La scuola pitagorica rappresenta un movimento di pensiero di livello scien- tifico molto superiore a quello della scuola ionica. Per la verità non tutti gli studiosi sono d'accordo su ciò. Taluni sostengono infatti che Pitagora (il quale non lasciò nulla di scritto) sia stato il fondatore più di una setta religiosa analoga all'orfismo, che non di un vero e proprio movi- mento di pensiero scientifico-filosofico. Essi affermano che soltanto mezzo se- colo dopo la morte del fondatore la setta pitagorica cominciò ad interessarsi di scienza e di filosofia. Oggi però si ritiene dai più che l'interpretazione ora ac- cennata sia eccessivamente critica, e si preferisce ritornare all'interpretazione tradizionale, che attribuiva proprio a Pitagora la maggior parte delle concezioni note sotto il nome di « pitagoriche ». La ricchezza del sapere di Pitagora ci è del resto attestata da Eraclito, che polemicamente lo definiva po!Jmathés, « eru- dito.” Anche noi dunque ci atterremo alla tradizione, pur riservandoci di trat- tare nuovamente nel capitolo v la reazione pitagorica all'eleatismo, rappresen- tata nel v secolo da Filolao. Nato a Samo verso il 575, Pitagora abbandonò circa a quarant'anni la pro- pria patria per trasferirsi nella Magna Grecia, e precisamente a Crotone in Calabria (dove era fiorita un 'importante scuola di medicina, per la quale rinviamo al capitolo vn). Qui fondò una scuola che ebbe un notevole peso nella vita poli- tica della città, essendo legata al partito aristocratico. Era organizzata sulla base di regolamenti molto rigorosi, che, tra l'altro, esigevano dagli scolari un lungo periodo di tirocinio prima di essere ammessi ai segreti più profondi della setta. Su questa base si creò assai presto la divisione fra « acusmatici », ascoltatori, e «matematici», partecipi degli insegnamenti più profondi, che in seguito si accu- sarono a vicenda di non essere i veri depositari delle dottrine del maestro. L'in- segnamento di Pitagora era circondato da grande rispetto, e si riponeva in lui una fiducia illimitata, tanto che a Pitagora per la prima volta si riferì il celebre autòs efa (ipse dixit). Fatto notevole è infine che nella scuola pitagorica fossero ammesse anche le donne. Verso la fine del VI secolo, una sommossa provocata dal partito democratico cacciò i pitagorici da Crotone. Pare che Pitagora sia riuscito a fuggire a Metaponto, ove poco dopo morì. Sul grande pensatore sorsero presto numerose leggende, alcune delle quali erano già note ad Aristotele. Queste accentuarono il carattere religioso della sua figura, facendone poco meno che un semidio, e furono particolarmente care a quel movimento neopitagorico misticheggiante che fiorì nel tardo periodo alessandrino e che, attraverso le opere di Numenio e di Giamblico, confluì nel neoplatonismo. La realtà accertata dagli storici è che, dopo l'espulsione da Crotone, si organizzarono varie comunità pitagoriche nel mondo ellenico e soprattutto nella Magna Grecia. Esse ebbero lunga vita e diedero notevoli sviluppi all'opera del maestro. Le due più celebri furono: la scuola di Filolao (vissuto nella seconda metà del v secolo) che dalla Magna Grecia si trasferì a Tebe, e quella di Archita (inizio del IV secolo) che fiorì a Taranto, dominando anche politicamente la città. Di Filolao ci sono pervenuti vari frammenti, che dopo lunghe discussioni vengono oggi ritenuti generalmente autentici, e che costituiscono la base prin- cipale per ricostruire la dottrina di Pitagora; su di lui, come già abbiamo accen- nato, si tornerà con più ampiezza nel capitolo v. Archita, uomo di straordinaria va- stità e modernità di interessi, fu legato da amicizia personale con Platone, che lo ricorda affettuosamente nella VII Epistola, ed esercitò per suo tramite una grande influenza sull'Accademia. Di Archita parleremo più diffusamente nel capitolo xn. Né l'influsso del pitagorismo si limitò alla filosofia ed alla scienza, ma si risentì fortemente in tutte le manifestazioni dello spirito greco. All'acustica pi- tagorica si possono far risalire molte delle teorie musicali greche tramandateci dagli Elementi armonici del peripatetico Aristosseno (m secolo a.C.), ed al pitago- rismo esplicitamente si richiamò lo scultore Policleto, contemporaneo ed amico di Fidia, che nel Canom sviluppò una teoria artistica basata sulla concezione della bellezza del corpo come giusta proporzione delle parti. Legato al pitagorismo fu pure Ione di Chio, poeta tragico e filosofo del v secolo. Questa dottrina si imperniava su di un pensiero fondamentale: i numeri sono il principio di tutte le cose. « Tutte le cose che si conoscono hanno numero; senza questo nulla sarebbe possibile pensare, né conoscere. » Dovremo ora cercare, innanzi tutto, di comprendere il significato filosofico di questo pensiero; poi di svilupparne le conseguenze matematiche e fisiche. Alla fine del capitolo accenneremo al valore intrinseco della teoria, e al significato della crisi scientifica formatasi nella scuola prima ancora della cacciata di Pitagora da Crotone. Pitagora prese forse le mosse dalle ricerche ioniche sul principio e in parti- colare dalla teoria dell'àpeiron di Anassimandro. Una più acuta sensibilità ai pro- blemi etico-religiosi (quali l'opposizione del bene e del male nel mondo, la vicenda della colpa e del riscatto), stimolata probabilmente dall'incontro nella Magna Grecia con i culti misterici, e d'altro canto una maggiore attenzione per le leggi formali e modali della realtà, cui diedero impulso le sue prime ri- cerche acustiche, dovettero però fargli apparire inadeguato il principio unico dei naturalisti ionici. Per rendere conto di questi più complessi problerill, Pitagora sdoppiò il principio in due opposti: da una parte il principio del limitato, del finito, dell'uni- tario, che rappresentava l'ordine, il cosmo, il bene; dall'altra il principio dell'il- limitato, dell'infinito, che raffigurava il disordine, il caos, il male. La grande in- tuizione di Pitagora consistette nel vedere nei numeri e nei loro rapporti la chiave e la struttura ultima di questo assetto dualistico della realtà. Col termine « numeri » i pitagorici intendevano soltanto i numeri interi, concepiti come le collezioni di più unità. Non fecero particolari indagini sulla natura di queste unità, limitandosi a rappresentarle con punti, circondati cia- scuno da uno spazio vuoto. Proprio questa rappresentazione spaziale facilitò il passaggio, caratteristicamente arcaico, dalla concezione del numero come « chiave » e rapporto alla sua concezione come costituente fisico elementare delle cose. Il problema essenziale diventava allora, per i pitagorici, quello di cogliere il modo con cui dalla collezione di più unità si generano tutti gli esseri. Le leggi della formazione dei numeri venivano considerate come leggi della formazione delle cose, e. si riteneva di poter trovare in esse la vera ragione esplicativa del mondo fisico e morale. La più importante di tali leggi era costituita - secondo i pitagorici - dal- l'opposta struttura dei numeri dispari e di quelli pari. L'antitesi dispari-pari ve- niva cosi assunta a principio di una serie di altre nove opposizioni, che spezzano il mondo in due: limitato-illimitato (opposizione che era stata, come s'è visto, il problema iniziale del pitagorismo, ma poteva ora venir spiegata sulla base del- l 'antitesi precedente); uno-molti; destra-sinistra; maschio-femmina; luce-tenebre; buono-cattivo; immobile-mobile; retto-curvo; quadrato-rettangolo. Alcune di queste nove opposizioni avevano palesemente un carattere fisico (quella per esempio di luce e tenebre; da essa scaturiva la raffigurazione del cosmo come costituito da un fuoco centrale, immerso in un'estensione illimitata di nebbia); altre invece un preciso carattere morale. Questa presenza di significati multipli finiva con l'infondere ai numeri in generale, e a certuni di essi in parti- colare, un vero e proprio valore magico-simbolico. Così il numero 5 veniva assunto a rappresentare il matrimonio, essendo la somma del primo numero dispa-ri, il 3, con il primo numero pari, il 2 (l'I veniva considerato come « parìmpari »servendo a generare sia i numeri pari che i dispari); il 4 e il 9 venivano presi come simboli della giustizia; il 7 dell'opportunità; e così via. Di derivazione pitagorica è un trattato di medicina intitolato Sul numero sette (Peri hebdomadon), che cerca appunto nei rapporti settenari la spiegazione della struttura dell'orga- nismo e delle sue affezioni. Qualcuna di queste concezioni è pervenuta fino a noi, onde si attribuisce per esempio al 7 un significato speciale etico e fisico (nella tradizione cristiana sette sono i ·vizi capitali, sette le opere di misericordia, in varie malattie si ha la «settima», ecc.). La purificazione religiosa, che formava - almeno in un primo tempo il fine principale dell'insegnamento pitagorico, era cercata essa pure attraverso la contemplazione dei numeri. Questa veniva pertanto a possedere un doppio aspetto: scientifico e mistico. La peculiare nobiltà dell'ascesi pitagorica consisteva appunto nel fatto che a ogni sua tappa doveva corrispondere la conquista di un più alto gradino del sapere. Il carattere mistico delle ricerche matematiche co- stituì per molto tempo un notevole impulso al loro sviluppo, e insieme un im- pedimento al loro caratterizzarsi come ricerche puramente scientifiche. III · L' ARITMO-GEOMETRIA In particolare, la concezione ora spiegata spinse i pitagorici a studiare la geometria per via aritmetica. Ne sorse una disciplina che, per il suo doppio ca- rattere, fu chiamata « aritmo-geometria ». Essa era fondata sulla convinzione che da un lato. fosse possibile ricavare le principali caratteristiche delle figure a partire dal numero dei punti (supposto, in ogni caso, finito) che le compongono, e dall'altro fosse possibile- viceversa- ricorrere alla forma delle figure per illustrare le più recondite proprietà dei nu- meri. Di qui la distinzione dei numeri in vari tipi; per esempio: triangolari polig6nali quadrati c~ bici Al numero triangolare 10 veniva attribuita un'importanza speciale, come somma dei primi quattro numeri naturali. I dispari venivano chiamati « gnomoni», per la possibilità di rappresentarli informa di gnomone (cioè squadra). Questa rappresentazione permise di scoprire che ogni numero dispari è la differenza di due quadrati; per esempio: • • • • • • • • • • • • • • • • 7 = 4 2 - 3 2 Varie testimonianze ·- tra cui quella di Proclo ·- ci dicono che Pitagora fu il primo a comprendere la validità generale del teorema che ancor oggi porta il suo nome, e che, per taluni casi particolari (per esempio quando i cateti val- gono 3 e 4, e l'ipotenusa 5), era noto già prima di lui. Non sappiamo però quale ragionamento servisse a Pitagora per provare l'importante teorema. Certamente la dimostrazione riferita negli Elementi di Euclide non fu ideata dal filosofo di Crotone. IV · L'ACUSTICA E L'ASTRONOMIA PITAGORICHE La dottrina che « i numeri sono il principio di tutte le cose » trovò pure conferma negli studi di acustica. Stando alla più antica tradizione dobbiamo infatti ammettere che Pitagora riuscì a scoprire i principali intervalli musicali. Sarebbe giunto a questa notevolissima scoperta dallo studio sperimentale delle corde sonore, e dalla constatazione che nei principali accordi il rapporto fra le loro lunghezze è espresso da numeri interi molto semplici. L'acustica venne in tal modo a costituire una specie di« aritmetica applicata», come l'astronomia costituiva una «geometria applicata». Il quadro delle ricerche scientifiche risultò pertanto suddiviso in quattro rami fondamentali: aritmetica, musica, geometria, astronomia. 1 L'astronomia pitagorica - come abbiamo accennato nel paragrafo n - partiva dall'ammissione di un fuoco centrale immerso in una sconfinata nebbia di tenebre. Intorno a tale fuoco si pensava ruotassero dieci corpi (notiamo l'intervento del numero 10): la Terra, l'Antiterra (invisibile), la Luna, il Sole, i cinque pianeti allora conosciuti, e il cielo delle stelle fisse. I movimenti ciclici di questi corpi produrrebbero - secondo Pitagora - una meravigliosa armonia, che noi però non riusciamo a percepire a causa della sua continuità. La loro ciclicità sarebbe la causa del ritorno periodico di tutte le cose. Nei secoli I Questa ripartizione costituisce il lontano antecedente del celebre« quadrivio »,che starà alla base dell'istruzione nelle scuole del medioevo.successivi l'astronomia pitagorica portò a concezioni di grande interesse scien- tifico; degna di particolare menzione l 'ipotesi eliocentrica, ideata per la prima volta da Aristarco di Samo nel III secolo a.C. Ricordiamo infine la teoria secondo cui tutto il cosmo sarebbe sorto dal fuoco centrale e ritornato in esso per poi nascere un'altra volta. Con riferimento ad essa, i pitagorici chiamavano «anno cosmico» l'intervallo di tempo impiegato dal cosmo per nascere e ritornare nel fuoco. La teoria pitagorica dell'anima, malgrado la sua ambiguità, ebbe notevoli riflessi sui filosofi posteriori. Da un lato alcune testimonianze ci dicono che l'anima veniva concepita dai pitagorici come «armonia» del corpo, nel preciso senso in cui si parla di ar- monia dei suoni emessi da uno strumento musicale. Secondo questa interpreta- zione, l'anima doveva venire necessariamente pensata come mortale, poiché - spezzato lo strumento - anche l'armonia viene a cessare. D'altro lato sappiamo però che uno dei cardini della filosofia pitagorica era costituito dalla trasmigrazione delle anime (metempsicosi), e questa suppone ovviamente che l'anima non muoia con il corpo che la ospita. Un frammento del medico Alcmeone (che visse a Crotone alla fine del VI secolo, e fu legato ai circoli pitagorici) afferma che l'« anima è immortale per la sua somiglianza con le cose immortali ... la luna, il sole, gli astri ». 1 Come risolvere l'apparente contraddizione? Probabilmente bisogna ritenere che i pitagorici ammettessero due specie di anime: una costituita dal tempera- mento psichi co, legato indissolubilmente al corpo e destinato a morire con esso; l'altra da un principio immortale o « anima-dèmone ». In ogni vita si avrebbe una stretta rispondenza tra le due anime; questa rispondenza verrebbe però a cessare coll'uscita dell'anima-dèmone dal corpo. Tale uscita sarebbe da lei de- siderata per raggiungere la purezza di una vita interamente spirituale. A tali dottrine si ispirava il « modo di vita pitagorico », altamente lodato da Platone per la sua unione di teoresi e di ascesi; la metempsicosi in particolare determi- nava il più famoso dei divieti rituali pitagorici, quello di mangiare la carne di certi animali, nei quali potrebbe essersi incarnata un'anima. Anche dio veniva concepito dai pitagorici come anima; e precisamente come « anima del mondo » che circola continuamente in esso e perciò è presente in ogni luogo. Il rapporto dio-mondo restò tuttavia molto incerto nella filosofia pitagorica, sicché non possiamo cercare in essa un vero e proprio sistema teolo- gico. I Ad Alcmeone si deve la notevolissima sco- perta che il centro della vita organica e mentale va localizzato nel cervello. Del pensiero scientifico 45 di Alcmeone, che costituì l'aspetto più significa- tivo della sua personalità, sarà detto più ampia- mente nel capitolo vuQuanto abbiamo finora riferito basta per farci comprendere la complessità dell'insegnamento pitagorico. Se in taluni punti esso può apparirci ingenuo, in altri casi contraddittorio, ciò non deve farci sottovalutare l'importanza dei temi ivi abbozzati, che ricompariranno ampliati e sviluppati nei più diversi indirizzi filosofici e scientifici. Notiamo, per esempio, che l'idea di cercare nei numeri, cioè nella matematica, la spiegazione di tutti i fenomeni, ricomparirà potenziata nell'epoca moderna e formerà per molto tempo la « spina dorsale » di tutta la ricerca scientifica. Vi è chi sostiene, esagerando forse le cose, che le più celebri teorie della fisica-ma- tematica moderna (per esempio la teoria della relatività generale di Einstein) non costituirebbero altro che il proseguimento del programma pitagorico. Ma, a parte ciò, noi troviamo nella matematica di Pitagora un carattere speciale che la differenzia notevolmente da molte altre concezioni posteriori, pur esse accentratesi sulla ricerca matematica. Il carattere cui voglio riferirmi, suol venire indicato col termine «discontinuità». Si dice che la scienza di Pi- tagora è una matematica del discontinuo, perché essa si fonda esclusivamente sui numeri interi e su ciò che può venire espresso con i numeri interi (per esem- pio sulle frazioni ordinarie, e non, invece, sui numeri irrazionali). Secondo essa, l'accrescimento di una grandezza procede per «salti discontinui», essendo im- possibile aggiungere qualcosa che sia minore dell'unità. Taluno giunge a riconoscere nelle teorie quantistiche moderne una soprav- vivenza dell'antica eredità pitagorica sotto forma dì concezione discontinua dell'energia. Lasciando da parte le reminiscenze pitagoriche presenti nella fisica moderna, va detto però ben chiaramente che l'aritmo-geometria di Pitagora non ebbe vita lunga nella scienza greca. La sua fine fu provocata, per l'appunto, dalla crisi di quell'idea di discontinuità che costituiva - come s'è detto - uno dei suoi cardini fondamentali. La grande crisi fu causata dalla scoperta che le figure geometriche sono co- stituite non da un numero finito, ma da una infinità di punti. (Le teorie moderne, che tornano ad un'idea rinnovata di discontinuità, sosterranno implicitamente che la geometria classica - proprio perché parla di una infinità di punti - non trova esatta applicazione nella realtà.) Il primo « fatto geometrico » che costrinse i pitagorici a riconoscere che le figure sono costituite da infiniti punti, è proprio connesso a quel medesimoteorema che porta il nome di Pitagora. Ed infatti, applicando detto teorema ad uno dei due triangoli isosceli in cui è diviso un quadrato, si dimostra facil- mente che il lato e la diagonale di tale quadrato non possono avere alcun sot- tomultiplo comune, cioè sono incommensurabili. Orbene proviamo a supporre che un segmento sia generato dall'accostamento di una serie finita di punti (pic- coli ma non nulli, e tutti eguali fra loro, come allora si immaginava): ne se- guirebbe che uno qualunque di questi punti risulterebbe contenuto un numero intero, e finito, di volte (per esempio m volte) nel lato e un altro numero in- tero, e finito, di volte (per esempio n volte) nella diagonale. Lato e diagonale avreb- bero dunque un sottomultiplo comune, e non sarebbero - come si era dimo- strato - incommensurabili. La loro incommensurabilità esige pertanto che es- si siano costituiti da una infinità di punti. La leggenda racconta che il fatto scandaloso, ora riferito, fu gelosamente custodito per vari anni tra i segreti più pericolosi della setta. Esso fu rivelato fuori della scuola pitagorica da Ippaso di Metaponto, una delle figure più notevoli dell'antico pitagorismo. Pastosi a capo degli acusmatici per la moderna irre- quietezza del suo ingegno che mal tollerava il dogmatismo della setta, egli sarebbe stato vicino ad Eraclito per l'idea che il fuoco è il principio di tutte le cose, e si sarebbe schierato dalla parte dei democratici nei moti che condussero alla cacciata dei pitagorici da Crotone. Per avere rivelato la natura delle grandezze incommen- surabili, Ippaso sarebbe stato cacciato ignominiosamente dalla scuola, ed a lui anzi i pitagorici avrebbero eretto una tomba come ad un morto. Secondo la tra- dizione su di lui sarebbe caduta anche l'ira di Giove, il quale lo fece perire in un naufragio; la sua triste morte non impedì tuttavia che lo scandalo si diffondesse rapidamente tra i cultori di matematica e finisse per scuotere dalle fondamenta l'intera concezione pitagorica. Questa crisi verrà resa ancor più acuta - come vedremo - dalla scoperta delle antinomie di Zenone sul movimento e sulla divisibilità. Per uscire da essa, i maggiori scienziati greci non troveranno altra via se non quella di scindere completamente la geometria dall'aritmetica, interpretando la prima come studio del continuo e la seconda come studio del discontinuo. Il rapporto tra continuo e discontinuo resterà, per tutta la storia del pensiero umano, un problema molto difficile e molto dibattuto; verrà, anzi, considerato come uno dei più astrusi «labirinti» della ragione. L'averne intuito l'esistenza e la difficoltà va dunque considerato come un merito, e molto notevole, dello spirito greco. Il primo passo della ragione umana si compie, in ogni ricerca, col porre a nudo le difficoltà ivi esistenti, per gravi che esse siano, non col nasconderle. Solo chi le conosce, non chi le ignora, può sentirsi spinto a cercare i mezzi indispensabili per risolverle o, comunque, dominarle; e questa ricerca è la molla più decisiva del progresso scientifico. Oggi si riconosce quale autentico fondatore della scuola eleatica il grande Parmenide, nato ad Elea verso il 51 5 e fiorito nella prima metà del v secolo. Egli scrisse un poema allegorico Sulla natura (Perì fjseos), di cui ci sono pervenuti alcuni interessantissimi frammenti che, integrati da varie testimonianze, ci per- mettono di ricostruire con sufficiente sicurezza il suo pensiero. Data la vicinanza di Elea ai maggiori centri del pitagorismo, è indubitato che Parmenide subì, in forma più o meno diretta, l'influenza di questo indirizzo di pensiero. Taluni storici, accentuando questo legame, giunsero a presentarcelo come un pitagorico, distaccatosi dalla scuola di provenienza per divergenze di ordine filosofico. Tale interpretazione ci costringerebbe a vedere in gran parte degli argomenti eleatici, come ad esempio nelle aporie di Zenone, un intento polemico soprattutto antipitagorico. La gravità di questa conseguenza lascia tuttavia perplessi molti autorevoli critici. Si ritiene oggi piuttosto che la critica di Parmenide fosse rivolta in generale contro tutte le filosofie ioniche ed italiche del molteplice e del divenire, di cui egli rilevava acutamente la contraddittorietà: nel tentativo di spiegare razionalmente la realtà, e di modellare la ragione sui dati dell'esperienza, tali filosofie dovevano ammettere una serie di opposizioni e di alterità di cui però si assumeva la coesi- stenza. Ora - osservava Parmenide - se di una qualsiasi cosa si dice o si pensa che « è », di ciò che è diverso od opposto ad essa si dovrà dire o pensare che «non è»: e com'è possibile riconoscere realtà alcuna a ciò che non è, se non si vogliono violare le leggi immutabili del discorso e del pensiero? La grandezza della filosofia di Parmenide, quella grandezza che costituì un fecondo punto di partenza per il pensiero successivo e anche un difficile problema la cui soluzione era tuttavia indispensabile per poter progredire, sta proprio qui: nell'aver cioè individuato nella sua radice filosofica l'ambiguità della speculazione ionica edita- lica, e nell'aver posto in primo piano il problema della verità del linguaggio e del pensiero, il problema della « via », cioè del metodo, che linguaggio e pensiero dovevano percorrere per giungere alla realtà. Il metodo vero costruisce cono- scitivamente la realtà, l'essere, perché elimina gradualmente dal pensiero tutti i contrassegni di irrealtà, di non-essere, che vi si erano infiltrati: la molteplicità nello spazio, intesa _come differenziazione di parti, la molteplicità nel tempo, intesa come differenziazione di momenti, il vuoto inteso come assenza di realtà, la generazione e la distruzione intese come limiti dell'essere. Partito dal riconosci- mento logico e metodologico delle esigenze del pensiero e del discorso, Parme- nide giunge al culmine della «via» a dichiarare l'impensabilità, l'inesprimibilità e l'inesistenza del non-essere, e la parimenti assoluta esistenza dell'essere, che condiziona la possibilità di pensare e di dire il vero. All'essere non potrà venir riferito - sempre per l'opposizione or ora ac- cennata - alcun attributo, che possa in qualche modo diminuirne la positività, assimilandolo al non-essere. Ci si dovrà limitare a dire che esso è uno, invaria- bile, immobile, eterno. Qualche critico moderno però (come l'Untersteiner) ha ritenuto che Parmenide avesse concepito l'essere come «totalità>> e non come «unità». L'erronea interpretazione del suo pensiero sarebbe dovuta alla falsa testimonianza di Teofrasto che attribuisce a Parmenide il sillogismo: « Quello che è oltre l'essere non esiste; quello che non esiste è nulla; dunque l'essere è uno.» L'attributo dell'unità, con cui polemizzò Aristotele, risalirebbe solo a Melissa. Come possiamo conciliare la concezione parmenidea dell'essere col fatto incontrovertibile che l'esperienza ci presenta ad ogni piè sospinto degli esseri molteplici, variabili, temporanei? Di fronte a questo stato di cose - risponde Parmenide - non vi è altro da fare che respingere la nostra spontanea fiducia nell'esperienza, riconoscendo che essa costituisce per l'uomo una via di cono- scenza fallace e illusoria. Al mondo dell'esperienza è appunto dedicata la seconda parte del poema di Parmenide. Confutate « le opinioni dei mortali », quali si erano espresse nelle precedenti cosmologie naturalistiche basate sul divenire, Parmenide non rinuncia tuttavia a costruire una propria spiegazione di questo mondo, di cui aveva di- chiarato la radicale inconsistenza di fronte all'assoluto essere. Molto si è discusso fra gli studiosi sul significato da attribuire a questo sconcertante aspetto del pen- siero parmenideo: fra le più recenti, le due posizioni estreme sono quella del Raven, secondo cui l'eleata, impegnato nella polemica contro l'indebita confu- sione di razionale e di empirico tipica dei suoi predecessori, avrebbe voluto costrui- re una cosmologia a base puramente empirica, da affiancare alla dottrina logico- razionale dell'essere in modo da isolare ancor più chiaramente i due momenti; e quella dell'Untersteiner, che ritiene che il mondo dell'essere e il mondo del- l'esperienza siano unificati nel pensiero di Parmenide dal medesimo metodo ra- zionale, in grado di individuare il fondamento di realtà presente anche nel se- condo: una realtà, tuttavia, che si differenzia da quella assoluta in quanto immersa nel tempo, e che ne costituisce perciò soltanto una « immagine ». In ogni caso se ne può concludere che per Parmenide solo la ragione è un mezzo di conoscenza veramente efficace; solo essa, rompendo la crosta delle ap- parenze, può farci cogliere l'unità profonda del reale. L'opposizione tra razio- nalismo ed empirismo, che tanti sviluppi avrà nella storia della filosofia, trova proprio qui la sua prima radice. L'essere di Parmenide è stato interpretato da taluni in senso idealistico, da talaltri in senso materialistico. Entt;ambe queste interpretazioni svisano, però, il pensiero del grande eleata, non tenendo conto che esso antecede, in realtà, ogni consapevole distinzione tra idealismo e materialismo. L'affermazione di Parme- nide che più si presta ad una interpretazione materialistica è quella che ci presenta l'essere come sferico (cioè come una sfera piena) ; evidentemente Parmenide pensò alla sfera, perché la superficie sferica non è limitata da alcun perimetro né inter- rotta da alcuno spigolo. Non si può tuttavia negare che la sfericità ora accennata vada accolta con la massima cautela; se infatti la interpretassimo alla lettera, ca- dremmo in contraddizione con tutto l'insegnamento di Parmenide, perché sa- remmo costretti ad ammettere l'esistenza di un non-essere (o vuoto), che è al di là dell'essere sferico, e lo limita. Essa va intesa invece come identità e assolutezza dell'essere lungo tutte le direzioni; come è stato recentemente osservato, la sfera di Parmenide è più simile allo spazio curvo einsteiniano che al solido euclideo che siamo portati a raffigurarci. L'interpretazione idealistica è d'altra parte esclusa perché se il pensiero scopre l'essere, certamente non lo crea; anzi è piuttosto l'esistenza dell'essere a rappresentare la possibilità e la condizione del pensiero, che in esso culmina e con esso deve identificarsi. III · CONCLUSIONE DELL'ELEATISMO: ZENONE, MELISSO Parmenide ebbe due grandi discepoli: Zenone e Melissa. Il contributo da essi arrecato all'affinamento del pensiero del maestro assicura loro un posto assai ragguardevole nella storia della filosofia. Entrambi si adoperarono a difenderne le tesi sia pure svolgendo in direzioni opposte la tensione che vi era implicita: Zenone cioè approfondendo la problematica dellogos nella sua crescente autono- mia,Melisso invece sviluppando il tema dell'essere nella sua assolutezza sostanziale. Zenone di Elea, più giovane di Parmenide di circa venticinque anni, fu un ingegno acuto, sottile, vigorosamente polemico. Per gli argomenti ideati a difesa dell'unità (intesa come omogeneità e con- tinuità non divisibile in parti) ed immobilità dell'essere, e per il suo metodo di discussione, Aristotele, che li discusse a lungo nella Fisica, lo considerò il fonda- tore della dialettica (dialettica formale, però, non reale). L'originalità del metodo zenoniano consisteva nell'assumere a punto di partenza la tesi da confutare e nel dedurne rigorosamente tutte le logiche conseguenze, per mostrarne la contraddit- torietà e di conseguenza l'assurdità della tesi, Oltre che di filosofia, si occupò di politica e contribuì notevolmente al buon governo di Elea. Morì con grande fierezza- non si sa l'anno preciso- per aver cospirato contro il tiranno della città (Nearco o Diomedonte). Sullà sua fine si tramandano vari particolari che ne confermano l'eccezionale coraggio.l I celebri argomenti di Zenone a difesa della filosofia di Parmenide mirano a provarci che, se la negazione del movimento e della molteplicità può a prima vista apparire assurda, l'ammissione di essi conduce tuttavia ad assurdità ancor più gravi, nascoste, ma non risolte, dal linguaggio ordinario. Il perno di tali argomenti consiste nella dimostrazione che, sia nella nozione di movimento, sia in quella di pluralità, si annida il delicato concetto .di infinito. Immaginiamo che un mobile debba spostarsi da un estremo all'altro di un I Ecco, per esempio, una versione dei suoi ultimi istanti: « Antistene, nelle Successioni, rac- conta che Zenone, dopo aver denunziato (come cospiratori) gli amici del tiranno, fu da questi in- terrogato se c'era qualche altro complice. Egli ri- spose: " Tu, la rovina della città. " E poi, rivolto 52· ai presenti, esclamò: " Mi meraviglio della vostra viltà, se siete servi della tirannide per timore di questo che ora io sopporto. " Da ultimo, mozza- tasi coi denti la lingua, gliela sputò addosso. I cit- tadini allora, incitati da questo esempio abbatte- rono il tiranno. »dato segmento: prima di aver percorso. tutto il segmento, dovrà averne percorso la metà; prima di questa, la metà della metà, e cosl via all'infinito. In modo ana- logo, se il « piè veloce » Achille vuole raggiungere la lentissima tartaruga, che lo precede di un tratto s, egli dovrà percorrere: innanzi tutto quella distanza s, poi il tratto s' percorso dalla tartaruga mentre Achille percorreva s, poi il tratto s" percorso dalla tartaruga mentre Achille percorreva s', e così via all'infinito. Nel- l'un esempio come nell'altro, il fatto- in apparenza semplicissimo - del mo- vimento, si frantuma dunque in infiniti moti, sia pure sempre più piccoli ma non mai nulli. Proprio questa loro infinità è causa di profonde difficoltà concettuali, che non possono non rendere perplesso qualsiasi uomo disposto al ragionamento. Quanto all'argomentazione di Zenone contro la molteplicità, essa si svolgeva così: supponiamo che esistano due entità A e B distinte; per il fatto di essere distinte, queste due entità devono risultare separate da uno spazio intermedio C. Ma C è distinto tanto da A quanto da B, e quindi esisteranno altri d).le elementi D ed E che separano rispettivamente C da A e da B, ecc. Poiché ciò può venir ri- petuto all'infinito, se ne conclude che l'ammissione di due entità distinte conduce di necessità all'ammissione di infinite entità. Al fine di porre luce sulle difficoltà logiche di quest'ammissione, Zenone passava poi a dimostrare come, partendo da essa, si debba giungere a negare l'esi- stenza di qualsiasi lunghezza finita. Ed infatti- così ragionava- se gli elementi che costituiscono un segmento AB sono infiniti, o essi sono nulli, o non sono nulli; nel primo caso la lunghezza del segmento non può essere che nulla (perché la somma di infiniti zeri è zero); nel secondo non può che essere infinita (per- ché a suo parere la somma di infinite quantità diverse da zero sarebbe infinita). É ingiusto considerare questi ragionamenti zenoniani (e gli altri che, per brevità, siamo costretti a tralasciare) quali semplici sofismi o pseudoragionamenti. In realtà, essi attirano efficacemente la nostra attenzione su talune gravissime dif- ficoltà dei due concetti di movimento e di lunghezza, dovute all'inevitabile in- troduzione dell'infinito, sia allorché si scompone un intervallo di tempo (o il moto attuantesi in qtJ.esto tempo), sia allorché si scompone un segmento. Questi argomenti - che venivano ad aggiungersi alle difficoltà già ricordate nell'ultimo paragrafo del capitolo III, connesse alla scoperta delle grandezze in- commensurabili - suscitarono presso i greci una tale diffidenza nei confronti dell'infinito, da persuaderli a compiere qualunque sforzo pur di escludere tale concetto- per lo meno nella forma di « infinito attuale » 1 - da ogni seria costru- . I Si dice che una grandezza variabile costi- tuisce un << infinito potenziale » quando, pur as- s~mendo sempre valori finiti, essa può crescere al di là ~i ?gni limite; se per esempio immaginiamo di suddividere un dato segmento con successivi di- mezzamenti, il risultato ottenuto sarà un infinito pot~nziale perché il numero delle parti a cui per- ventamo, pur essendo in ogni caso finito, può crescere ad arbitrio. Si parla invece di « infinito attuale » quando ci si riferisce ad un ben determi- nato insieme, effettivamente costituito di un nume- ro illimitato di elementi; se per esempio immagi- niamo di avere scomposto un segmento in tutti i suoi punti, ci troveremo di fronte a un infinito attuale perché non esiste alcun numero finito che riesca a misurare la totalità di questi punti. zione scientifica. Oggi noi abbiamo imparato, con l'analisi infinitesimale e con la teoria degli insiemi, a trattare con disinvoltura l'infinito matematico (sia l'infi- nito potenziale sia quello attuale); proprio perciò tuttavia ci rendiamo conto che le difficoltà incontrate dai greci erano effettive, non artificiose, e possiamo affer- mare con piena consapevolezza che non erano certo dovute a volgari errori di logica, non erano dei « sofismi » nel senso usuale del termine. Dal punto di vista dell'eleatismo, il metodo scelto da Zenone per difendere le posizioni di Parmenide poneva tuttavia la premessa di una loro crisi e di un loro superamento. Lo spregiudicato uso logico-matematico che egli faceva del logos non si muoveva più sulla via di una identificazione del logos stesso all'essere, del riconoscimento di una realtà scoperta dal pensiero ma in cui il pensiero doveva confondersi; Zenone poneva piuttosto le premesse per uno svincolamento del discorso logico-matematico dalla realtà, e lavorava quindi oggettivamente alla rottura di quella unità discorso-pensiero-essere che caratterizzava la «vera via» proposta dal grande maestro di Elea. La figura di Melissa è assai diversa da quella di Zenone. Nato a Samo quasi contemporaneamente a Zenone, egli trascorse tutta la vita nella propria isola, ove ricoprì importanti cariche politico-militari. Basti ricordare che fu capo della flotta con cui Samo sconfisse gli ateniesi nel 440. La sua permanenza a Samo co- stituì, in certo modo, il ponte ideale attraverso cui l'insegnamento eleatico per- venne dalla Magna Grecia nell'Asia Minore. La lunga lotta fra Mileto e Samo può del resto contribuire a spiegare l'abban- dono melisseo della tradizione ionica; una tradizione, tuttavia, che continuò ad operare indirettamente nel suo pensiero condizionando in senso realistico la sua riforma dell'eleatismo, in contrapposizione all'indirizzo prevalentemente logico che quest'ultimo aveva assunto in Zenone. Più che alla difesa delle teorie del maestro, Melissa si dedicò infatti al loro sviluppo e alla loro integrazione. Ab- bandonatane l'iniziale carica logico-verbale e metodica, Melissa si propose una più coerente deduzione dei caratteri sostanziali e antologici dell'essere. Egli fu il primo ad insistere sul suo carattere di unità, che rappresentava più adeguata- mente in senso spaziale e temporale la «totalità» dell'essere parmenideo, e so- prattutto sulla sua infinità. Melissa afferma in proposito che non è possibile interpretarlo come sferico (per le difficoltà accennate alla fine del paragrafo n) bensì lo si deve concepire come infinito o illimitato sia nello spazio sia nel tempo. Per analoghe ragioni egli negò che si potesse ammettere,. nell'uno, una qualsiasi sofferenza o dolore o altra passione, perché ciò provocherebbe in lui una specie di perturbazione e quindi ne diminuirebbe l'unità e immobilità. Quest'ultimo argomento sembra mostrare come Melissa, sulla traccia della teologia di Senofane e della tradizione ionica, dovette interpretare l 'unico essere come dotato di vita: una vita, probabilmente, identica al pensiero, secondo l'equa- zione parmenidea che abbiamo già esposto. Secondo la tradizione, Melissa avrebbeanche definito l'essere come incorporeo, il che contrasta con la sua infinita esten- sione spaziale e con la negazione eleatica del vuoto : ciò mette a nudo in realtà una profonda contraddizione dell'eleatismo, che non poteva concepire la realtà come puramente intelligibile ed incorporea, ma tuttavia tentava di attribuirle tutte le caratteristiche di pura intelligibilità richieste da un pensiero filosofico ormai maturo. L'incorporeità dell'uno melisseo significava dunque soltanto che esso era invisibile e illimitato da qualsiasi forma o corpo tangibile; e significava al tempo stesso il portare al limite una contraddizione già implicita in Parmenide del cui superamento avrebbe grandemente beneficiato il pensiero posteriore. L'avere reso l'essere infinito nello spazio e nel tempo impediva a Melissa di accettare la bipartizione parmenidea tra realtà atemporale e mondo sensibile temporale: a quest'ultimo doveva venir negata qualunque sia pur secondaria sussistenza, ed è infatti alla negazione dell'esistenza e della concepibilità delle cose sensibili che Melissa dedica alcune delle sue argomentazioni più suggestive. Perché una cosa qualsiasi, egli dice, possa essere conosciuta, pensata ed esistere, essa dovrebbe essere sempre identica a se stessa, assolutamet?-te immobile ed immuta- bile nello spazio e nel tempo, giacché una minima modificazione ne farebbe una cosa diversa e così via all'infinito; dovrebbe dunque avere le stesse caratteristiche dell'uno. Proprio questo argomento, che egli intendeva come una sfida contro il pluralismo, sarebbe stato rovesciato e raccolto dalla corrente estrema del plura- lismo, quella atomistica: si può dire infatti che l'atomismo attribuì alle sue in- finite unità fisiche proprio tutte le caratteristiche dell'uno melisseo, ad eccezione dell'immobilità che non era più necessaria dato il riconoscimento del vuoto. Con Zenone e con Melissa, l'arco dell'eleatismo si conclu<i.e così, sia sotto la spinta di contrapposte esigenze logiche e naturalistiche che esso aveva cercato di stringere in una compatta unità, sia per l'insorgere di problemi che esso stesso aveva per la prima volta portato in luce e chiarito, ma che non potevano essere risolti nel suo ambito. L'eleatismo era comunque destinato a restare una pietra miliare nel pensiero greco, un imperativo richiamo alla soluzione di alcuni fra i più profondi problemi filosofici. La sua importanza fu enorme anche nella storia del pensiero scientifico, soprattutto - come abbiamo più sopra spiegato - per quanto riguarda l'affi- namento delle esigenze logiche. Vale la pena ricordare le parole con cui questo contributo degli eleati è sottolineato in una recente, autorevolissima, storia della matematica, Eléments d' histoire des mathématiques del gruppo Bourbaki: «Il tenore de- gli scritti filosofici subisce nel v secolo un brusco cambiamento : mentre nel v~I e nel VI secolo i filosofi affermano o preconizzano (o tutt'al più abbozzano vaghi ragionamenti, fondati su altrettanto vaghe analogie), a partire da Parmenide e so- prattutto da Zenone essi " argomentano " e cercano di ricavare dei principi generali che possano servire di base alla loro dialettica: appunto in Parmenide si trova la prima affermazione del principio del " terzo escluso "; e le dimostrazioni " per assurdo " di Zenone di Elea sono rimaste celebri. » Anzi, il richiamo so- pra ricordato di Aristotele a Zenone come fondatore della dialettica, sembra appunto riferirsi all'attribuzione all'eleate della scoperta e dell'impiego della reductio ad impossibile in metafisica (suggerito peraltro a Zenone, probabil- mente, dall'impiego che di tale forma di ragionamento veniva fatto dai mate- matici pitagorici. Nato ad Agrigento intorno al49o e morto verso H 430, Empedocle riassunse nella propria vita tanto la ricchezza di umori della sua terra natale, quanto la grandezza e l'ambiguità del suo pensiero. L'entusiasmo per la natura e la varietà dei suoi fenomeni, il profondo senso religioso che connetteva uomini, dei e fysis in intimi legami; la violenza delle passioni politiche, l'ansia della salvezza e il senso del tragico: di questi caratteri della Sicilia greca Empedocle fu, prima che interprete, pienamente partecipe. Capeggiò la fazione democratica della sua città; esiliato nel Peloponneso, si recò in seguito ad assistere alla fondazione di Turi, dove poté probabilmente incontrare Protagora, Erodoto ed Ippodamo; non è da escludere un suo contatto diretto con gli eleati. Seguendo l'uso ar- caico, scrisse in versi; uno dei suoi poemi, Sulla natura (Perì Jjseos), trattava argo- menti cosmologici e naturalistici, l'altro, le Puriftcazioni (Katharmoi), aveva ca- ratteristiche spiccatamente mistico-religiose. Il rapporto cronologico fra queste opere e quelle di Melissa e di Anassagora è incerto; sembra tuttavia che egli le abbia composte prima di quest'ultimo. La tensione fra i due aspetti della perso- nalità di Empedocle - tuttavia, come vedremo, profondamente interrelati - ap- pare già dall'argomento dei suoi due poemi; e si riflette in quanto ci è noto della sua vita, pur attraverso le molte leggende di cui fu ben presto ammantata. Stu- dioso di fysis, amava presentarsi come profeta e capo religioso, e vagava per le città di Sicilia seguito da turbe di seguaci entusiasti; teorico di biologia e di micina - anzi fondatore di una scuola di medicina scientifica - si considerava però guaritore e iatromante alla stregua di Apollo, e vantava la capacità di ope- rare miracoli; conoscitore attento ed esperto delle technai, si atteggiava tuttavia a mago. Interessante è il caso del suo intervento a Selinunte: la città soffriva di un'epidemia, dovuta alle acque infette del suo fiume, che veniva attribuita agli dei; accorsovi, Empedocle risanò la città con incantagioni e magia (di fatto rea- lizzando la confluenza di altri due fiumi a monte di Selinunte per purificare le acque del primo). «Sciocchi! giacché non hanno pensieri di larga veduta; essi credono che possa nascere ciò che prima non era o che qualcosa possa perire e andar del tutto distrutta ... E un'altra cosa ti dirò: non c'è nascita alcuna di tutte le cose mortali, né alcuna fine di morte funesta; ma solo mescolanza e cangiamento di cose commiste, e nascita si chiama fra gli uomini. » In queste parole Empedocle esprime limpidamente la misura della sua accettazione dell'eleatismo e insieme le prospettive della sua soluzione. L'impossibilità che ciò che è derivi da ciò che non è o vi si dissolva si impone al filosofo di Agrigento come il requisito fondamentale della realtà e della pensabilità del mondo; e perciò egli non può considerare se non come follia il pensiero pre-eleatico. Tuttavia, proprio in Melissa egli trovava la chiave del riconoscimento della molteplicità del mondo; giacché bastava riconoscere i caratteri dell' «uno» melisseo -l'identità nello spazio e la permanenza temporale - a un certo numero di realtà distinte, perché da esse si potesse dedurre l'intera varietà del molteplice. Certo, tale soluzione cozzava pur sempre contro gli imperativi logico-metodici di Parmenide; ma, come si è visto, Melissa aveva già avviato la loro ontologizzazione, cioè la loro trasformazione in realtà spazio-temporale: aveva insomma avviato, nel linguaggio dell'epoca, la trasformazione dell'essere in «pieno». Da questa prospettiva melissea prendeva propriamente le mosse Empedocle - come ha messo in luce il Calogero - giacché essa corrispondeva alla sua esigenza di dar conto del mondo, nella sua varietà quale si offre ai sensi, nella sua segreta unità quale è colto dall'anima, nella sua realtà cui il pensiero non può rifiutarsi. Nel suo presentarsi alla nostra osservazione, la realtà appare indefinitamente diversa eppure connessa da ritmi, da cicli, da permanenze che ne formano la struttura unitaria; così come accade per l'organismo vivente, mutevole eppure uno, la realtà appare un tessuto variegato di poche sostanze semplici, un divenire scandito dal ciclo delle stagioni, della generazione, degli astri. Fedele per istinto alla verità dell'osservazione, Empedocle concepiva dunque il mondo come un organismo unitario vivente e senziente, del quale nessuna parte poteva venire arbitrariamente amputata e tutte dovevano avere una loro profonda giustifica- zione. Se questo punto di vista ilozoico doveva trovare una spiegazione non mitica, una più universale razionalizzazione, occorreva infondervi i requisiti melissei del vero; occorreva, una volta reso molteplice l'« uno», trovare un'armonia tra questo vero molteplice e la molteplicità dell'esperito. Da questa esigenza nasce il sistema cosmico di Empedocle, una delle più potenti sintesi teoriche del pensiero greco. Alla base del sistema stanno i quattro elementi, o piuttosto « radici » come li chiama Empedocle stesso con un termine che meglio corrisponde alla sua vi- sione vitalistica del mondo: la terra, l'acqua, il fuoco, l'aria (o meglio l'etere). Tali elementi non sono nuovi nella filosofia presocratica: si pensi all'acqua di Talete, al fuoco di Eraclito e così via. In tutti questi pensatori il processo era consistito nell'assumere una zona dell'osservazione empirica alla funzione pri- vilegiata di principio o arché di .fJ'Sis; nel rendere quindi assoluti alcuni dati dell'esperienza per usarli come chiave di comprensione e di spiegazione dell'e- sperienza nella sua totalità. Identico è l'approccio fondamentale di Empedocle: un'analisi dell'osservazione lo porta a scoprire in ciò che è osservato alcune costanti fondamentali, che una volta generalizzate e rese assolute, valgono a spiegare l'osservato - di cui sono costituenti essenziali - e l'osservazione stessa - di cui sono canoni imprescindibili. Merito specifico di Empedocle è tuttavia quello di aver isolato, sia dall'osservazione diretta sia dalla precedente riflessione naturalistica, tutte e solo quelle costanti che potessero valere da ra- dici, senza che si fosse costretti, contro l'imperativo eleatico, a postulare il mu- tamento di una radice in qualcosa diverso da sé (come avevano dovuto fare i monisti ionici), né ad immaginarne un numero eccessivo, che avrebbe ostacolato la semplificazione e quindi la possibilità di comprensione dell'esperienza. Ad ognuna delle quattro radici Empedocle attribuiva dunque lo status del- l'« uno» melisseo: l'infinità e l'immutabilità nello spazio e nel tempo, l'essere ingenerati e imperituri, e di conseguenza l'assoluta realtà e intelligibilità. Ciò non significava tuttavia negare la realtà degli infiniti altri oggetti dell'esperienza: ogni singolo ente è il risultato di una mescolanza delle radici, la sua nascita è la formazione della mescolanza e la sua morte ne è lo scioglimento; benché in tali mescolanze le radici entrino sotto forma di porzioni frazionali, neppure nella minima di esse perdono alcuna delle loro proprietà. L'individualità specifica di ogni composto gli deriva dalla diversa proporzione dei componenti (così ad esempio le ossa sono formate da due parti di acqua, due di terra, quattro di fuo- co; il sangue dal miscuglio perfetto I :I :I :I). Si è visto in questa dottrina di Em- pedocle un'anticipazione della chimica, il che può anche essere accettato qualora non si dimentichi, però, che le radici empedoclee non solo erano concepite come viventi ma anche come divinità creatrici, in stretto rapporto con la cosmogonia orfica. Se le quattro radici potevano spiegare, nel loro vario comporsi, la molte- plicità del mondo, esse non davano tuttavia conto del suo infinito divenire, del formarsi e dello sciogliersi dei composti; unificavano cioè il reale in senso sin- cronico ma non diacronico. Empedocle introdusse quindi altri due principi, questpiù spiccatamente dinamici: « amicizia» e « discordia». Come le quattro radici rappresentavano una generalizzazione dell'osservazione naturale, così queste due «forze» rappresentano una generalizzazione dell'esperienza psichica, e perciò allargano a tale settore la capacità di comprensione e di spiegazione del sistema. Nel mondo di Empedocle non era tuttavia pensabile una distinzione radicale delle due sfere, come abbiamo osservato in sede introduttiva, ma piuttosto una diversa funzionalità della medesima realtà: come le radici sono a loro volta viventi, così « amicizia » e « discordia » sono coestese e coeterne ad esse, e dunque non meno di esse «reali». «Amicizia·» simbolizza nel sistema l'attrazione del dissimile, cioè l'impulso che spinge le diverse radici a fondersi reciprocamente dando luogo a composti sempre più stabili; «discordia» rappresenta invece l'attrazione del si- mile, cioè la forza che spinge ogni radice a restare coesa a se stessa, sciogliendo qualsi.asi composto. Questi due principi sono stati interpretati come cause in senso aristotelico e anche, modernamente, come le forze elettromagnetiche di attrazione e repulsione. Benché anche questi siano possibili sviluppi del pensiero empedocleo, va ribadito che nel suo quadro «amicizia» e « discordia» rappre- sentavano soprattutto le funzioni essenziali di una realtà vivente, in cui causa e causato, forza e materia non potevano essere distinte se non in modo simbolico, non erano che aspetti profondamente connessi di un unico mondo; mentre poi esse rappresentavano l'aggancio più immediato, come vedremo, alle vedute religiose e morali, che a quel mondo non potevano certo essere eterogenee. Funzione primaria delle forze nel sistema era comunque quella di promuovere il divenire. Poiché tale divenire non poteva dar luogo ad alcun mutamento dei suoi contenuti fondamentali, secondo il divieto eleatico, esso non poteva pre- sentarsi che come ciclo: solo nel ciclo si dà infatti ripetizione perpetua dei me- desimi eventi e delle medesime strutture, solo il ciclo concilia le sembianze del divenire (l'esperienza umana non può carpirne che una piccola frazione e ha dunque l'impressione del mutamento) con la verità del permanere, rivelata a chi penetri nell'intimo della natura. Nel periodo cosmico di assoluta prevalenza di «amicizia», ognuna delle radici è così strettamente congiunta alle altre che nessun singolo ente sussiste di per sé: «Non v'è discordia né infausta contesa nelle sue membra ... Non più si distinguono in esso le agili membra del sole, né la forza villosa della terra, né il mare, tanto fortemente sta legato nei fitti segreti del- l'armonia, d'ogni parte uguale e per tutto infinito," sfero "rotondo che gode della sua solitudine circolare. » Nello « sfero » è facile individuare l'« uno» eleatico, non tuttavia visto come unico possibile assetto della realtà, ma conquistato dalla vittoria di un'armonia di schietta derivazione pitagorica; qui emerge anche il valore religioso e morale di «amicizia», che significa concordia e pace nel cosmo e fra gli uomini. Agli antipodi sta il trionfo di « discordia», che vede ognuna delle radici ritratta in se stessa e ostile alle altre, il che parimenti significa la fine del mondo quale noi lo esperiamo e comporta la negazione dei valori etico-religiosiFra i due opposti regni, stanno le vaste regioni in cui «discordia» viene prevalendo su «amicizia», e quindi scioglie le radici dal loro complesso senza tuttavia contrap- porle del tutto; qui si situa una prima generazione del molteplice; e l'altra dove «amicizia» si a.dopera a ricomporre l'unità senza poter ancora scacciare del tutto «discordia», sicché il processo di unificazione è ancora frammentato in una mol- teplicità di enti: ed è questa la seconda generazione del mondo che noi osser- viamo. Va detto che mentre il ciclo nel suo insieme è determinato dalla neces- sità (ananke), la formazione dei singoli composti è affidata al caso (ryche) e che quindi la natura che noi esperiamo consta della sintesi di necessità e di caso. Questa veduta è importante per la comprensione di molte posizioni della scienza naturale greca. Come si articoli concretamente il ciclo nelle due fasi intermedie è mostrato più chiaramente da Empedocle a proposito degli organismi viventi, cui andava il suo prevalente interesse (non a caso è possibile paragonare l'intera vita cosmica alle sistole e diastole del cuore, e lo « sfero » appare assai vicino all'« uovo » origi- nario presente nel culto orfico ). All'inizio del ciclo di «amicizia», in un mondo ancora dominato da « discordia», si venivano formando membra ed arti separati: « Sulla terra spuntarono teste senza colli, ed erravano braccia nude prive di spal- le, vagavano occhi soli sprovvisti di fronti»; poi queste membra si congiungono a caso dando luogo a mostri d'ogni specie: «e molti esseri nascere con doppie facce e petti, e buoi con facce d'uomini, o invece sorgere busti umani con teste bovine, e forme miste di maschi e di femmine, provviste di membra villose. » Ma la gran parte di queste forme viventi perivano, sopravvivendo solo quelle più adatte alle condizioni di vita perché meglio organizzate nella propria strut- tura. È interessante notare che in questo processo è assente qualsiasi idea di finalismo preordinato; i viventi si aggregano a caso, ed è la selezione naturale che decide della sopravvivenza di alcuni di essi. Nell'opposto processo di «di- scordia», che viene disgregando l'unità cui «amicizia» era finalmente giunta, si formano dapprima creature complete, omogenee; ma una separazione successiva dà luogo alle creature del mondo in cui viviamo, differenziate per sessi e per la prevalenza in esse di una delle radici (così nella costituzione dei pesci prevale l'acqua, ecc.). Abbiamo già visto come la struttura del nostro organismo fosse interpretata da Empedocle mediante la composizione delle radici in diverse proporzioni. A spiegare la compenetrazione reciproca delle radici, e i maggiori fenomeni vitali, quali la respirazione 1 e il movimento del sangue, Empedocle concepiva I Il resoconto della respirazione va ripor- tato per la sua originalità e tipicità. Il sangue si muove entro pori i cui fori terminali sono abba- stanza piccoli da non permettergli di fuoriuscire, sufficienti però per lasciar entrare l 'aria nel corpo. !utta la spiegazione è costruita per analogia con ti funzionamento della clessidra o pipetta per il travaso dei liquidi da un recipiente all'altro. Al- lorché il sangue si ritrae dai pori, esso attira l'aria che irrompe nel vuoto così formatosi: si ha così l'inspirazione. Quando il sangue torna ad af- fluire, esso espelle l'aria dando luogo all'espira- zione l'organismo come percorso da una fitta rete di pori o canaletti (una teoria in parte derivata da Alcmeone), la cui struttura e le cui dimensioni giocavano altresì una parte importante nel meccanismo della sensazione. Esso è spiegato dal filosofo di Agrigento mediante gli efflussi materiali che ogni corpo emette e che, giungendo a contatto del senziente, possono o meno penetrare attraverso i pori nel suo organismo a seconda delle reciproche dimen- sioni; g~i efflussi sono determinati dall'attrazione del simile, che spinge le radici a ricongiungersi attraverso la varietà dei singoli enti. La spiegazione è da un lato meccanicistica, dall'altro vitalistica perché appunto fondata sull'intrinseca «ani- mazione » del corporeo; di conseguenza Empedocle attribuiva la sensazione, sia pure in gradi diversi, a qualsiasi ente, perché ognuno, anche quelli ai nostri occhi inanimati, era in qualche misura partecipe della grande vita del cosmo. Il pensiero non è per Empedocle qualitativamente diverso dalla sensazione. Contro le scoperte alcmeoniche, ed introducendo una veduta destinata ad eserci- tare profonda influenza, egli pose la sede del pensiero e dell'attività razionale nel sangue, esattamente in quello più puro, prossimo al cuore che ne è la fonte. Poiché il sangue, come si è visto, consta di una mescolanza perfetta delle radici, esso è il più atto a riflettere la struttura del mondo, essendole più omogeneo. Non v'è ovviamente per Empedocle opposizione tra pensiero e sensi, giacché entrambi convogliano, con meccanismi fondamentalmente analoghi, il messaggio profondo di una natura che non può essere fallace in alcuna delle sue manifestazioni. Poiché l'uomo è omogeneo al mondo, la verità della sua conoscenza del mondo non di- pende né dai metodi né dai linguaggi che egli impiega; in tal senso, sparisce il problema della «via» parmenidea e del suo sempre difficile rapporto con il reale. L'uomo è generato dalle stesse radici e animato dalle stesse forze che generano e animano il mondo nella sua totalità; egli riflette il mondo in se stesso, lo « com- prende» proprio perché ne ritrova dentro di sé l'immagine rimpicciolita. Il san- gue è pensiero perché il sangue è principio vitale e secondo Empedocle conoscere è propriamente vivere fino in fondo la vita dell'universo, sperimentarne la molte- plicità e l'unità, l'eternità ciclica, gli intimi legami che tutto quanto lo connettono. Sparita così la tensione tra vero e reale, tra uomo e mondo, tra mondo e divi- nità, sparisce anche la presunta contraddizione tra i due aspetti della personalità di Empedocle, quello « fisico » e quello « magico ». Ragione e mito non sono che due forme di un identico conoscere, due funzioni di un'unica realtà. La conoscenza razionale è esposizione discorsiva ed analitica della molteplidtà del mondo quale essa risulta dall'azione di« discordia?> e ci è rivelata dai sensi; ma il suo scopo è quello di rivelarci la verità di questa molteplicità dando conto dell'unità che la informa e della necessità che la domina. D'altra parte, la conoscenza mitica è penetrazione intensiva di questa unità e necessità, è il porsi per così dire dal punto di vista dello « sfero » che simbolizza l'unità da un punto di vista sia fisico, sia religioso, sia morale; è drammatica consapevolezza, tuttavia, della necessità del ci-do e dd molteplice, nel loro decadere dall'età aurea e nel loro fatale tornarvi. 1 Di qui le « purificazioni », di qui la dottrina pitagorizzante della metempsicosi che adegua la sorte dell'anima al ciclo cosmico. E la via alla purificazione etico-reli- giosa è ancora una volta, per Empedocle, quella di vivere fino in fondo la vicenda -per il singolo uomo, il dramma- dell'uno e dei molti, del tempo e dell'eterno, della necessità e del caso; la via della purificazione è quella che conduce nel cuore profondo della natura che sola giustifica l'uomo e il suo destino, che sola gli. concede conoscenza e potenza nel tempo, salvazione nell'eternità. Sicché la leg- genda della morte del filosofo sparito nella voragine dell'Etna bene esprime, sotto questo aspetto, la vocazione del pensiero empedocleo. Si intende così anche il senso dell'ambiguo atteggiamento di Empedocle verso le technai, e del suo interesse profondo per quelle che consentissero un immediato controllo della natura (la. medicina, le tecniche manifatturiere, la fisica; mentre la matematica gli doveva sembrare irrimediabilmente lontana dal mondo della vita e quindi sterile). Non v'è nulla di più ingiusto dell'immagine trasmessaci dalla tradizione di un Empedocle abile medico e tecnologo che ciarlatanescamente am- mantava di magia i suoi successi per guadagnarne in prestigio. In realtà, l'oppo- sizione fra technai e magia sarebbe sembrata assurda ai suoi occhi. Al culmine della sua capacità di penetrazione e di controllo, la techne aderisce così compiutamente all'intima vita del mondo da diventarne, dall'interno, una forza agente: il «mi- racolo» è una possibilità di fysis che techne porta alla luce (non troppo diverse dovevano essere le vedute degli alchimisti rinascimentali). Techne si situa dunque al crocevia di conoscenza razionale-discorsiva e conoscenza mitico-intensiva; come il problema del rapporto tra uomo e mondo, tra conoscenza e realtà s'era tendenzialmente annullato nell'unità della vita del cosmo, così a techne, allorché muova dalla consapevolezza della struttura del reale, basta foggiarsi via via ad immagine e simiglianza della natura per poter penetrare sempre più profonda- mente in essa, per paterne acquisire un sempre maggiore controllo. Disvelandosi all'osservazione dell'uomo, la natura gli aveva donato la conoscenza; offrendosi ad una techne che ne sappia comprendere i segreti, essa gli concede l'accesso alla potenza: sicché alla fine, nel volgere del ciclo, l 'uomo diviene « profeta, bardo, medico e principe », pari agli dei immortali, come Empedocle proclamava di se stesso. Data la natura della conoscenza e delle technai, è chiaro come per il filosofo di 1 «V'è un oracolo del fato, antico decreto degli dei, suggellato da larghi giuramenti: se mai alcuno dei demoni (anime) che ebbero in sorte lunga vita, macchi le sue membra di sangue col- pevole, o seguendo la "discordia" empio spergiuri, vada errando tre volte diecimila anni !ungi dai beati, nascendo nel corso del tempo sotto tutte le forme mortali, permutando i penosi sentieri della vita ... Uno di essi sono anch'io, fuggiasco dagli dei ed errante, perché fidai nella folle "di- scordia" ... Da quale onore e da quale ampiezza di felicità, così bandito mi aggiro fra i mortali! » (La traduzione di questi frammenti, come di quasi tutti quelli empedoclei citati, è del Mondolfo.) Ma v'è la via del ritorno: « Ma alla fine essi vengono sulla terra fra gli uomini come profeti, bardi, me- dici e principi, e poi assurgono al rango di dei degni d'onore ... Io vengo nelle vostre città quale un dio eterno, non certo mortale, coperto d'ogni onore. Agrigento non si ponesse il problema della logica e del metodo. Il metodo che egli in effetti usa va era essenzialmente analogico: acute inferenze dall'osservazione quotidiana, sia biologica (il palpito del cuore, lo sviluppo dell'uovo, il meccani- smo della respirazione), sia fisica 1 (la riflessione, l'evaporazione, il ciclo stagiona- le), sia tecnica (il travaso dei liquidi, la manifattura dei vasi, la miscelazione dei colori), gli offrivano lo spunto per audaci generalizzazioni cosmiche. Tuttavia ai suoi occhi queste estensioni non avevano nulla di arbitrario, basate com'erano sulla certezza di una fondamentale unità e significatività di tutte le manifestazioni della natura (una certezza, come abbiamo visto all'inizio, a sua volta ricavata dall'esperienza immediata, sia sensoriale sia psichica). Allo stesso modo, l'espres- sione linguistica di Empedocle non poteva che tentare di riprodurre, grazie ad una poesia potentemente sintetica e visualizzante, la vita del mondo nella sua ricchezza; anche qui, l'immagine poetica (la trasvalutazione delle radici in divinità o in «membra» del mondo, l'affiorare ovunque dello psichico, del vivente, dell'orga- nico) riposava sulla profonda verità che per questa via si tentava di rivelare. Tale dunque la risposta empedoclea al nodo di problemi che si sono esposti in sede introduttiva: una delle più grandiose sintesi mai elaborate dal pensiero greco ed anche una delle più affascinanti ipotesi scientifiche. Il rischio che Empe- docle si assumeva era d'altro canto totale quanto il suo sistema: o quest'ultimo si rivelava davvero capace di spiegare l'intero universo, o sarebbe crollato tutto quanto, perché l'agrigentino non offriva - né, date le sue premesse, avrebbe potuto farlo - alcuna regola di pensiero e di metodo esterna al sistema ed atta a modificarlo, a criticarlo, a renderlo più comprensivo. La potenza del genio di Empedocle, in tutta la sua ambiguità, si esercitò sul pensiero greco ed oltre; e « dinanzi a lui, » ha osservato il Bignone, « le prospettive del mondo greco si scompongono stranamente: è già un antico rispetto a Tucidide, che è di pochi lu- stri più giovane di lui; e sarà, dopo più secoli, quasi un contemporaneo rispetto a Platino e Porfirio ». Subito rifiutato dal miglior pensiero filosofico-scientifico del v secolo, da Anassagora ad Ippocrate, che vedeva nel dogmatismo dell'esperienza, nel vitali- smo mistico, nel rifiuto di ogni strumento razionale di tipo logico-metodologico il più mortale pericolo per un libero progresso della ricerca, il sistema di Empedo- cle apparve tuttavia a lungo come l'unico che potesse garantire una sicura base speculativa alle scienze nascenti, dalla biologia alla fisica, l'unico che ne assicurasse l'universalità. Così all'inizio del rv secolo la dottrina dei quattro elementi, la con- cezione organicistica dell'universo (che presto significò anche visione finalistica), il prevalere della qualità sulla quantità, finirono per trionfare della scienza ionica e passarono in gran parte al platonismo del Timeo, all'aristotelismo, alla medicina I Il sole è il luogo dove l'emisfero terrestre, che agisce come una lente, riflette e concentra il fuoco emesso dall'emisfero etereo; il mare è il «sudore» della terra: sotto l'azione del calore; la terra stessa è stata disseccata dal calore al pari di un vaso d'argilla; e così via. siciliana di Filistione. Tramite questi canali, e sia pure con aggiustamenti progres- sivi, tali vedute percorsero un lunghissimo cammino, fino ad affacciarsi al rinasci- mento e alle soglie dell'età moderna. Qui tornarono a scontrarsi con il meccanici- smo di tipo democriteo, e risultarono questa volta soccombenti senza però lasciar del tutto il passo. Poco sappiamo della vita di Filolao: nato a Crotone attorno alla metà del v secolo, e ivi formatosi in ambiente pitagorico, egli si trasferì a Te be dove sul finire del secolo lo troviamo a capo di una fiorente scuola pitagorica, in rapporto con il gruppo socratico-platonico ad Atene. Questa presenza di Filolao a Tebe, congiun- tamente all'esilio peloponnesiaco di Empedocle, ci rivela un rifluire della filosofia italica nella madrepatria greca, localizzato non a caso nelle poleis che combattevano Atene nella guerra del Peloponneso: il pensiero ionico-attico si trovava così in qualche modo circondato non meno di quanto lo fosse, in senso politico-militare, la sua metropoli. Come abbiamo già avvertito, i frammenti di Filolao sono stati a lungo con- testati per vari motivi filologici, alla cui base stava tuttavia la constatazione che essi anticipavano un importante aspetto del platonismo, e dunque la preoccu- pazione che questo potesse risultarne sminuito nella sua originalità. L'autenticità dei frammenti è stata per fortuna rivendicata dal Mondolfo e dalla Timpanaro- Cardini; ed è chiaro, secondo una più corretta visione storiografica, che il genio di Platone risulta tutt'altro che diminuito dalla consapevolezza che egli seppe fondere in una sintesi critica gran parte dei risultati del pensiero filosofico-scienti- fico del v secolo, pur conferendo ad essi la propria originalissima impronta. D'al- tra parte, già questa considerazione impone di dare alla figura di Filolao il posto che gli compete fra i protagonisti della filosofia preplatonica. Il problema centrale di Filolao è analogo a quello di Empedocle, ma i suoi punti di riferimento speculativi sono meglio definiti, e il suo approccio alla realtà è più chiaramente delimitato dall'eredità pitagorica di cui egli si faceva portatore. Certo, il pitagorismo originario era stato travolto, in campo matematico, dalla crisi degli irrazionali, in campo fisico-filosofico, dalla critica parmenidea al molte- plice e dalla sua incapacità a soddisfare i nuovi requisiti logico-metodici. Vedremo all'inizio del capitolo xn come si svolse, attraverso il v secolo e fino ad Archita, il processo ricostruttivo delle matematiche pitagoriche, al quale Filolao stesso diede un importante contributo. Qui ci interessa piuttosto il suo sforzo di ricostruzione del pitagorismo come sistema globale del mondo, compiuto innestando sul tronco di quella tradizione la più matura consapevolezza posteleatica. Si trattava innanzitutto di salvare entrambi i termini della diade costitutiva di uno e molteplice, di limite e illimitato, dove il primo termine assicurava la verità e l'intelligibilità del secondo ma dove il secondo garantiva l'estensibilità del primo al mondo del reale, la sua presa sull'esperienza, conferendogli quindi una concretezza e una funzionalità sepza le quali esso sarebbe stato confinato alla sfera delle aspirazioni etico-religiose. Ma non bastava più, dopo Parmenide, con- trapporre la serie dell'uno e del limite alla serie dei molti e dell'illimitato; giac- ché su quest'ultima sarebbe poi gravata la dichiarazione di assurdità e di irrealtà, che avrebbe vanificato la tensione insita nella diade. Il problema di Filolao era dunque quello di calare il principio di unificazione e di verità profondamente all'interno della struttura molteplice dell'esperienza, in modo da garantirne con ciò stesso la realtà; era di trasformare i termini della diade in modalità e struttura intima di un unico mondo, di cui essi potessero dar conto nella sua to- talità. La chiave più ovvia per la soluzione del problema era, agli occhi di Filolao, quella offerta dal numero. Generato dall' «uno», e governato da leggi che sempre all' «uno» potevano riportarsi senza contraddizione, il numero era tuttavia atto a fungere da limite al molteplice perché ne rifletteva in sé la struttura; ma la riflet- teva in modo tale da renderla omogenea all'« uno» e alla sua legge. Si consideri ad esempio la decade (il numero dieci): secondo l'analisi di Filolao, essa comprende in sé tutti i possibili rapporti aritmo-geometriciche si originano a partire dall'unità ed è perciò stesso atta a comprendere e ad organizzare il molteplice.! Ma Filolao non poteva più arrestarsi alla generica veduta pitagorica del nu- mero come natura delle cose. Occorreva che fosse davvero possibile, leggendo il libro della natura, scoprirne i caratteri aritmo-geometrici; da un punto di vista complementare, occorreva dare una più precisa dimensione spaziale al numero e concretarla di una sussistenza corporea. Perciò, partendo dall'assioma aritmo-geo- metrico secondo cui l 'unità rappresenta il punto, il due la linea, il tre la superficie, il quattro il solido, Filolao diede un impulso originale e deciso alla geometria so- lida, giungendo a costruire un certo numero di figure semplici che si potevano age- volmente riportare alle modalità fondamentali dei numeri. Queste figure si assicu- ravano una prima realizzazione grazie alla loro applicabilità ai movimenti e alla con- figurazione degli astri, e, tramite l'astrologia pitagorica, allo stesso assetto del divino. x Più efficaci di ogni spiegazione critica sono le parole di Filolao sulla decade: «L'essenza e le opere del numero devono essere giudicate in rap- porto alla potenza insita nella decade; grande è in- fatti la potenza (del numero) e tutto opera e com- pie, principio e guida della vita divina e celeste e di quella umana, in quanto partecipa della po- tenza della decade; senza questa, tutto sarebbe in- terminato, incerto ed oscuro. Conoscitiva è la na- tura del numero, e direttrice e maestra per ognuno, in ogni cosa che gli sia dubbia o sconosciuta. Per- ciò nessuna delle cose sarebbe chiara ad alcuno, né per se stessa, né in rapporto alle altre, se non ci fosse il numero e la sua essenza. Ora questo, 74 armonizzando tutte le cose con la sensazione nel- l'interno dell'anima, le rende conoscibili e tra loro commensurabili secondo la natura dello gnomone, in quanto compone o scompone i singoli termini delle cose, così delle interminate come delle ter- minanti. Né solo nei fatti demonici e divini tu puoi vedere la natura del numero e la sua potenza dominatrice, ma anche in tutte, e sempre, le opere e parole umane, sia che riguardino le attività tecniche in generale, sia propriamente la musica» (trad. Timpanaro-Cardini). Da varie testimo- nianze risultano le ingegnose deduzioni di natura sia aritmetica e geometrica, sia fisica, dalle quali Filolao traeva conferma al dominio della decade. A questo punto tuttavia Filolao avvertiva l'esigenza di una semplificazione del mondo fisico che era assente nella tradizione pitagorica, e riconosceva nel si- stema empedocleo il più potente strumento in questo senso. È propriamente nel- l'assunzione che ne fece Filolao che le radici di Empedocle si trasformarono in «elementi», avulsi ormai dalla vita del cosmo ed inseriti su di una più fredda strut- tura numerico-geometrica. Nei quattro elementi, infatti, e nello « sfero » che li riassumeva, Filolao vide il veicolo ideale per la conquista del mondo fisico da parte dei suoi solidi geometrici. Per via analogica, il cubo trovò il suo equivalente nella terra; il tetraedro nel fuoco; l'ottaedro nell'aria; l'icosaedro nell'acqua; il dodecaedro, infine, nello « sfero ». Da un altro punto di vista, ciò equivale a dire che gli elementi trovarono il proprio limite, la propria forma, la propria armonia, infine la propria razionalità nelle rispettive figure. I molteplici oggetti dell'espe- rienza e le loro mutazioni si presentavano ormai come aggregati degli elementi e dunque come composizione di forme geometriche semplici; ma, imbrigliati dal limite, armonizzati dalla figura, il loro variare nulla più aveva di misterioso o di irrazionale, sempre riconducibile com'era, sia pure per vie complesse e non tutte esplorate, alla legge del numero. Filolao giungeva dunque a modificare così l 'assioma pitagorico che i numeri sono le cose: « Tutte le cose hanno un numero; senza questo, nulla sarebbe possibile pensare, né conoscere. » Le cose hanno un numero perché, come in un universo cristallografico, hanno una figura-forma che le delimita e che è riconducibile a rapporti numerici; 1 e perché sono inserite in un'armonia cosmica che ne ritma il divenire e che è anch'essa riconducibile al rapporto (logos) numerico. Nel frammento che abbiamo ora citato Filolao compie un'altra fondamentale deduzione: poiché la nostra conoscenza, se vuol essere ve- ra, non può che muoversi dall'« uno» e seguirne la legge, poiché il nostro pensiero non può che essere -e di fatto, nella tradizione pitagorica, è -logos mathematikòs, ecco che il numero instaura la sua suprema armonia fra pensiero e realtà, fra uomo e mondo; ecco che il linguaggio dell'uomo è identico al linguaggio di fysis, e basterà affinarlo nel medesimo senso per decifrare fysis tutta intiera. Così egli ristrutturava il pitagorismo in modo da adeguarlo alle esigenze posteleatiche e insieme ne allargava l'orizzonte fino a includervi le necessità di spiegazione naturalistica. Più rigoroso, sebbene meno ricco di quello empedo- cleo, il suo sistema si prestava a brillanti deduzioni cosmologiche, ma, posto a confronto con i problemi del significato e della vita, era spesso costretto a sce- I È interessante a questo proposito la fi- gura di Eurito, un pitagorico del v secolo spesso associato a Filolao. Eurito era famoso fra i suoi contemporanei perché, assegnato a qualsiasi og- getto reale un determinato numero (non sappiamo come lo ottenesse), egli dimostrava in un modo caratteristico la necessità naturale del rapporto fra l'uno e l'altro: si provvedeva di un pari numero di sassolini, tracciava la figura dell'oggetto in que- stione e incastr11va lungo il suo perimetro tali 75 sassolini (il numero atto a definire la figura del- l'uomo era per esempio 250). Variando le dimen- sioni dell'oggetto, il numero di sassolini, che ne esprimevano i rapporti essenziali, non cambiava. In tal modo Eurito voleva stabilire visivamente la relazione, tipica anche del pensiero di Filolao, tra numero e forma limitante gli enti reali: il nu- mero, tradotto in forma, era quindi il principio di individuazione e anche di intelligibilità della na· tura. gliere la via del superamento mistico alla maniera del primo pitagorismo; oscil- lazione riconoscibile lungo tutto l'arco della riflessione naturalistica di Filolao. L'« uno», ipostatizzato fisicamente nel «fuoco», sta al centro del cosmo; dal suo rapporto con l 'infinito circostante- un rapporto paragona bile al processo del- la inspirazione ed espirazione - si è generato tutto quanto il cosmo, che, come ab- biamo visto, consta di una sintesi inscindibile di « uno » e molti, di limitante e illi- mitato. Rinnovando la meccanica celeste della tradizione pitagorica, spinto a un tempo dall'esigenza astronomica di spiegare le eclissi e da quella mistica di asse- gnare all'« uno-fuoco» il posto centrale dell'universo, Filolao fece audacemente della Terra un pianeta eccentrico e mobile come gli altri, anticipando così di se- coli la veduta di Aristarco. La medesima ambiguità si riscontra nell'ipotesi di un decimo pianeta, l' Antiterra, in aggiunta ai nove conosciuti: si trattava, da un lato, di costruire un modello di meccanica celeste atto a spiegare fenomeni quali la maggior frequenza, in uno stesso luogo, delle eclissi di luna rispetto a quelle di sole; e, dall'altro, di trovare un 'ulteriore conferma al valore universale della decade. Analogamente ad Empedocle, Filolao riteneva poi il sole percepito dai nostri sensi un semplice riflesso focalizzato del «fuoco » centrale. Filolao fu anche attento cultore di biologia e di medicina: operando nel solco della tradizione alcmeonica, egli accoglieva da un lato alcune posizioni del sistema vitalistico di Empedocle, dall'altro, grazie proprio a quella tradizione, appariva più vicino all'empirismo esprimentesi nella medicina cnidia; né poteva riuscirgli agevole la trasposizione dei punti di vista aritmo-geometrici al campo della vita. Proprio per questa complessità di approccio, appaiono nel filosofo di Crotone germi interessanti di teoria medica; essi passeranno in Platone e in alcune opere del Corpus hippocraticum, e per un altro verso nella scuola siciliana di medicina, ma non troveranno una diretta continuazione per il progressivo abbandono, da parte del successivo pitagorismo, delle ricerche più propriamente naturalistiche. Un primo movimento analogico permette a Filolao di ravvisare nel ritmo della vita organica una stretta affinità cosmogonica. Principio costitutivo della vita è lo sperma, il calore originario; principio del corpo è dunque il calore, così come il «fuoco» lo era del cosmo. D'altra parte la respirazione introduce nel corpo l'ele- mento freddo necessario ad equilibrare tale calore, proprio come l'inalazione del- l'illimitato circostante da parte dell'« uno» originava l'universo. Gli stessi organi principali del corpo sono racchiusi in uno schema quaternario analogo a quello degli elementi, ed essi sono visti come rispettivamente egemonici nelle varie classi di viventi. Il cervello, cui corrisponde il pensiero, è così egemonico nel- l'uomo (qui è chiara l'eredità alcmeonica); il cuore, cui corrisponde il principio della vita sensibile, è egemonico negli animali (prevalendo qui l'ispirazione empe- doclea); l'ombelico, che presiede alla crescita dell'embrione e alla vita vegetati va, contrassegna la classe delle piante; i genitali, infine, da cui proviene il seme fecon- dante, individuano tutti i viventi in quanto tali. In senso più propriamente medicFilolao costruì un'eziologia in cui i maggiori agenti patogeni, di derivazione cni- dia, erano la bile (vista come siero delle carni), il sangue e il flegma o catarro che si originava dalle urine ed era comunque il prodotto di una infiammazione. I fattori scatenanti i processi morbosi erano poi ravvisati, alla stregua della dottrina alcmeonica, nell'eccesso o nella scarsità di alimenti, di esercizio fisico, dei fattori ambientali necessari alla vita dell'uomo. La teoria dell'anima era in Filolao strettamente connessa alla concezione del- l'organismo: l'anima rappresentava infatti da un lato il respiro vitale, il principio di refrigerazione che temperava il calore corporeo e dava luogo alla vita; dall'al- tro essa era l'armonia che scaturiva dalla tensione degli opposti elementi fisici - come dalle corde di uno strumento musicale - e li teneva connessi nel miracoloso equilibrio della vita. L'anima era dunque la presenza dell'armonia universale nel corpo vivente, e d'altro canto l'espressione intrinseca dei diversi fattori che si componevano armonicamente a dar luogo alla vita stessa. Così strettamente legata all'equilibrio transeunte della vita organica, l'anima individuale non poteva sopravvivere al dissolversi nella morte degli elementi corporei che essa armo- nizzava; ancora una volta, per giustificarne l'immortalità secondo il dettame pitagorico, Filolao era costretto ad un trascendimento religioso della propria dottrina. Al contrario di Empedocle, Filolao veniva così offrendo al pensiero sia filo- sofico sia tecnico-scientifico uno strumento d'indagine dotato di una enorme po- tenzialità: quello cioè dell'analisi formale e modale della realtà, e della sua tradu- zione nei termini della logica aritmo-geometrica. In questo senso, era fondamentale il suo apporto allo sviluppo della matema- tica, che poteva ormai procedere sulla via della specializzazione arricchita della certezza che qualsiasi sua scoperta avrebbe comportato oggettivamente una più vasta e profonda comprensione della realtà, avrebbe comunque rivestito un signi- ficato universale. E parimenti fondamentale - anche se destinato ad un meno im- mediato successo - era il suo contributo alla fisica, che per la via della matematiz- zazione era avviata ad una intelligibilità, ad un rigore nuovi; un rigore persino superiore a quello della fisica atomistica, che, come ha osservato il Rey, avrebbe dovuto basarsi sulla meccanica, una disciplina molto meno progredita nel pensie- ro greco di quanto non lo fosse l'aritmo-geometria pitagorica. Se in epoca moderna matematizzazione e concezione atomica della fisica erano destinate a riunirsi, dando luogo al « sistema del mondo » proprio della scienza a partire dal Seicento, nel mondo greco pitagorismo ed atomismo restarono però a lungo contrapposti. Ciò è dovuto anche all'ambiguità che abbiamo visto sottendersi a tutta la speculazione di Filolao. Il logos mathematikòs non era soltanto, e non tanto, un metodo del pensiero quanto la struttura essenziale, garantita, dell'universo; il numero non era tanto uno strumento euristico dell'uomo quanto una realtà originaria, primale, che garantiva la validità della scienza, ma soprattutto la condizionava al riconoscimento di sé, principio dogmatico del conoscibile prima che del conoscere. Già per la matematica, questa natura del numero creava una situa- zione di privilegio necessariamente ambigua: giacché essa veniva trasvalutata in una sorta di teologia razionale, secondo un processo che sarà comune a Platone vecchio e a tutto il successivo pitagorismo, sempre più alieno dalla ricerca empi- rica, sempre più portato a rifiutare il contatto così fecondo tra la matematica stessa e le discipline tecniche e naturalistiche. Nel senso di Filolao, assolutizza- zione delle matematiche voleva dire dunque anche loro isterilimento sul piano scientifico-tecnico, e contemporaneamente condanna ad uno status non scientifi- co delle technai di controllo della natura, dalla meccanica alla biologia. L'accen- tuarsi della natura mistica del numero - che all'origine aveva anche significato l~ preoccupazione di una saldatura tra uomo e mondo, tra conoscenza e realtà - avrebbe scavato un solco sempre più profondo tra il pitagorismo e le tendenze più vive del pensiero, conducendo da ultimo alla fusione tra un pitagorismo teologiz- zante ed un parimenti infiacchito platonismo. Filolao, con tutta la sua ricchezza di interessi metodici .e scientifici, era certamente lontanissimo da tali esiti. Ma la sua impossibilità di liberarsi da talune ambiguità di fondo lo poneva già, nono- stante tutto, su questa via.Gorgia nacque a Lentini, in Sicilia, intorno al 480. La tradizione ci rac- contà che sarebbe vissuto fino a 108 anni, e sarebbe stato discepolo vuoi dei pi- tagorici vuoi di Empedocle. Senza dubbio riuscì a conquistarsi la stima dei suoi concittadini, tanto è vero che fu da essi inviato come ambasciatore ad Atene per chiedere aiuto contro Siracusa. Viaggiò per tutta la Grecia, facendo ovunque sfoggio della sua sottilissima arte dialettica che era basata su una tecnica analoga a quella di Zenone. Scrisse varie opere, fra le quali ci limitiamo a ricordare l'Elena e il trattatello Intorno al non ente o intorno alla natura (Perì tou me ontos é perì Jjseos). Nella prima viene svolta, con molta abilità, la paradossale difesa della celebre eroina, scagionata da ogni colpa per l'abbandono della casa del marito, e viene intessuto l'elogio dell'onnipotenza della parola, specie quando essa è guidata dalla retorica: « La parola è un gran dominatore, che con piccolissimo corpo e invisi- bilissimo, divinissime cose sa compiere; riesce infatti a calmar la paura, e a eli- minare il dolore, e a suscitare la gioia, e ad aumentare la pietà.» Nell'altra opera Gorgia espone, una triplice tesi: a) nulla è; b) se anche qualcosa fosse, non sa- rebbe conoscibile; c) se poi fosse conoscibile, non sarebbe esprimibile, «poiché il mezzo con cui ci esprimiamo, è la parola; e la parola non è l'oggetto, ciò che è realmente; non dunque realtà esistente noi esprimiamo al nostro vicino, ma solo parola che è altro dall'oggetto». La critica della vecchia filosofi di Parmenide è qui evidente; essa si fonda sull'equivocità del termine « essere» usato ora nel senso di « esistere» ora in- vece nel senso puramente copulativo. Ma più ancora di questa critica è impor- tante la chiarezza con cui si pongono i problemi della conoscibilità e dell'espri- mibilità (cioè i problemi se tutto ciò che esiste possa, per il solo fatto di esistere, venire conosciuto e venire espresso). Abbiamo parlato, a proposito sia di Protagora sia di Gorgia, di critica al- l'eleatismo. Tale critica investì certamente il tentativo dell'eleatismo di stringere in una rigida unità l'ordine del pensiero e del linguaggio con quello della realtà percepita e vissuta, e vi contrappose la relativa autonomia di questi due momenti. Ciò premesso, la critica moderna tende tuttavia a non sottovalutarei legami che connessero i maggiori sofisti all'eleatismo, e non solo nel senso che la situazione di crisi creata da quest'ultimo rappresentò il loro punto di partenza. Nell'ordine logico, i sofisti accettarono infatti i requisiti di verità imposti dall'eleatismo, quali l'identità tautologica (di cui la orthoépeia protagorea sarebbe una versione raffinata) e la pregnanza di significati esistenziali e copulativi del verbo «essere». La rivendicata autonomia dell'esperienza vissuta si tradurrebbe pertanto in una sizioni professionali variano da individuo ad in- dividuo, sicché ognuno, possedendone alcune, è privo delle altre, la capacità di contribuire a con- 93 servare e perfezionare l'organismo sociale deve essere considerata presente in tutti gli individui normali. rinuncia a controllarla con strumenti logici, e in un suo abbandono alla psico- logia dell'individuo a sua volta stratificato nella convenzione sociale. Questo atteggiamento si tradusse, da un lato, in una certa incapacità della sofistica di comprendere l'originale rapporto di logica ed esperienza che si veniva realiz- zando nella scienza contemporanea (di qui la polemica di Protagora e di Gorgia contro la geometria, la fisica e, indirettamente, contro la medicina); dall'altro, nella tendenza a considerare il momento irrazionale del profitto e della forza come primario nell'ordine sociale, trascurandone le esigenze etico-storiche. Questo non toglie nulla alla fecondità dell'atteggiamento critico della sofistica, ma certamente sottolinea la vastità del compito di ricostruzione scientifica, filosofica e storico- sociale che spetterà al pensiero greco dopo il fallimento eleatico, l'esaurimento della filosofia della natura e la critica sofistica. Non sappiamo se a Crotone, quando vi approdò Callifonte, l'asclepiade di Cnido, cui abbiamo fatto cenno nel secondo paragrafo, già esistesse una scuola di medicina o se la sua fondazione si debba a questo scienziato venuto dall'Orien- te. È certo, tuttavia, che la scuola conobbe una rapidissima fioritura. Già il figlio di Callifonte, Democede, si guadagnò la fama di miglior chirurgo del mondo greco, e, fatto ritorno alla nativa costa ionica, impose alla corte del re di Persia la supremazia della nuova scuola ellenica su quella tradizionale d 'Egitto. Toccò al crotoniate Alcmeone, nato verso il 540, di portare la scuola al suo massimo livello scientifico. E soprattutto toccò ad Alcmeqne -che il Wellmann ha definito a buon diritto pater medicinae grecae - di rinnovare profondamente il pensiero scientifico ellenico, condizionandone lo svolgimento lungo tutto il v secolo. A contatto attraverso la sua scuola con le esperienze maturate dalla historle ionica nel VI secolo, egli entrò d'altro canto in relazione con le filosofie i tali che che sullo scorcio di quel secolo si sviluppavano rapidamente: il pensiero di Senofane da un lato, il pitagorismo dall'altro. Dalla critica senofanea al sapere umano, Alcmeone derivò la consapevolezza, via via affinatasi, che l'osservazione empirica non può immediatamente offrire la chiave della conoscenza, che la verità non si rivela tutt'intera a chi si limiti a descrivere la natura. Con il pitagorismo, Alcmeone mantenne rapporti su di una base di autonomia, da scuola a scuola; insofferente del carattere settario, dogmatico, della dottrina e della prassi pitago- rica, egli rivolse contro di esse la sua critica teorica e la sua azione politica demo- cratica. Fu tuttavia profondamente interessato non solo dai progressi che i pi- tagorici facevano compiere alle. scienze naturali, ma soprattutto dal loro tentativo di scoprire leggi dell'esperienza che fungessero da principio di organizzazione e di interpretazione dei fenomeni osservati. Ecco dunque che sul tronco dell'empirismo ionico, cui per altro restava solidamente ancorato, Alcmeone veniva innestando una problematica e una consapevolezza nuove, la cui carenza aveva sempre frenato, come s'è visto, i progressi di quell'empirismo. Proprio con la dichiarazione di questa acquisita consapevolezza si apre l'opera di Alcmeone: «Delle cose invisibili, delle cose mortali gli dei hanno immediata certezza, ma agli uomini tocca procedere per indizi (tekmdiresthai). » Bastava un tale punto di vista gnoseologico ad infrangere l'illusione dell'immediata trasparenza dell'esperienza, ad aprire la via ad una osservazione critica dei fenomeni e ad un più attivo intervento dello scienziato nella loro interpretazione. Alcmeone si valeva del principio così scoperto nel vivo della propria ricerca scientifica, e d'altra parte era la ricerca stessa, divenuta criticamente più vigile, a confermargliene la validità. Nel campo dei fenomeni naturali egli non vedeva più alcun « elemento »alcuna coppia di contrari, alcuna arché che di per sé valessero a spiegare la natura e la vita. Da biologo, egli riconosceva piuttosto nell'empirico una indefinita molteplicità di principi attivi o « qualità », vale a dire di stimoli capaci di de- terminare nell'organismo una certa reazione fisiologica (l'amaro, il freddo e così via); di conseguenza, non v'era continuità fra organismo senziente e il suo ambiente, ma il rapporto fra l'uno e l'altro era quello di stimolo e reazione (questo è il significato della « sensazione per contrari » attribuita ad Alcmeone, in contrasto con la «sensazione per simili» che, come s'è visto, fu tipica di Empedocle). Parallelamente, Alcmeone scopriva, grazie alla pratica coraggiosa- mente scientifica della dissezione, che la funzione del percepire è nell'uomo bensì diffusa nei vari organi di senso, ma che essa viene poi coordinata da un organo centrale, e precisamente dal cervello. Con questa scoperta Alcmeone non solo compiva un progresso di fondamentale importanza per tutta la biologia greca, ma trovava altresì una decisiva conferma al proprio punto di vista gno- seologico: la funzione del cervello spezzava di fatto il legame immediato fra uo- mo e mondo, fra conoscenza e realtà. Ed Alcmeone rendeva esplicita questa con- seguenza dichiarando che, se la «sensibilità» è una proprietà di tutti gli organi- smi viventi, la funzione del « comprendere », cioè del ridurre a sintesi significa- tiva l'esperienza, e del «prender coscienza» della sensibilità stessa è propria esclusivamente dell'uomo. Il valore di queste asserzioni si po.trà intendere appie- no ove si ricordi che ancora una generazione più tardi la dottrina della centralità del cuore conduceva Empedocle a conclusioni estremamente antitetiche. In ogni modo, profondo era il solco così apertosi fra l'uomo e la realtà che egli vuol comprendere e trasformare. Il mondo dell'esperienza riacquistava la sua concretezza, e l'esperienza stessa veniva riconosciuta incapace di dare spontaneamente conto di sé. Così, lo scienziato riconquistava un'autonomia e una possibilità di comprensione e di controllo sul mondo, scoprendo un punto di vista ad esso eterogeneo. Ma Alcmeone si avvide di una conseguenza decisiva di questa situazione: la realtà si faceva a un tratto opaca agli occhi dello scienziato; la sapienza, intesa come perfetta trasparenza di tutto il mondo all'uomo, restava ormai solo una proprietà degli dei. In termini di metodo scientifico, la sapienza doveva allora venir sostituita dall'indagine, la rivelazione dalla congettura, l'os- servazione e le analogie che essa sembrava offrire dovevano essere integrate dal metodo dell'indizio e della prova. Quando Alcmeone poneva il tekmdiresthai, il proceder appunto per indizi, congetture e prove, come metodo tipico della conoscenza umana, egli conferiva una consapevolezza teorica alla prassi della me- dicina, che doveva interpretare l'esperienza per ritrovare in essa un significato, un valore di sintomo, e risalire così all'unità della malattia e delle sue cause: una consapevolezza che, come s'è visto, fece sempre difetto ai cnidi. Sulla base di queste prospettive teoriche, Alcmeone poté anche offrire alla medicina una dottrina fisio-patologica e un'eziologia unitaria cui i cnidi non avevano potuto pervenire. Le infinite «qualità» (4Jnàmeis) agenti nell'organismo, formano nel loro stato normale un composto (krasis) omogeneo ed armonico (isonomia). La malattia nasce dalla rottura di tale equilibrio e dal prevalere patolo- gico (monarchia) di uno solo di questi principi, oltre che per l'azione di una mol- teplicità di fattori ambientali. È importante notare, per l'influenza che questa veduta ebbe su Ippocrate, che Alcmeone lasciò indefinito il numero delle 4Jndmeis, senza irrigidirle né nello schema quaternario degli elementi proprio della scuola empedoclea, né in quello degli « umori » sviluppatosi nella tarda scuola di Cos. Queste determinazioni negative, le uniche che ci restano delle 4Jndmeis alcmeoniche, sono tuttavia importanti, perché gettano il seme di una embrionale chimica fisiologica, consapevole della molteplicità degli elementi e dei composti (come ribadirà anche Anassagora) e attenta soprattutto alla loro sempre variabile funzionalità nelle sintesi organiche. D'altra parte, rompendo anche qui con tutta la tradizione della_bsiologia, Alcmeone affermava l'irreversi- bilità dei processi biologici e dunque l 'impossibilità del ciclo: « Gli uomini per ciò periscono, che non possono congiungere il principio con la fine. » Troppo innovatrici erano tuttavia le sue intuizioni, perché Alcmeone ne potesse trarre tutte le conseguenze. La via del metodo scientifico era stata indicata, ma un lungo cammino doveva essere ancora percorso perché quel metodo potesse essere sviluppato e consolidato. Il problema del rapporto fra pensiero e realtà, fra teoria ed esperienza era stato posto senza che le strutture di quel rapporto potessero essere compiutamente analizzate e rese esplicite. Questa mancanza di una chiara elaborazione teorica spiega come l'eredità alcmeonica si sia suddivisa in due filoni diversi e contrastanti. Da un lato, infatti, essa fu riassorbita dalla fysiologia italica e siciliana, che utilizzò alcune delle sue conquiste scientifiche contestandone altre e soprattutto annullandone via via la carica innovatrice dal punto di vista del metodo. Attraverso Empedocle, questo filone dell'eredità alcmeonica passò, sul finire del v secolo, alla scuola italica di medicina, di cui diremo più ampiamente al capitolo xr. L'altro filone ci interessa qui più da vicino: tramite l'autonoma ricerca medico-biologica, esso rifluì nell'ambiente scientifico ionico-attico, e dunque nel suo crogiuolo ateniese, destandovi immediatamente l'interesse delle più vive correnti di pensiero. Ad Anassagora la lezione alcmeonica apportava la veduta dell'alterità del conoscere rispetto al conosciuto, dell'inesauribile concretezza del mondo empirico, del tekmdiresthai come metodo della conoscenza; agli scienziati che si raccoglievano intorno al filosofo, ai medici come lppocrate, Alcmeone insegnava l'importanza metodica del sintomo, la centralità del cervello, le basi fisiologiche della patologia; agli uomini di cultura, agli storici come Tucidide, egli trasmetteva analoghi spunti metodici, e ancora il suo rifiuto della ciclicità, la sua concezio"ne - così suggestivamente trasferibile alle vicende umane- dell'armonia come salute, della monarchia come sua rottura patologica Seguendo questo secondo filone dell'eredità alcmeonica, occorrerà quindi tornare nell'Atene della metà del v secolo, dove si venivano intrecciando i nodi di tutto il pensiero scientifico greco e grazie a ciò si ponevano le premesse per le sue conquiste più alte.Nel seguire al capitolo vn il filone alcmeonico che si svolgeva attraverso Anassagora e culminava in Ippocrate, accennammo anche al permanere di una scuola medica in Magna Grecia e in Sicilia, nella quale l'eredità di Alcmeone doveva però esser ben presto sopraffatta dal prepotente influsso della fysiologia di Empedocle. Quest'ultima era in effetti tale da condizionare sia nelle premesse sia nei metodi la ricerca medico-biologica, promuovendone a un tempo lo svi- luppo e indirizzandolo verso esiti estremamente insidiosi. La concezione del inondo come un organismo vivente pareva infatti assicurare la fondazione più universale e più valida alle scienze biologiche; e la riduzione del mondo stesso a quattro elementi primari, o archai, sembrava a sua volta offrire uno strumento decisivo per la comprensione della struttura del corpo e delle sue affezioni. La metodica da porre in opera era pure esemplificata da Empedocle: si trattava di battere la via dell'analogia tra microcosmo e macrocosmo, di riportare cioè co- stantemente i fenomeni organici alla struttura di fondo del corpo e la struttura del corpo a quella dell'universo, ritrovando in quest'ultima una garanzia di ve- rità e una premessa per ulteriori spiegazioni. Entro tale orizzonte la scuola italica si sviluppò lungo la seconda metà del v secolo, finché sullo scorcio di quello stesso secolo e nei primi decenni del IV, Filistione di Locri la condusse al suo definitivo assetto dottrinale e metodico. Importante in senso dottrinale l'elaborazione della teoria del pneuma o «respiro», principio vitale che animava la struttura elementare sia del corpo sia del cosmo, e che valeva a spiegare molti fenomeni patologici quando la sua circolazione or- ganica risultasse anomala. Ma soprattutto importante, dal punto di vista metodico, era la traduzione in senso biologico degli elementi empedoclei, che certamente Filistione derivava dalla scuola ma cui egli conferì una forma destinata a domi- nare per lunghi secoli il pensiero naturalistico. Non immemore della lettera al- meno dell'insegnamento alcmeonico, e impegnato più direttamente di Empedo- cle nell'osservazione dei fenomeni organici, Filistione trasformò gli elementi in « qualità » o principi organici attivi (c!Jndmeis): così la terra veniva espressa dalla djnamis «secco», l'acqua dall'« umido», il fuoco dal« caldo», l'aria dal« fred- do »: queste c!Jndmeis erano secondo Filistione la forma specifica con la quale la struttura elementare dell'universo si manifesta nell'organismo umano; grazie tuttavia alloro legame univoco con gli elementi, esse non potevano diventare, come in Anassagora ed in Ippocrate, stati relativi e mutevoli degli oggetti em- pirici, bensì restavano principi stabili e necessari dell'empirico stesso. Il processo analogico con il quale Filistione giungeva alle quattro qualità era strettamente affine alla deduzione empedoclea degli elementi, e non occorrerà tornare a descri- verlo; e la sua critica più pertinente, dal punto di vista del metodo della medicina empirica, fu del resto anticipata dallo stesso Ippocrate in Antica medicina, come si è visto al capitolo vn. L'importanza storica della rielaborazione di Filistione e la ragione del suo duraturo successo stanno da un lato nell'aver offerto alla biolo- gia uno strumento di spiegazione e di semplificazione dei fenomeni pur sempre dogmatico ma tuttavia assai più riconoscibile nella concretezza dei processi or- ganici di quanto lo fossero gli elementi empedoclei (ad esempio il «calore vitale» e il suo eccesso patologico rappresentato dalle febbri si spiegano meglio con le vicende della qualità« caldo» che con la materia «fuoco»); d'altro lato, toglien- do dalla fysiologia empedoclea quanto vi era di materialistico e in fondo di mec- canicistico, Filistione ne troncava i pur possibili legami con l'atomismo e la ren- deva assai meglio accetta al prevalente indirizzo qualitativo del pensiero platonico e soprattutto aristotelico. Un'altra importante evoluzione egli faceva poi subire all'organicismo del filosofo di Agrigento. Mentre quest'ultimo non aveva mai compiuto esplicita- mente il passo che portava dalla concezione vitalistica del mondo al ricono.sci- mento di un finalismo in esso operante, Filistione trovava, ad esito delle sue ri- cerche anatomiche sull'organismo, proprio questo grande principio esplicativo: che la natura, e soprattutto la natura vivente, è organizzata in funzione di un si- stema di fini, che questa organizzazione si ritrova allivello di .tutti gli organi, e che dunque l'indagine biologica non deve vertere tanto sul « che cosa » e sul «come», quanto sul «perché» finale dell'assetto dei fenomeni studiati. Nel trattato sul Cuore (Perì kardies) - dove tra l'altro, nonostante la sua grande dottrina anatomica, egli rifiuta Alcmeone per Empedocle e pone l'intelli- genza nel cuore stesso - Filistione concepisce quest'organo come la costru- zione mirabile di un « buon artefice », che tutto ha predisposto affinché la vita potesse aver luogo nel migliore dei modi. L'incontro di queste dottrine con il platonismo, concretatosi in quello fra Filistione e Platone avvenuto in Sicilia ver- so il 36o e dunque all'inizio del periodo di elaborazione del Timeo, doveva ave- re conseguenze incalcolabili per la scienza della natura greca. Attraverso Platone, passarono infatti ad Aristotele, che le adottò ancor più risolutamente del maestro, e grazie a lui conquistarono una egemonia per lungo tempo quasi incontrastata. Ma prima che tutto questo avesse luogo, le posizioni della scuola italica fa- cevano sentire la loro pressione sulla stessa scuola di Cos postippocratica, e oc- correrà ora seguire gli estremi tentativi di quest'ultima di salvare la techne, «l'an- tica medicina », da così agguerriti avversari. Già si parlò nel capitolo v dell'opera di Filolao,; qui vogliamo ancora accen- nare ai progressi compiuti, nell'ambito della matematica, dal filosofo e scienziato Archita, vissuto a Taranto tra la fine del v secolo e la prima metà del IV, ultima figura di statista pitagorico. Egli resse per lungo tempo la sua città incrementan- done la prosperità e la potenza militare, facendone la prima della Magna Grecia. Si ritiene che Archita abbia applicato la propria dottrina matematica alla mecca- nica militare, e, poiché sappiamo pure che fece uso di strumenti meccanici per ri- solvere problemi geometrici, si può dire che per primo (e sfortunatamente con pochi imitatori per molto tempo) egli intuì la fecondità teorica e pratica di una rela- zione fra matematica e meccanica. Profonda fu l'impressione che la personalità di Archita suscitò in Platone in occasione del suo soggiorno a Taranto nel 3 89. In campo matematico, Archita riprese il problema di Delo secondo le linee tracciate da Ippocrate di Chio, e lo portò a soluzione mediante la rappresenta- zione strumentale di figure geometriche in movimento. La soluzione di Archita è troppo complessa per essere qui riportata: da essa risulta comunque che egli era familiare con i processi mediante cui si generano cilindri, coni e altri solidi di rivoluzione, e che fu il primo ad usare consapevolmente il concetto di luogo geometrico. In questo modo, Archita offriva il primo esempio di applicazione della geometria dello spazio alla soluzione dei problemi di geometria piana, e insieme dava inizio alle ricerche che concluderanno alla teoria delle coniche. Ma quello che va messo in maggiore rilievo, è lo spregiudicato coraggio con il quale Archita faceva ricorso - nonostante la polemica·platonica - a tutti i metodi e gli strumenti che permettessero di far progredire la ricerca. Parimenti ardite le sue impostazioni in aritmetica e in acustica: quanto alla prima, egli contribuì a sviluppare il concetto che il numero è essenzialmente un rapporto, perciò in- dipendente dalle condizioni di commensurabilità e razionalità, e poté quindi tor- nare a rivendicare la supremazia dell'aritmetica fra le scienze matematiche; quanto alla seconda, egli scoprì che il suono è dovuto al movimento e all'urto dei corpi, e che l'aria è un corpo atto a ricevere la vibrazione e a propagarla La tradizione, che fa di Archita uno dei maestri di Eudosso, anche se dubbia, vale certamente a simboleggiare la funzione del tarantino nel passaggio dalla ma- tematica del v secolo alla grande fioritura che ebbe luogo nel IV I romani, prevalentemente agricoltori e guerrieri, non si occuparono affatto, nei primi secoli della loro storia, né di problemi filosofici né di problemi scienti- fici. Il loro interesse culturale si concentrò, tutto, sui problemi giuridici, per l'evi- dente importanza del diritto nella costruzione di uno stato efficiente. Nel 168 a.C. la conquista della Macedonia li portò a contatto immediato con la Grecia e provocò un rapido incremento nei loro rapporti con la cultura elle- nica. Questi furono, in un primo tempo, tutt'altro che facili. La penetrazione in Roma dell'arte, della filosofia e della scienza greche poteva infatti costituire un vero pericolo per lo stato romano, minacciando di alterarne quei caratteri cheavevano fino allora costituito la base stessa del suo crescente successo politico. Gli elementi ·più conservatori come Catone se ne avvidero immediatamente e cercarono di opporre una seria resistenza. Un senatoconsulto del 161 ordinò che i retori e i filosofi, venuti in Roma come esuli della Macedonia, fossero cacciati dalla città. Cinque anni più tardi Atene inviava a Roma una missione diplomatica, formata da tre filosofi (Critolao, che rappresentava il Liceo, Diogene di Babilonia, che rappresentava la Stoa, e Carneade, che era alla direzione dell'Accademia); essi approfittarono di questo sog- giorno per esporre in pubblico le proprie dottrine. Ottennero un enorme successo, soprattutto Carneade, la cui oratoria, ricca di sottili argomentazioni dialettiche, riuscì in breve a conquistare la parte più intelligente della gioventù. Famoso è rimasto il suo discorso sul contrasto fra la giustizia e la saggezza, dimostrato pro- prio con l'esempio del popolo romano, che fondava la propria potenza sui terri- tori strappati con la violenza ad altri. Questa non fu l'ultima ragione per cui i filo- sofi ateniesi, appena conclusa la loro missione, furono invitati a lasciare la città. È noto che questi ostacoli non riuscirono a fermare il processo iniziato. Nel corso di pochi decenni la situazione muta radicalmente: i giovani delle migliori famiglie romane accorrono sempre più numerosi a completare i loro studi in Grecia; i più celebri pensatori greci vengono invitati a Roma, ove diventano amici di influenti personalità politiche. A Roma fu per oltre un decennio il filosofo Panezio, uno dei maggiori rappresentanti della media Stoa. Egli si legò particolar- mente al circolo ellenizzante di Scipione Emiliano. Questo comprendeva oltre allo storico Polibio, i maggiori rappresentanti della. cultura romana del tempo: Terenzio, Lucilio, Caio Lelio, Quinto Elio Tuberone, ecc. Nel I secolo a.C. Roma comincia a diventare un centro culturale di notevole importanza. Sarebbe erroneo tuttavia ritenere che la Grecia, con i successi ora ricordati, sia effettivamente riuscita a imporre a Roma la propria cultura. Che non sia stato così ce lo dimostra un fatto semplicissimo ma molto significativo: mentre la lingua greca si era rapidamente diffusa in tutto il mondo mediterraneo orientale (per esempio in Egitto), tanto da diventarvi l'unico mezzo di comunicazione della cultura, nulla di simile accadde in occidente. Nel campo linguistico la resistenza di Catone riportò piena vittoria: i romani continuarono a scrivere in latino ( cer- cando evidentemente di arricchire il proprio vocabolario), e la civiltà mediter- ranea finì a poco a poco per diventare bilingue. Anche nel campo della filosofia e della scienza le qualità più caratteristiche del temperamento romano - buone o cattive che fossero - non andarono som- merse. Una certa ripugnanza per le speculazioni troppo astratte, l'interesse volto più alle conclusioni che alle premesse, la spiccata attitudine dei romani alla pra- ticità, non tardarono a far sentire il peso della loro influenza. 1 I Per i notevoli riflessi di questo tempera- gogico, rinviamo all'ultimo capitolo della pre- mento caratteristico dei romani in campo peda- sente sezione.Illustreremo, nel prossimo paragrafo, le conseguenze di questo spirito nel- l'ambito delle teorie filosofiche. Ora può essere opportuno - per dimostrare l'immediata efficacia che tale spirito ebbe sugli stessi studiosi non romani entrati a contatto con Roma - premettere qualche cenno intorno a due scrittori partico- larmente significativi: Poli bio e Strabone. Il greco Polibio (205-123 a.C.) fu invia,to a Roma come ostaggio dalla lega achea e vi rimase per oltre sedici anni, nei quali ebbe modo di assimilare profon- damente lo spirito di quel popolo. Scrisse in greco le Storie (in quaranta libri) sulle imprese di Roma; opera solitamente considerata come un grande trattato, oltreché di storia, anche di geografia descrittiva, per l'enorme ricchezza di notizie riferite sugli usi e costumi dei vari popoli presi in esame. Orbene il modo con cui è concepita quest'opera è una prova evidente che Polibio intende la ricerca scien- tifica in maniera .completamente diversa dai suoi connazionali. Proprio nulla, infatti, lo interessano le teorie generali e tanto meno le ipotesi sulle zone lontane e mal note del mondo; esse non meritano la sua attenzione, perché prive di im- mediata utilità. Secondo lui, ogni indagine seria deve essere giustificata da un ben preciso scopo pratico. Il compito, per esempio, che egli si propone è quello di istruire i romani intorno al mondo mediterraneo in cui hanno svolto e svolge- ranno le loro conquiste: tutto ciò, dunque, che fuoriesce da questo programma non può che apparirgli privo di senso e dannoso allo sviluppo della ricerca. Da un punto di vista metodologico merita di venire notato che la storiogra- fia di Poli bio presenta alcune affinità con quella di Tucidide: la ricerca tenace della certezza, l'analogia- da lui resa esplicita- con il metodo della medicina, la rinuncia ad ogni abbellimento retorico. Ancora più profonde sono tuttavia le differenze che lo separano dal grande ateniese. Polibio credeva nella diretta fruibilità della storiografia come magistra vitae, nella autonoma significatività delle informazioni riferite quanto più possibilfedelmente, e si ricollegava in tal modo alle teorie sia di Isocrate sia di Teofrasto. Gli era ignoto lo sforzo di com- penetrazione tra ragione e fatti che Tucidide aveva cercato di attuate nel suo me- todo storiografico, convinto com'era che solo da esso potesse scaturire quella essenziale verità della storia la cui «utilità» era certamente meno immediata ma più fondata e più generalmente feconda. In tal senso la storiografia di Polibio sta a quella tucididea esattamente come la filosofia ellenistica sta a quella del v e del rv secolo. Strabone visse un secolo e mezzo dopo (63 a.C.-25 d.C.). Nato ad Amasea nel Ponto da una famiglia di sangue misto greco-asiatico, fu anch'egli fortemente influenzato dallo spirito romano (come ce lo dimostra la decisione con cui so- stenne il dominio politico di Roma). Compì lunghi viaggi e scrisse una Geografia (Geograftkd), ampio trattato in diciassette libri. Ebbene, questo trattato dimostra, non meno della storia di Polibio, il nuovo tipo di interessi che anima il suo autore: brevissima è la parte dedicata all'aspetto matematico della geografia; ricchissimeLa filosofia postaristotelica e diffuse sono invece le notizie sugli usi, le istituzioni, la storia dei paesi via via presi in esame. La differenza fra l'indagine di Strabone e quella compiuta dai geo- grafi alessandrini di qualche secolo prima non potrebbe essere maggiore. L'og- getto di studio ha conservato lo stesso nome, ma il modo con cui è condotta la ricerca dimostra che il significato stesso della scienza è completamente mutato. L 'ECLETTISMO. CICERONE L'espressione più caratteristica dell'interesse prevalentemente pratico dei romani, nell'ambito delle ricerche filosofiche, è l'eclettismo. Non che esso sia nato per opera di pensatori latini, né che tutti i filosofi latini siano direttamente o indirettamente legati ad esso; ma nell'ambiente culturale latino esso trovò le ragioni del suo successo, e in Roma il suo più illustre sostenitore, Cicerone. Per trovare un esempio di filosofo latino che non abbia compiuto alcuna con- cessione all'eclettismo, bisogna riferirsi al poeta Lucrezio di cui abbiamo parlato nel paragrafo 111. Questa particolare posizione di Lucrezio non è, del resto, che la conseguenza logica della sua adesione alla dottrina epicurea; già sappiamo, in- fatti, che l'epicureismo è stato l 'unico indirizzo dell'epoca mantenutosi costan- temente fedele alla propria concezione teoretica, senza evoluzioni interne, e questa sua stessa staticità esclude che abbiano potuto sorgere seri tentativi di conciliazione fra esso e gli indirizzi avversari. A parte Lucrezio, però, è difficile scoprire pensatori latini che non mostrino qualche venatura di eclettismo. Espli- citamente eclettico è l'amico di Cicerone, Marco Terenzio Varrone; atteggia- menti senza alcun dubbio eclettici caratterizzeranno i grandi stoici del periodo imperiale romano; un po' di eclettismo, mescolato con molto scetticismo, potrà venire ritrovato quasi dovunque tra gli uomini più rappresentativi e gli spiriti più raffinati della cultura romana, come per esempio in Orazio, che riuscirà ad esten- dere la propria concezione eclettica fino ad includervi anche molte dottrine filo- sofiche caratteristiche degli epicurei. Come si è accennato nei paragrafi precedenti, l'eclettismo ebbe le sue prime affermazioni nella nuova Accademia e nella media Stoa. Esso rappresentò un tentativo di soluzione della crisi che tali scuole stavano attraversando, e rispecchiò una diminuita fiducia - da parte di ciascuna di esse - nei propri principi teore- tici. Da questo punto di vista possiamo giustamente sostenere che esso esprima un rilassamento dello spirito filosofico, una profonda stanchezza e una mancanza di originalità. Esprime anche, però, la raffinata consapevolezza dei pericoli cui va incontro qualsiasi sistema filosofico astrattamente coerente, e la convinzione di poter trovare, su di un piano meno rigido che quello dei principi generali, la via per una comprensione reciproca e per un sostanziale accordo circa i problemi più interessanti per l 'uomo concreto. Cicerone (106-43 a.C.) ascoltò con molto interesse le lezioni di maestri che, come Filone nell'Accademia e Posidonio nella Stoa, sostenevano la necessità di un'evoluzione filosofica in senso eclettico, e si lasciò da essi facilmente convincere che qualcosa di buono si trova di fatto in tutte le dottrine, specialmente nei loro precetti d'ordine pratico, che il più delle volte coincidono, pur venendo fatti derivare da pri11cipi molto diversi e in apparenza quasi antitetici. La sua adesione all'eclettismo fu dunque immediata e totale, sembrandogli che esso dovesse co- stituire il frutto più maturo dell'ormai plurisecolare travaglio filosofico. Proprio questo atteggiamento largamente comprensivo gli consentì di stu- diare con sincero interesse tutta la storia del pensiero greco, sforzandosi con impegno e intelligenza di renderlo accessibile ai romani. Il suo perfetto possesso della lingua latina gli permise, in particolare, di trovare espressioni eleganti e so- brie per le più difficili formulazioni tecniche dei greci. « La filosofia, » scrive nelle Tusculanae disputationes, « è rimasta fino ad oggi negletta, e su di essa la letteratura latina non ha portato nessuna luce; ma io debbo illuminarla ed esaltarla, così che, se io sono stato di qualche utilità ai miei concit- tadini nelle faccende attive della vita, potrò esserlo anche, se mi riuscirà, stan- domene ozioso. » 1 Se Cicerone ha il torto di dimenticare, in queste parole, il con- tributo dato alla filosofia latina dal suo contemporaneo Lucrezio, 2 egli riesce tut- tavia ad esprimerci molto bene l'animo con cui si accinge a scrivere di filosofia. È un dovere che egli compie per colmare una gravissima lacuna della letteratura latina. Egli sente che, se anche non introdurrà nessuna idea originale, il semplice riuscire a mettere in circolazione, nell'ambito della cultura latina, un patrimonio così serio come la filosofia ellenica, costituirà per lui un merito di cui i concitta- dini dovranno essergli grati. E di fatto gliene saranno grati non solo i concitta- dini, ma anche i posteri, poiché i suoi scritti rappresenteranno per molti secoli una delle principali fonti per la conoscenza del pensiero filosofico antico. Tra le principali opere filosofiche di Cicerone ricordiamo, oltre le Tusculanae (Le Tu- sculane), il De legibus (Delle leggi), il De finibus bonorttm et 1nalorum (l limiti del bene e del male), il De natura deorum (La natura degli dei), il De ojficiis (Sui doveri), il celebre Somnium Scipionis (Sogno di Scipione), che è un frammento del dialogo De re publica (andato per gran parte smarrito), l' Hortensius (un'esortazione alla filosofia, andata perduta, che influenzò profondamente Agostino, e che era un'imi- tazione del Protrettico di Aristotele), ecc. Non è vero, però, che Cicerone si limiti a presentare le teorie altrui senza apportarvi nulla di suo; in realtà egli le ripensa dal suo particolare punto di vista, le espone in modo tale da poterle utilizzare a favore della concezione eclettica. Ora utilizza Platone, ora Aristotele, ora invece gli scettici o gli stoici; e conclude I Qui si accenna al fatto che Cicerone si accinse a scrivere opere filosofiche solo quando venne escluso dalla vita politica per l'affermarsi del primo triumvirato e, in seguito, per il trionfo di Cesare. 2 Proprio Cicerone aveva pubblicato, po- stumo, il poema di Lucrezio, e tale dimenticanza è dovuta probabilmente alla posizione dichiara- tamente antiepicurea da lui assunta in sede fi- losofica. con un generico probabilismo, che ammette proprio come unico criterio di ve- rità il consenso dei filosofi (prova evidente - secondo Cicerone - che esistono delle idee innate, a tutti comuni). In queste molteplici discussioni, non prive talvolta di incoerenze l'una ri- spetto all'altra, nel difficile e complesso lavorio di selezione e coordinamento delle tesi, una preoccupazione appare costantemente presente in Cicerone: quella di rendere ogni uomo consapevole dell'immenso valore educativo della filosofia. Solo la filosofia, infatti, può farci cogliere il valore esatto delle nostre conoscenze; solo essa ci insegna a guardare con effettiva serenità la morte, mostrandoci con chiarezza ove risiedano la vera felicità e la vera sventura; solo essa riesce a farci comprendere che chi ha giovato alla patria dovrà vivere eternamente libero dalle catene del carcere corporeo. Non v'è dubbio che, per il senso pratico dei romani, proprio questa capacità educatrice della filosofia costituiva la sua più seria giusti- ficazione: unica giustificazione veramente sicura e da tutti accettabile Marco Aurelio nacque a Roma nel I 21. Salì al trono imperiale nel I 6 I, alla morte di Antonino Pio di cui era figlio adottivo; morì nel I So. Fu convertito allo stoicismo dalla lettura di Epitteto. Scrisse, in greco, una delle più interessan i opere filosofiche della sua epoca: Colloqui con se stesso (Ta eis heaut6n), ordinaria- mente nota col titolo di Ricordi (in dodici libri). Le note dominanti della sua filosofia- nella quale emergono sempre più chiari i caratteri dell'ultima Stoa - sono un disprezzo ascetico di tutti i beni esteriori e una profonda religiosità. L'essere divino non è semplice fato, ma è soprattutto provvidenza universale. Il rapporto dell'uomo con dio è un rapporto di effettiva parentela, che di conseguenza viene a legare fra loro tutti gli uomini. Oltre ai caratteri ora accennati, è tuttavia presente in Marco Aurelio un carattere nuovo, evidentemente connesso proprio al tipo di vita attiva, gravida di responsabilità, che gli tocca in sorte come capo dello stato. Non a caso - egli pensa l'uomo occupa la propria carica, ma perché espressamente postovi dalla provvidenza dl divino. L'uomo ha quindi il dovere di agire con tutta la necessaria energia, di non sottrarsi ai compiti -- per quanto difficili e ingrati affidatigli da tale provvidenza. È la forma mentis del cittadino romano che si inserisce in quella del filosofo del portico. Né fra le due sorge alcun contrasto. Anzi, esse riescono a fondersi in una mirabile armonia, permeate entrambe da un senso di vivissima religiosità. Neanche il filosofo romano, malgrado il loro indiscusso spirito pratico, sa sviluppare a fondo la preziosa eredità degl’ingegneri. Essi rivelarono senza dubbio grandi capacità nella costruzione di strade, di acquedotti, di fastosi edifici, ma non riuscea a comprendere l'interesse della vera e propria ingegneria meccanica, né avvertirono l'importanza pratica di ricerche direttamente o indirettamente rivolte alla scoperta di nuove fonti di energia. Il fatto appare tanto più singular quando si pensi che proprio risale la massima invenzione tecnologica dell'antichità: il mulino idraulico.È un fatto che non sembra spiegabile se non facendo appello alla difficoltà di comprendere i vantaggi che avrebbero potuto provenire dallo sfruttamento sistematico delle varie forme di energia naturale, mentre esse apparivano. Assai più costose dell'energia umana (schiavi) e animale. Per quanto riguarda lo scarso interesse dimostrato dal filosofo romano verso gl’ artificiosi congegni esposti negli Pneumatikd di Erone, va inoltre osservato che la via da percorrere, onde giungere ad una lorutilizzazione su vasta scala, non puo non apparire troppo lunga e difficile al filosofo romano - come appunto gl’ingegneri romani -- direttamente impegnati nelle realizzazioni pratiche immediate. L'abbandono di tale atteggiamento richiederà una profonda trasformazione sociale e culturale, che ha inizio solo parecchi secoli più tardi. Fra gli filosofi romani che scriveno saggi di ingegneria di qualche pregio, il più importante è Vitruvio, ingegnere militare di Giulio Cesare e Ottaviano. Il suo saggio principale, “De architectura", reca evidenti gl’ultimi sviluppi della matematica e dell'astronomia e le tracce dell'influenza degl’ingegneri. Vitruvio ricorda infatti esplicitamente Ctesibio, riferendoci parecchie sue invenzioni (la pompa, una balestra ad aria compressa, l'argano idraulico, ecc.). Il voluminoso trattato di Vitruvio s’articola in libri che esaminano una gamma assai vasta di argomenti: dalla preparazione filosofica richiesta all'architetto ai problemi specifici concernenti la costruzione di edifici pubblici e privati, all'idraulica, alle macchine da guerra. È inoltre ricco di richiami storici, di indicazioni giuridiche, di massime morali, e costituisce una preziosa fonte per studiare la cultura tecnologica, e in generale i costumi dell'epoca. In essa sono tuttavia riscontrabili alcuni non lievi difetti. Pur sforzandosi di risultare tecnicamente chiaro e cercando ove necessario d’introdurre nuove espressioni adatti al linguaggio tecnico,Vitruvio non può nascondere talune pretese stilistiche, che spesso rendono oscura la dizione, ove accanto a volgarismi e plebeismi si trovano espressioni ampollose e ricercate. Inoltre Vitruvio non è padrone sicuro della materia di cui tratta, onde non solo non riesce a portare contributi nuovi, ma spesso suscita anzi l'impressie di non comprendere bene, egli stesso, le ricerche che si sforza di esporre. Gli è che la vera tecnica non si identifica con la pura e semplice pratica; essa è scienza applicata, e, come tale, richiede dai suoi cultori una profonda preparazione scientifica. Ma questa non poteva essere presente in chi aveva manifestamente studiato troppo poca matematica. Più che di ingegneria la cultura romana si era occupata di agricoltura, su cui ci sono giunti i trattati di Catone, di Varrone e di Columella. Fu proprio una disciplina tecnicoscientifica parallela all'agricoltura ad avere in Roma gli sviluppi più originali: l 'agrimensura, detta gromatica dalla groma, lo strumento che gli agrimensori romani usavano nellamisurazione dei terreni. Il codice Arceriano ci ha conservato una parte delle opere degl’agrimensori da cui si possono ricavare i vari interessi dei agrornatici ed i loro importanti compiti. Ad essi e ffidato il compito di costruire gl’accampamenti, fondare le città e le colonie, misurare l’altezze dei monti e le larghezze dei fiumi nelle campagne militari, far applicare le leggi agrarie e stabilire le confische ed i tributi. Apposite scuole erano istituite nel principato romano per istruire questi funzionari imperiali nella geometria, intesa nel suo aspetto pratico, nel diritto, nell'arte militare e nei rituali religiosi che accompagnavano le loro opere. Fra i maggiori autori agromatici possiamo ricordare Balbo, famoso per aver condotto a termine l'opera di misurazione di tutta l’Italia che era stata iniziata con Cesare, Igino, e infine Sesto Giulio Frontino, una volta console sotto Vespasiano e Traiano, autore anche di un'opera di arte militare sugli Stratagemmi e di un'opera sugl’acquedotti di Roma, “De aquis urbis Romae”.
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