotino, una sistema- zione logico-ontologica, mediante cui segnare le tappe di un itinerario dell'anima a Dio, entro cui potevano rientrare anche i vecchi misteri, le vecchie credenze, i vecchi miti, intesi però simbolicamente, assunti per ciò ch'essi potevano servire a convertire l'anima a se stessa, a libe- rarla dalla dispersione sensibile: insignificanti, anzi assurdi, se presi unilateralmente per sé. I frutti di tale "conversione" al plotinismo, come dice lo stesso Porfirio, e del suo atteggiamento nuovo nei con- fronti della elevazione morale e religiosa si vedono bene nelle opere che Porfirio cominciò a comporre dal 269 in poi, dal tempo del suo soggiorno in Sicilia, dopo che vissuto in Roma per sei anni, fianco a fianco con Plotino, in un intenso lavoro di scuola, tra lezioni, discus~ sioni, seminari, rielaborazione e trascrizione degli scritti e delle lezioni del maestro, colpito da una grave forma di esaurimento, che lo con- dusse sulla soglia del suicidio (cfr. Vita Plot., 11), si allontanò dalla scuola, su consiglio dello stesso Plotino (cfr. ib.), per prendersi in Sici- lia un periodo di riposo. 'Porfirio soggiornò in Sicilia due anni circa (dal 268-69 al 271); tornò a Roma dopo la morte di Plotino (270), e a Roma, divenuto il continuatore ideale dell'insegnamento di Plotino, intensamente lavorò alla divulgazione e alla sistemazione del pensiero del maestro, fino alla mortè, avvenuta nel 305. Se il nuovo atteggiamento nei confronti della magia e della teurgia popolari si vede bene nella Lettera ad Anebo, sacerdote egizio, in cui criticamente si mette in discussione, appunto, la funzione della teurgia, dimostrando la confusione e l'irrazionalità di molti e torbidi riti, mi- steri, pratiche, la contraddizione di distinguere le divinità in buone e malefiche, prestando alla divinità passioni, esigenze, volontà umane ("autentiche invenzioni di uomini e finzioni della natura umana": Lett. a Anebo, 49); nella Lettera a Marcel/a, sÙa moglie, si vede bene il significato dato da Porfirio all'elevazione morale-religiosa, dovuta ad una purificazione dell'anima, in un ritorno dell'anima a se stessa, in un dominio di se stessi, che è il dominio che l'anima, in quanto con- sapevole, ha di tutte le cose, ché tutto dipende da noi stessi, e perciò dall'anima e quindi dall'Intelletto e da Dio. Sotto questo aspetto Por- lirio reinterpretava, in termini plotiniani, il motivo stoico (Cornuto, Epitteto), secondo cui libera è ranima che dipende da se stessa, onde la virtu consiste nell'adeguarsi alla legge di natura ("l'intelletto segua Dio, e ne contempli in sé l'immagine; l'anima segua l'intelletto; alla anima serva {>er quanto è possibile il corpo, fatto puro a lei pura": A Marcel/a, 13; "Facciamo conto solo delle cose che dipendono da noi": ib., 5; "l'intelletto è maestro, salvatore, nutrimento, custode e guida: esso intende la verità nel silenzio e discoprendo la legge divina con la contemplazione di se stesso riconosce nel suo intimo la legge impressa sin dall'eternità nell'anima; devi considerare anzitutto la legge naturale, da questa devi risalire alla legge divina, che è fondamento di quella naturale; ancorata a queste leggi, non temerai nessuna legge scritta": ib., 26-27). La concezione di Plotino giustificava, cosi, in termini logico-intel- lettuali, l'esigenza etico-religiosa di Porfirio, che particolarmente fu col- pito dalle discussioni di Plotino sull'anima, intesa come consapevolezza di sé, come capacità di cJndurre a sé se stessa spersa fuori di sé, fino a giungere a vivere, indiandosi, la vita del tutto. Non a caso Porfirio punta sempre sull'anima, sulla "conversione" dell'anima, sull'anima entro cui è la verità, che ci trascende dal di dentro, qualora si sappia ascoltare l'anima stessa, il nostro piu vero ed intimo "maestro" ("tu hai in te un maestro": A Marcel/a, 9). "Raccoglierai e unificherai le tue intime facoltà, se cercherai di articolarle quando sono ottenebrate: anche il divino Platone partendo di là ha richiamato dalle cose sen- sibili alle intelligibili" (A Mareella, 10). D i qui, sembra, lo stesso modo con cui Porfirio, raccogliendo e pubblicando i vari scritti di Plotino, pur conoscendone l'ordine cronologico (cfr. Vita Plot., 4-6), ha ordinato, nel costituire il "libro" del neoplatonismo, i trattati plo- tiniani, cominciando appunto dall'individuo e dal sensibile. L'ordina- mento delle Enneadi rispecchia senza dubbio l'interpretazione di Porfirio, il quale, per altro, vede, con Plotino, nell'anima il punto in cui si incentra l'universo tutto; se l'Anima da un lato è unità trascendente se stessa nell'unità vivente dell'Intelletto-intelligibili (l'au- tovivente, l'IXÒ't'o~<;iov del Timeo), che trova il suo fondamento nel- l'Uno, dall'altro lato, l'Anima, in quanto affermazione di sé, riproduce 238    la molteplicità dell'Intelletto, dando luogo alle cose (l'anima demiurgo), e prende coscienza di sé in quanto, limitazione di se stessa (anime singole ed empiriche), per cui l'anima dapprima dispersa, rotta nelle cose, passiva, facendosi cosciente di ciò, oltrepassa il limite, ricondu- cendo a sé le cose stesse. Di qui proviene la distinzione porfiriana delle funzioni dell'anima singola: l'anima è puramente spermatica finché, inconscia, è essa stessa le cose; eidolica, immagine, allorché si rappre- senta i corpi come altro da sé, e come limiti; logica, quando coglie se stessa come discorso unificante, articolando il molteplice; noetica, quando dalla dispersione sensibile, dalla coscienza del limite, dall'unità del molteplice fuori di sé, intuitivamente coglie il tutto Uno in sé, solle- vandosi all'intelletto; anoetica, quando perde se stessa facendosi una nell'Uno. Le anime particolari, dunque, sono nell'Anima del mondo, e da essa emergono senza che essa sia divisa, si come tutte le cose, cieli, stelle e cosi via fino alla terra, sono nell'Anima del mondo e da essa emergono, in limiti sempre maggiori, sempre piu corposi, onde appunto sono i corpi ad essere nelle anime; tutto perciò può essere interpretato in un rapporto di "simpatia," di reciproche influenze, di imitazioni, in una gradualità di anime che vanno dalle superiori anime celesti (gli astri) alle inferiori anime singole, ciascuna delle quali è, dunque, legata alla sua stella, mediante una serie di anime intermediarie (dèmoni). La realtà tutta è, perciò, sotto questo aspetto buona, divina; e il male non ha alcuna realtà, alcun principio, se non nell'anima stessa, nella sua capacità di rimanere nel limite, o di guardare in sé. Appunto in questo primo guardare in sé dell'anima, nel momento dell'imma- gine, in cui la realtà appare come altra dall'anima, avente un suo limite e una sua figura, una sua corporeità, essa si rappresenta le anime stesse come figure, come corpi, provenienti dall'Anima dell'Universo, condotte da un soffio vitale eterno (il pneuma, veicolo o ochema del- l'anima) passato attraverso le sfere dei pianeti, di cui assume l'aspetto, determinando quindi il nostro carattere, e quello dei dèmoni. Partico- larmente interessante sembra questo aspetto della dottrina di Porfirio, esposta nel De regressu animae (fr. 3 Bidez), da cui chiaramente appare che l'universo costituito di anime, di astri, di dèmoni, J;).on è tanto una realtà data, ma la visione del primo momento del ritorno del pensiero a se stesso, appunto il momento dovuto all'anima nella sua attività eide- tico-immaginativa. Proprio entro questo momento funzionano epos- sono essere ripresi, per chi non sia filosofo, per chi non sappia elevarsi al momento logico e noetico, i riti, le pratiche magiche e teurgiche, in quanto servono a purificare l'animà, a dare a tutti la coscienza che ciascuno è divino, che tutto è divino, che infiniti, nell'Unità del divino, sono gli dèi. E ~ i riti, i culti, le credenze, non hanno piu significato per chi sia filosofo - una élite, - essi hanno una funzione terapeutica e ordinatrice per la massa. È sull'anima "pneumatica," e mediante essa sull'immaginazione - scrive il Bidez - che le cerimonie liturgiche agiscono. "Esse presentavano all'anima pneumatica simboli di natura tale da suggerire una reminiscenza e un vago scorcio della verità. I riti placano i cattivi dèmoni che assediano il 'veicolo.' Con visioni mera- vigliose, fanno vivere lo 'spirito' nella società degli angeli e degli dèi. Rendono capaci di ricevere la loro visita - cfr. De regressu animae, 2, 6. - Senza dubbio in virtu della legge di assimilazione, a forza di contemplare questi esseri puri, l'uomo si libera dalle influenze per- niciose e si sbarazza di ogni effluvio malsano. La purificazione progre- disce via via che l'animo fa sf che in sé si produca l'effetto della pro- pria devozione, e la pratica della continenza, che a rigore potrebbe bastare - cfr. De regr. an., 7; anche De abstinentia - renderà la sua liberazione ancora piu sicura. Il successo definitivo non è tuttavia sicuro. Benché sia essenzialmente diversa dalla magia volgare, la teurgia è sempre aleatoria, fallace, e pericolosa" (Bidez, Vie de Porphyre, Gand- Lipsia). Se è vero - sottolinea Porfirio - che le pra- tiche teurgiche sono capaci di purificare la "anima pneumatica," esse tuttavia non possono operare il completo ritorno dell'anima a Dio, e possono essere pericolosissime in mano a ciarlatani (cfr. De regressu anim·ae). "Perciò l'uomo saggio e prudente si asterrà dal servirsi di sif- fatti sacrifici, mediante cui attirerà a sé cosi fatti dèmoni malvagi; si studierà invece con ogni mezzo di purificare l'anima, poiché quelli all'anima pura non si attaccano per la dissimiglianza da loro" (De absti- nentia, Il, 38). E dirà Sant'Agostino, commentando il De regressu animae; "Porfirio promette quasi una purificazione dell'anima, per mezzo della teurgia, ma con esitazione e con discussione in certo modo pudibonda. D'altra parte nega che tale arte offra a chi che sia la con- versione a Dio, sicché lo vedi... fluttuare fra alterne opinioni" (De civitate Dei, X, 9, 415). E qui non va scordato che Porfirio si era in gioventu formato in Siria, a Cesarea, ad Atene, ad Alessandria. Fu quella un'epoca in cui diffusissime erano le religioni misteriche, e, entro queste, le pratiche rituali magiche e teurgiche, particolarmente provenienti dall'ambiente siriaco, ma che si venivano incontrando e fondendo con le religioni della tradizione occidentale, in una trasformazione vicendevole, in una spiegazione dell'universo e del destino umano in termini diversi dai soliti, rispondente, per altro, alla nota, profonda crisi, traversata dal- l'Impero dal tempo di Commodo (180-192), successore di Marco Aurelio. E qui va ricordata l'importanza data da Settimio Severo (193-211) a Serapide egizia, ma ancor piu va ricordata la diffusione che in tutto 240    l'Impero, per un certo periodo dominato da imperatori di provenienza siriaca, per via materna, ebbe il culto del siriaco dio Sole (pensiamo a Caracalla, 211-217, e in particolar modo a Eliogabalo, 218-222, che vittorioso su Macrino, 217-218, per aiuto della madre Mesa, siriaca, sacerdotessa del Sole, come lo era stata Giulia Domna, moglie di Set- timio, impose in Roma il culto solare, con tutti i riti, i culti, le mera- viglie ad esso connesse). Sono, questi, dati che vanno tenuti presenti per rendersi conto da un lato della complessità di questo periodo e della difficoltà eh'esso presenta per intenderne le molte sfumature, richiami, allusioni, dall'altro lato per comprendere, tra il terzo e il quinto secolo, lo strutturarsi e il cristallizzarsi di piu correnti in scontri e incontri, determinanti alla fine una comune atmosfera culturale, ove già chiare sono le linee della cultura propria del Medioevo. Il notevole tentativo di Porfirio fu, dunque, entro la concezione di Plotino, di coordinare e dare un senso alle pratiche teurgiche e magiche, di rendere conto della funzione dei riti, dei culti, delle stesse credenze religiose, valide da un lato come avviamento per gli uomini comuni, dall'altro lato come avviamento alla filosofia. Entro questi termini, sem- bra, vanno considerate le ultime opere di Porfirio: il Commento agli Oracoli caldaici (gli Oracoli sono da lui piu volte citati e usati nel De regressu animae), uno scritto su Il Dio Sole (di cui si leggono vasti brani nel primo libro dei Saturnali di Macrobio), in cui, appunto, il siriaco Sole viene ad essere posto come il simbolo dell'unità vivente, sulla linea della tradizione del sole platonico e stoico, emergente dal- l'Uno, dall'Uno Dio Bene; e quella specie di breviario che è Gli slanci dell'anima verso l'intelligibile ('AcpopfLOCL 7tpÒc; -rli: V01)'t"OC) (una summa di regole plotiniane per ritornare dal sensibile all'Anima, all'Intelletto, a Dio, dapprima mediante una condotta di vita ascetica, poi mediante una sempre piu approfondita meditazione dell'anima su se stessa). Gli Slanci dell'anima furono scritti per gli addottrinati, per chi, attraverso la scuola, riceve la capacità di inserirsi nella catena degli eletti ispirati, per chi, purificatosi, ha la capacità di "conoscere se stesso" (non a caso Porfirio scrisse anche un'opera sul Conosci te stesso), di passare in un convertimento dell'anima a se tessa ad essere filosofo. E qui ha un particolare interesse la classificazione porfiriana delle virtu (il capitolo 32 degli Slanci, attraverso Macrobio, che ne dette un sunto nel Somnium Scipionis, ebbe non poca influenza sulla classificazione delle virtu, nel Medioevo): virtu civili ("fondate sulla moderazione delle paso;ioni esse consistono nel seguire ed obbedire alla ragione nei doveri attinenti alle azioni; sono dette l · Oli, perché riguardano la sicurezza del prossimo nella società; la saggezza si riferisce alla parte razionale, la fortezza all'irascibile, la temperanza consiste nell'accordo e nell'armonia della 241    parte concupiscibile con la ragione, la giustizia nel dovere di ciascuna parte nel comandare e nell'ubbidire"); virtu catartiche ("proprie del- l'uomo contemplativo..., sono le virtu dell'anima che si eleva, purifi- candosi, all'essere realissimo, e a cui si giunge mediante le civili; la prudenza, perciò, nelle virtu catartiche, consiste nel non opinare con- forme al corpo, ma nell'agire puro, cioè nel pensare con purezza; la temperanza consiste nel non aderire alle passioni; la fortezza nel non temere il distacco dal corpo, quasi sia un cadere nel vuoto e nel nulla; la giustizia si ha quando la ragione e l'intelligenza comandano senza trovare resistenza"); virtu intellettuali (''sono le virtu proprie del- l'anima intellettualmente attiva; in questo caso, la sapienza e la pru- denza consistono nella contemplazione di ciò che la mente possiede; la giustizia è il compimento della propria funzione, in quanto segue l'intelletto e opera conforme ad esso, la temperanza è una conversione interiore, verso l'intelligenza; la fortezza è impassibilità che si adegua a ciò che contempla e che ha natura impassibile"); virtu esemplari o paradigmatiche ("sono le virtu che esistono nella mente e sono supe- riori alle virtu dell'anima, delle quali sono gli esemplari, cosi come di questi le virtu dell'anima sono somiglianze...: qui la scienza è pru- denza, la sapienza è intelletto che conosce, la temperanza è conver- sione verso la propria interiorità, la giustizia è compimento del pro- prio dovere e la fortezza consiste nell'identità con se stesso, nel rima- nere sempre in interiore purezza mediante le proprie forze"). Scopo delle virtu civili è di imporre una misura alle passioni per agire conforme alle leggi di natura; delle catartiche è di svincolarsi completamente dalle passioni; delle altre è di agire secondo l'intelletto senza avere neppure il pensiero di separarsi dalle passioni; delle ultime infine non è piu quello di rivolgere il proprio atto verso l'intelletto, ma di toccare la mèta cun la propria essenza. Perciò chi agisce conforme alle virtu civili è uomo onesto; chi conforme alle virtu catartiche è uomo demonico o dèmone buono; chi conforme alle sole intellettuali è dio; chi conforme alle paradigmatiche è dio padre. Per questo dobbiamo occuparèi soprattutto delle catartiche cer- cando di possederle in questa vita e salire poi, attraverso queste, alle piu pregevoli... Anzitutto, base e fondamento della purificazione è conoscere se stessi... (Slanci, 32). Duplice è la morte: l'una, la piu nota, si ha quando l'anima si scioglie da~AArpo: non sempre l'una segue l'altra...; e l'anima si lega al corpo quando si volge alle passioni che derivano da esso; da esso si libera allorché non è piu toccata da quelle (Slanci, 9 e 7). Probabilmente composti al tempo in cui Porfirio frequentò Plotino in Roma, certamente frutto dell'attività scolastica, entro l'àmbito della discussione e del metodo plotiniani, sono i commenti di Porfirio ad 242   .alcuni testi di opere di Platone (Crati/o, Sofista, Parmenide, Timeo, Filebo, Convito, Pedone, Repubblica), ad uno scritto di Eubulo (Ricer- èhe platoniche), ad uno scritto di Teofrasto (Sulla affermazione e la negazione) d ad alcuni libri di Aristotele (Categorie, ivi compresa l'Introduzione o lsagoge alle Categorie; De interpretatione, ivi com- presa l'Isagoge ai Sillogismi categorici; Fisica; libro XII della Meta- fisica; Etica; alcuni passi dell'Anima relativi all'entelechia). Se non poco indicativi sono i dialoghi platonici presi in discussione, altrettanto indicativa della funzione assunta dalla filosofia di Aristotele nell'àm- bito del platonismo di Plotino e di Porfirio, è la scelta dei libri di Aristotele. La Fisica e il XII libro della Metafisica (il libro su Dio: cfr. sopra, I vol.) potevano benissimo servire da introduzione a inten- dere lo strutturarsi della realtà dall'Uno platonico, l'Etica da introdu- zione a intendere le virtu civili, catartiche e intellettive, mentre le Categorie e il De interpretatione, se assunti nel loro aspetto formale- grammaticale - e qui Porfirio, riprendendo le fila della lunga discus- sione e del conflitto sulle categorie aristoteliche nel campo del plato- nismo nel n secolo, polemizza con Plotino che, interpretando le cate- gorie contenutisticamente, le negava, sostenendo di contro la validità dei cinque generi del Sofista platonico- servivano come introduzione al "saper pensare," come condizioni che permettono il ragionamento entro l'àmbito dell'Intelletto-intelligibile, donde poi, platonicamente, dedurre le strutture logiche che rendono pensabile la realtà (non a caso Porfirio, riprendendo l'uso logit:o, non ontologico, dei predicabili o categorumeni di Aristotele - genere, specie, differenza, proprio, acci- dente, - interpretati come possibili predicati della sostanza, insiste sul valore verbale - vox - di queste cinque voci, pénte phonai, soste- nendo che esse riguardano il discorso, non le cose, ché il genere, la specie e cosi via sono appunto categorumeni e non cose: cfr. lsagoge, I). Di qui il celebre passo dell'lsagoge (Prefazione), in cui si dice: "lo non dirò circa i generi e le specie se esistano in sé, ovvero se siano semplici pensieri; se siano corporei o incorporei, se separati dai sensibili o posti in essi." I generi e le specie servono come condizioni verbali che per- meaono il discorso ed entro esso la deduzione, l'analisi, per cui, pren- dendo come punto di partenza l'essere (nulla è definibile senza· il verbo essere, e perciò a fondamento di ogni definizione si pone il genere sommo, generalissimo che è la "sostanza"), si può da esso dico- tomicamente discendere (fu su questo testo porfiriano, in lsagoge, 4, 20, che venne ordinato lo schema di definizione per dicotomie suc- cessive, andato sotto il nome di albero di Porfirio. Sostanza: corporea- incorporea; sostanza corporea: corpo animato-corpo inanimato; corpo animato: sensibile-insensibile; corpo animato sensibile; ragionevole-irragionevole; animale ragionevole: mortale-immortale;,animale ragione- vole mortale: Tizio, Caio, Sempronio e cosi via). ' Lo sforzo di Porfirio, il suo intento, e la sua risposta, attraverso Plotino, alla piu viva problematica del stili tempo - Porfirio fu sensi- bilissimo alle piu varie influenze e correnti, cercando sempre di render- sene conto - fu quello di dare un ordinamento ad ogni aspetto del sap~re: da quello pratico-civile, risolventesi nelle religioni, nei culti, nei riti, nelle pratiche magico-teurgiche (se bene intese), nelle leggi scritte, a quello logico-filosofico (certi aspetti dell'aristotelismo) e morale (Platone, certo stoicismo), facendo centro sul motivo piu schiettamente plotiniano dell'anima-consapevolezza, e sul ritorno dell'anima all'Uno, da cui tutto ha luogo, prospettando una filosofia universale, in una universale pacificazione. Si capisce cosi da un lato la sua simpatia umana per la figura del Cristo (almeno prima del suo incontro con Plotino, al tempo in cui conobbe e frequentò Origene a Cesarea: cfr. Bidez, cit., p. 13), dall'altro lato la sua polemica contro i Cristiani (Contro i Cristiani, in 15 libri, composta, sembra, dopo il 270, al tempo dell'imperatore Aureliano), sia teoretica (sul piano di Celso, ove particolarmente si discute l'assurdo di un Dio persona e volontà, creatore, che può fare tutto quello che vuole, l'assurdo dell'uomo per sé centro e valore nella sua individualità, l'assurdo della resurrezione.dei corpi), sia filologica (sostiene l'inautenticità dei libri di Daniele, le contraddizioni storiche tra i Vangelt), sia morale (contro l'intol- leranza, l'unilateralità del Cristianesimo e il suo fanatismo, contro la sua negazione della cultura e della filosofia: il Cristianesimo, come le altre religioni, gli altri riti, le altre pratiche magiche e teurgiche, fun- zionerebbe per la massa, per i poveri di spirito, come momento del- l'ascesa dell'anima alla filosofia e all'Uno), sia politica (il Cristianesimo spezza l'unità culturale e religiosa, la possibilità di raccogliere, in vista dell'Uno tutto, le varie religioni e culture'di provenienze diverse, orientali e occidentali, che potrebbero costituire l'unità pacifica del- l'Impero, in funzione di quella filosofia universale di cui si parlava). Nell'intricata storia della cultura e della formazione di idee e di ideologie di questo tempo non si può non tenere nel debito conto l'altrettanto intricata e complessa storia politica dell'Impero nel I I I se- colo. Il tentativo di Porfirio, sulla fine del III secolo di articolare in unità, in funzione di un'unica filosofia, religioni, culti, concezioni diverse, in nome di un'unità trascendente all'interno, che fosse ad un tempo di base all'unità religiosa e all'unità politica, è un tentativo non poco indicativo. In realtà egli rispondeva a quella stessa esigenza di salvazione dell'Impero che muove un imperatore, come Aureliano, a 244    proclamarsi dio assoluto, riprendendo i motivi dell'elioteismo. La crisi dell'Impero non fu soltanto militare-politica ed economica, ma anche, ad un tempo, e per le stesse ragioni, ideologico-culturale. Dopo Marco Aurelio, particolarmente (sia sotto la dinastia dei Severi: Settimio Severo, Caracalla, Macrino, Eliogabalo, Severo Alessandro, ucciso nel 235 vittima di una congiura militare capeggiata da Massimino che divenne imperatore per due anni; sia nel periodo della cosiddetta anarchia militare: Gordiano, Filippo l'Arabo, Decio, Valeriano, Gal- lieno, ucciso nel 268; sia sotto i cosiddetti imperatori illirici, tesi alla restaurazione dell'unità dell'Impero: Claudio Il, Aureliano, Claudio:racito, Aurelio Caro, Carino e Numeziano; sia durante il periodo che va da Diocleziano a Costantino), si vede bene che il conflitto non fu ta.nto tra Roma e i barbari· (che premevano sia al nord sia in oriente) quanto di Roma con se stessa, sia a causa della trasformazione della città-Stato di. Roma in un complesso di popoli diversi, sia a causa di un non ancora precisatosi concetto di Stato (donde il persistente conflitto tra imperatore e senato), sia a causa della stessa civilizzazione e romanizzazione dei barbari. Il conflitto fu in effetto un con- flitto tra il vecchio mondo, la vecchia concezione e una realtà di fatto, nuova, dovuta a quello stesso mondo che aveva costituito l'Impero, e che nell'incontro di civiltà diverse, di religioni e culture diverse, ten- deva ora (la provincializzazione dell'Impero - ricordiamo la Consti- tutio Antoniniana, 212-213, di Caracalla -, con la conseguente esau· torazione dell'Italia e del Senato, è un indice) a trasformarsi, sia pure a prezzo di un imbarbarimento, com'è stato detto, accogliendo in sé, appunto, e in sé risolvendo gli aspetti piu vari, in una "nuova Roma." Di qui il conflitto tra momenti in cui si è voluto restaurare la "roma- nità" (sempre allorché vi sia stato un accordo tra imperatore, anche se l'imperatore non era italico, e Senato, o l'imperatore sia stato senato- dale o dell'aristocrazia romana)t e momenti in cui (allorché gli impe- ratori, soprattutto gli imperatori scaturiti dall'esercito, o "barbari," abbiano teso ad eliminare il Senato dal giuoco politico-militare) si è voluto determinare la possibilità di un impero universale. Per tale impero universale, dal punto di vista legale, valeva pur sempre la concezione stoico-ciceroniana del diritto natura~e (cfr. sopra), come si vede nei grandi giutisperi~i del III secolo, entrati in conflitto con il potere assoluto e personale del sovrano: il siriano Papiniano, Ulpiano di Tiro, Giulio Paolo, Erennio Modestino. E di tale Impero, l'impe- ratore doveva essere l'espressione che ne garantisse l'unità, accogliendo in sé tutti i possibili aspetti e le possibili esigenze. Si capisce, in tal senso, che se piu dure furono le persecuzioni contro i Cristiani (Decio: 251-252; Valeriano: 253-260), allorché ebbe il sopravvento la politica 245    di alleanza tréll imperatore e Senato, merio dure, talvolta inesistenti furono le persecuzioni contro i Cristiani, allorché prevalse la politica, per cosi dire, interbarbarica (si pensi, ad esempio, alla politica di un Filippo l'Arabo e di un Gallieno), almeno fin quando si credette di poter riassorbire il Cristianesimo entro i termini della funzione data alle altre religioni (teosofiche, magico-teurgiche, solari); altrimenti i Cristiani furono perseguitati, non tanto per le loro dottrine, per la loro fede, una tra le tante, fosse essa la tesi neoplatonica, o gnostica, o manichea, o quelle soteriologiche teurgiche e magiche, solari, prove- nienti dalla Siria, quanto perché la loro concezione, il loro concetto del rapporto tra gli uomini e dell'autorità dell'unica Chiesa (Stato nello Stato), la loro pervicacia mettevano in pericolo l'unità dello Stato stesso (si ricordino le persecuzioni avvenute sotto Aureliano, 270-275, e l'ultima sotto Diocleziano, 285-305). D'altra parte, soprattutto nelle province orientali e quando lo stesso imperatore persegui la politica della "nuova Roma," il contrasto tra Cristianesimo e cultura classica si svolse soprattutto sul piano teoretico, sul piano delle scuole, in una opposizione tra "filosofie." In tali periodi, anzi, dalla fine del n secolo al Concilio di Nicea (325), notiamo in seno alle stesse scuole cristiane conflitti teoretici, discussioni sul rapporto Dio-mondo, sull'unità-trinità di Dio (il problema trinitario), sulla vera natura del Cristo (il pro- blema cristologico) in un incontro e in una discussione con le tesi platonico-neoplatoniche e stoiche e, spesso, in una rottura interna tra comunità e comunità cristiane e in passaggi di pensatori dal Cristiane· simo alle soluzioni razionalistico-platoniche o irrazionalistico-teurgiche neoplatoniche, e di platonici alla soluzione volontaristico-personalistica del Cristianesimo. Un Origene, ad esempio, vissuto a cavallo tra il n e il m secolo, discepolo, in Alessandria, di Clemente, suo prosecu- tore nella scuola catechetica di Alessandria, maestro poi in Cesarea, poteva benissimo ascoltare, ad un tempo, le lezioni di Ammonio Sacca, discutere il platonismo, interpretare quel platonismo al lume della tesi cristiana; mentre un Longino, filologo, rètore, platonico, poteva da Atene recarsi, insieme al vescovo Paolo di Samosata, presso la corte della regina Zenobia di Palmira, vedova di Odenato, che, al tempo dell'imperatore Gallieno, aveva costituito un principato al confine orien- tale con Roma, ch'ella cercava di organizzare entro i termini di una cultura che rispondesse alle piu vive esigenze (e non solo il vescovo Paolo, ma anche Longino caddero vittime della restaurazione romana in Palmira, riconquistata. da Aureliano). E non a caso Porfirio, ricor- dando il suo giovanile incontro con Origene, poteva sostenere che, se diversi erano i punti di partenza, le soluzioni relative alle condizioni che permettono di pensare la realtà, e, perciò anche, le conclusioni, in 246    realtà tutti, nelle scuole di Siria e d'Egitto - fossero essi cnst1ani, o platonici, o gnostici - erano mossi dalle stesse esigenze, discutevano e leggevano gli stessi testi: "Origene viveva leggendo Platone; le opere di Numenio, Cronio, Apollofane, Longino, Moderato, Nicomaco, e quelle dei pitagorici illustri gli erano familiari; egli si serviva anche dei libri dello stoico Cheremone [attraverso cui lo stesso Porfirio aveva appreso i misteri egizianiJe di Cornuto; attraverso essi egli si iniziò a questa interpretazione allegorica dei misteri dei Greci, di cui applicò il metodo alle Scritture degli Ebrei" (in Eusebio, Hist. ecci., VI, 19, 7). Di qui, anche, in seno alle comunità delle varie province, un rompersi dell'unità delle varie chiese, il contrasto con la Chiesa ufficiale, gli scismi, che mettevano in pericolo l'universalismo, il cattolicesimo della Chiesa, la sua pretesa d'essere l'unica religione, l'unica via alla salvezza dell'uomo - donde da parte della Chiesa, di nuovo, il contrasto con lo Stato, il tentativo della riorganizzazione gerarchica della Chiesa (ad esempio Cipriano2), e dell'assorbimento da parte del Cristianesimo della cultura classica, da risolvere appunto entro i termini della nuova "concezione." Di fatto, intanto, particolarmente nel III secolo, la fede cristiana si estendeva sia tra i semplici, sia tra ì signori e gl'intellet- tuali, e all'esigenza universalistica e pacificatrice, in mezzo a lotre, ron- trasti, al rovesciamento dei vecchi valori, poteva sembrare che rispon- 2 Cecilia Cipriano, •oprannominato Tascio, nacque a Cartagine, nel 210 circa. Dopo aver seguito un accurato e completo corso di retorica, insegnò retorica e fu valente e celebre avvocato. Per influenza del venerabile prete Ceciliano, nel 245 si converti al Cristianesimo. Ancora noefita, nel 249. alla morte del vescovo Donato, fu eletto vescovo di Cartagine. Nel 25u, al principio della persecuzione di Decio, Cipriano abbandonò Cartagine, rifugiandosi nei pressi della città. Rientrato in Cartagine nel 251, il vescovo dovette affrontare la questione dei lapsi, che, con molto equilibrio e tatto, riusd a risol- vere; nel 255 un lungo dibattito sulla questione del valore del battesimo dato dagli eretici, divise Cipriano dal Papa Stefano. Nel 257, a causa della persecuzione di Valeriano, Cipriano venne esiliato a Curubis. Richiamato nel 258, Cipriano si presentò alle autorità e avendo dichiarato d'essere cristiano e di rifiatarsi di sacrificare, venne condannato a - morte per decapitazione. "Lapsi" furono detti quei Cristiani che per sfuggire alla perse- cuzione, dinanzi alle autorità che chiedevano loro se fossero cristiani rinnegavano la loro fede, facendosi rilasciare un libretto di attestazione, onde furono detti anche Jibeilatici. Pas- sata la persecuzione, molti lapsisti chiesero di essere riammessi nella wmunità. Ne sorse una grave controversia. Novato e Felicissimo, aderenti allo scisma di Novaziano, propu- gnavano, di contro agli intransigenti, una assoluta tolleranza. Cipriano, in nome dell'unità della Chiesa, lottò per una moderata intransigenza. Intransigente, invecl!, egli fu nella questione se fosse valido o no il battesimo impartito dagli eretici. Cipriano lo ritenne invalido e la sua tesi fu approvata da tre sinodi tenuti a Cartagine nel 255 e nel 256.. La maggiore opera di Cipriano, composta nel 251, contro Felicissimo e il partito dei lapsisti è il De Catholicae ecclesiae unitate. Di Cipriano si conservano inoltre: Ad Donatum (opuscolo sul valore della fede cristiana); De habittl virginum; Testimoniorum lrbri tres ad Quirinum; De lapsis; De zelo et livore; De mortalitate; Ad Demetrianum;.4d Fortu- natum de exhortatione martyrii; De opere et elemosynis_; De dominica oratione; De bono patientiae. Importante per la storia religiosa è l'Epistolario di Cipriano (sessantacinque let- tere scritte da Cipriano e sedici lettere dirette a lui). 247    desse il Cristianesimo nel suo aspetto piu semplice e fideistico, nella sua capacità di non servire solo a una élite culturale e di filosofi, molto meglio che non l'universalismo filosofico, stoico o neoplatonico che fosse, o certe religioni di mistero, teosofie, e via di seguito. Di tale situazione storica, di fatto, ben si rese conto Costantino, che, com'è noto, credette di poter risolvere quell'unità universale dell'Impero di cui parlavamo, non piu mediante la tesi stoica (Marco Aurelio), o neoplatonica (Porfirio), o elioteistica (Aureliano), ma attraverso la con- cezione cristiana, facendo divenire cristiano l'Impero, ch'era in effetto la fine dell'Impero romano e la concreta premessa dei futuri conflitti politico-giuridici tra Stato e Chiesa. La Chiesa, per la sua stessa strut- tura, non poteva non divenire Stato (e Costantino credette di poterne essere lui l'imperatore, il sacerdote). Non potevano essere questi che accenni, ma necessari per rendersi conto dell'esigenza di considerare il formarsi della cultura sia della cosiddetta pagana, sia della cristiana, non per filoni separati, sempli- cisticamente opposti e indipendenti, ma in un ben piu complesso qua- dro, anche se assai fluido e difficile. È noto che Plotino, con l'aiuto dell'imperatore Gallieno e di sua moglie Salonina - essi, dice Porfirio, lo veneravano ed erano a lui molto affezionati - avrebbe voluto restaurare una città della Cam- pania, andata in rovina, in cui, datole il nome di Platonopoli, avrebbe voluto ritirarsi con i suoi compagni e discepoli, osservando le leggi platoniche (cfr. Porfirio, Vita Plotini, XII). "Questo progetto," seguita Porfirio, "sarebbe anche facilmente riuscito al filosofo, se taluni corti- giani, per invidia, avversione o altro indegno motivo, non vi avessero frapposto ostacolo." Si è molto discusso su questo breve testo porfi- riano; si è parlato di un preciso ideale politico di Plotino, e di una sua influenza diretta sulla politica di Gallieno. In realtà nulla docu- menta ciò, neppure il testo di Porfirio, il quale, in fondo, parla di affetto, di stima da parte di Gallieno e di Salonina per Plotino, si come per Plotino avevano stima e ne riconoscevano l'alto valore intel- lettuale e l'integerrima vita molti altri membri dell'aristocrazia e del Senato romani; non solo, ma Porfirio dice che in Platonopoli si sarebbe vissuto secondo le leggi platoniche, cioè, nel linguaggio porfiriano, seguendo una "vita platonica," una vita filosofica. "La città di filosofi, nel senso platonico," scrive il Pugliese-Carratelli, "che Plotino ha ideato, è concepita non come pratica attuazione di uno schema poli~ tico..., ma come una synoikesis di quelli che, veramente filosofi, si sono fatti cittadini della rt6Àtç ~v Myotç xe:t(.LtvYj. Il progetto plotinico acqui- sta cosf un altro significato e può trovare una piu soddisfacente solu- zione il discusso problema dell'atteggiamento di Plotino verso la poli- 248    ca. In dissenso dal Rudberg (Neuplatonismus und Politik, "Symbolae \rctoe," l, 1922, pp. 7 sgg.), l'Alfoldi (Vorherrschaft der Pannonier, in Funfundzwanzig fahre rom.-german. Kommission, Berlino, pp. 23 sgg.) ha recisamente affermato che nelle Enneadi ricorrono pro- posizioni circa la vita politica che sono in insanabile contrasto tra loro. Queste pretese contraddizioni si dissolvono, invece, quando si avverta, come si deve, che lo spirito di Plotino è orientato in senso perfetta- mente platonico e distingue quindi nettamente quanto attiene al sof6s e quanto agli altri uomini, lontani e non profondamente animati da quella 'v~::ra filosofia' che sola, come insegna Platone, conduce alla 6e:wp(oc (teoria)" (Pugliese-Carratelli, La crisi dell'Impero nell'età di Galliena, "Parola del Passato," 1947, p. 67). Egli [lo a1tou8oc"Loç] sa bene che duplice è la vita di quaggiu: l'una per i saggi, l'altra per il volgo; protesa, nei saggi, ad altezze di vette supreme, mentre negli uomini abituali è suscettibile, ancora, alla sua volta, di distin- zione: l'una fi?.emore della virtu, partecipa a un qualche bene; ma la turba degli sciocchi esiste solo, per cosi -dire, come -artigiana manuale di ciò che serve al bisogno dei superiori (È7tte:txéa-re:pm) (Enn. II, 9, 9, 77). Platonopoli, in realtà, resta un ideale, un rifugio, una città di saggi in conversazione, volti, per dirla con Porfirio, alle virtu intellettuali attraverso quelle "catartiche." Per le virtu civili e politiche resta que- st'altro mondo, il mondo, appunto, dello Stato, dell'Impero, che potrà salvarsi solo se sarà capace di divenire base, fondamento a quella supe- riore unità, alla città dei filosofi. Sotto quest'aspetto sembra esatta, rela- tivamente a Plotino e a Porfirio, l'affermazione di un tardo platonico, Olimpiodoro, indicante le due vie as~unte dal platonismo: "Alcuni hanno innanzi tutto onorato h filosofia, come Porfirio e Plotino...; altri, invece, l'arte ieratica [teurgia], come Giamblico, Siriano, Proclo e tutti gli ieratici" (Olimpiodoro, In Phaed., 123, 3 Norvin). Se Porfirio, nel suo plotinismo, si è particolarmente preoccupato dell'aspetto etico e purificatorio, con accenti, anche se in chiave plo- tiniana, schiettamente stoici, l'altro noto discepolo di Plotino, Amelio Gentiliano,3 sembra maggiormente volto ad approfondire l'aspetto teo- 3 Amelio, o Amerio Gentiliano ("il suo nome era propriamente Gentiliano, ma egli preferiva chiamarsi Amerio con la r sostenendo che gli conveniva trarre il nome da amèria [indivisibilità], anziché da amèlia [negligenza)": Porfirio, Vita Plot., 7), originario dell'Etruria, discepolo prima di un certo Lisimaco stoico, conosciuto poi Plotino, nel 246 circa, rimase con lui in stretti rapporti di discepolo e di collaboratore nella scuola, fino al 270 (poco prima della morte di Platino), quando si recò ad Apamea, in Siria, dove, probabilmente rimase a lungo, se fu detto poi Amelio di Apamea. "Amelio si 249    retico del maestro. Amelio, ongmario dell'Etruria, dopo essere stato discepolo di un certo Lisimaco (uno stoico), conosciuto Plotino, nel 246, rimase con lui in stretti rapporti di discepolo e di collaboratore nella scuola, fino al 270, quando si recò ad Apamea, in Siria, dove, probabil- mente, rimase a lungo, se fu detto poi Amelio di Apamea. Forse ad uso della scuola, egli, giorno per giorno, prese appunti delle lezioni di Plotino, commentandole e chiarendone il significato: raccolse cosi un complesso di sco/ii, divisi in cento libri (purtroppo perduti: sarebbero stati preziosissimi, insieme alla perduta edizione degli scritti di Plotino curata da Eustochio, per confrontarli con l'edizione degli scritti di Plotino a cura di Porfirio: avremmo meglio compreso il rapporto Uno-molti in Plotino). In un'opera dedicata a Porfirio, Amelio difese Plotino accusato di avere plagiato Numenio, chiarendo le differenze che, relativamente ai tre dèi, correvano tra i due, mentre, in due riprese, cercò di mostrare a Porfirio che secondo Plotino le Idee non esistono al di fuori dell'Intelletto. Certo, l'attenzione di Amelio, sotto l'influenza di Numenio, di cui egli ricopiò e ordinò i vari scritti, che conosceva a memoria, si volse, come chiaramente appare anche da Porfirio (Vita Plot., 3, 17, 18), a interpretare e a chiarire il rapporto Intelletto-intelligi- bili, il problema dell'Essere come unità vivente nella dialettica Intelletto- Idee. Egli cosi, secondo Proclo (In Tim., 93d), avrebbe, entro l'àmbito della seconda ipostasi (Intelletto), distinto, sotto l'influenza di Nume- nio, tre ipostasi: l'Essere che è (-tòv èlv-tot, tòn 6nta), che per essere dà essere a sé fuori di sé, le idee (-tòv ~xov-tot, tòn èchonta), che assumono essere, in quanto, contemplando l'essere, la propria fonte, si ricongiun- gono ad esso (-tòv.opwv-tot, tòn horònta), costituendo cosi il primo esserci dell'Uno, ipostasi del tutto, in una dialettica triadica. Di qui, rifacendosi a Numenio, Amelio chiariva il significato dato all'uno che è in quanto è due, o meglio che non è né uno né due, ma è tre, cir- colarmente, in una triadicità, che, poi, internamente all'uno, si molti- avvicinò a Platino durante il terzo anno della sua dimora romana, allorché Filippo era al suo terzo anno di regno, e vi si trattenne fino al primo anno del regno di Claudio: e furono cosl, in tutto, ventiquattro anni. Al suo primo giungere, serbava ancora l'atteg- giame&to mentale di Lisimaco; però superava tutti i suoi contemporanei per la laboriosità di cui dette prova, sia esponendo per iscritto quasi tutte le dottrine di Numenio, sia sunteggiandole, sia mandandone quasi a memoria la maggior parte. Compose, inoltre, gli Sco/ii dalle lezioni, e li coordinò in·cento libri circa, dedicati poi al suo figlio adot· tivo Ostiliano Esichio di Apamea" (Porfirio, Vita Plot., 3). Oltre i Gemo libri di Sco/ii alle lezioni di Platino (perduti), Amelio curò l'edizione degli Scritti di Numenio, scrisse un'opera Sulla differenza delle dottrine di Plotino eldi Numenio (per difendere Platino dall'accusa di avere plagiato Numenio: cfr. Porfirio, Vita Plot., 17: l'opera è perduta), un libro Contro le aporie di Porfirio (cfr. Vita Plot., 18), e quaranta libri Contro il libro di Zostriano. Perdute tutte le opere di Amelio, di lui non abbiamo che qualche frammento e testimonianza (cfr. Eusebio, Praep. ev., XI, 19; Proclo, In Timaeum, 205c, 93d, 226b, 249a; Stobeo, I, 49, 32 sgg.). 250    plica all'infinito, per ogni aspetto della realtà. Di triade in triade, per- ciò, in una deduzione numerica, si venivano ricostruendo tutte le strut-.ture della realtà in una moltiplicazione di ipostasi, intermediarie tra l'Uno e l'estremo limite della materia, simbolicamente dette divinità, e a cui, via via, si potevan6 in una interpretazione allegorica far corri- spondere le deità del pàntheon greco-romano e asiatico. Phanès, Oura- nòs e Cr6nos, riferiti all'Orfismo, vengono, ad esempio, interpretati come l'Uno, l'Intellett-O e l'Anima plotiniani, scoprendo cosi una teo- logia orfica, un senso riposto negli orfici, nei pitagorici, in Platone. E cosi, posta l'Anima del mondo come divinità, altrettanti dèi sono le anime che pullulano al di dentro dell'Anima universale, corrispondenti e tispecchianti·quegli dèi che sono nell'Intelletto, nel Cielo (gli astri). E se il tutto è, perciò, un essere vivente, articolantesi simpateticamente, e il tutto si ricostituisce di triade in triade, numericamente, tutto è retto dai numeri, si come ogni cosa è una divinità, anche i corpi, cri- stallizzazioni delle anime, momenti dell'Anima universale, momento dell'lntelletto, o L6gos, dio nell'unico Dio. Certamente l'autore di tutte le cose che esistono è stato il L6gos, che è eterno, come avrebbe detto Eraclito, il L6gos, che secondo il barbaro [Gio- vanni Evangelista] occupa presso Dio il posto e la dignità di principio, Dio esso stesso, per il quale tutte le cose sono state fatte e nel quale è stato creato ogni essere vivente:e la Vita stessa. Esso può anche unirsi a un corpo, rivestirsi di carne, prendere le sembianze umane, senza svelare tuttavia la grandezza della sua natura. E quando questa unione è disciolta, esso riac- quista tutti i caratteri della dignità e ridiventa Dio com'era prima di unirsi al corpo, alla carne, alla natura umana (Amelio, in Eusebio, Praep. evang., Xl, 19). Amelio, dal 270, si stabili ad Apamea, la patria di Numenio, in un ambiente, forse, piu consono alla ricostruzione e interpretazione ch'egli aveva dato di Plotino. Quando Amelio giunse ad Apamea, Giamblico,4 siriaco, nato a Calcide, aveva diciannove anni circa. Non sappiamo se, in Apamea, 4 Nato nel 251 circa, a Calcide, in Celesiria, Giamblico fu, dopo il 270, a Roma, alla Scuola di Porfirio (a Giamblico Porfirio dedicò il suo Intorno al "conosci te stesso," e per lui compose il !Utorno dell'anima). Giamblico, forse, conobbe, ad Apamea, Amelio, di cui, certo, subii l'influenza. Tornato in Siria, Giamblico, per lunghi anni, fino alla morte, avvenuta nel 325-326, insegnò ad Apamea, dove ebbe molti discepoli e seguaci. Seguitarono l'insegnamento di Giamblico, in Siria: Sopatro di Apamea di cui sappiamo che, divulgatore di Giamblico, scrisse un'opera Sulla provvidenza e m coloro che hanno fortuna o sfortuna oltre il merito, e che fu fatto condannare a morte da Costantino (nel 336 circa) e Dexippo (di lui resta un prezioso Commento alle Categorie di Aristotele): 251    Giamblico abbia incontrato Amelio, al quale, per altro, piu che a Porfirio (di cui sappiamo che Giamblico fu per ·.un qualche tempo discepolo in Roma - a Giamblico Porfirio dedicò il suo Intorno al "conosci te steuo," e per Giamblico compose il De regreuu animae) sembra che Giamblico si avvicini, particolarmente per la sua molti- plicazione degli intermediari tra l'Uno, l'Anima e la materia. Sap- piamo che Giamblico, tornato in Siria, per lunghi anni, fino alla morte (325-26) insegnò ad Apamea, ove ebbe non pochi seguaci, si che si è poi parlato di una scuola neoplatonica siriaca, di cui Giam- blico sarebbe stato il fondatore. Per Giamblico, come per Amelio, la realtà tutta, interiormente all'Uno, si costituisce, dall'Vno, di triade in triade: unità, dualità e un terzo termine medio che dialettizza l'uno e l'altro in una dinamica unità. Come da un punto centrale,- veniamo cosi ad avere una serie infinita di circoli concentrici, tutti nell'unico circolo che li raccoglie in una sola unità, in un solo centro, l'Uno, per ciò stesso ineffabile, che è e vive nel suo scandirsi nelle triadi. L'Uno, dunque, assoluto, oltre l'essere, oltre il bene, oltre tutto, si costituisce ed è in quanto Intelletto, termine medio tra l'Uno e la pluralità, emergente dall'In- telletto stesso, a sua volta uno in quanto unità delle idee in atto, mol- teplicità di idee (potenze, intelligenze), che in realtà, comprese, sono a Pergamo: Edcsio, discepolo di Giamblico, seguito poi da Eusebio di Mindo (alcune sue sentenze sono conservate da Stobco), Massimo di Efeso (morto nel 372: autore, secondo Simplicio, In Catcg., I, 15, di un Commefllo alle Categorie di Aristotele, amico di Giuliano Imperatore), Crisanzio, Prisco (poco piu che nomi), Eunapio (la maggior fonte per l'a biografia dci ncoplatonici: di lui si conserva la preziosa Vita dci sofisti, in cui tratta della vita di 23 pensatori, c una Cronaca che va dal 270 ai primi anni del V secolo). Scolarca della scuola neoplatonica di Cappadocia fu Eustazio, discepolo di Giamblico. Altro noto discepolo di Giamblico, che, in Roma, aveva ascoltato anche Porfirio c che ebbe, poi, notevole influenza sulla formazione delle scuole ncoplatoniche di Alessandria e di Atene nel V-VI secolo, fu Teodoro di Asine, detto, da Proclo (In Tim., 341d), il "grande." Teodoro, su testimoniaaza di Proclo (In Tim., e in Rcmp.) e di Olimpiodoro (In Phaed.), avrebbe commentato testi platonici (Timco, Repub- blica, Pedone), e aristotelici (gli Analitict). Di Giamblico si sono conservate le seguenti opere: Vita pitagorica (è il I libro di un'opera intitolata Sillogc delle dottrine pitagorichc); Protrcttko alla filosofia (è il II libro della Sillogc: nel capitolo 20 del Protrcttico Giamblico riporta un lungo passo di un autore ignoto, forse un sofista scettico del v-IV sec. a.C.; il passo è andato sotto il nome L'anonimo di Giamblico); La comune scienza matematica (attribuito a Giam- blico, avrebbe costituito il III libro della Sillogc); Introduzione all'aritmetica di Nicomaco (attribuito a Giamblioo, avrebbe costituito il IV libro della Sillogc); Thcologumcna arith- mctièac (attribuito a Giamblico, avrebbe costituito il VII libro della Sillogc) (perduti sono i libri V, VI, VIII-X della Sillogc); Dc mystcriis Acgyptiorum (si discute se sia di Giam- blico o opera della sua scuola). Giamblico avrebbe inoltre scritto (di queste opere sono giunti solo frammenti e notizie): Commento agli Oracoli Caldaici (framm.); Dc diis (fonte dell'Inno al Sole di Giuliano e degli Dèi di Sallustio: cfr. Macrobio, Saturn., I, 17-23); Dc anima (framm. in Stobeo); Dc imaginibus (Fozio, Bibl., 215); Dc dcsccnsu animac (framm.); Commento aii'Aicibiadc I di Platone. 252    molteplici nell'unità dell'Uno intelletto (l'Intelletto è perciò: Padre, Potenza, Intelletto). I tre fondamenti (ipostast) dell'intelligibile sono, dunque, lo stesso Intelletto nella sua unità (mondo delle idee: x6a!J.OI; V01J-r6~;, k6smos noetòs), le intelligenze o potenze (x6a!J.OI; V01Jp6ç, k6smos noeròs), idee rappresentazioni dell'intelletto, e l'Intelletto in quanto intellezione dell'unità-molteplicità dell'Intelletto. Il terzo ter- mine delhi triade intelligibile, l'Intelletto, in quanto consapevolezza della Unità vivente intelletto-intelligenze, racchiude in sé la vitalità intellettuale, l'Anima del tutto, a sua volta una-molte-una. Veniamo cosi ad avere un mondo intelligibile (x6a!J.OI; V01J-r6~;) ed entro questo, da esso distinto, un mondo intellettuale (x6a!J.OI; V01Jp6ç), che ritrova la sua unità vivente nell'Anima dell'universo, che nella sua unità-molte- plicità-unità si distingue in infinite anime (dèi), costituenti i modelli, le forze, le leggi del cosmo sensibile, uno e molteplice, fino alla natura una e molteplice. Giamblico determina cosi, entro l'Unità tutta, due mondi: il mondo. ideale, posto come condizione, in sé tutto in atto nel suo scandirsi, e relativamente ai limiti, alle definizioni, posto come termine ultimo; e il mondo della natura, procedente dall'altro e a sua somiglianza. Tra l'uno e l'altro mondo - in effetto un sol mondo - si pongono, termini medi, la triade dell'Intelletto e da essa una seconda triade, dal cui terzo termine emerge il mondo degli dèi intelligenze, da cui si costituisce una terza triade, da cui di seguito, scaturiscono, sempre dal terzo termine (unità-sintesi) di ciascuna, tre nuove triadi e da ultimo un'ebdomade (sette termini che raccolgono in sé gli dèi modelli dei sette pianeti) e cosi via; invisibili gli dèi del mondo ideale, essi divengono visibili nel mondo del sensibile e della natura, rispec- chiandosi, in immagine, negli astri luminosi, e di qui negli altri inter- mediari (angeli o messaggeri, dèmoni, eroi), fino alle anime degli uomini. Potremmo seguitare e vedere come Giamblico moltiplichi, sul piano del mondo visibile, gli dèi celesti (ad esempio i dodici dèi zodia- cali, che, costituitisi triadicamente, dànno luogo a •trentasei dèi, a loro volta moltiplicati per dieci, realizzantisi in trecentosessanta dèi), gli dèi interni al eielo, gli dèi delle nazioni e ·delle città, fino a divinità sempre piu limitate, affermazioni di' sé, che rompono l'unità sinfonica e concatenata (fatale) del tutto (sono questi i dèmoni malvagi, i cattivi geni, le anime disperse, decadute, che piu non somigliano al divino astro da cui pur discendono). Porfirianamente nella complessa costruzione di Giamblico venivano a trovar posto tutte le divinità di tutte le religioni, in un incontro che si risolve in una sola teologia, ed ove in realtà, gli dèi e i loro nomi hanno un valore simbolico, evocante i momenti, le leggi, gli ordini, le potenze in cui si scandisce il tutto. Plotinianamente perciò, il male 253    (donde i dèmoni malvagi) è mancanza d'essere, definizione e limita- zione dell'aniii1a, che, con questo, per cosi di-re, si sgancia dall'ordine, rompendo la catena, per cui quell'anima è come presa dal dèmone malvagio, c sempre piu si allontana dal proprio buon dèmone, dalla propria stella, non somigliando piu alla propria potenza. In altre parole, nella visione di un tutto, di un universo vivente, ove ogni termine richiama l'altro, l'uno risponde all'altro, l'uno scaturisce dal- l'altro e concresce sull'altro, in infiniti aspetti esistenti tutti nell'Unità compiuta dell'Uno, l'esistenza del male, il dèmone è, appunto, il rima- nere nel limite, il non morire a questa vita per rivivere nella piu vera vita che è la vita del tutto, perdendosi in essa. Sotto questo aspetto sembra chiaro in che senso, entro i termini dell'ordine tutto, della eterna armonia, Giamblico, rifacendosi a Nicomaco e a una certa tra- dizione pitagorica, possa sostenere che tutto ha il suo numero, che ciò senza di cui le cose non sono (ossia le leggi) sono numeri (e perciò le essenze, incorporee invisibili indivisibili incorruttibili, sono numeri). Di qui, in una interpretazione del Timeo platonico e delle pagine della Fisica aristotelica ove si discute dei luoghi e del tempo, si delinea la dottrina giamblichea del luogo divino (l'Uno che in sé raccoglie il tutto) e dei luoghi intesi come i limiti interni all'Uno, ove nell'ordine del tutto ciascuna cosa deve collocarsi, si che ciascuna cosa va al posto che le compete, attua la propria unità nell'Unità del tutto aspazide. E cosi, atemporale l'Universo tutto, atemporale l'Uno, il tempo con- siste nello scandirsi nell'Uno di tutti i suoi momenti, onde il tempo è, appunto, la misura del tutto (Anima del mondo), per cui, se ogni cosa, presa a sé, distinta, è nel tempo, ha il suo tempo, si come ha il suo luogo e il suo. numero, tutte le cose, colte nell'unità del tutto (il tempo dell'Universo, che sta al luogo divino) sono la temporalità, specchio e misura dell'atemporale Uno. E allora, come in un infinito unico specchio, ciascun punto dello specchio rispecchia da punti prospettici diversi se stesso, e ciascun punto prospettico, preso a sé, deforma la visione complessiva di tutto lo specchio, cosi le singole anime, le singole cose, se prese a sé, sono come visioni deformi di se stesse, specchianti il proprio specchio, nel- l'unità dello specchio. In un tutto articolato, e rispecchiante se stesso all'infinito, ogni aspetto richiama, seduce l'altro, anche se ogni aspetto non è l'altro, anche se i punti prospettici piu lontani rispecchiano depo- tenziatamente, in quanto v'è come una dispersione delle potenze, per cosi dire, invece, contratte al centro. Simbolicamente, dunque, tutto è costituito,. nell'Uno infinito, di dèi, che sono i momenti, le leggi, i numeri, le potenze del ritmo mediante cui necessariamente l'Uno esiste, mediante cui l'Uno in sé discorre, rispecchiandosi in ciascun numero, 254    in ciascun dio, dagli dèi intelligenze agli dèi astri, alle anime specchi di quegli astri e cosi via, in un depotenziamento che è tale prospetti- camente, ma che nell'Uno-tutto è concentrazione di assoluta potenza. Filosoficamente, allora, si può, traducendo il tutto in termini matema- tici e geometrici, ricostruire da un lato mediante linee e figure, dal- l'altro lato mediante proporzioni i necessari rapporti, la fatale catena che il tutto lega necessariamente. Sotto questo aspetto, magia e astro- logia, se condotte su di un piano matematico-geometrico, sia pure nella difficoltà dei calcoli e nei possibili errori, sono scienze esatte. Solo che al calcolo, alla ricostruzione delle proporzioni, sfuggirà sempre da un lato l'unità vivente, la sintesi costituente l'unità dialettica di ogni triade, dall'altro lato sfuggirà la molteplicità della vita, la dispersione delle potenze nel fluire della materia, il segno divino, sia pur depotenziato, che si specchia in questa o quella cosa dispersa. Se, relativamente all'Uno, i limiti, le determinazioni sono via ·via, entro l'Uno, un allontaiJ-amento e una separazione delle potenze, in un conseguente rispecchiarsi e riflettere sempre piu opaco, sino alla fluidità della materia, il ritorno all'Uno delle anime sarà possibile ricomponendo quella dispersione, rifacendola una nell'Anima. Da un lato, dunque, il ritorno all'unità lo si può avere in una ricomposizione della molteplicità nell'unità, rintracciando l'unità-molteplicità per via geometrico-numerica, in una sistemazione che, tuttavia, pur cogliendo le proporzioni e i legami che articolano il tutto nell'Uno, rimane sem- pre un sistema, diciamo cosi, esterno, disegnato; dall'altro lato, invece, il ritorno all'unità, cogliendone la vita, cioè l'unità vivente non piu solo esteriormente ma interiormente, si ottiene per altra via, che non è quella logico-matematica, che, se coglie il sistema esteriormente, non ne afferra la vita né salva l'anima una nell'unità divina. Per questa seconda via, cui pur si giunge attraverso la prima, l'anima rifà proprie le potenze disperse e rintraccia i segni opachi, operando sulle cose, riconducendole a sé, e con ciò riconducendo sé sotto il segno di una potenza superiore; immedesimandosi in essa, l'anima torna all'Uno e in esso e con esso diviene libera per la stessa necessità dell'Uno onni- potente. Sotto questo aspetto sembra chiaro in che senso Giamblico ponga la ricerca su due piani integrantisi: il piano della ricerca geometrico- aritmetica che coglie la struttura estrinseca e intellettuale della realtà, e che ha una sua funzione protrettica e necessaria per avviare ad oltre- passare il sistema, a rifare propria la vita e il senso della realtà; in ogni cosa rintracciando il suo segno, in una concentrazione di potenze evocanti, per imitazione, la relativa superiore potenza. Ed è questo il piano della magia e della teurgia, della "filosofia," intesa appunto 255    come scienza che coglie il mistero della vita, e come dominio, nella comprensione del tutto vivente, di tutte le cose. In tale senso Giam~ blico rovescia il rapporto magia-teurgia-riti'e filosofia di Porfirio; il rapporto viene ad essere l'opposto: l'aritmetica, la geometria, la filo- sofia come rintraccio del discorso della realtà (logica) sono il presup- posto della piu vera "filosofia" che è la teurgia e la magia astrologica. "Non è il pensiero," si legge nel De mysteriis, andato sotto il nome di Abbamone, ma attribuito da Proclo e da Damascio a Giamblico, "non è il pensiero che congiunge i teurgi agli dèi; perché allora che cosa impedirebbe ai filosofi contemplativi il godimento dell'unione teurgica con gli dèi? Le cose non stanno cosf: l'unione teurgica si raggiunge soltanto grazie all'efficacia degli atti ineffabili, compiuti nel modo adatto, atti che superano ogni comprensiQne e grazie alla potenza dei simboli indicibili, compresi unicamente dagli dèi... Senza nessuno sforzo intellettuale, da parte nostra, i simboli (auv&/j!J.OtT«, synthèmata), per virtu loro compiono l'opera che è loro propria" (De myst., 96, 13 Parthey). Che, d'altra parte, la teurgia di Giamblico non consista nella volgare credenza nelle oscure capacità del mago di costringere gli dèi e le forze occulte al proprio volere, ma rientri nell'àmbito della magia plotiniana, per cui è l'anima che ritornando in se stessa domina sé fuori di sé, in sé e nelle cose concentrando le potenze disperse, per cui rintraccia la superiore potenza; rifacendosi ad essa simile, onde piuttosto - attraverso le tecniche teurgiche - l'anima viene chiamata dal proprio dio, ciò è chiaro nel seguente testo del De mysteriis. A Por- firio, il quale aveva sostenuto che le XÀ~ae:tç (klèseis, invocazioni) dei teurgi, le preghiere con cui si attira su di sé la luce divina (De myst., 40, 17) sono atti di costrizione che implicano che gli dèi 'siano passibili (t!L7tat&dç, empathèis) come i dèmoni, Giamblico risponde che non è vero. Gli dèi non si lasciano affatto violentare, ma è l'anima che puri- ficandosi, che rientrando in sé domina sé malvagia, dispersa, il dèmone, e che facendosi simile al proprio dio è, in effetto, da lui chiamata: Che ciò di cui ora parliamo sia salutare all'anima, lo dimostrano i fatti stessi, con evidenza. L'anima, infatti, quando contempla i felici spettacoli, acquisisce una nuova vita e opera in virtu di un'arcana forza, si che nep- pure piu sembra, giustamente, un uomo. Spesso anche, avendo respinto la propria vita, l'anima ha ricevuto in cambio la infinitamente beatifica forza degli dèi. Se, dunque, l'ascesa ottenuta con le nostre preghiere procura ai sacerdoti la purifìcazione dalle passioni, la liberazione da questo mondo. l'unione alla fonte divina, come dire che tutto questo implica una passività degli dèi? Non è vero che queste specie di invocazioni attraggano con la forza gli dèi impassibili e puri nel passivo e impuro mondo; al contrario, tale ascesa fa di noi, che a causa della generazione siamo nati passivi, esseri 256    puri ed immobili (De myst., I,:12, 41, lO sgg.: cfr. in Festugière, La Révc· lation, cit., III, pp. 173-4). Aveva detto Plotino: Io credo che gli antichi saggi [ot 7tilÀocL (J6(jlOL: gli esperti dell'arte sacra], che, nel desiderio di avere tra loro presenti gli dèi, drizzarono templi e statue, mirando alla natura dell'universo, intuirono nel loro spirito che l'Anima si lascia facilmente attrarre dappertutto, ma che sarebbe stata la piu facile di tutte le cose trattenerla addirittura, qualora l'uomo avesse costruito qualcosa di affine e impressionabile, atto ad accogliere una qualche parte di anima. Ma impressionabile è, appunto, l'imitazione - comunque riuscita - la quale, proprio come uno specchio, sa rapire almeno un po' di figura (Enn. IV, 3, 11). Dirà Proclo: Gli antichi saggi, riferendo una cosa di quaggiu a un essere celeste, un'altra a un altro, portavano le potenze divine fino alla nostra dimora mor- tale, attirandole mediante la somiglianza, perché la somiglianza è abbastanza potente da collegare gli esseri gli uni agli altri... I maestri dell'arte ieratica [teurgi] hanno scoperto, in base a quello che avevano sott'occhio, il modo di onorare le potenze superiori, mescolando taluni elementi, e altri togliendone in misura appropriata. Se mescolano è P<:rché hanno osservato che ognuno degli elementi separati possiede qualche proprietà del dio, ma non basta per evocarlo; cosi, mescolando un gran numero di elementi diversi, uniscono le forze ricordate sopra, e con tale somma di elementi compongono un corpo unico simile all'unità precedente la dispersione dei termini. Cosi fabbricano spesso, con tali mescolanze, delle immagini e degli aromi, impastando in un medesimo corpo i simboli prima divisi, e producendo artificialmente tutto quello che la divinità comprende in sé per essenza, riunendo la molteplicità delle potenze che, separate, perdono ognuna la propria efficacia, e che, invece, riunite, si combinano per riprodurre le forma del modello (in Bidez, Catalogues des manuscrits a/chimiques grecs, VI, Bruxelles, 1928, p. 139: cfr. Festugière, lA Rével., cit., I, Parigi, 1944, pp. 134 sgg.; anche Garin, Le elez. e il probl. dell'astr., cit., pp. 19 sgg.). Tra Plotino e Proclo v'era stata l'opera e l'insegnamento di Giam- blico, la sua interpretazione degli oracoli caldaici (commento agli Oracolt) e il significato da lui dato alle tecniche e alle pratiche teur- giche, alla filosofia'Come mistero (De mysteriis), con cui si compie, in senso plotiniano e porfiriano, quella "conversione" dell'anima su se stessa (si confronti anche di Giamblico il trattato sulle varie conce- zioni intorno all'anima: De anima) con cui avviene, oltre la ragione, I"unione mistica, e a cui per altro si giunge attraverso una prima siste- 257    mazione dei rapporti mediante i quali il tutto si articola in unità, e che consiste in una traduzione del tutto in termini geometrici e nume- rici, in un cogliere la numerabilità dei numeri delle cose. Giamblico proclamò se stesso pitagorico e teurgo· ·sostenendo che, appunto, la divina dottrina di Pitagora serve da introduzione alla filosofia, che la filosofia deve usare lo stesso metodo della matematica, attraverso i cui simboli si arriverà a cogliere, oltre la ragione, il mistero della vita (cfr. in tal senso il De vita pythagorica, il Protrepticus ad Philosophiam, e le tre opere matematiche attribuite a Giamblico: De cotnmuni mathe- matica scientia, In Nicomachi arithmeticam introductionem, Theolo- gumena arithmeticae). Plotino, Porfirio, Amelio (non si scordi ch'era etrusco e che in Etruria sviluppatissime erano le tecniche vaticinatorie) hanno costituito tre linee (Plotino, Porfirio, Amelio-Giamblico) interpretative del tutto, che, ora intrecciandosi ora separandosi, a seconda che si sia puntato di piu o di meno sul momento mistico-irrazionalistico e operativo (Amelio-Giamblico), o sul momento dell'anima come "coscienza" (Porfirio), hanno dato luogo a problematiche e a soluzioni diverse sia sul piano teoretico (visivo-contemplativo, relativamente al rapporto Uno-Intelletto), sia in funzione di questa o di quella "visione," sul piano dell'interpretazione.di certi testi di Platone, considerato in fun- zione di questa o di quella interpretazione del platonismo. Troppo scarsi sono i frammenti che possediamo delle opere degli immediati discepoli di Giamblico e dei seguaci di questi ultimi per potere determinare correnti precise, precise delineazioni di quelli che furono i "neoplatonismi" tra Giamblico ("neoplatonismo" siriaco, proseguitosi, "dopo Giamblico, con Sopatro di· Apamea e Dexippo; di Pergamo di cui fu caposcuola Edesio, discepolo di Giamblico; di Cap- padocia, con Eustazio), e il neoplatonismo rinnovatosi nella scuola di Atene con Plutarco di Atene {Iv-v sec.) e, attraverso Siriano e Dom- nino, culminato con Proclo (v sec.), e rinnovatosi nella scuola di Ales- sandria con Ierocle di Alessandria, discepolo di Plutarco. Certo, Eunapio (Iv-v sec.), autore di una serie di Vite di 23 sofisti e filosofi (Vita sophistarum), la maggior fonte per le biografie dei neoplatonici, pur propendendo per l'aspetto magico-teurgico di origine giamblichea, sot- tolinea che già tra i primi discepoli di Giamblico e di Edesio, alcuni ne avrebbero criticato il preponderante motivo della teurgia, divenuto in alcuni vera e propria ciarlataneria, trucco, teatralità. Eunapio, for- matosi nell'ambiente neoplatonico dei discepoli di ·Edesio, che, seguace di Giamblico, apri una scuola a Pergamo, dice appunto che secondo Eusebio di Mindo - vissuto nel IV secolo e del quale sappiamo che fu 258    discepolo di Edesio in Pergamo - la magia praticata da certi suoi condiscepoli è, in realtà, cosa da "squilibrati, che pervertitamente stu- diano certi poteri, che derivàno dalla materian e che in particolare bisogna tenersi alla larga - e cosi consiglia il futuro imperatore Giu-.liano - da quel "teatrale taumaturgo,n che è il teurgo Massimo di Efeso (cfr. Eunapio, Vit. soph., 474 sgg. Boissonade). Massimo, vissuto nel rv secolo, fu discepolo di Edesio, a Pergamo, insieme a Eusebio di Mindo, a Crisanzio - celebre P<:r la sua vita ascetico-mistica, - a Prisco, poco piu di un nome (per tutti cfr. Eunapio, Vit. soph.). Giu- liano non ascoltò Eusebio di Mindo e si rivolse, invece, proprio a Massimo di Efeso (cfr. Giuliano, Epist., 26), chiedendo a un tempo a Prisco di procurargli un Commento agli Oracoli caldaici di Giam- blico: "Sono avido di Giamblico," scrive Giuliano, "per la filosofia e del mio omonimo [cioè Giuliano, autore degli Oracoli caldaici] per la teosofia: gli altri, in confronto, non li considero affatto n (Epist., 12 Bidez). Sappiamo, per altro, che, quando Giuliano divenne Imperatore (361-363), e, com'è noto, tentò, di contro al prevalere della Chiesa cri- stiana, ufficialmente riconosciuta, di opporre alla religione cristiana una ideologia universalistica imperiale che salvasse l'Impero dall'essere assorbito dalla Chiesa, Giuliano nominò Crisanzio supremo sacerdote della Libia e fece di Massimo il proprio consigliere teurgico. Alla morte di Giuliano, Massimo fu perseguitato dalla reazione cristiana, tanto che si riusd a farlo condannare a morte sotto l'imputazione di avere cospirato nei confronti degli Imperatori (371). Se Crisanzio, Prisco e particolarmente Massimo hanno portato, come sembra, ad estreme conseguenze la funzione della teurgia e della demonologia, approfondendo, come risulta anche da Proclo, lo studio delle tecniche e delle pratiche teurgiche, i modi con cui evocare le divinità, e con cui operare sulla natura, i modi con cui richiamare nelle cose e negli uomini le potenze divine, suscitando nell'uomo l'esperienza di convertire sé nell'unità vivente del tutto, di sdoppiarsi e ricomporsi negli "spiriti,n nulla di preciso possiamo dire del loro maestro Edesio di Cappadocia, di cui sappiamo solo che fu discepolo di Giamblico ad Apamea e che poi insegnò a Pergamo (di qui la cosiddetta scuola neo- platonica di Pergamo). Demonologo e teurgo fu un altro discepolo di Giamblico, Eustazio di Cappadocia, che, dopo avere ascoltato ad Apa- mea Giamblico, tornò ìn Cappadocia ove apri una scuola (egli fu invi- tato da Giuliano imperatore alla propria corte: Epist., 76). Continua- tore diretto di Giamblico fu Sopatro di Apamea. Di lui poco o nulla sappiamo, se non che fu divulgatore di Giamblico, che scrisse un'opera Sulla provvidenza e su coloro che hanno fortuna o sfortuna oltre il merito, e che dapprima in rapporti con l'imperatore Costantino fu poi 259    fatto condannare a morte da Costantino, in Costantinopoli (Sopatro dovette quindi morire prima del 337). Tra i primi discepoli di Giam- blico fu Teodoro di Asine, che, in Roma, aveva ascoltato anche Porfirio. Del "grande Teodoro" (Proclo, In Tim., 341 d) Proclo riferisce che fu soprattutto un interprete e un commentatore di testi platonici (Timeo, Repubblica, Pedone: cfr. Proclo In Tim., In Remp.; Olim- piodoro in Phaedon; secondo Ammonio di Ermia, Teodoro avrebbe commentato anche gli Analitici di Aristotele: Ol4npiodoro, Sugli Ana- litict), considerati al lume della ricostruzione triadica di Amelio e di Giamblico, nel tentativo di offrire, per via allegorica, un tutto com- piuto ove trovassero posto le piu diverse esperienze religiose, nei ter- mini già illustrati da Porfirio. Per la discussione,. interna alle scuole sul numero dei demiurghi, da Amelio a Porfirio a Giamblico e a Teodoro, discussione che indica l'approfondimento dialettico della que- stione relativa al porsi dell'Uno e delle ipostasi, e che ebbe una forte influenza sull'analoga questione discussa in seno al Cristianesimo sul- l'unità-e trinità di Dio e sul rapporto tra Dio e le tre persone (non a caso dette, ad esempio, da Basilio il Grande ipostast), si confronti Proclo In Timaeum, 333-334. Particolarmente interessante, invece, per la storia delle interpretazioni delle Categorie aristoteliche il Com- mento alle Categorie di Dexippo, vissuto nel IV secolo, discepolo di Giamblico, in cui Dexippo, spiega dialogicamente a un certo Selemco il significato delle categorie, sostenendo, di contro a Platino e seguendo Porfirio, che le categorie hanno un valore formale e servono per intro- dursi a cogliere la dialetticità dell'Essere in senso plotiniano.Arnobio e LAttanzio. Costantino. Seguito o combattuto, inter- pretato sotto un certo angolo visuale (la questione del rapporto tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo) o sotto altro aspetto (particolar- mente quello della grazia e della redenzione), condannato per certe sue dottrine, considerate poi "eretiche" (l'apocatastasi, la subordina- zione del Figlio al Padre, l'Evangelo Eterno, o la esasperata interpreta- zione allegorica delle Sacre Scritture), o seguita la sua autorità in una interpretazione del Cristianesimo itt chiave neoplatonica, certo è che l'opera di Origene ha costituito uno dei perni su cui verranno ruotando le ulteriori elaborazioni, discussioni, sistemazioni della conce- zione cristiana. Senza dubbio, per altro, Origene, sia per la sua grande cultura nel campo classico come nel campo dell'esegesi biblica, ~ia per la sua capacità di avvertire i problemi, ha messo in chiaro quelli che erano i dubbi, le aporie, le difficoltà del Cristianesimo nel suo piu maturo incontro con le piu mature concezioni greche, mostrando ad un tempo i punti in cui l'accordo poteva precisarsi e i punti in cui il Cristianesimo si presentava come un'esperienza e una concezione irri- ducibili al metro della concezione classica. Sotto questo aspetto l'op..:ra di Origene, morto a Tiro nel 255, in seguito alle torture sofferte durante la persecuzione di Decio, serve anche a comprendere la pro- blematica, le aporie, le discussioni sul significato del Cristianesimo, che rintracciamo in opere, maturatesi al di fuori della diretta influenza di lui, ma non certo del neoplatonismo diffusosi nel mondo latino, non solo per la permanenza di Plotino in Roma, ma anche attraverso i diretti discepoli latini di Plotino. E qui pensiamo agli scritti degli afri- cani Arnobio e Lucio Cecilio Firmiano, soprannominato Lattanzio. Sotto questo aspetto, la curiosa opera di Arnobio/1 nato nel 255-260, il Nato a Sicca, nella Numidia (Africa proconsolare) tra il 255 e il 260, Arnobio fu maestro di retorica a Sicca per lunghi anni. Oratore famoso per la sua avversione al Cristianesimo, non poco stupl gli ambienti cristiani d'Africa la sua improvvisa con- 272    a Sicca, nell'Africa romana, I'Adversus Nationes (in sette libri, "lucu- lentissimi libri adversus pristinam religionem," composti dopo il 297), ha un notevole significato storico, pur nella sua tortuosità, nel suo faticoso andamento, nella sua mancanza di idee chiare sul piano dot- trinale-teologico, ebraico e cristiano. Arnobio, di famiglia non cristiana, rètore di fama e professore di retorica a Sicca, noto, in campo cri- stiano, per la sua ·dichiarata avversione nei confronti del Cristiane- simo, sembra, secondo il racconto di San Gerolamo (De viris ili., 79), che sia improvvisamente passato alla nuova religione. La conversione - si dice - fu dovuta a un/ sogno che lo illuminò sul significato della nuova concezione. Anche se il sogno è un aneddoto ed è simbolico, rivela che la tesi esplicata da Arnobio nella sua opera, cosi violenta, sino a divenire ingiusta, contro la filosofia e le religioni "antiche," su cui, d'altra parte, Arnobio dimostra di essere preparatissimo, ignorando, in- vece, le Sacre Scritture, è che la "conversione" non è frutto di insegna- mento, non è dimostrazione di una certa verità che convinca di errore, ma è dovuta ad un atto gratuito, miracoloso, extraumano. Arnobio scrisse I'Adversus Nationes per convincere il vescovo di Sicca che, diffidando della sincerità della sua conversione, era in dubbio se accoglierlo o no nella Chiesa. Ciò, evidentemente, indusse Arnobio a respingere con vio- lenza, in blocco, tutta la cultura classica, le antiche concezioni, senza uscire fuori da quella cultura e da quelle concezioni, usando anzi - egli rètore e dotto delle varie ipotesi e tesi della filosofia classica e delle varie forme religiose, ignorante della tradizione ebraico-cristiana - quelle stesse tesi e ipotesi in senso fiegativo per mostrarne la contradditto- rietà, l'insufficienza a dare un senso alla vita, l'illusione che all'uomo sia concessa una funzione nell'ordinamento del tutto. E qui s'innesta il significato piu profondo dell'opera di Arnobio: il suo pessimismo sull'uomo, "questa cosa infelice e misera, che si duole di essere, che detesta e piange la sua condizione e non intende di essere stato creato per altro, se non per diffondere il male e perpetuare la sua miseria" (Il, 46). Se anche l'uomo non ci fosse, il mondo resterebbe ugual- mente quello che è: Gli uomini in che cosa giovano al mondo e perché mai sono indispen- sabili?... Aggiungono qualche parte alla formazione della pienezza di questa mole e, se non fossero stati aggiunti, l'universo sarebbe forse zoppicante e versione (avvenuta nel 295-296 circa, a causa eli un sogno). Il vescovo di Sicca, per pru- denza, temendo una finzione, resistendo alle preghiere del convertito, non volle sulle prime ammetterlo tra i catecumeni. Arnobio, allora, a prova della sua sincerità, scrisse i sette libri dell'Adversus Nationes, compiuti nei primi anni del JV secolo, che prende le moS>e dalla critica a un recente libro del neoplatonico Cornelio Labeone, sostenitore dell'antica religione. Secondo San Gerolamo, Arnobio sarebbe morto nel 327. 273    imperfetto? E che,.forse se non ci fossero gli uomini il mondo verrebbe meno ai suoi doveri e le stelle non compirc;bbero il loro corso, non vi sareb- bero piu estati e inverni, cesserebbero i soffi dei venti, né dalle nubi conden- sate e sovrastanti cadrebbero le pioggie per portare refrigerio alle aridità? (Il, 37). Ontologicamente inutile, l'uomo è anzi una scheggia nella econo· mia dell'Universo, un essere orgoglioso, malefico e maligno, dedito solo a violenze e a delitti (Il, 38). Se tale è l'uomo, non solo è empio rite- nere che l'uomo sia stato creato da Dio, quel Dio che tutti ammet- tono essere il fondamento dell'ordine e della perfezione del tutto (l'uomo piuttosto dovremmo dire ch'è statQ creato da divinità infe- riori, impotenti), e illusione è credere con Platone che l'anima umana sia dello stesso genere della divinità, onde neppure si può dire che immortale per natura sia l'anima, per cui non è dato certo all'uomo ricostruire, attraverso se stesso, riconoscendo sé divino ("reminiscen- za"), le strutture su cui si scandisce il ritmo della realtà. Se davvero l'uomo fosse di natura divina, se l'essenza dell'uomo fosse un aspetto dell'essenza divina, l'uomo si annullereboe nell'umanità e l'umanità in Dio, l'uomo sarebbe, ma non esisterebbe. In realtà, certe filosofie greche (Platone, Aristotele, gli Stoici) risolvendo. tutto in Diq negano l'esi- stenza dell'uomo. Di fatto l'uomo esiste.e la sua esistenza implica ch'egli è limite, male, e che il suo esistere si risolve tutto, come vuole Epicuro, entro l'arco dello stesso esistere umano, e perciò, sotto questo aspetto, la vita umana non ha alcun senso, nessun fine, non serve a nulla, ogni costruzione filosofica dell'uomo si risolve in una ipotesi puramente umana. Limite e determinazione, corporeità, l'uomo non può essere che coscienza del limite; egli è perciò sensazione ed ogni sua cono- scenza non può non basarsi perciò che sulle sensazioni (II, 20), per cui all'uomo non è dato oltrepassare le proprie costruzioni, rimanendo sempre come distaccato dal tutto, costituendo un mondo a parte, un mondo di limiti, di chiusure, di affermazioni, un mondo senza spe- ranza. Inesistente l'uomo nelle concezioni platonico-neoplatoniche; senza senso, mortale, annullato nel suo stesso apparire, l'uomo nelle conce- zioni epicuree; illusioni e costruzioni umane gli dèi, le credenze delle religioni; ben disperate, tristi, si rivelano, attraverso le stesse filosofie e religioni, la situazione e la condizione umane. Volete deporre la vostra connaturata superbia, voi che presumete di avere quale padre Dio e che sostenete di dividere con esso l'immortalità? Volete indagare che cosa mai siete voi, da chi siete nati, cosa fate nel mondo, perché mai siete venuti alla vita?... Non siamo simili agli altri animali? Siamo anche noi formati di ossa e di nervi, respiriamo con le narici l'aria, siamo distinti in sessi, come gli animali veniamo fuori dall'alveo materno. Ci sosteniamo con cibi, ed emettiamo il superfluo dalle parti inferiori, andiamo incontro a malattie e a morte! (II, 16). Se gli uomini avessero conosciuto intimamente se stessi, mai avrebbero presunto di possedere una natura immortale e divina,... mai, sollevati dalla superbia e dall'arroganza, si sarebbero creduti primarie divinità uguali a Dio, solo perché hanno escogitato la grammatica, la musica, l'oratoria e le formule geornetriche (II, 19); noi che nasciamo dai genitali femminili, che emettiamo senza posa inutili vagiti, che succhiamo poppando mammelle, che ci copriamo e c'insoz.z:iamo delle proprie sporcizie... (II, 39). L'insistenza di Arnobio sull'uomo nullità, bruttura, limite, è dovuta al senso tragico della vita, proprio del pensiero greco, del cosiddetto pessimismo greco, per il quale, almeno in certe posizioni di fondo, c'è Dio, c'è l'ordine, il tutto è razionalmente costituito, ma in realtà non c'è l'uomo. E quell'uomo dipinto in si fosche, deprimenti tinte da Arnobio, entro i termini della sua formazione non cristiana, è la con- clusione tragica del pensiero greco sull'uomo, di quell'aporia sull'uomo, che se è tutto è nulla e se esiste è ugualmente nulla, limite, male, non essere. Proprio tale rivelazione, tale consapevolezza.della sciagurata posizione dell'uomo, dà a un uomo di cultura greca come Arnobio il significato nuovo dato all'uomo dal Cristianesimo, in cui, se mai, non c'è Dio - Dio si pone come fede e speranza, e la sua presenza è rive- lazione, da parte sua, della sua mancanza -, ma c'è l'uomo, nella sua situazione tragica, ma anche, ad un tempo, nella sua possibilità, attra- verso il Cristo, d'essere uomo reale e concreto, persona. È appunto tale rivelazione di quello che l'uomo è per natura, sganciato dal tutto nel suo esistere - non a caso le cupe e orripilanti parole sull'uomo che nasce nel sangue e negli escrementi, che è bruttura e malattia, ritorne-:anno sempre qualora si punti sull'uomo sganciato dalla grazia e dalla ·ivelazione, dimentico di Cristo: e qui pensiamo, ad esempio, al De:ontemptu mundi di Innocenzo III, di cui alcune pagine sembrano ·icalcate da Arnobio - è tale consapevolezza che dà· un senso alla fede:ristiana. Ecco perché dicevamo che per comprendere Arnobio (e non 1olo Arnobio, ma la piu profonda ragione del passaggio di molti al:ristianesimo, in cui si salva l'uomo; "la novità ch'esso portava con;é era la liberazione della personalità," è stato detto, "incatenata:lalla religione e dalla morale dello Stato, che in sé riassorbiva e per-:leva l'uomo": cfr. Kovaliov, Storia di Roma, Il, trad. it., Roma, L9SS, p. 236) bisognava tener presente la rielaborazione origeniana sulla paradossale situazione umana. L'uomo non è natura: l'esistenza umana, ~on cui l'uomo assume una sua natura è frutto di un atto di volontà, ~ determinazione dovuta a un atto di libertà, che chiude l'uomo a qual- >iasi altra possibilità, rendendolo quello che è: male e limite, insignifi- 275    cante, inutile, scheggia e rottura del perfetto ordine del tutto in Dio; egli uomo male e limite, e non l'Universo, natura una in Dio, in sé buona. Rompere contro il male, dunque, è rompere contro la propria natura. Solo che tale consapevolezza, essendo essa stessa contro natura, non è piu umana, è dovuta a un atto innaturale e perciò extraumano, divino, a un atto della volontà divina che vuole salvare l'uqmo. Tale la forza del messaggio cristiano, tale la rivelazione del Cristo, venuto a salvare l'uomo, o meglio a restituire l'uomo a se stesso. Entro questi termini sembra chiaro in che consista il senso da un lato del pessi- mismo di Arnobio, l'accusa di Arnobio nei confronti di tutta la con- cezione greco-romana, dall'altro lato, indipendentemente da ogni impal- catura teologico-cristiana, della sua conversione al Cristianesimo,.che offriva la salvazione dell'uomo non come concetto, ma nel suo esserci reale, nella sua responsabilità morale. Non a caso cosi, riprendendo un motivo proprio della polemica cristiana (cfr. San Giustino), Arnobio sostiene che l'anima non è né immortale (come vorrebbe Platone: cfr. Il, 14), né mortale (come vorrebbe Epicuro: cfr. Il, 30), ché nel- l'uno e nell'altro modo negheremmo l'uomo. La mortalità e l'immor- talità sono dovute a Dio, a seconda se l'uomo, una volta riscattato dal Cristo, abbia saputo o no essere responsabile di se stesso. Opposta alla posizione di Arnobio sembra la posizione di Lucio Cecilio Firmiano,7 detto Lattanzio, africano della Numidia, ch'ebbe, a Sicca, Arnobio, maestro di retorica, soprattutto per la sua esaltazione dell'uomo, centro dell'universo, microcosmo, che non poco risente degli scritti ermetici, particolarmente dell'Asclepio, citato e discusso da Lat- tanzio sotto il titolo L6gos telèios (Sermo perfectus). In Arnobio ciò che piu colpisce è la negazione della concezione classica, che nelle sue conclusioni porta l'uomo alla disperazione, donde il passaggio alla tesi del Cristianesimo sull'uomo nulla, male, limite, in quanto esistenza che 7 Lucio Cecilia Firmiano, detto Lattanzio, nacque in Numidia,. presso Sirta, o Mascula, nel 260 circa. Compiuti gli studi retorici a Sicca sotto Arnobio, divenuto oratore di grido, insegnò prima retorica in Africa, poi, chiamatovi da Diocleziano, a Nicomedia (dal 300 circa). Convertitosi al Cristianesimo nel 302, quando nel 303 ebbe inizio la persecuzione contro i Cristiani, Lattanzio abbandonò la cattedra di eloquenza, ritirandosi a vita privata e dal 305 (in tale anno appare ancora a Nicomedia) sparendo dalla circolazione. Nel 303-304 Lattanzio scrisse il De opificio Dn (opera assai prudente), tra il 305 e il 311 compose i sette libri delle lnstieutiones dit~intU, dedicate, quando furono compiute, all'Imperatore Costantino, del cui figlio, Crispo, Lattanzio divenne precettore dopo il 313, in Gallia, a Treviri, dove soggiornò certo fino al 320 (ogni traccia di lui si perde dopo questa data). Posteriori alla persecuzione, composti, sembra, tra il 311 e il 317, sono il De ira Dei, il De mortibus persecutorum e una Epitome delle Istituzioni. A Lattanzio è, infine, attribuito (si dubita che sia di lui) un breve poema Sulla Fenice (De fltle Phoenice). 276    è peccato; tutto, centro morale, responsabilità, possibilità di volersi mor- tale o immortale in quanto redenzione. In Lattanzio, nel suo tentativo di offrire, da quel buon professore di retorica ch'era stato, il manuale della concezione cristiana nel suo insieme - non a caso·l'opera sua maggiore va sotto il titolo di lnstitutiones divinae, - ciò che piu col- pisce è la sistemazione in unità dei piu vari motivi, 3:nche opposti e in contrasto, che separati, in fermento, s'erano venuti maturando tra platonici e cristiani nel corso del II e del m secolo, e dove il signifi- cato e la funzione dell'uomo vengono veduti in rapporto all'economia dell'universo e di Dio, interpretando la soluzione neoplatonica, in chiave cristiana. Le ragioni della conversione di Lattanzio sono molto piu semplici e piane che non quelle drammatiche di Arnobio. Le ragioni delle filosofie - in realtà del neoplatonismo e di Platone, quest'ultimo filtrato attraverso Cicerone - trovano il loro fondamento e criterio nelle ragioni della fede cristiana. Le religioni del passato non hanno alcun fondamento logico; la sapienza, basandosi su se stessa, non può non sfociare se non in una posizione di problematicità, nel "proba- bile" ciceroniano. Il conflitto tra i due termini si risolve nell'accetta- zione di una tesi in cui le "ragioni" dei filosofi trovano il loro fon- damento nella ragione rivelata da Dio, in cui, per altro, consiste la vera religione. "A nessuna religione si giunge senza sapienza, solo che nessuna sapienza è tale se non si fonda sulla religione" (lnst. div., I, 1). "La religione consiste perciò nella sapienza e la sapienza nella reli- gione" (IV, 3). La religione, in quanto sentimento di dipendenza da un essere supe- riore, cui ci sentiamo legati, implica, come appare dalla religione cri- stiana, come, per bocca dei suoi profeti, e degli oracoli sibillini, ha rivelato lo stesso Dio, un Signore unico da cui tutto dipende, che a tutto provvede (basta alzare gli occhi al cielo, dice Lattanzio, I, 2, secondo il vecchio luogo comune, per rendersi conto che tutto è prov- videnzialmente ordinato). E uno solo ha da essere tale Dio e Signore, mette in evidenza Lattanzio, sottolineando che perciò false religioni sono quelle politeistiche (cfr. I: De falsa religione), ché altrimenti, ammettendo piu Signori o dèi dovrerpmo ammettere che tale Dio non è autentico Signore, non ha la potenza di reggere tutto; non solo, ma piu dèi verrebbero in contrasto tra di loro, mentre già la funzione che in ciascuno di noi ha l'anima di reggere in unità la molteplicità delle nostre membra e i vari aspetti delle nostre funzioni, dimostra che Dio, ciò da cui tutto dipende e che il tutto guida, non può non essere che uno (I, 3). Se tale è la religione, la sapienza che ritenga fondarsi sulle proprie forze, rinnegando giustamente le insipienti fantasie delle religioni, 277    rimarrà oscillante, porrà ipotesi, tutte possibili, in quanto, appunto, resta sganciata dal suo stesso fondamento, che è la fede, la rivelazione di Dio (cfr. II, De falsa sapientia, e III, De origine erroris). E allora, se unica è la fonte della religione e della sapienza, cioè l'unico Signore c padrone (religione, per cui dobbiamo dirci servt), da cui tutto di- pende, che, rivelatosi, rende conto delle sue stesse ragioni (sapienza, per cui dobbiamo dirci figli, simili alla ragione di Dio, che è il suo stesso figlio e l6gos), si capisce come Lattanzio sostenga che la sapienza ha da fondarsi sulla religione e la religione ha da essere illuminata dalla sapienza, e che, perciò, religione e sapienza, separatesi nel tempo, con la caduta, debbono ricongiungersi, e tale è il messaggio del Cri- stianesimo, la verità cristiana, per cui il Cristianesimo è una religione filosofica: o una "pia filosofia" (cfr. IV, De vera sapientia). Da tutto questo chiaramente appare che sapienza e religione debbono essere congiunte tra di loro. La sapienza riguarda i figli, ed esige l'amore; la religione i servi, ed esige il timore. Come quelli, infatti, debbono amare ed onorare il padre; cosi questi debbono curare e temere il padre. Dio, quindi, che è uno, poiché ha in sé l'una e l'altra persona, quella del padre e quella del figlio, lo dobbiamo amare poiché siamo figli e temere poiché siamo servi. La religione, dunque, non può essere separata dalla sapienza, né la sapienza può essere distinta dalla religione, perché unica cosa è Dio, il quale dev'essere compreso, il che appartiene alla sapienza, ed onorato, il che appartiene alla religione. La sapienza_vien prima, la religione segue: in primo luogo si deve conoscere Dio, in secondo luogo onorario. E cosi una sola pPtenza è in due nomi, sebbene sembrino diverse. L'una, infatti, è posta nel senso, l'altra nell'azione; in realtà sono simili a due fiumi, scaturienti da una sola fonte. Fonte della sapienza e della religione è Dio, al quale questi due fiumi, se si sono divaricati, è necessario ritornino; coloro che ignorano Dio, non possono essere né sapienti né religiosi. E cosi avviene che i filosofi e coloro che venerano gli dèi sono simili o ai figli dissidenti, o ai servi ·fug- gitivi, poiché né quelli cercano il padre, né questi il padrone... (IV, 4). La tesi apologetica di Lattanzio è molto precisa. Egli da buon retore ciceroniano sa a chi si rivolge, conosce le esigenze di un certo pubblico, particolarmente angosciato dal problema del destino del- l'uomo, deluso dalle risposte della filosofia, e che, invece, poteva tro- vare risposta nella tesi cristiana: l'essenziale, esclama non a caso Lat- tanzio, non sta tanto nelle dimostrazioni dialettiche, ma nel sapere in che modo ci convenga vivere, nel saper dare una risposta alla do- manda: perché nasciamo, perché viviamo? (cfr. III, 7, 1-2; III, 12, 1). Le ragioni della ragione trovano il loro fondamento nella fede. La scienza in quanto conoscenza dell'essere, mediante cui dare un senso alla nostra vita, non sarebbe tale, "scienza," se non trovasse un suo 278    criterio. L'uomo, per sua natura, in quanto esistente, è limite, è anima e corpo, chiusura. All'uomo in quanto tale, non resta, sf come è dimo- strato da Platone e da Cicerone (il Platone di Lattanzio è il Platone filtrato attraverso Cicerone), se non un'aspirazione all'essere, l'esigenza di porre l'Essere come uno; all'uomo in quanto tale non è dato oltre- passare se stesso. E allora, la coscienza che l'uomo ha di sé come con- flitto e limite, la sua stessa esigenza di oltrepassare il limite, che già lo pone oltre il limite, non può essere dovuta all'uomo naturale, ma ad un intervento di Dio. Tale la risposta ebraica (Filone l'Ebreo e la sua interpretazione di certi testi biblici, ove ancora una volta va tenuto pre- sente il ribaltamento del concetto di "sapienza" secondo il testo del- l'Ecclesiastico) e quella cristiana (il rivelarsi ultimo di Dio all'uomo mediante il Cristo, il L6gos di Dio, fattosi uomo, mediante cui l'uomo da anima-corpo, limite, può tornare, se vuole, a farsi simile alla ragione di Dio, ridando un senso al proprio esserci, al proprio conflitto, senza di cui non ci sarebbe ~irtt!). Gran miracolo è l'uomo, dice Lattanzio, riprendendo dall'Asclepio, citando piu volte i libri ermetici ed Ermete Trismegisto, ch'egli pone afianco dei profeti e degli Oracoli Sibillini; grande è l'uomo, perché l'uomo è specchio dell'universo, a sua volta immagine di Dio, unità vivente, in cui tutto si raccoglie in unità, perché l'uomo è simile a Dio, o meglio al figlio di Dio, al L6gos, termine medio tra l'Uno Dio ineffabile e le infinite possibilità di Dio, mediante cui assume realtà, ha un fondamento la molteplicità, una nel-· l'unità vivente di Dio. Solo che tale coscienza, per cui nell'uomo s'in- centra l'universo, tornando con ciò l'uomo simile a Dio, onde l'uomo - termine medio tra la spiritualità, tra il figlio di Dio e l'anima, limite, e il corpo, limite piu opaco - può scegliere tra l'essere simile a Dio, riconoscendo a propria guida il Cristo, o divenire ancora piu limite, sempre meno amico del re dell'Universo, tra voler essere immortale o mortale; tale coscienza, tale possibilità di rompere contro la natura, tale conflitto tra bene e male, in cui consiste la virtuosità - non vi sarebbe virtu se non vi fosse il vizio, dice Lattanzio - non sarebbe possibile senza la rivelazione di Dio, esplicitatasi mediante il L6gos di Dio, fattosi uomo (Cristo), con il quale l'uomo può reintegrare se stesso. Il sentimento di dipendenza da un solo e unico Signore e padrone (religione), rivelato da Dio, mediante i suoi profeti, e poi da Cristo, riconduce l'uomo a ritrovare nella sapienza di Dio (in senso ebraico- filoniano) il fondamento della sapienza umana, ridando all'uomo da un lato la capacità di essere virtuoso (cioè di proporsi come conflitto tra sé natura, unità di anima e corpo, limite, e sé simile al L6gos e a Dio, rompendola contro la natura, per cui l'essere immortale o mor- 279    tale diviene una scelta), dall'altro lato di ricomprendere in sé l'universo tutto, scoprendo in sé Dio, termine ultimo; fine del proprio destino, in una celebrazione dello stesso Dio. "Il mondo è stato fatto perché noi nascessimo; noi nasciamo per riconoscere l'autore del mondo e noi stessi, Dio; lo conosciamo per rendergli un culto; gli rendiamo un culto per ricevere l'immortalità, in ricompensa dei nostri sforzi; ecco perché in ricompensa ricevia~o l'immortalità, s(che, divenuti simili agli angeli, perpetuamente si serva il padre nostro Signore, e si costi- tuisca l'eterno regno di Dio. Tale il significato piu profondo del tutto, tale l'arcano di Dio, tale il mistero del mondo" (VII, 6). Proposta come unica soluzione alla condiziçme tragica dell'uomo concreto - disperso e abbandonato a se stesso, quale risultava, dalle concezioni greco-romane - la fede nella tesi ebraico-cristiana (del- l'uomo che si salva mediante la rivelazione di Dio, e che, per mezzo della venuta del Cristo, può ritornare, lavato dal peccato, con le sue forze, a celebrare quel Dio per il quale è stato fatto e dal quale è decaduto), Lattanzio poteva sfruttare, sul piano teoretico-teologico, i motivi del rapporto Uno-molti, Intelletto-intelligibili (L6gos), propri del neoplatonismo, particolarmente di certi testi ermetici e, per altro verso, di Filone l'Ebreo, filtrati attraverso certe interpretazioni del- l'apologetica greca. Molto abilmente c~s(Lattanzio tende a convincere, a persuadere, che l'unica verità è quella del Cristianesimo e che solo attraverso di essa si dà un senso e un perché alla vita degli uomini; senza per altro rinnegare i motivi teologico-filosofici della cultura greco- romana, che, preparatoria della rivelazione ultima, deve essere riassor- bita nel Cristianesimo, in quanto, appunto, illuminata e resa vera dalla rivelazione di Dio. Anzi, i testi ermetici, i testi neoplatonici servono ora a illuminare, a render conto della fede cristiana, rappresentano il momento filosofico della religione. Il "semidivino" ·Ermete Trismegi- sto, esclama Lattanzio, "non so in che modo ha quasi investigato la verità tutta" (IV, 9). Ermete chiarisce certi aspetti della teologia cri- stiana, il significato del Dio uno e ineffabile, anonimo, solitario, (ausa sui (che "ex se et per se ipse est": cfr. Epitome, 4), che tutto trae da sé, anche la materia, mediante il proprio L6gos, su cui si fonda la creazione di Dio, anche quella dell'uomo, fatto. a sua immagine e somiglianza, costituito di anima e corpo, e che liberandosi da se stesso, limite e deficenza, può, attraverso il L6gos, incentrare in sé l'Universo, ritornando a Dio (cfr. lnst. div., I, 6; IV, 6; Il, 8, IO; VI, 25; VII, 13, 18; per le citazioni dal corpo ermetico e dagli Oracoli Sibillini, cfr. l'edizione del Brandt, Ilb, p. 254 e pp. 258 sgg.). E cos(, ad esempio, nella spiegazione del rapporto Dio Padre e Dio Figlio, forte si sente, anche nelle immagini, l'influenza del "neoplatonismo." Uno Dio, il logos non è un due rispetto al Padre, non divide l'unità sua, ché l'unità divina è vita nel suo L6gos, per cui il L6gos, conoscenza del- l'unità vivente di Dio, è la stessa sostanza di Dio, che per sovrabbon- danza emana da sé il Figlio, unico con l'unica fonte, simile a raggio che proviene dal sole, e che,' pur distinguendosi dal sole, è della stessa essenza di esso, si come la luminosità del sole è tale in quanto una con la luce che emana dal sole. Ci può, forse, chiedere qualcuno perché noi che diciamo di venerare un solo Dio, sosteniamo tuttavia due dèi, Dio padre e Dio figlio... Quando diciamo Dio padre e Dio figlio, non diciamo che siano diversi, né li distin- guiamo l'uno dall'altro. Il padre non può esser distinto dal figlio, né il figlio dal padre; né il padre può esser detto tale senza il figlio, né il figlio può essere generato senza il padre. Il padre, dunque, fa tale il figlio, e il figlio il padre. Una in ambedue la mente, uno lo spirito, una è la sostanza. Ma quegli è come una fonte esuberante, questo si come un fiume defluente dalla fonte. Dio è come il sole, il figlio è simile a un raggio scaturito dal sole; e poiché è fedele e caro al sommo padre non se ne separa, si come il rivo dalla fonte, il raggio dal sole (anche l'acqua della fonte, infatti, è nel rivo, e la luce del sole è nel raggio)... (IV, 29). In realtà, l'elaborazione teologica di Lattanzio riconduce il Cristia- nesimo al "platonismo," sia pur in una forma accessibile ai piu, ove, in conclusione, l'interpretazione del Cristo, sul piano di quel "plato- nismo," viene a togliere ogni significato alla "grazia" e alla "reden- zione," ed in cui il Cristo è, perciò, presentato piuttosto come guida e maestro che non come redentore, sanando nell'uomo piuttosto la sua capacità conoscitiva, mediante cui, ricongiungendo sapienza e religione, sarà di nuovo possibile all'uomo essere virtuoso. "Noi," afferma Lat- tanzio, aprendo le sue Istituzioni divine, "che abbiamo ricevuto il sacro mistero della vera religione, poiché la verità ci è stata rivelata da Dio, per cui lo seguiamo come dottore della saggezza e come guida verso il vero, invitiamo tutti a questo celeste convivio, senza distinzione né di età né di sesso, ché nessun altro alimento è piu dolce all'anima della conoscenza della verità" (1, l). Non poco indicativo è, cosi, da parte del rètor.e Lattanzio l'avere preso a modello del suo persuasivo discorso sulla "vera religione," tale in quanto è "vera sapienza," ornate copioseque, Cicerone. Lat- tanzio punta continuamente sull'aspetto morale del Cristianesimo, piu che su quello teologico, sulla posizione dell'uomo centro della stessa vicenda del tutto, per cui l'uomo è restituito a se stesso, è responsabile del suo destino, nella fede insegnata dal Cristo in un ordine e in una giustizia, che costituiranno nell'unità morale dei Cristiani il regno di Dio, in un diritto naturale che si trasfigura in "diritto divino," in un'obbligatorietà al Signore supremo che diviene perciò volontaria; ciò indica con chiarezza da un lato che Lattanzio si era reso conto della piu profonda esigenza degli uomini del suo tempo, nella crisi dell'Impero, dall'altro lato che il fondamento stesso dell'Impero, la sua forza, il suo universalismo, erano oramai depositati nella concezione cristiana. Sotto questo aspetto sembra esatta la definizione data dagli umanisti di Lattanzio: "Cicerone cristiano." Come Cicerone aveva dato una filosofia ai Romani dell'ultima Repubblica, discutendo le varie ipotesi, i pro e i contra, s1 da persuadere (donde l'importanza data alle tecniche retoriche) a quell'ipotesi che secondo Cicerone sarebbe ser- vita a dare un fondamento alla res-publica, in.un rapporto umano fon- dato su di un diritto unico e universale, sp,ecchio della legge su cui si ordina il tutto, cosi ora Lattanzio, proprio rifacendosi a Cicerone (qui non tantum perfectus orator, sed etiam philosophus fuit: l, 15) ritiene di dover porre le proprie tecniche oratorie al servizio della concezione cristiana, in un copioso e ornato discorso, cbe razionalmente convinca di quella verità rivelata dallo stesso Dio, che sola dà all'uomo, a tutti gli uomini la possibilità di salvarsi. Si 'può costituire cosi, già in terra, una città cristiana, di cui il regno di Dio, che pur tuttavia non· sarà mai di questa terra, è posto come termine ultimo, ed ove Dio, Signore supremo, a sua volta vien posto come lo stesso criterio di Obbligato- rietà, il sùpremo re, che premia e che punisce. Non a caso cosi, sotto l'aspetto teologico, Lattanzio nel delineare l'unità di Dio, Padre e Signore, si rifà alle tesi ".neoplatoniche," mediante cui piu facile era convincere alla tesi cristiana dell'uomo creato da D1o a sua sorp.iglianza (già in una sua operetta, il De opificio Dei, scritta nei primi tempi della sua conversione, durante i primi anni della persecuzione di Diocleziano, Lattanzio aveva sostenuto, di contro ad Epicuro, ch'egli conosceva attraverso Lucrezio, riprendendo argomenti di Cicerone, che la considerazione sia della costituzione ·fisica, anatomica e fisiologica, sia dell'anima dell'uomo, ove tutto è 'miracolosamente volto all'unità, in cui ogni parte è in funzione del tutto, rivela la presenza di un crea- tore uno, sommamente saggio e provvidente). Mediante ciò era piu facile convincere alla tesi cristiana dell'uomo simile a Dio, che, deca- duto, ritrovando in sé il L6gos di Dio, attraverso il L6gos fattosi uomo può, se vuole, ritornare ad essere simile a Dio. Lattanzio, invece, sotto l'aspetto piu strettamente morale, di contro alla tesi sia neoplatonica sia epicurea della divinità indifferente, impassibile, nella sua perfe- zione e necessità, si rifà alla concezione ebraico-cristiana del Dio per- sona e signore, volontà, di un Dio cui tutto è possibile, anche l'ira 282    (si confronti in tal senso il De ira Dei, composto dopo il 313), il quale solo "scire potest et revelare secreta" (De ira Dei, l). E qui vanno ora ricordate alcune date fondamentali, relative alla vita e all'opera di Lattanzio. Lattanzio, nato nel 260 circa, rètore di fama, allorché Diocleziano apri a Nicomedia una scuola, fu chiamato dall'imperatore a insegnarvi retorica, verso il 300. Convertitosi verso il 302 al Cristianesimo, quando nel 303 ebbe inizio la persecuzione dei Cristiani, Lattanzio abbandonò 'la cattedra di eloquenza, ritirandosi a vita privata e, dal 305 circa (anno in cui ancora appare a Nicomedia), sparendo dalla circolazione. Nel 303-304 Lattanzio scrisse il De opificio Dei, tra il 305 e il 311 compose i sette libri delle lnstitutiones divinae, non a caso dedicate, quando furono compiute, all'imperatore Costan- tino, del cui figlio, Crispo, Lattanzio divenne precettore dopo il 313, in Gallia, a Treviri, dove soggiornò certo fino al 320 (ogni traccia di lui si perde dopo questa data). Posteriori alla persecuzione, composti, sembra, tra il 311 e il 317, sono il De ira Dei, il De mortibus perse- cutorum, e una Epitome delle lnstitutiones. Le ragioni della conver- sione di Lattanzio furono le ragioni della sua opera di rètore tesa a persuadere, senza rotture violente, senza scandali, al significato del Cristianesimo, per altro già estremamente diffuso, e che, impostato da un lato come inveramento e soluzione delle filosofie piu ampliamente accettate e costituenti un generico fondamento culturale e dall'altro lato come l'unica religione filosofica che potesse ridare un senso all'uomo, facendolo a un tempo responsapile della umana città in funzione della città divina, si mostrava essere l'unica soluzione anche per l'unità e l'universalità dell'Impero. Sotto questo aspetto assume un particolare interesse il V libro delle Institutiones dedicato alla "vera giustizia." Molto sottilmente Lattanzio, rifacendosi in gran parte ai concetti di giustizia, "summa virtus," e di diritto naturale delineati da Cicerone e rielaborati da grandi giuristi romani - è noto che la maggioranza dei frammenti con cui si ricostruisce la Repubblica di Cicerone si ricava dalle lnstitutiones di Lattanzio, - riprospetta di contro alla tirannide, all'indiscriminato potere personale - e chiara è la lotta contro Dio- cleziano, - una concezione della giuStizia e del diritto assai simile a quella su cui ci si era fondati con Cicerone e poi con certi stoici del 1 e del 11 secolo (non a caso con Cicerone Lattanzio riprende la pole- mica contro Carneade e contro Epicuro: V, 14; III, 17). La giustizia si fonda sulla legge del tutto, legg~ tuttavia non naturale, ma voluta dallo stesso Dio, onde tanto piu obbligatorio diviene l'ordine dello Stato terreno, attraverso cui, se in esso ciascuno - in ciò uguale all'altro - fa ciò che gli compete e si pone al suo giusto posto in nome di Dio, si salva, costituendo il futuro regno di Dio. Solo che il regno di Dio, 283    dopo la caduta, con cui ha avuto principio l'affermazione di sé, la pro- prietà, il prevalere dell'uno sull'altro, l'ingiustizia, nella separazione della sapienza dalla religione, non sarà mai di questa terra. In questa terra rimarrà sempre aperta la lotta, il conflitto tra male e bene, tra ingiu- stizia e giustizia, senza di cui non vi sarebbe la virtu ("virtutem aut cerni ~on posse, nisi habeat vitia contraria; aut non esse perfectam, nisi exerceatur adversis; hanc enim Deus bonorum ac malorum voluit esse distantiam, ut qualitatem boni ex malo sciamus, item mali ex bono: nec alterius ratio intelligi, sublato altero, potest; Deus ergo non exclusit malum, ut ratio virtutis constare posset": V, 7). Entro i suoi limiti, dunque, ciascuno può volere o non volere, dopo la rivelazione di Dio, esser virtuoso e perciò giusto, facendosi responsabile del pro- prio destino, liberandosi da se stesso in Dio, che premia o punisce chi abbia voluto o non voluto riconoscere Dio. Di qui, ancora una volta, il significato dato da Lattanzio alla santa ira di Dio; non a caso Lattanzio, finita la persecuzione da parte di Diocleziano, riconosciuto da Costan- tino il Cristianesimo (313), scrive pagine di fuoco sulla tragica fine che hanno subito tutti i persecutori dei Cristiani (Nerone, Domiziano, Decio, Valeriano, Aureliano, Diocleziano, Massimiano Ercole, Valeria figlia di Diocleziano e moglie di Galeiio): "sic omnes impii vero et i~sto iudicio Dei eadem quae fecerant receperunt." Con queste parole si chiude (L, 7) il De mortibus persecutorum. In tale senso perciò, la tesi cristiana, se da un lato implica il sen- tirsi servi di Dio, dall'altro lato implica, attraverso la rivelazione, che la libertà dell'uomo consiste in questo stesso voler essere servi di Dio, che liberando l'uomo da se stesso, caduto da Dio, lo rende capace d'es- sere virtuoso e giusto. Solo, dunque, istituendo uno Stato cristiano, volto, mediante coloro che abbiano ricevuto da Dio la grazia di com- prenderlo e perciò di essere giusti, a realizzare·la giustizia del regno di Dio, o meglio a far sf che, in una ben ordinata gerarchia, in cui ciascuno sia al suo giusto posto, si rispecchi l'ideale unità di un mondo di spiriti contemplanti il Dio, nel quale e per il quale siamo tutti uguali, e dal quale derivano le due virtu fondamentali della unica virtu, che è la giustizia, la pietà ("altro non è che la conoscenza di Dio, come verosimilmente la definf Trismegisto [Pimandro, 9]": V, 15) e l'uguaglianza (il sentirsi uguali agli altri in Dio: "nessuno presso di lui è schiavo, nessuno padrone: se egli è a tutti ugualmente padre, a uguale diritto siamo tutti ugualmente figli; nessuno è povero davanti a Dio, se non chi manca della giustizia; nessuno è ricco, se non chi è pieno di virtu": V, 15), solo cosf lo Stato civile potrà salvarsi e non incorrerà nell'ira di Dio. Si vede bene in tal modo come Lattanzio potesse riprendere, in chiave cristiana, trasformando cioè il diritto naturale in diritto divino, relativamente alla giustizia terrena, i temi fondamentali di Cicerone e di certi stoici. " L a giustizia civile, obbedienza formale alle leggi stabilite nel tempo dalle città terrene," è stato detto, discutendo della giustizia presso gli stoici, "ha valore nella misura in cui fa proprio il contenuto di fraterna uguaglianza e di comunione umana che è proprio della giustizia naturale. Il Cristianesimo, se accentuò il tema della fraternità (il prossimo che deve essere amato come noi stessi), non spostò i ter- mini del problema, ed anzi, approfondendo il distacco tra le due città come conseguenza della colpa, rovesciò di continuo in radicale diver- genza quella che lo stoicismo e il diritto romano avevano concepito come convergenza. Lattanzio, nel quinto libro delle Divinae lnstitu- tiones, dedicato appunto alla giustizia, la presenterà come summa virtus anche presso i pagani, e andrà dipingendo la città giusta di Saturno come regno di perfetta uguaglianza... Nella dttà giusta le terre e le messi non erano cintate... e tutto era in comune. Quando la cupidigia e l'avidità divisero gli uomini, la giustizia fuggi dalla terra, e scom- parve l'umana comunione (V, 5). Le leggi divennero inique; la giustizia fu termine equivoco che indicò disuguaglianza e oppres- sione... Dio, è vero, ebbe alla fine pietà dei suoi figli, e rinviò la giu- stizia in terra, ma la concesse graziosamente soltanto a pochi: 'rediit... sed paucis assignata iustitia est' (V, 7). La frattura tra le due città si presenta come insanabile; lo squilibrio è radicale. S. Agostino, che pur accoglie certi aspetti della tematka ciceroniana..., si àncora all'idea di un vincolo statutario che fonda la civitas corrotta sul comune godi- mento di un bene. La giustizia è l'ordine, nel suo aspetto meramente formale, che si realizza anche in una societas sostanzialmente ingiusta, solo che sia mantenuta una certa reciproca coordinazione. La fraternità umana è rimandata di là, o è in qualche modo raffigurata in gruppi ristretti di santi uomini; la città giusta è fuori del mondo, ove poi la divina giustizia è grazia... Cosi mentre la convergenza fra la giustizia nel suo aspetto formale e la giustizia nel suo valore sostanziale avevano caratterizzato lo sforzo proprio dei giuristi e dei grandi oratori romani, la divergenza fra mondo del peccato e Gerusalemme celeste riportò all'idea di.una giustizia terrena come mantenimento di un ordine impo- sto da un'autorità, di un'? Stato gerarchicamente scandito" (Garin, Giustizia, "Revue internationale de philosophie," 1957, pp. 282-4). Duplice è l'interesse dell'opera di Lattanzio: se da un lato egli ha chiarito, mediante un vero e proprio breviario delle istituzioni cri- stiane - in cui si riprendono e si dimostrano inverati dalla rivela- zione molt.i dei motivi teologico-filosofici piu diffusi. che vanno dun- 285    que accolti come preparazione alla buona novella - le esigenze e la problematica di certe classi di uomini, facendole emergere alla co- scienza, dando loro un fondamento ideologico; dall'altro lato, l'opera di Lattanzio indica assai bene le ragioni che spinsero Costantino ad accettare il Cristianesimo - e le ragioni dell'accostamento di Lattanzio a Costantino -, rendendosi conto che, oramai, solo in esso avrebbe trovato la base sociale ch'era venuta meno a Diocleziano, peréhé fosse possibile - proseguendo la politica di Aureliano e di Diocleziano - salvare l'unità politico-economica dell'Impero, trasformandolo sempre di piu in monarchia. In tale senso è molto indicativa la tesi sulla giu- stizia e sulla ricchezza e povertà sostenuta da Lattanzio. Tutti uguali in Dio, né ricchi né poveri nel regno di Dio: in questa terra conflitto tra vizi e virtu, tra ricchi e poveri, ma possibilità di una società giusta, qualora tutti, in nome di Dio, rimanendo ricchi e poveri, si sentano ciascuno al suo posto, uniti in una fratellanza che -è pietà, in una giu- stizia che è carità, in una società che ha da essere specchio dell'unità di Dio, della monarchia divina, del giusto scandirsi delle classi, ove il sacerdote, il vescovo, è, per gi'azia di Dio, il giusto, il rappresentante del monarca divino, di Cristo re. "Se anche è diversa la condizione dei corpi, gli schiavi non sono schiavi per noi; quanto allo spirito noi li teniamo in conto di fratelli, e sul piano religioso li chiamiamo com- pagni di servitu. Le ricchezze non sono motivo di distinzione per noi, se ·non in quanto possono renderei illustri di buone opere... E coloro che sono poveri, sono almeno ricchi di questo, che non sentono alcun bisogno e non hanno desideri. Pur essendo pertanto tutti uguali in umiltà, i ricchi e i poveri, i liberi e i servi, tuttavia presso Dio siamo distinti secondo la nostra virtu" (V, 16). Impossibile e ingiusto - so- stiene altrove Lattanzio - è dire con Platone che non si deve possedere nulla in privato e in proprio - famiglia, donne, ricchezze, - ché nelle disuguaglianze, nel come ciascuno sa usare il proprio si rivela la capa- cità o meno d'esser virtuosi, il riconoscimento d'essere tutti uguali nel regno di Dio, di lui tutti servi e figli, uguali per la virtu (cfr. III, 21-22). Lattanzio con questa sua tesi rispecchiava esattamente la situazione propria di molti cristiani e la struttura economico-schiavistica dell'Im- pero, la situazione della Chiesa ufficiale al principio del IV secolo. "Verso il IV secolo," è stato detto in efficace sintesi, "la Chiesa cri- stiana si era trasformata in una organizzazione molto forte, in una specie di Stato nello Stato, che abbracciava quasi tutto l'Impero. Essa possedeva enormi ricchezze, contava nelle sue file un gran numero di alti f~nzionari, di militari, grandi proprietari terrieri, e la schiacciante massa di popolazione artigiano-commerciale delle città. Possedeva un potente apparato direttivo che non aveva nulla da invidiare alla burocrazia imperiale. In'queste condizioni riconoscere la Chiesa significava per lo Stato trovare una nuova base sociale. E ciò era particolarmente importante per il dominatus che tendeva a creare un potere solido... Costantino poté piu saggiamente ed obbiettivamente, che non Diocle- ziano, avvicinarsi al Cristianesimo" (Kovaliov, cit., Il, p. 235). Entro questi termini assumono un particolare significato le parole di Costantino (306-337), riportate da Eusebio di Cesarea (Vita Con- stantini, 4, 24), ai vescovi con lui riuniti a mensa: "Certo, voi potreste essere vescovi interiormente alla Chiesa (È1tlaxo1toL -rwv etaCù n j ç bocÀYjalcxç), io sarei invece vescovo, costituito da Dio, esteriormente (-rwv ÈxT6ç). " Si è molto discusso sul peso preciso da dare a queste parole (cfr. S. Calderone, Costantino e il Cattolicesimo, Firenze, 1962). Certo sembrerebbe in esse implicito, da un lato il riconoscimento della Chiesa costituitasi gerarchicamente, fondamento del regno di Dio, di cui, appunto, i vescovj sono i depositari, coloro che reggono lo Stato dal di dentro (la Chiesa, anima dello Stato?); dall'altro lato, accettato che lo Stato non può non essere che cristiano cioè che lo Stato è la Chiesa, che l'imperatore, per grazia divina ("costituito da Dio"), è il reggitore del corpo della Chiesa, cioè dello Stato, nella sua realizza- zione fisica, storica; l'imperatore dunque vescovo dal di fuori (del corpo dello Stato?). Senza dubbio, comunque, le ragioni che nel I I I secolo avevano spinto alcuni imperatori ad abbracciare, di con- tro alla "romanità" dell'Impero, l'"interbarbarismo" dell'Impero stesso; trovandone il fondamento ideologico nell'elioteismo, nella monarchia solare, determinano ora Costantino, che non a caso aveva avuto forti simpatie per l'elioteismo, a volgersi al Cristianesimo, che, sia per la sua base economico-sociale, sia per la sua ideologia - entro cui, assunta simbolicamente poteva essere riassorbita la tesi elioteistica - sembrava dare allo Stato l'unità e la forza perdute, qualora di quello Stato dive- nisse episcopo l'imperatore. I simboli della luce propri del Cristia- nesimo, dell'Ebraismo, e di certe immagini neoplatoniche ed ermetiche (il Padre Sole e il Figlio raggio del Sole, uno nella luminosità di Dio) e delle tenebre (dai figli della luce e delle tenebre, a Lucifero che diviene, con la caduta, il dèmone, il principe delle tenebre, alla materia e al corpo, ombre e tenebre), potevano benissimo coincidere con la concezione elioteistica, con il motivo della monarchia solare, reinter- pretata e inverata al lume della verità cristiana e in essa assorbita. Documenti di ciò sono, oltre alcune testimonianze di Lattanzio e, particolarmente di Eusebio, l'amico cristiano di Costantino, che non poco si adoperò a propagandare e a rendere efficace l'operazione di riassorbimento nel Cristianesimo della cultura ellenistica, anche i mo- numenti, le monete del tempo di Costantino, in cui l'imperatore cri- 287    stiano viene presentato come il Sole di Dio, in raffigurazioni ove appare nella veste dell'Elios persiano (e non si scordi che le insegne di Costantino avevano un sole irradiante, che piu tardi, in una visione, divenne facilmente la Croce irradiante luce: per i rapporti tra Costan- tino e la ideologia elioteistica, cfr. anche F. Altheim, Il dio invitto. Cristianesimo e culti solari, trad. it., Milano, 1960). b) La corrente origeniana ad Alessandria e a Cesarea Le "eresie." ~'arianesimo, la Chiesa di Roma e il Concilio di Nicea. Se lo studio delle "eresie" e degli "scismi," di come essi si sono formati, rende conto di come, per altro verso, si è venuta for- mando l'altra scelta che, divenuta poi ufficiale, ha costituito la "verità" cristiana, la "retta opinione" (ortodossia) sulla verità rivelata, tale stu- dio rende anche conto che gran parte delle eresie (pur. discutendo di questioni teologiche, pur nascendo dalla problematica sulla vera inter- pretazione del messaggio del Cristo, della sua natura, del suo rapporto con il Padre) sono nate sul terreno etico-politico ed economico. Qu3;nto piu la Chiesa di Roma si arricchiva, si ordinava gerarchicamente e burocraticamente, veniva a compromessi con lo Stato, anche durante le persecuzioni - non si scordino le grosse polemiche sui lapsi e l'atti- vità di San Cipriano, - quanto piu ci si avvicinava al possibile con- nubio tra Stato e Chiesa - sia che la Chiesa fosse assorbita dallo Stato sia che lo Stato fosse assorbito dalla Chiesa, - nella costituzione di un Impero cristiano, tanto piu negli strati meno abbienti, piu poveri, che avevano trovato nel Cristianesimo l'appello all'uomo libero, la salva- zione della propria individualità, il diretto rapporto da uomo a uomo con Dio, sembrò che la Chiesa avesse tradito l'antico messaggio del Cristo. "Verso il quarto secolo, nel seno della Chiesa, esisteva 'un forte fermento. L'affermarsi degli elementi abbienti, il consolidamento del- l'apparato ecclesiastico, l'aristocratizzazione di tutta l'ideologia del Cri- stianesimo erano inevitabilmente destinati a determinare una vivace opposizione da parte degli strati non privilegiati. Per quanto si ten- tasse di soffocare il primitivo spirito plebeo del Cristianesimo, l'abisso tra quanto veniva predicato dal pulpito e la realtà e':'a troppo grande: da una parte vi erano infatti il clero e i fratelli dell'aristocrazia, sazi e contenti, dall'altra gli stessi 'fratelli di Cristo' della plebe cittadina e 295    rurale, poveri e semiaffamati... La grande crisi rivoluzionaria del m se- colo non potrà non rispecchiarsi anche nel Cristianesimo. Il riacutiz- zarsi dei contrasti sociali, manifestatosi nell'Impero a cominciare dalla fine del 11 secolo, si rivelò anche nel Cristianesimo, dove il processo fu accelerato appunto dalla aristocratizzazione della Chiesa, che ne aveva determinato i contrasti interni. In tale situazione nacquero le cosiddette 'eresie,' correnti contrarie ai circoli dirigenti della Chiesa e ai punti di vista dominanti. Esse rispecchiavano anzitutto l'ideologia dei cristiani piu poveri: schiavi, coloni, plebe cittadina e, in parte, anche il pensiero degli strati medi della città. In alcuni casi le eresie erano dovute alla lotta per il potere fra i vari gruppi della gerarchia ecclesiastica" (Kovaliov, cit., pp. 336-7). Abbiamo già veduto come fin dalla prima meditazione sull'espe- rienza cristiana si determinassero interpretazioni molteplici e diverse, a seconda anche delle tradizioni e degli ambienti culturali, da quelli giudaico-palestinesi a quelli giudaico-akssandrini, da quelli classici nell'area orientale a quelli classici nell'area occidentale: da principio "eresie" tutte, poi "eresie" quelle che ad una delle interpretazioni con- solidatasi e divenuta tradizionale, della comunità piu forte (che fondò poi il suo diritto sul motivo della "cattedra di Pietro"), sembrarono non aderenti alla propria interpretazione, ritenuta quella "retta" (orto- dossa), e tali da mettere in pericolo la propria forza e la propria catto- licità. Naturalmente finché non fu possibile determinare ufficialmente la "regula fidei" (fu Tertulliano a definire l'eresia "scelta, dal greco or:tp&:a~<; = hairesis, arbitraria, in quanto non tien conto della regula {idei, cioè della regola determinata dalla Chiesa": in De praescriptione haereticorum, 6) e finché quella stessa "regula fidei" non si determinò sto- ricamente attraverso un lungo dibattito, un lungo conflitto tra l'una e l'altra interpretazione (sull'unità e trinità di Dio, sulla posizione. e l'essenza del Figlio nei riguardi del Padre, sulla funzione del Cristo, sulla sua realtà di Dio-Uomo, e sull'autorità dei vescovi, sul loro essere apostoli degli apostoli e cosi via) erano impossibili condanne ufficiali (se non sul piano, chiarendo ciascuno a sé il significato del Cristia- nesimo e la funzione della Chiesa, dell'apologetica: e qui ricordiamo particolarmente S. Giustino, S. Ireneo, S. Ippolito, Tertulliano e la loro polemica nei confronti dello gnosticismo, e, per altro verso, Marcione e il marcionismo da un lato e, dall'altro lato, nella discussione sulla unità e il monismo di Dio il monarchismo, il modalismo, il docetismo,. il sahellismo). Ciò fu possibile quando la Chiesa di Roma, riconosciuta ufficialmente dal potere politico come la depositaria della autentica "regula fidei," poi:é ufficialmente far dichiarare la propria "regula" e il proprio "credo" (Concilio di Nicea, del 325). (E qui va tenuto pre- 296    sente che di "eresia" in senso stretto si parla non quando sia una per- sonale deviazione dall'insegnamento della Chiesa ufficiale, ma quando tale deviazione diviene sciente contrapposizione di un, diciamo cosi, pensiero o insegnamento che si deve contrapporre a quello della Chiesa). Naturalmente, sotto il profilo della rivolta etico-politica con- tro una Chiesa che per i suoi compromessi, per la sua, anche se lenta, trasformazione in Stato gerarchizzato, sembrò tradire il significato popolare dell'insegnamento etico del Cristo, vediamo sorgere certe ere- sie abbastanza tardi, alla fine del n secolo, per divenire sempre piu forti e polemiche durante il m secolo e il principio del IV. E qui pen- siamo, innanzi tutto, al montanismo. Il montanisrno, cosiddetto da Montano che ne fu il capo, ebbe principio verso il 170, e, di contro all'infiacchimento della Chiesa, di contro alle proprietà della Chiesa, di contro al perdono per le colpe compiute dopo il battesimo, di contro alla autorità dei vescovi, di contro alla "universalità" della Chiesa, pro- clamò l'individualità della esperienza cristiana e della fede, in un rigi- dismo morale-religioso, in personali esperienze ascetico-mistiche, in un rifiuto delle ricchezze terrene nell'attesa della vicinissima restaurazione - per il vicinissimo ritorno del Cristo - del regno di Dio. Se tale infiacchimento della Chiesa, l'evidente opportunismo di molti conver- titi al Cristianesimo, furono le ragioni dell'adesione di Tertulliano al montanismo, si capisce come, nel 111 secolo, al tempo delle persecu- zioni di Decio, di contro al diffuso lapsismo, si siano ingrossate le file del montanismo. E qui pensiamo, in secondo luogo, al donatismo. Nel III e IV secolo nuova forza e significato politico assunse il montanismo, particolarmente in Africa settentrionale, dove andò sotto il nome di donatismo dal nome del vescovo Donato, che si fece capo degli intran- sigenti, finché di contro alla Chiesa ortodossa si costitul la Chiesa di Donato (non a caso alla Chiesa di Donato aderirono nel IV secolo i movimenti rivoluzionari degli schiavi e dei coloni d'Africa che vede- vano nel donatismo il fondamento ideologico della loro lotta contro la proprietà, contro i ricchi, contro l'economia schiavistica: fu questo il mo- vimento degli " agonisti," i combattenti per la vera fede: cosi essi pro- clamarono se medesimi, mentre "circumcellioni," vagabondi, furono detti dalla parte avversa). Minore importanza ha il novazianismo (dal nome di Novaziano fiorito tra il 250 e il 258). Novaziano ruppe con la Chiesa di Roma per ragioni personali, per la delusione di non essere stato eletto vescovo di Roma (il novazianismo, del resto, in certe conseguenze, è assai vicino al rigidismo morale del donatismo). Un particolare significato assume, invece, l'arianesimo, sia perché fu la prima eresia condannata con l'appoggio del potere politico (Concilio di Nicea, 325), in una 297    precisazione da parte della Chiesa ufficiale della propria "regula fidei," che assume cosi un valore giuridico, sia proprio in conseguenza di ciò - per la storia della formazione della "verità" ufficiale cristiana, sia per le ulteriori precisazioni filosofico-teologiche, sia per le ripercus- sioni politiche che ebbe. Nato, sembra, in Libia, verso il 265, Ario,8 dopo avere studiato ad Antiochia sotto il platonico Luciano di Antiochia, ebbe nel 313 la dire- zione di una Chiesa di Alessandria, e fu qui che nel 318 circa espresse la sua interpretazione sulla natura del Verbo. Con molta probabilità Ario fu direttamente ispirato dagli insegnamenti che sulla vecchia que- stione della natura una di Dio e del suo rapporto con il Verbo e la realtà, aveva ricevuto ad Antiochia da Luciano, fondatore della scuola esegetica di Antiochia, martire nel 311, e dall'influsso che in Antiochia avevano ancora al tempo in cui vi fu Ario le idee di Paolo di Samo- sata, vescovo di Antiochia (260-268), condannato per eresia tre volte ed infine costretto a dimettersi, convinto di errore dal prete Malchione. Ario, con molta intelligenza e acutezza, lucidamente ripropone e definisce la grossa questione, sul tappeto dal tempo di Filone l'Ebreo, dei "monarchisti, " " unitaristi," " docetisti," " sabelliani," di T ertul- liano, e, per altro verso, di Plotino.e dei neoplatonici, di Origene. Posta l'unità e perfezione.assoluta di Dio e posto che, secondo il solito rove- sciamento ebraico-cristiano del concetto di "sapienza," la sapienza è di Dio ed è prima dei secoli e va avanti a tutte le cose (cfr. Ecclesiastico, l, 1-4), e che tale sapienza è il Verbo (L6gos) di Dio, l'interpretazione del celebre testo dei Proverbi (VIII, 22), in cui la sapienza, cioè il 8 Nato, forse in Libia, nel 256 circa, Ario, dopo avere studiato ad Antiochia, sotto Luciano, nel 313 ebbe l'incarico di dirigere la Chiesa di Bocali ad Alessandria. Nel 318 divulgò le proprie tesi sul rapporto Padre-Figlio. Condannato da un Concilio di Alessandria, promosso dal vescovo di Alessandria Alessandro, teoreticamente sostenuto dal suo diacono Atanasio, nel 320 o 321, Aiio fu costretto ad abbandonare il paese. Fu dapprima in Palestina, poi a Nicomedia presso il vescovo Eusebio, suo vecchio amico. Condannato nel Concilio di Nicea (325), fu dall'Imperatore esiliato nell'Illirico. Nel 336, Costantino, volendo riporre equilibrio tra le due fedi, in nome dell'unità dell'Impero, richiamò Ario, che a Costantinopoli improvvisamente mor(nel 336. Perduta è l'opera piu importante di Ario, la Tàlia (E>ciÀe:lcc:banchetto), ch'egli compose a Nicomedia tra il 321 e il 325. Se ne conservano solo alcune ·citazioni nel Contra arianos di Atanasio (1, 5, 6, 9; cfr. anche De synodis, 15). Sono pervenute, invece, due lettere di Ario: una ad Eusebio di Nicodemia, del 321 circa (in Epifania, Haer., 79, 6), l'altra ad Alessandro di Alessandria, scritta non molto prima del Concilio di Nicea (cfr. Atanasio, De syn.odis, 16; Epifania, Haer., 69, 7, 8). Socrate (storico della Chiesa; nato a Costantinopoli nel 408 circa, autore di una Historia ecclesiastica, in sette libri, che prosegue quella di Eusebio dal 323 al 439) e Sozomeno (altro storico della Chiesa, originario di Gaza, a~vocato in Costantinopoli, autore di una Historia ecclesiastica, in nove'libri, dal 323 al 433, compiuta nel 444, e che in piu parti ricopia quella di Socrate) riportano la professione di fede inviata da Ariq a Costantino nel 330-331 (cfr. Socrate, Hist ecci., I, 26; Sozomeno, Hist ecci., 2, 27). 298    L6gos dice Dominus creavit me, porta dietro a sé la negazione della tesi che Dio sia ad un tempo uno e trino e che il suo Verbo, in quanto creato da Dio, sia della stessa sostanza di Dio e sia un secondo Dio. La tesi che Dio sia ad un tempo trino in eterno implica la nega- zione di Dio uno e solo, e l'affermazione non cristiana di piu dèi. Posto che una è la sostanza di Dio e perciò ch'egli è indivisibile e ingene- rato, infinito e assoluto, e dunque indiscorribile (&ppl)-roç =àrretos), proprio il suo essere ingenerato (&.ykvvl)-roç = aghènnetos) e senza prin- cipio (&vocpxoç = ànarchos) implica che non si può ammettere ch'egli comunichi ad altri la propria essenza: Dio cosf si limiterebbe e si risol- verebbe negli stessi aspetti da lui provenienti. In altri termini, ammet- tere che Dio per essere, per comprendere se stesso, si distingua in due, sign.ificherebbe dire che Dio è non piu persona, essere nella sua asso- lutezza solo, ma unità dialettica. Ciò, in realtà, vorrebbe dire negare il Dio persona e volontà, il Dio creatore. Posto, per altro, in senso ebraico- cristiano, che Dio non è un concetto, non è unità dialettica di pensante- pensato (L6gos), ma volontà, se ne deve dedurre che la creazione non è da intendere nel senso che Dio - avente in sé tutto in potenza - tragga all'esistere da se stesso, mediante il proprio esserci come pen- sante-pensato (L6gos), tutta la realtà, ma che egli, volontà onnipo- tente, di là da ogni ragione dà realtà a un mondo davvero ex nihilo, che, in quanto da lui voluto, una volta che c'è, è altro da lui, non ha la sua stessa essenza. E allora, proprio per non confondere il L6gos di Dio, la sua parola e ragione, con il N ùs plotiniano, che si perde nel- l'Uno, sf come l'Uno si perde nel Nùs, conseguentemente alla tesi del Dio trascendente, indiscorribile, persona e creatore, si deve dire, se- guendo alla lettera i Proverbi (ricordiamo che la scuola esegetica di Antiochia, in cui si formò Ario, si tenne sempre, di contro alla scuola esegetica di Alessandria, all'interpretazione letterale-storica dei sacri testi), che anche il L6gos, in quanto sua creatura ("creatura perfetta di Dio": in Atanasio, De synodis, 16, 2) è realtà altra da quella di Dio, è esistente, è, anch'egli, generato dal nulla (è!; oùx l>v't'CùV yéyov<. = ex ouk ònton ghègone: in Atanasio, Oratio l, Contra Arianos, 5). Il Verbo dunque, non può avere lo stesso genere del Padre, è dissimile dal Padre (è &ll6't'ptoç -allòtrios e &.v6(l.otoç-anòmoios) ed è solo di nome che viene detto Dio. Uno solo Dio, il Verbo non è un "secondo Dio" che per analogia, e pur essendo per decisione di Dio lo strumento con cui Dio crea il mondo, non si può dire ch'egli abbia la stessa sostanza dì Dio, che sia a Dio consustanziale, mentre, in quanto è dopo Dio (che ri- mane, perché crea.tore, uno e solo nella sua perfezione, trascendente e immobile e perfetto, e dunque irrelativo, indiscorribile, ignoto), il L6gos è limite, mutevole, (-rpen-r6ç-trept6s), sf come tutte le creature, buono finché vuole restare tale, ché, se lo volesse, potrebbe, come noi, mutarsi" (in Atanasio, Oratio l, 5). E come Dio ha voluto creare il L6gos ex nihilo e attraverso lui ha voluto che il mondo assumesse realtà, cosi poi, essendo il L6gos rimasto buono, e avendolo adottato come figlio (adozionismo), ha voluto dargli la funzione di redentore. Altro da Dio il L6gos, non a lui consustanziale, poiché tutto ciò che ha avuto realtà è provenuto per un atto di libera volontà da Dio, attra- verso il L6gos, anche lo Spirito Santo, il soffio vivificante di Dio pro- viene dal L6gos ed è perciò altro dal L6gos e da Dio. Senza dubbio la tesi di Ario precisa in una certa direzione la vec- chia questione del rapporto tra Dio e il suo Verbo. Egli, avvicinan- dosi ai monarchisti, nega, nelle conclusioni, la divinità del Figlio e con ciò stesso quella del Cristo, scostandosi cosi dalla interpretazione delineatasi nella Chiesa, e da quella della scuola di Alessandria che non poco si era servita della tesi neoplatonica sul rapporto Uno-Nùs-Anima. Certo, la immediata presa di posizione contro Ario da parte del ve- scovo di Alessandria, Alessandro, che fece espellere Ario dalla Chiesa di Alessandria nel 320 (Ario si recò allora in Palestina, poi a Nico- media presso Eusebio vescovo di quella città), dette luogo all'esigenza di definire e precisare la tesi opposta, che con il Concilio di Nicea (325), ove fu sostenuta da Alessandro, con l'aiuto del suo diacono Ata- nasio, divenne la tesi ufficiale e giuridica della Chiesa. Elaborata e pre- cisata da Atanasio,9 nato sembra ad Alessandria nel 295 circa, già dia- 9 Atanasio, nato ad Alessandria nel 295 circa, da genitori non cristiani, si converti presto. Nel 318-320 era già diacono di Alessandro vescovd di Alessandria_ Fin dal prin- cipio Atanasio coadiuvò nella polemica contro Ario il suo vescovo, e oon lui assistette al Concilio di Nicea (325). Morto Alessandro (328), Atanasio fu nominato vescovo di Alessandria. Tutta la sua vita fu consacrata alla lotta contro l'arianesimo. Quando Co- stantino cercò di riconciliarsi con Ario (335-336), l'Imperatore lo mandò in esilio a Treviri; morto Costantino, Atanasio nel 337 tornò ad Al~ssandria. Poco dopo, nel 340, dovette di nuovo esulare per volontà dell'imperatore Costanzo, istigato da Gregorio di Cappadocia. Tornò ad Alessandria alla morte di Gregorio nel 346. La politica filoariana di Costanzo lo costrinse a fuggire ancora una volta da Alessandria nel 356. Solo alla morte di Costanzo e all'avvento di Giuliano (362), che rimise nelle loro sedi tutti coloro ch'erano stati esiliati, per questioni religiose, Atanasio poté tornare ad Alessandria. Ma la foga di Atanasio preoccupò anche Giuliano, che lo fece allontanare ancora una volta. Morto Giuliano (363), avuto il sopravvento il Cristianesimo di Roma, Atanasio poté rientrare nella sua Sede, tranne la breve parentesi del 364-366, in cui, per ordine di Valente, ariano, Atanasio si allontanò per la quinta volta da Alessandria: dal 366 al 373, anno della sua morte, Atanasio visse tranquillamente ad Alessandria. Tra le prime opere di Atanasio si ricor<)ano Il discorso contro i Grui e il Discorso dell'incarnazione (bJa:v6p(l)7rljGE(I)~ = enantrop~seos) del Verbo, composti tra il 318 e il 320. L'opera piu importante contro gli ariani è costituita dai Discorsi contro gli Ariani (sono quattro discorsi, di cui i primi tre autentici). Si dubita che siano di Atanasio (si è pensato di qualche suo seguace) il Dell'incarnazione e contro gli Ariani, e il trattatello Sul testo: tutte le cose mi furono rivelate. Ispirati da Atanasio e, certo, della sua scuola sono gli scritti De Trinitate et Spiritu Sancto; Ddl'incarnazione contro Apollinare; L'in- 300    cono di Alessandria nel 318, successo ad Alessandro, in qualità di ve- scovo di Alessandria nel 328, la tesi dell'unità e trinità di Dio, della consustanzialità del Padre e del Figlio, riconosciuta ortodossa nel sim- bolo niceno, venne mantenuta e difesa ad oltranza da Atanasio, nei successivi grossi conflitti avvenuti dopo Nicea, a favore della tesi ata- nasiana o di quella ariana, quest'ultima seguita particolarmente da tutti gli elementi scontenti dell'ordinamento della Chiesa, e non solo Cri- stiani, ma anche pagani. Molti pagani anzi si convertirono al cristia- nesimo ariano vedendo in esso quella salvazione dell'uomo promessa da un Cristo non divino, ma uomo tra uomini, che nella aristocratiz- zazione, burocratizzazione, stabilizza.zione della Chiesa, veniva ad essere negata. Entro questi termini si vede bene come una discus- sione esegetica e teologico-filosofica implicasse, a sua volta, una grossa problematica politica. Non a casolo stesso Costantino, che, nèlla pole- mica tra la Chiesa e Ario, vedeva la possibilità di un indebolimento dell'autorità della Chiesa, per cui a Nicea appoggiò la tesi ufficiale, piU tardi, allorché si rese conto del mordente che in taluni ambienti ebbe l'arianesimo, manifestò, forse a ciò spinto anche da Eusebio di Cesarea, che sosteneva, sulla scia di Origene, che il L6gos è subordi- nato al Padre, una viva simpatia per gli ariani, tanto che, per evitare agitazioni, fece esiliare Atanasio a Treviri (335-336). Morto Costantino (337), le alterne e tragiche vicende successorie, portarono a seconda di chi ebbe di volta in volta il potere e a seconda della zona in cui piu forte era l'appoggio che poteva venire dalla cor- rente ortodosso-romana o dalla corrente ariana, a dare ora il soprav- vento ai sostenitori della tesi nicena ora ai sostenitori dell'arianesimo. Costanzo, uno dei tre figli di Costantino, impegnato in Mesopotamia nella lotta contro i Persiani, appena conosciuta la morte del padre accorse a Costantinopoli, dove fece uccidere i fratelli di Costantino e sette suoi nipoti, e assunse il potere in tutto l'Oriente; in Occidente dopo una guerra tra i due figli di Costantino, Costante e Costantino Il, morto Costantino II, ebl:ie, nel 340, il sopravvento Costante. Avuto il sopravvento in Occidente, Costante, legato ai circoli della Chiesa orto- dossa e favorevole perciò alle decisioni del Concilio di Nicea, mise al bando l'arianesimo. Atanasio, cosi, che all'indomani della morte di carna11ione di Dio; Uno è Cristo; Il discorso maggiore sulla f"de. Certamente di Atanasio invece sono le seguenti opere storico-polemiche: Apologia contro gli Ariani (del 348); Apologia all'lmp.,ratorc Costanzo (del 357); Apolugia dt:lla fuga; Della dottrina di Dionigi; Sui dur.,ti d"l sinodo niceno; Dci sinodi di Rimini e di Se/cucia (del 359) (una delle opc:re piu importanti di Atanasio, in cui fa la storia di questi due Concili). lncom· pleta è giunta la Storia degli Ariani, non piu che citata (Gerolamo, Dc vir. ili., 17) uno scritto Contro Valente e Ursacio. Opere di morale e d i edifu:azione sono: Vita di Sant'Antonio, Della Verginità (se ne dubita l'autenticità). Molte le lettere di Atanasio. Costantino era tornato ad Alessandria, ma che, su decreto di Costan- zo, imperatore in Oriente, ove l'arianesimo si era non poco diffuso, era stato costretto nel 340 a ritornare in esilio, poté, col favore del- l'imperatore di Occidente, Costante, ritornare in Alessandria nel 346. Morto Costante nel 350, vittima in Gallia di un complotto organiz- zato dal generale Magnenzio, le Gallie proclamarono imperatore Ma- gnenzio. Di contro, gli veniva opposto a Roma Augusto Nepoziano, nipote di Costantino l. Magnenzio accorse a Roma e Augusto Nepo- ziano venne ucciso. Le truppe dell'Illiria eleggevano intanto impera- tore il generale Vetranione, favorevole agli ariani (Ario, dopo il Con- cilio di Nicea era andato in esilio in Illiria). Dall'Oriente intervenne Costanzo, che, alleatosi con Vetranione, il quale rinunciò al potere (351), sconfitto Magnenzio, rimase unico imperatore. Costanzo evi- dentemente ritenne piu opportuno appoggiarsi alle forze cristiane ariane, particolarmente diffuse in Oriente e nell'Illiria, tanto che in un con- cilio della Chiesa tenuto a Milano fece condannare Atanasio che fu di nuovo cacciato da Alessandria (356). Solo alla morte di Costanzo, avvenuta nel 362, Atanasio poté tornare ad Alessandria. Costretto di nuovo ad abbandonare Alessandria sulla fine del 362 per ordine del nuovo ed unico imperatore Giuliano, in funzione della sua battaglia contro la Chiesa cristiana e contro, particolarmente·, l'assorbimento dello Stato nella Chiesa, Atanasio tornò ad Alessandria alla morte di Giuliano (363) e vi rimase fino al 365, quando venne anc9ra una volta esiliato dall'imperatore Valente, che, tuttavi·a, ben presto - resosi conto che oramai in Occidente la Chiesa piu forte era quella di Roma - lo reintegrò vescovo di Alessandria, ove rimase fino alla morte, avvenuta nel 373. Ario era morto nel 336, improvvisamente a Costantinopoli, mentre, su pressione di Costantino, stava per riconciliarsi solennemente con la Chiesa. Dopo il Concilio di Nicea ricordiamo che Aria era stato esi- liato nell'Illiria. Dopo Ario, oltre Asteria di Cappadocia, vecchio disce- polo di Luciano di Antiochia, che a favore della tesi di Ario aveva rac- colto una serie di testi (auv-rrxy!_J.oc-rtov-syntagmation) che dovevano ser- vire a provare che il Verbo è creato (cfr. Atanasio, Or. I, 30-34; Or. Il, 37; Or. III, 2, 60; De decretis, V, 28-31; De synodis, 18, 20), il vero e proprio capo politico della corrente ariana, come dice il Tixeront (Patrologia, cit., p. 147), fu Eusebio vescovo di Nicomedia (presso cui Ario si era rifugiato durante il suo primo esilio avanti Nicea), vis- suto fino al 342. L'arianesimo assunse poi piu facce, in una sempre piu sottile discussione sull'autentico significato da dare ai termini sostanza e simiglianza relativi a Dio e al Verbo, senza dubbio,. talvolta, in un'esigenza di riconciliazione con la tesi nicena. Entro i termini della discussione ariana si distinsero cosi tre cor- renti. La prima è quella degli ariani intransigenti, secondo cui il L6gos non è dissimile (ocv6tJ.OLO~-anòm.oios) dal Padre. Capo di tale corrente - detta degli anomci -, ricollegandosi a Paolo di Samosata, fu Potino, vescovo di Sirmio in Pannonia e quindi Ezio, originario di Antiochia, particolarmente preparato in dialettica aristotelica, che aveva studiato ad Alessandria. Ezio, elevato al diaconato nel 350, sostenne la tesi di Ario, usando la dialettica aristotelica, in una serrata dimostra- zione della contraddittorietà di porre due divinità, per cui il Verbo non può logicamente dirsi della stessa sostanza del Padre. Il Figlio perciò non si può porre che come una creatura inferiore, anche se la piu perfetta, e diversa dal Padre, ché, ragionevolmente, ciò che è gene- rato non può essere Dio (cfr.' Di Dio ingcncrato c del generato: qua- rantasette brevi ragionamenti in forma sillogistica, conservati da Epi- fanio in Hacrcs., 76, 11). Discepolo di Ezio fu Eunomio, originario della Cappadocia, diacono di Antiochia, infine vescovo di Cizico nel 361. Dal poo che è rimasto di lui, morto sotto Teodosio, si deduce ch'egli fu, come Ezio, un forte sostenitore dell'anomcismo, si corne lo furono Eudossio,' vescovo prima di Antiochia e poi di Costantinopoli (360- 369) e Giorgio vescovo di Laodicea (331-335). La seconda corrente è quella dei cosiddetti scmiariani, i quali p4r respingendo. la consustanzialità, cioè che il Figlio abbia la stessa so- stanza (otJ.oouaLo~-homousios) del Padre, sostengono che tra la sostanza del Padre e quella del Figlio vi è una certa somiglianza OtJ.OLOUaLoç - homoiusios). Capo dei semiariani fu Basilio vescovo di Ancira, morto nel 356 (scrisse due lunghe memorie teologiche, conservate da Epifanio, Hacrcs., 70, 3, 2-11 e 12-22), seguito poi da Eustazio, vescovo di Sebaste dal 357, il quale fu particolarmente un asceta, fondatore del monachesimo nell'Asia Minore e maestro di Basilio il grande. Poco o nulla sappiamo di Euzoio, vescovo di Cesarea nel 376, anche egli, sembra, seguace della corrente semiariana. Tesi molto piu equivoca, passibile di essere accettata dall'una e dall'altra parte, fu quella, secondo cui, senza approfondire la questione della sostanza, si diceva vagamente che il Verbo è simile (l5tJ.oLOIO- hòmoios) al Padre. Tale tesi, detta degli omèi,, fu sostenuta dal suc- cessore di Eusebio di Cesarea, Acacie (340-346), legato all'origenismo e elle prosegui ad arricchire la biblioteca di Cesarea, e dai vescovi Teodoro di Eraclea (325-355) ed Eusebio di Emesa (341-359), quest'ul- timo, secondo San Gerolamo (Vir. ili., 91), raffinato rètore ed esegeta seguace della scuola di Antiochia (cfr. sopra). Per altro verso la lunga discussione da parte ariana della tesi nicena dette luogo, a· sua volta, da parte dei difensori della consustanzialità c 303    della divinità del L6gos ad un approfondimento della tesi nicena, che se da un lato portò a migliori ed acute precisazioni, e, in funzione di quelle, a nuove interpretazioni della tesi plotiniana e origeniana, anche sul piano filologico (non a caso Gregorio di Nissa distinse il signifi- cato di sostanza da quello di persona), dall'altro lato dette luogo a una serie di grossi problemi intorno alla natura del Cristo, Dio e, ad un tempo, uomo. Per il primo aspetto, piu che al pedissequo seguace della tesi nicena, Didimo Cieco (vissuto dal 313 al 398), assai vicino, per altro, ad Origene, salito in fama di dotto maestro (per cui ad Ales- sandria andarono ad ascoltarlo Sant'Antonio, Palladio, Evagrio Pon- tico, San Gerolamo, Rufino), pensiamo qui ai celebri "luminari" di Cappadocia, San Basilio, San Gregorio di Nazianzo, San Gregorio di Nissa, i tre "padri" della Chiesa di Oriente; e per il secondo aspetto, ad Apollinare il giovane, nato nel 310 circa, amico di Atanasio, soste- nitore dell'unità e trinità di Dio, secondo il simbolo niceno, che per primo apri la discussione sulla natura divina o umana del Cristo, e la cui tesi venne condannata nel Concilio del 381, negando egli che il Cristo in quanto Verbo fattosi corpo potesse avere anima umana, ché l'anima è, origenianamente, il limite, il raffreddamento dello spirito, dovuto al peccato, alla ribellione a Dio e al L6gos che resta sempre peccato. Tutte queste discussioni, relative da un lato, ripetiamo, al come intendere il concetto di sostanza e di persona, dall'altro lato, posto che il Verbo è Dio, al significato da dare, allora, alla natura umana del Cristo, meglio si comprendono tenendo presente, ora, la formulazione dello stesso simbolo niceno, che, come ha sostenuto il Gilson (cit., pp. 59-60), delimita "il quadro all'interno del quale il pensiero cri- stiano dovrà oramai mantenersi" - avendo, aggiungiamo, avuto poi la Chiesa di Roma il sopravvento. Crediamo in un solo Dio, padre onnipotente, fattore delle cose tutte, delle visibili e delle invisibili. E crediamo in un sol nostro Signore Gesu Cristo, figlio di Dio, nato unigenito dal Padre, cioè dalla sostanza del Padre (èx -t~ç oòa(ocç -tou 'ltot-tp6ç ), Dio da Dio (0r:òv èx 0r:ou ), luce da luce, Dio vero da vero Dio, generato non fatto (yevv'rj6~not où 'ltOL'rj6énot), della stessa sostanza (OfLOUaLov - homusion) del Padre (consustanziale al Padre), mediante cui tutte le cose sono nate, quelle che sono in cielo come quelle che sono in terra; il quale, per noi e per la nostra salvezza, è disceso, si è incarnato, ha sofferto, è resuscitato il terzo giorno, è risalito nei cieli, e verrà a giudicare i vivi e i morti. E crediamo nello Spirito Santo. Quanto a coloro [ariani] che dicono: tempo vi fu in cui egli non era, o che non era prima d'esser statà generato, o è nato dal nulla, o è di un'altra ipostasi o di un'altra sostanza, o che il Figlio di Dio è creato (x-tLa't6v ), o mutevole, 304    o sottomesso al cangiamento, tutti costoro la Chiesa cattolica e apostolica di Dio li anatemizza. d) Dalla religione di Stato di Giuliano imperatore al Cristiane- simo religione di Stato. Il "neoplatonismo" di Giuliano e la funzione del mito. Sa/lustio. L'Impero d'Occidente tra il IV e il V secolo. Alla morte di Costanzo, avvenuta nell'ottobre del 361, in Asia Minore, unico imperatore fu riconosciuto il cugino di Costanzo, Flavio Claudio Giuliano/0 nato nel 331, figlio di Giulio Costanzo, fratello di Costan- tino l. Il padre e i fratelli di Giuliano, tranne Gallo, erano tutti caduti vittime delle stragi familiari perpetrate da Costanzo. Anche Gallo, scampato alle prime stragi, insieme a Giuliano, verrà condannato a morte da Costanzo al tempo in cui l'imperatore, per venire a com- battere Magnenzio (cfr. sopra), aveva nominato Gallo, Cesare per l'Oriente. Gallo, sospettato da Costanzo d~ volersi impadronire del trono in Oriente, fu fatto uccidere nel 354. Costanzo, allora, tornato in Oriente, fu costretto a nominare Cesare Giuliano, mandandolo nelle Gallie (355) ad ostacolare le pressioni dei Franchi e degli Alemanni. Alla morte del padre e degli altri fratelli (337), Giuliano aveva sei anni. Insieme al fratello Gallo fu dal sospettoso Costanzo tenuto semi- prigioniero ed affidato ad Eusebio vescovo di Nicomedia che lo allevò nella piu ferrea disciplina cristiano-ariana e nell'odio contro le religioni e le culture non cristiane. Morto Eusebio (342), i due fratelli vennero relegati in una villa della Cappadocia, ove ebbero per maestri ferventi cristiano-ariani, ligi agli ordini impartiti da Costanzo, che non voleva che i due giovani conoscessero e leggessero i grandi autori dell'anti- chità. Uno dei maestri di corte, tuttavia, un certo Mardonio, in segreto fece leggere a Giuliano alcune opere di poeti e di filosofi greci.:t: facile rendersi conto di come tutto un mondo nuovo (e proibito) si aprisse in tal modo a Giuliano, oppresso dall'insegnamento cristiano voluto dall'alto e proveniente da uomini ch'erano suoi nemici. Nel 10 Sulla vita di Giuliano (Flavio Claudio), nato a Costantinopoli nel 311, morto, in battaglia, il 26 luglio del 363, per ciò che qui interessa, confronta sopra, il testo. Di Giuliano si sono conservate le seguenti opere: Orazioni, I-VIII: particolarmente importanti sono l'Orazione IV al rt: Elios, l'Orazione V alla Dt:a maàrt:, l'Orazione VI Contro i cinici ignoranti, in cui si difendono gli antichi cinici, l'Orazione VII Contro il cinico Eraclio, l'Orazione VIII Consolatoria pt:r la partt:nza di Sallustio, l'Orazione II Sul sovrano idt:alt: (furono scritte in epoche diverse: le Orazioni I e III, panegirici di Costanzo Il e di Eusebia, nelle Gallie, tra il 355 e il 356; l'Orazione II, nell'inverno 358-359; l'Orazione VIII nel 361; le Orazioni V! e VII nel 362; le Orazioni IV' e V sulla fine del 362); Lettt:rt:: agli Att:nit:si (in numero di 4, scritte nell'autunno del 361) e al filosofo Tt:mistio (del 362); l Cuari; Misopogon; numerose lt:ggi. Tra i molti fram- menti di opere perdute particolarmente interessanti quelli dello scritto Contro i Cristiani e di una lettera ad un sacerdote. Sono andati perduti un libro Sulla battaglia di Strasburgo e le Lt:ttt:rt: ai Corinti, ai Laet:dt:moni, al St:nato di Roma. 305    Cristianesimo, da allora, Giuliano vide da un lato una religione fana- tica, torbida, chiusa in discussioni teologiche assurde, oppressive, dal- l'altro lato lo strumento di un potere politico che nella sua intolleranza - di questi anni, tra l'altro, è l'opera di Firmico Materno, in cui si chiede all'imperatore Costanzo la distruzione e la persecuzione dei pagani - avrebbe annullato la possibilità di una religione universale, ove trovassero il loro posto le varie religioni e culti, espressioni tutte di un unico e naturale sentimento religioso. Nominato Gallo Cesare, Giuliano era stato chiamato da Costanzo a Costantinopoli perché vi compisse gli studi superiori, ma sotto la guida del rètore cristiano Ecebolio, noto come il "dispregiatore degli dèi." A Nicomedia, dove, poco tempo dopo, Costanzo volle che Giuliano tornasse, Giuliano, in segreto - ufficialmente si finse fervido cristiano, entrando perfino nel clero di Nicomedia - prese contatto con il celebre rètore Libanio (di Antiochia, vissuto dal 314 al 393 circa), del quale leggeva le lezioni, passategli da un uomo ch'egli aveva prezzolato a tale scopo. Attra- verso Libanio - il quale dirà poi che Giuliano aveva compreso meglio di coloro che lo avevano ascoltato il significato del suo insegnamento, del platonismo, della religiosità greca - e attraverso l'insegnamento dd neoplatonico Massimo di Efeso (cfr. sopra), che, in segreto, andò a trovare ad Efeso, Giuliano si approfondi nella lettura dei poeti, dei filosofi, nella scienza magica e teurgica· (per i rapporti tra Giuliano e i filosofi della scuola neoplatonica di Pergamo e di Siria, cfr. sopra), nei segreti degli Oracoli Caldaici (cfr. sopra). Morto Gallo, nominato_Cesare e inviato nelìe Gallie, Giuliano sgo- mento dapprima di dovere affrontare la vita pratica, militare, politica ("non è affar mio," esclamò, "hanno messo la sella su di una vacca"), si dimostrò abile condottiero (nel 35.7 sconfisse ad Argentorati gli Ale- manni), e diplomatico (riusd ad accordarsi con i Franchi), mentre si adoperava a sanare contrasti politici e ideologici, sostenendo il valore di un'unica intesa nella coscienza di un'unica cultura e tradizione, messa in discussione dall'unilateralità e dall'esclusivismo dei Cristiani. Costan- zo nel 359, preoccupato per l'attacco ai territori romani da parte di Sapore II di Persia ch'era riuscito a passare in forze il Tigri, chiese a Giuliano aiuti. Giuliano, intanto, aveva promesso ai barbari incamerati nel suo esercito che non avrebbe mosso dalla Gallia i Galli. Costanzo premette. In Gallia scoppiò una rivolta contro Costanzo e Giuliano fu acclamato Augusto. Giuliano chiese a Costanzo di riconoscerlo Augusto. Costanzo tacque. Giuliano si mosse verso l'Illiria. Costanzo decise allora di andargli incontro, ma durante il viaggio, nell'ottobre del 361 morL Giuliano fu riconosciuto allora unico Imperatore. È sembrato opportuno, sia pur brevemente, discorrere della vita e 306    della prima formazione di Giuliano perché ciò spiega, in parte almeno, l'atteggiamento non cristiano del cristiano Giuliano, e le sue piu pro- fonde ragioni. Non sembra cosi errato dire che la religiosità di Giu- liano, la sua esigenza di una pacificazione cattolica, l'esigenza di certo cristianesimo stesso, nel quale non a caso Giuliano fu allevato, sta nella conversione di Giuliano, nella cosiddetta apostasia di lui, nel suo negare il Cristianesimo come unica e vera religione. In Plotino, invece, mediato attraverso Giamblico, Giuliano vedeva la possibilità di un'au- tentica religione universale razionalmente fondata, capace di accogliere in sé i miti e le religioni della tradizione greco-romana, anche il Cri- stianesimo, in quello ch'era l'aspetto piu plotinico (non ariano) del Cristianesimo, pur sapendo che tali religioni sono in realtà miti, ma simbolicamente validi ad avviare alla comprensione degli dèi e delle divinità, momenti, estrinsecazioni dell'unica legge divina (di qui, an- cora una volta, entro l'àmbito del neoplatonismo, il significato dato da Giuliano all'elioteismo e all'antico culto della Dea madre: cfr. in par- ticolare le Orazioni IV, al re Elios e V alla Dea Madre degli Dèi; sul significato dei miti cfr. in particolare l'Orazione VII, contro Eraclio). Entro questa visione di un tutto ordinato, si scandiscono dall'Uno tutti gli aspetti della realtà. Oltre tutto l'Uno, ragion d'essr:re del tutto, esso è il sovraintelligibile, l'Idea degli esseri, il Bene: "questo invero, sia che dobbiamo designarlo come ciò che sta oltre l'Intelletto, oppure come l'Idea dell'Essere, intenderrdo cosi tutto il mondo intelligibile, o chiamiamolo anche l'Uno, per il motivo che l'Uno sembra in qual- che modo anteriore a tutte le cose, oppure per usare il termine solito di Platone, il Bene, appunto questa causa uniforme di tutte le cose è fonte per tutti gli esseri di bellezza, di perfezione, di unità e di po- tenza irresistibile" (Al re Elios, 132d). La prima distinzione dell'Uno è l'Intelletto, nei suoi due momenti dialettici, in senso giamblicheo, di mondo intelligibile - mondo delle idee - e di mondo intellettuale - le attività pensanti, - donde gli dèi intelligibili, di cui primo, figlio del Bene, secondo il mito platonico, è il Sole, e da questi gli dèi intel- lettuali, al di sotto dei quali si scandiscono il mondo sensibile, le divi- nità visibili, gli astri, il tutto tenuto in unità, simbolicamente dal Sole, riflesso dalla luminosità dell'Uno, che dà essere, vita e intelligi- bilità a tutto, onde il dio Sole è termine medio· tra il mondo intelli- gibile e il mondo sensibile, mediante cui la luminosità dell'Uno si viene, per cosi dire, materiando nella luce di cui tutto è costituito. La luce alla sua volta è una forma di questa per cosf dire materia, che.è sostrato e segue l'estensione dei corpi luminosi. E della luce stessa che è incorporea i raggi sarebbero in certo qual modo il vertice e come il fiore. 307    E appunto secondo l'opinione dei Fenici che sono sapienti e informati nelle cose divine:, lo splendore luminoso ovunque diffuso è la incontaminata estrin- secazione attiva del puro Intelletto... Il mondo intelligibile forma assolutamente un'unità, preesiste dall'eterno a ogni cosa e tutto abbraccia insieme nella sua unità. E non è forse anche l'intero universo un solo organismo vivente, tutto ripieno d'anima e di spirito, un tutto perfetto costituito di parti perfette? [cfr. Timeo, 33a]. Vi è dunque una duplice perfezione unificatrice, cioè quella unità che comprende nell'uno tutto ciò che esiste nel mondo intelligibile e quella che intorno al mondo visibile si concentra in una sola e medesima perfetta natura. Nel mezzo sta la perfezione unificatrice di Elios Re, la quale risiede tra gli dèi dotati di intelletto. E successivamente nel mondo degli dèi intelligibili vi è una specie di forza avvincente che tutte le cose coordina verso l'unità. La sostanza del quinto elemento che si muove nella propria orbita tiene riunite tutte le parti e le stringe tra loro... Queste due sostanze che cooperano alla connessione, delle quali l'una appare nel mondo intelligibile, l'altra nel sensibile, Elios Re le congiunge in una sola... (A Elios, 134a-139b-c). Entro questa visione di un tutto ordinato, dall'Uno ai molti, limiti e ombre nell'unità luminosa del tutto, ove, indipendentemente da qual- sivoglia intervento miracoloso, l'anima, per limitata che sia, per presa che sia dalle cose, per dimentica che sia della sua origine, ha pur sempre in sé una scintilla divina, è un seme dell'unico Dio, di tutti padre ("certo io invidio pure la sorte fortunata di ~olui che poté avere dalla divinità un corpo costituito da un seme divino e profetico,... ma so anche che di tutti gli uomini Elios è il padre comune": A Elios, 131b-c), ricordandosi del quale può, con le sue forze, purificarsi, tor- nare da dove è venuta. Di qui l'appello di Giuliano a una serietà di vita, da un lato intesa come mestiere e dovere, in. una ideale vita stoico- cinica (non a caso Giuliano ne I C~sari si sofferma con simpatia sulla vita e sull'opera di Marco Aurelio, ch'egli prende a modello del suo mestiere di imperatore, mentre si compiace di ·ricordare i cinici del tempo antico: cfr. Oraz. VII Contro il cinico Eraclio e Oraz. VI Contro i cinici ignoranti, in difesa dell'antico cinismo), dall'altro lato come purificazione, mediante cui liberarsi dai limiti terreni, riscoprire l'anima, riconducendola, anche attraverso pratiche magico-teurgiche (cfr. sopra il significato piu profondo é nient'affatto torbido della magia e della teurgia), alla patria celeste donde è venuta. Il che non signifi- cava per Giuliano negare il Cristianesimo, particolarmente il çristia- nesimo non ariano, in quanto religione, ma si in quanto unica e vera religione, non mitica come le altre, nella sua pretesa d'essere l'unica verità rivelata da Dio (si vedano i frammenti dello scritto Contro i Cristiani, ove riprendendo gli argomenti di Celso e di Porfirio con molta acutezza Giuliano, confrontando il Vecchio e il Nuovo Testa- mento con la teologia greca, cerca di mostrare da un lato le contrad- dizioni del Vecchio e del Nuovo Testamento, e il loro significato se assunti anch'essi come miti popolari, dall'altro lato data la loro parzia- lità, la loro intolleranza esclusivistica, l'impossibilità che sul Cristiane- simo si fondi una religione universale, tale da pacificare e moraliz- zare, in unità, gli aspetti molteplici in cui si presenta la vita religiosa nei suoi culti diversi). Di qui sul piano politico di una organizzazione religiosa, di contro all'intolleranza cristiana, la tolleranza di Giuliano, anche nei confronti della religione cristiana; Giuliano, sotto questo aspetto, non condannò né perseguitò i Cristiani, mantenendo validità legale all'Editto di Milano (313). Volle solo, proprio in nome di quel- l'Editto, che anche i Cristiani rientrassero nell'ordine, si adeguassero ad essere considerati come facenti parte di una certa religione, posta, al pari delle altre, entro i termini dell'unica organizzazione politica delle varie religioni, nell'istituzione - a imitazione dell'organizzazione ecclesiastica cristiana - di un vero clero professionale e di una gerar- chia religiosa, ignota ptima di allora alle religioni greco-romane. Si capisce cosi come una delle prime misure prese da Giuliano sia stata quella di far tornare nelle loro sedi tutti coloro che per motivi reli- giosi erano stati esiliati da Costanzo (tra questi vi fu, in principio, anche Atanasio) e che fossero restituiti ai legittimi proprietari i beni confiscati per motivi religiosi (di ciò godettero particolarmente i templi pagani ai quali erano stati tolti tesori, terre, edifici, passati a comunità cristiane). Giuliano, infine, decretò la chiusura delle scuole rette da grammatici, rètori, filosofi cristiani (Editto del 362), sostenendo che il loro unilaterale insegnamento, il loro escludere poeti e filosofi antichi era un danno per l'insegnamento stesso, per la libera ricerca. Naturalmente tutto ciò apparve da parte cristiana una persecu- zione, mentre molti che in precedenza erano stati danneggiati dai cri- stiani, sentendosi appoggiati dall'Imperatore, si dettero a vendette che portarono anche all'uccisione di non pochi cristiani (ad Alessandria la folla uccise il vescovo Giorgio). In realtà, l'intento di Giuliano non fu un mero ritorno al pas- sato, come troppo superficialmente è stato detto, giudicando solo dal punto di vista della reazione cristiana, non fu un'accademica restaura- zione di culti e religioni morti da tempo. Esso fu piuttosto - anche se in termini eccessivamente scolastici,...... dettato dall'esigenza profonda, com- prensiva di una situazione storico-culturale ben precisa, di una pacifica- zione di ideologie, fomite di lotte e di conflitti, in una comune religione di Stato, entro cui potessero convivere in armonia culti e riti diversi, ri- spondenti tutti ad un'unica naturale religione, che Giuliano, sulla scia dei 309    suoi amici neoplatonici di Pergamo e di Siria, vedeva realizzabile entro i termini della filosofia plotinico-giamblichea, corposamente e mitica- mente traducibile nei termini della religione solare. Non solo, ma un'at- tenta lettura delle opere di Giuliano, se da un lato rivela il suo intento politico, di instaurare una religione di Stato, in nome della tolleranza, riportando con ciò anche il Cristianesimo entro i termini legali (tale il significato del mantenimento dell'Editto di Milano), dall'altro lato rivela come Giuliano si sia mos-so entro l'àmbito di quella koinè cultu- rale di cui parlavamo e per cui non poche volte è difficile - e non solo per Giuliano - distinguere tra testi che poi nelle loro conclu- sioni sono nettamente cristiani, da testi che nelle loro conclusioni sono irriducibili alla visione ed alla concezione cristiana. E ciò particolar- mente vale sia quando si tratta di immagini (in special modo quelle tratte dalla luce), sia quando si tratta della superessenzialità dell'Uno Dio. E cosi, che gli dèi di Giuliano, sulla linea stoica e neoplatonica, siano intesi come simboli e che i culti e le descrizioni delle religioni siano intesi come miti, senza di cui in realtà le religioni stesse non sarebbero, e che dèi e miti vadano interpretati allegoricamente, risulta non solo dallo stesso Giuliano, ma, piu chiaramente· ancora, da una breve opera, Sugli dèi e sul mondo, di un intimo amico di Giuliano, Sallustio,11 che con molta finezza discute il significato del mito, entro l'àmbito di una precisa concezione neoplatonica e solare. Gli dèi (en- cosmici e ipercosmicz) sono considerati come emanazioni e "forze" visibili che derivano dall'invisibile Unico Dio, causa delle cause, super- essenziale, potenza assoluta, entro cui si scandisce in eterno il ritmo di tutta la realtà (coeterno a Dio e in Dio è decisamente detto il mondo), unico mondo, molteplice e uno nell'Uno, e dove il "male," 11 Si è per secoli molto discusso sull'autore del breve trattato D~gli dèi ~ del mondo. Si è sostenuto che fosse opera di un cinico sofista del v-vi secolo (Sallustio di Emesa); il Naudé pensò si trattasse di un tardo autore stoico; il Wilamowitz di un Sallustio grammatico, autore di argomenti sulle tragedie di Sofocle; infine, da Orelli a Mullach, a Cumont, a Tillemont, si è sostenuto trattarsi di un Sallustio, alto funzionario dell'Im- pero e amico intimo di Giuliano Imperatore. Poiché intorno a Giuliano ruotarono due Sallusti, Flavio Sallustio e Secondo Sallustio, il primo prefetto delle Gallie, il secondo pre- fetto d'Oriente, si è trattato di accertare a quale dei due debba darsi la paternità Degli d~ e del mondo. Se il Cumont propendeva per il primo, spiegando l'epiteto di filosofo riportato da tutta la tradizione manoscritta del trattatello con una cattiva lettura dell'ab- breviazione ~À = ~Àa:~(ou per ~~Àocr6cpou; dopo che la pubblicazione della raccolta delle Iscrizioni dell’Hermann Dessau (“lnscriptiones latinae selectee”, I, Berlino, p. 276) ha permesso una ricostruzione esatta della carriera e delle mansioni presso Giuliano dell'uno e dell'altro Sallustio, ci si è convinti che il Sallustio autore del trattato Degli dèi e del mondo, è Secondo Sallustio ch'ebbe molti piu contatti con Giuliano, il cui scritto è senza dubbio ispirato alle opere filosofiche di Giuliano, tanto che si è fatto l'ipotesi che il Degli dèi e del mondo sia stato composto nel 362 (si confronti in particolare G. Rochefort, ln- troduction à Saloustios: Des di~u:r et du m'ar:de, texte établi et traduit par G. R., "Les Belles Lettres," Parigi)] si come la materia, non ha alcuna realtà positiva, ma è dovuto all'in- comprensione umana, all'ignoranza, all'unilaterale visione del tutto esteriorizzata ("non esiste alcun male positivo, si come non v'è alcuna oscurità positiva, ma solo mancanza di luce": Sallustio, XII, l) (Per l'importanza storica e per il significato anche politico, in funzione della politica di Giuliano, di questo libro di Sallustio, che il Murray ha definito una "sorta di credo ragionato, per fissare in modo convin- cente le linee generali della... religione ellenica," rimandiamo allo stesso Murray, Five Stages of Greek Religion, New York, 1955, e a G. Roche- fort, lntroduction à Saloustios, Des dieux et du monde, texte établi et traduit par G.R., Parigi) Il tentativo di Giuliano non rimase un mero episodio, anche se alla sua morte, avvenuta in battaglia, nel 363, nella guerra contro i Persiani, con la nomina a imperatore, nel 364, di Gioviano, cristiano, crollò subito l'edificio da lui creato di un sacerdozio professionale del- l'unica religione di Stato. Sia pure in termini rovesciati, cioè nel soprav- vento della religione cristiana, si giunse, necessariamente, alla procla- mazione dell'unica religione dell'Impero (sotto Teodosio l, trent'anni circa dopo la morte di Giuliano). In realtà, la stessa concezione reli- giosa di Giuliano, la sua comprensione della necessità politica di una religione universale, che egli vedeva compromessa dall'intolleranza del Cristianesimo, erano piu vicine di quel che possa apparire a prima vist~ alle esigenze ed alla situazione politico-sociale cui, almeno in Occidente, rispondeva la forza interna - morale, organizzativa, economica - del Cristianesimo. E cosi fu. La nota decadenza politico-militare implicò una sempre piu drammatica tragedia economica. Basti ricordare che proprio in questo tempo si venne formando un sistema di rapporti fondato sull'economia chiusa e sul servaggio. Gli stipendi, i tributi e cosi via cominciarono ad essere pagati in natura (moneta l'ebbero solo funzionari e militari d'alto grado). In un sempre maggiore aggravio fiscale per venire incontro alle spese militari, per evitare che le popo- lazioni non pagassero le imposte, si venne via via costringendo cia- scuno a non trasferirsi piu dalle terre sulle quali lavorava. Il commer- cio si venne estinguendo, o riducendo in prevalenza al solo mercato urbano. Naturalmente le poche forze economic~e rimaste si vennero raccogliendo nelle mani dei grossi proprietari terrieri, che vennero costi- tuendo come tanti piccoli stati nello Stato che di fronte a loro ·non aveva piu potere. In tale tipo di economia, già feudale, il potere dello Stato venne sempre piu spezzandosi nelle mani di ciascun singolo proprietario. Fuggire via dall'Impero, presso i barbari, o, se possibile, raccogliersi sotto la protezione dei proprietari, sembrò il mezzo mi- gliore per evitare lo Stato, che, in effetto, non esisteva piu. E intanto - scrive Salviano nel v secolo - i poveri, le vedove e gli orfani, spogliati e oppressi erano giunti a un punto di disperazione tale che molti, pur appartenendo a famiglie note e avendo ricevuto una buona educazione, erano costretti a cercare rifugio presso i nemici del popolo romano per non rimanere vittime di· ingiuste persecuzioni. Essi si recavano presso i barbari in cerca dell'umanità romana, poiché non potevano sopportare presso i Romani l'inumanità barbara. Sebbene essi fossero estranei, per costumi, per lingua, ai barbari presso i quali fuggivano, sebbene fossero colpiti dal loro basso livello di vita, nonostante tutto risultava loro piu facile abituarsi ai costumi barbari che sopportare la ingiusta crudeltà dei Romani. Essi si mette- vano al servizio dei Goti o dei Bagaudi [coloro che in Gallia, particolarmente contadini e schiavi, avevano costituito un forte e autonomo movimento anti-romano: in celtico “bagaudi” significa "combattenti," "lottatori"], e non se ne pentivano, preferendo vivere liberamente con il nome di schiavi, piuttosto che essere schiavi mantenendo soltanto il nome di liberi (De gubernatione Dei, V). Chi non poteva andar via prefer1 rifugiarsi presso i grandi proprie- tari terrieri. Tale decadenza e tale crisi portarono dietro a sé la sempre piu sentita esigenza di un potere gerarchicamente costituito. La chiesa, almeno in Occidente, sia per la sua organizzazione e gerarchizzazione, sia per essere divenuta tra i proprietari uno dei piu grandi, sembrò offrire l'unica possibilità di salvazione, da un lato accogliendo nel suo seno (clero), dall'altro lato proteggendo il popolo cristiano (laici), sosti- tuendosi cosi al potere centrale, oramai in realtà inesistente. Non a caso, alla fine, Teodosio I (378-395) proclamò nel 380, con un editto, che l'unica religione dell'Impero doveva essere "quella che il divino apostolo Pietro aveva trasmesso ai Romani," decretando perciò illegali tutte le altre religioni, che vennero perseguitate e i cui beni vennero confiscati, mentre i templi venivano distrutti. Dopo Teodosio, con il definitivo rompersi dell'Impero in due, con l'effettivo esaurirsi del po- tere politico in Occidente e con il lento prevalere dei barbari, con la caduta di Roma (410), tanto piu evidente sembra la linea attraverso cui. l'Impero di Roma si trasformò nell'Impero cristiano-barbarico, fino ad una sua qual sistemazione con Teodorico. Dopo la morte di Giuliano, intanto, ripreso il sopravvento il Cri- stianesimo, in seno alla Chiesa piu violenti si fecero i contrasti tra ariani e ortodossi, in un conflitto che mise a repentaglio l'unità della Chiesa. Non a caso, proprio per il pericolo che l'unità della Chiesa si rompesse, determinando piu religioni, piu fedi, esaurendo cosf le sue forze politiche, Ottato di Milevi, cattolico africano, sia pure in forma paradossale, combattendo contro la tesi donatista, sostenuta da Parme- niano, vescovo donatista di Cartagine, in un suo libro contro i catto- 312    !ici, secondo cui la religione cristiana nulla deve concedere allo Stato, rimanendo esperienza di pochi eletti, profondamente personale e indi- viduale, poteva esclamare che, invece, la Chiesa doveva divenire lo Stato, anche a costo di subordinarsi allo Stato (De schismate Dona- tistarum, III, 3: il De schismate fu composto nel 365 circa). Ancora una volta, conflitti teologici rispecchiano piu profondi e aspri conflitti politici. Entro questi termini, nella polemica tra atanasiani e ariani, assunse un suo particolare significato il rifarsi o meno alla concezione neoplatonica-plotinica, mediante cui si venne delineando una piu pre- cisa koinè culturale. Di qui l'interesse di vedere ora, sia pur nelle sue linee essenziali, l'ultima formazione di tale koinè culturale, le sue com- ponenti, il conflitto tra ortodossi e ariani, la diffusione di un certo "neoplatonismo" in Occidente, il costituirsi del neoplatonismo di Ales- sandria e di Atene, insieme alla funzione data ai repertori e alle sil- logi, e particolarmente a certi ben precisi testi di Aristotele e della logica del primo stoicismo. Caio Mario Vittorino. Firmico Materno. Teone di Alessandria. \.ltrettanto fondamentali, relativamente all'area di lingua latina, furono, ntro i termini della preparazione culturale e per la circolazione di:lee e di testi in Occidente, gli scritti di Mario Vittorino. E qui va:nuto presente che Mario Vittorino 8 - nato in Africa, nel 300 circa, 8 Caio Mario Vittorino, nato nell'Africa proconsolare verso il 300, muore a Roma lal 362 circa si perdono le sue tracce). Maestro di grammatica e di retorica prima in Erica, a Roma poi, dove godette di notevole fama (gli fu eretta una statua nel foro 1iano: cfr. Agostino, Confessioni), nel 355 si conveni al Cristianesimo (sulla sua cun- rsione cfr. la celebre pagina delle Confessioni di Agostino: VIII, 4). Nel 362, per il creto di Giuliano, che proibiva ai Cristiani d"insegnare retorica, fu costretto a chiudere sua scuola. Di lui restano: “Ars grammatical”; Commento al "De inventione" di Cicerone; De] e formatosi in quelle celebri scuole di retorica - fu innanzi tutto maestro di retorica, prima in Africa, poi, al tempo di Costanzo (337-361) in Roma, dove ebbe numerosi discepoli di alto lignaggio, dove sali in grande fama; tanto che, in suo onore, fu eretta una statua nel foro traiano (cfr. S. Agostino, Confessioni, VIII, 2, 3). In parte all'epoca dell'insegnamento in Africa e in parte all'epoca del primo insegnamento a Roma, risalgono le opere di Vittorino a carattere grammaticale, retorico, logico-retorico. Tali opere, anzi, vanno vedute entro l'àmbito dell'insegnamento della retorica e in funzione di quello, ed è entro i termini dell'insegnamento delle scuole grammatico-retorico-logiche latine, entro il loro aspetto scolastico formale che assumono un loro particolare significato. Se cosi da un lato Mario Vittorino, inteso a formare uomini di cultura, compone un'”Ars grammatical” e commenta il “De inventione” e i “Topici” di Cicerone, dall'altro lato traduce il “De interpretation” e le “Categorie di Aristotele”, di cui fece anche un commento, componendo inoltre due scritti di logica, il “De definitionibus” e il “De syllogismis hypotheticis”, mentre traduce I'“Isagoge” di Porfirio. Tutti questi scritti e le traduzioni delle opere piu grammatico-formali della logica aristotelica, rivelano molto chiaramente che lo studio e l'insegnamento di Vittorino sono volti a determinare i quadri dei possibili discorsi, le condizioni su cui fondare, mediante le definizioni, sulle quali si basa l'accordo, un tipo di discorso, coerente in sé, e perciò verace, mediante cui convincere. Di qui l'importanza data da Vittorino da un lato al metodo retorico-filosofico di Cicerone e, dall'altro lato, al sillogismo ipotetico di origine teofrasteo-stoica, e, perciò, in quanto studio delle forme grammatico-linguistiche che permettono i giudizi, alle “Categorie” e al “De interpretation” di Aristotele, che non a caso Vittorino considera secondo l'aspetto formale a cui da l'avvio I'Isagoge di Porfirio, interpretata in chiave ciceroniana. Sotto questo aspetto, le tecniche dei discorsi, le loro strutture, intrinsecamente necessarie, costituentesi, attraverso le definizioni, in quadri (topoi), e in sillogismi, sono neutre, indipendenti da quelle che possono essere le strutture della realtà. Negli anni del suo insegnamento, in Africa, e nei primi a Roma, sembra che Vittorino apertamente ·si opponesse al gratuito passaggio definitionibus; la cosiddetta Enneade di Vittorino, composta di nove opere teologiche: tre trattati contro gli ariani (Contro Ario, del 358; Della generazione del Verbo divino, del 358; De homoousio recipiendo, del 360); tre inni sulla Trinità (del 360); tre commenti alle Epistole di Paolo ai Galati, agli Efesini e ai Filippesi (dopo il 360). 

 

Perdute sono andate le seguenti opere: 

 

il Commento ai Topici di Cicerone, la traduzione delle Categorie e del De interpretatione di Aristotele, la versione dell'Isagoge di Porfirio (ricostruibile attraverso la discussione che ne fece BOEZIO), la versione di parte almeno delle Enneadi di Plotino, il De syllogismis hypotheticis] del Cristianesimo dal piano logico al piano della FONDAZIONE DEL DISCORSO su di un atto volontario e irrazionale. 

 

Solo che la lettura dei testi biblici; fatta da Vittorino, testimonia Sant'Agostino (Confessioni, VIII, 2 sgg.), per dimostrare la contraddittorietà della tesi ebraico-cristiana e per altro verso l'incontro, in Roma, con i libri dei neo-platonici (sembra che Vittorino abbia tradotto alcuni testi di Platone e, forse, le Enneadi di Platino, su cui si sarebbe poi formato Sant'Agostino), lo avrebbero condotto a questa triplice considerazione. 

 

La retorica, valida appunto finché è neutra, se tale resta risolvendo tutta la realtà in parole, si taglia dietro ogni possibilità di comprensione del vero, di contatto con il senso della realtà. 

 

Nell'insegnamento neo-platonico si trova che LA CONDIZIONE STESSA DEL DISCORSO si coglie in una conversione dell'anima su se stessa rivelante alla fine che quella condizione è la fondazione stessa del tutto che trascende dal di dentro. Si riconosce alla fine, che la possibilità della conversione, dell'anima che ritrova se stessa, la capacità del riscatto dal limite, è dovuta alla rivelazione, all'intervento del Cristo. 

 

Vittorino si fece cristiano, pubblicamente smentendo il se stesso dei primi anni, in Roma (cfr. S. Agostino, cit.). 

 

Dopo di allora, obbligato, poi, a chiudere la sua scuola dalla legge di Giuliano, si apparta dalla vita pubblica, dedicandosi esclusivamente da un lato a commentare le Lettere di Paolo ai Galati, agli Efesini e ai Filippesi, dall'altro lato a giustificare, usando le tesi platoniche sull'Uno, il dogma della Trinità e della consustanzialità, di contro alla tesi, logicamente sostenuta, dell'ariano Candido. Di qui le ultime opere di Vittorino: "Della generazione del Verba divino," in risposta alla Generazione divina di Candido (lucida operetta in cui, sulla scia di Eunomio, si sostiene, ammesso Dio assoluto e perfetto, ingenerato e immobile, che impossibile, logicamente contraddittorio è ammettere che il Verba di lui sia ad un tempo generato e ingenerato, e quindi ad un tempo sia e non sia della stessa sostanza del Padre, sia e non sia essere); quattro libri Contro Aria (358); un breve trattatello De homoousio re- cipiendo (360). 

 

La risposta a Candido di Mario Vittorino, si fonda, rifacendosi al concetto di Uno di Platino, su di un paralogismo e conseguentemente, posta una certa definizione (non sostanziale, ma verbale), su di un sillogismo ipotetico.  

 

Se Dio è l'Essere, la ragion d'essere del tutto, Dio è di là dallo stesso essere, indefinibile in sé, in quanto ha in sé tutte le possibili definizioni, e, perciò tutte le possibili esistenze, anche l'esistenza di se stesso. 

 

Prima di ogni essere, prima di ogni esistenza, unità in cui tutto è indistinto, uno nell'uno (hoc enim unum ante on, supra omnem existentiam, supra omnem vitam, supra omnem conoscentiam, super omne on et pantòn 6nt6n ònta"), di Dio neppure si può dire che sia ingenerato, o meglio ch'egli abbia una certa sostanza, un certo intelletto, neppure che è essere, anzi, rispettiva- mente agli esseri, si può dire, forse, meglio ch'egli è non essere (Generazione del Verbo divino, 12), cioè il suo essere sta nella sua potenza di trarre fuori da sé l'essere di riconoscersi nell'essere, tutto potenzial- mente in lui. La potenza di Dio è, allora, la sua essenza, la sua crea- zione, onde l'essere che scaturisce dalla potenza di Dio, che è oltre l'essere, non-essere, si genera dal non essere, da Dio, è creazione ex nihilo. 

 

Il Verbo di Dio, dunque, il suo stesso riconoscersi, è ad un tempo generato da Dio, figlio di Dio, ed è Dio esso stesso, in quanto esserci di Dio (Deus enim prima causa est, non solum aliorwn omnia causa, sed sui ipsius est causa.

 

 Deus ergo a semetipso et Deus est": 18). 

 

Come poi il Figlio sia nel Padre e il Padre nel Figlio, e l'uno e l'altro non siano l'uno accanto all'altro, ma uno ("neque solum simul ambo, sed unwn solum et simplex") non è, dice Vittorino, necessario ricercare. 

 

"Sed hoc non oportet qu:rrere, sufficit enim credere" (cfr. Gilson, op. cit., pp. 124-25). 

 

Sembra ora chiaro in che senso l'aspetto formale della retorica e della logica, la dialettica usata in senso ciceroniano e stoico, la contrapposizione accademica delle ipotesi, utile per tutti, sul piano della formazione culturale dei futuri dirigenti, potesse ad un tempo servire a convincere della validità dell'ipotesi cristiana, oltrepassando in una convinzione del fondamento non razionale della ragione, la neutralità sofistica della retorica, senza, con questo, togliere nulla allo studio di come funzionano i discorsi umani, di quali sono le defi- nizioni e cosi via (e per ciò potevano servire certi scritti di Aristotele, si come certi altri degli stoici). 

 

Tutto questo dovrà tener presente lo studioso di Sant'Agostino, il cui itinerario si avvicina non poco a quello di Vittorino, dal quale Sant'Agostino stesso confessa di aver molto ripreso, e per mezzo del quale conobbe gli scritti di Plotino, ma anche chi vada studiando da un lato la formazione del curricolo degli studi al principio del Medioevo (e qui pensiamo in particolare a Boezio), dall'altro lato la teologia negativa nei suoi rapporti col platonismo, in special modo entro i termini di Plotino e di Proclo, usati in funzione cristiana, e la questione relativa del dio essere oltre l'essere, non essere che da sé crea se stesso e il tutto (interpretazione neoplatonica della "creatio ex nihilo": e qui pensiamo agli scritti dello pseudo Dionigi, a Massimo il Confessore, per giungere fino a Giovanni Scoto Eriugena). 

 

Ad ogni modo, Mario Vittorino ebbe nel mondo di lingua latina una notevole influenza relativamente alla formazione di quella koinè culturale di cui parlavamo, nel delineare, insieme a Macrobio e a Calcidio, un complesso di discussioni indirizzate su certi testi di Aristotele, su di un certo modo di interpretare Cicerone (già Lattanzio) e  Virgilio (cfr. particolarmente i Saturnali di Macrobio), sulla possibilità di riprendere Aristotele (relativamente ai problemi del mondo sensibile e dell'anima. nei suoi aspetti vegetativo e sensitivo), interpre- tandolo, poi, come inverantesi mediante il platonismo. 

 

Di qui, ancora una volta, sul piano dell'insegnamento scolastico e della prepa- razione culturale, la funzione data ai repertori, alle sillogi, a certe sistemazioni scientifiche del sapere antico. 

 

A tal proposito, per ciò che riguarda la diffusione di certi problemi nel mondo di lingua latina e la lettura determinante di certi testi è opportuno ricordare la traduzione in latino della Parafrasi degli Analitici di Aristotele di Temistio, dovuta al platonico Nettio Agorio retestato, alto funzionario (fu senatore, questore, pretore, governatore della Tuscia e dell'Umbria, consolare della Lusitania, proconsole:lell'Ocaia, prefetto pretorio dell'Italia e dell'Illirico, designato console), amico di Giuliano, non troppo tenero verso l'irrazionalismo del Cristianesimo. 

 

E accanto al nome di Pretestato va ricordato il nome di Firmico Materno. 

 

L'importanza di Giulio Firmico Materno piu che nell'opera da lui scritta dopo la sua conversione al Cristianesimo, il "De errore profanarum religionum" (una violenta diatriba contro il politeismo, con cui identifica tutte le posizioni non cristiane e per cui chiede agli imperatori Costanzo e Costante di perseguitare e distruggere chi non è cristiano), sta nell'opera dedicata a Lalliano Morzio, governatore della Campaflia prima, proconsole d'Africa poi, che gli aveva chiesto un manuale di astrologia. L'opera di Firmico, in otto libri, intitolata Mathesis, è il trattato piu ampio di astrologia traman- dato dall'antichità, in una sistemazione del sapere astrologico in termini neo-platonici. Vi si difende, contro le critiche di Carneade e degli scettici, la possibilità dell'astrologia come scienza. 

 

Se è vero che, data la limitatezza dell'uomo, legato al corpo e alle illusioni sensibili, difficili sono i calcoli e le predizioni, è altrettanto vero che, l'uomo, libe- randosi dalla sua sensibilità, in una conversione dell'anima su di sé, può ritrovando l'anima simile alla ragion d'essere del tutto, ripercorrere le trame su cui tutto si scandisce, e può, perciò, ricostruendo l'ordine e la necessità in cui tutto, dai cieli, alle stelle, alla terra, alle cose Giulio Firmico Materno, di origine siciliana, avvocato, vir consularis, senatore, per mantenere la promessa che aveva fatto a Lalliano Mavorzio, che lo aveva accolto con favore e amicizia al tempo del suo governatorato in Campania, pubblica un'opera in otto libri, sull'astrologia, intitolata “Mathesis”, dedicata, appunto, a Lalliano, allora pro-console d'Africa (nel primo libro si difende l'astrologia dalle critiche dei neo-accademici e di Carneade. I libri II-VIII sono dedicati alla vera e propria astrologia. 

 

Convertitosi al Cristianesimo scrive il “De errore profanarum religionum"

 

si è costituito, determinare i rapporti e le influenze stellari, in calcoli e previsioni, matematicamente esatti, mediante' cui, nell'ascesa del- l'anima fino alla divinità, ci si può liberare dai vincoli fatali, dalle influenze stellari che provocano le nostre passioni e i nostri impulsi malvagi (libro 1). 

 

Infine, sempre sul piano della preparazione culturale e della diffusione delle idee, merita il conto ricordare, entro la linea della grande tradizione matematico-astronomica di Alessandria, il Commento alla Sintassi di Tolomeo e l'edizione delle opere di Euclide a cura di Teone di Alessandria, vissuto ad Alessandria, padre dell'altrettanto celebre Ipazia, una delle maggiori rappresentanti del neo-platonismo logico di Alessandria, maestra di Sinesio, morta vittima della reazione cristiana, su istigazione del vescovo Cirillo. 

 

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