L'attrattiva della bellezza poetica, con cui Lucrezio adornò la sua esposizione della teoria epicurea del pro-gresso, dovette intensificare il potere suggestivo di questa sulla mente dei Romani. Cooperavano, nell'orientare gli spiriti a Roma verso la visione ottimistica del pro-gresso, altri influssi provenienti dalla Grecia, come quelli di Aristotele, Panezio e Posidonio, che devono riconoscersi nella celebrazione ciceroniana del divino potere creatore dell'intelligenza umana; mentre l'influsso demo-criteo si ripercuoteva in Diodoro Siculo attraverso Eca-teo di Abdera, e quello epicureo agiva non solo sul grande poema di Lucrezio, ma anche (attraverso que-sto) sul pensiero degli altri due maggiori poeti dell'epoca, Virgilio e Orazio, e del grande tecnico dell'architettura, Vitruvio. Certo nella Roma imperiale ci si mostrano due orientamenti opposti: quello ottimistico, assertore ed esaltatore del potere creatore dello spirito umano e del pro- gresso, e quello pessimistico, ispirato all'idea di una inferiorità naturale dell'uomo rispetto agli animali, ovvero di una sua caduta dalla perfezione e felicità primordiali della mistica età saturnia alle miserie, alle fatiche e ai conflitti dell'epoca storica. Queste voci tetre risuonano nella poesia di Ovidio e nella prosa di Plinio, come già anteriormente in quella di Sallustio (Catilina). Indubbiamente Ovidio, in Metamorph. I, 76 8gg-, per probabile influsso di Cicerone (De natura deorum, II, 56 8gg.), esalta la nascita dell'uomo (« natus est homo »), come dell'animale piú savio e di maggior capacità mentale tra tutti, dominatore della natura, di figura simile a quella degli dèi, l'unico che per la sua posizione eretta possa contemplare il cielo; ma limita l'epoca beata del-lumanità all'età aurea, quando non ancora l'uomo aveva scoperto i metalli, né inventato la navigazione, né le armi, né le fortificazioni, e neppure l'aratro e iutte le altre creazioni tecniche che sono (a parere d'Ovidio) fonti di pene e di danni per il loro inventore. La creatività della mente umana ha cosí un riconoscimento in Ovidio, ma come causa lamentevole d'infelicità: Contra te sollers, hominum natura, fuisti, et nimium damnis ingeniosa tais (Amores, II, 8, 45-46). D'altra parte Plinio (Natur. hist. VII, proemio) vuole umiliare l'orgoglio di coloro che - come Cicerone in De natura deorum, II, 61 agg., ispirandosi a Panezio — affermavano che il mondo fu creato per l'uomo; e li richiama alla considerazione di tutti gli elementi d'in-feriorità che ha l'uomo rispetto agli altri animali, e dei motivi della sua infelicità: un'anticipazione del pessi- mismo medievale del De miseria hominis di papa Innocenzo III. Ma nell'atteggiamento di Ovidio il riconoscimento (fatto a denti stretti) del potere creatore dell'intelligenza umana, rivela la forza con cui, nonostante ogni pessi-mismo, tale idea s'imponeva allo spirito dell'epoca; aiutata certo nella sua diffusione dalla condizione sto-rica, cioè dall'espansione trionfale del potere romano, ma ispirata nella sua affermazione da suggestioni teoriche derivanti da filosofi greci: da Epicuro, attraverso l'affascinante esposizione poetica di Lucrezio, da Pane-zio e Posidonio attraverso Cicerone, e, tra i precedenti, da Anassagora, Democrito e Aristotele. Influenze combinate di Anassagora, Aristotele, Pane-zio e Posidonio si devono riconoscere appunto in Cice-rone, nella sua celebrazione dell'eccellenza dell'uomo, del potere creatore dello spirito umano, del lavoro, dell'industria e della cooperazione mutua tra gli uomini, come fonti delle grandi conquiste della civiltà, che troviamo in De natura deorum, II, 56 sgg.; De finibus bo-norum et malorum, II, 13, 39; De legibus, I, 7-11; De officiis, II, 3-5. L'uomo, dice Cicerone in De legibus, questo animale previdente, sagace, molteplice, acuto, dotato di memoria, pieno di ragione e di prudenza, ha da dio la sua natura privilegiata, anzi partecipa con la sua ra- lavor dichiarate alle he Coceo in De officis, L, s, dove ri corda che Panezio ha sviluppato molto ampiamente e con numerosi esempi ciò che i capitoli 3-5 sintetizzano, specialmente intorno alla cooperazione reciproca tra gli uomini, indispensabile per la creazione di tante arti, « senza le quali la vita non meriterebbe d'es-ser vissuta» (ibid, cap. 4). Modernamente l'influenza di Panezio è sione di richiamare l'attenzione nel mio libro L'infinito nel pen siero dell'antichità classica, Firenze, La Nuova Italia, parte V, cap. 3 alla fine. gione alla natura e alla comunità divine 7. Seminato sulla terra, ha ricevuto il dono divino dell'anima e la capacità della virtú, che è la natura perfezionata in se stessa ed elevata al suo grado sommo (in se perfecta et ad summum perducta natura); e, mediante l'imitazione della natura maestra, la ragione umana, usando la sua capacità industriosa (sollerter), è pervenuta all'invenzione di un numero infinito di arti (artes innumerabiles repertae sunt). La natura diede all'uomo — mediante i sensi messag-geri, la rapidità della mente e la luce dell'intelligenza - i fondamenti della scienza (quasi fundamenta quaedam scientiae), di modo che per se stessa la natura umana sempre piú progredisce ed avanza (ipsam per se natu-ram longius progredi) e, da sé, senza aver bisogno di maestri (etiam nullo docente), arriva a consolidare e a perfezionare la ragione, partendo dalle cose le cui specie ha conosciuto per mezzo della intelligenza primordiale ed iniziale (ex prima et inchoata [intelligentia]) 3. In tal modo — ripete Cicerone alla fine dell'Horten-sius (come riferisce Sant'Agostino, De trinit. 14, 19, 26), con Aristotele, Protrept. fr. 10 c Walzer (61 Rose) - l'intelligenza è forza visiva e sforzo attivo della mente (mentis aciem), animata dal desiderio attivo dell'inve-stigazione (ratione et investigandi cupiditate). E come la sua attività è rivolta ugualmente e congiuntamente * Eredità di ARISTOTELE, Protreptico, fr. 10 c Walzer = 61 Rose (che Anoke qul Cierone a apia al concet aristotelice dele potenza che per se stessa tende all'atto. La potenza fondamentale dell'intelligenza (inchoatae intelligentiae) considerata qui (cap. 10), è tanto teorica (argumentamur, etc.) quanto pratica (conficimus), e non è privilegio di pochi eletti, ma possesso di tutti (commu nis omnium). E Cicerone aggiunge (cap. 11) ciò che già diceva Sofocle nel coro dell'Antigone e tornerà a dire nel rinascimento Pico nel suo De hominis dignitate, cioè che l'uomo ha nella sua natura la doppia possibilità, d'elevarsi verso la sommità del bene o di sprofondare negli abissi del male.alla conquista della scienza e alla creazione delle arti, cosí — ripete Cicerone, De finibus, II, 13, 39 con lo stesso Protreptico di Aristotele - si deve riconoscere che l'uomo è nato per una doppia finalità, mentre ogni animale è nato per un unico compito: il cavallo per la corsa, il bue per arare, il cane per cercare, ma l'uomo, come un dio mortale, per due attività creatrici, intendere ed operare («ut ad cursum equum, ad arandum bovem, ad investigandum canem, sic hominem ad duas res, ut ait Aristoteles, ad intelligendum et agendum esse natum, quasi mortalem deum »). Queste idee hanno piú ampio sviluppo in De natura deorum, II, 56-67, dove la superiorità dell'uomo sugli animali è affermata da Cicerone, seguendo le orme di Pa-nezio, negli aspetti seguenti: la costituzione del suo corpo, la cui posizione eretta gli permette la contemplazione del cielo (§ 56) e gli dà (come spiega il § 61) la possibilità di conoscere il corso degli astri, di determinare le divisioni del tempo, di prevedere i fenomeni astronomici per tutto l'avvenire (in omne posterum tempus) e di trarre dall'ordine di essi la nozione della divinità legislatrice e governatrice del mondo; i sensi che alla percezione associano i giudizi di distinzione e di valutazione delle impressioni, e si fanno pertanto ispiratori della creazione di arti rivolte a cogliere e ad usare le sensazioni (« ad quos sensus ca-piendos et perfruendos, plures etiam quam vellem artes repertae sunt»: § 58); l'intelligenza che comprende, definisce, connette le cose e crea una scienza di tale potere ed eccellenza, che neppure in dio c'è qualcosa di superiore (« qua ne in deo quidem est res ulla prestantior»: § 59). E per questa via l'uomo crea anche le arti, le une per le necessità della vita, le altre per il diletto (secondo la di- stinzione tradizionale di Democrito e Aristotele); e a questi risultati coopera anche il linguaggio che, come mezzo di comunicare le conoscenze e di influire sul sentimento e la volontà altrui, fu il vincolo sociale che trasse l'umanità fuori della vita ferina primordiale (« haec nos iuris, legum, urbium societate devinxit: haec a vita immani et fera segregavit »). Ma nella creazione delle arti Cicerone torna a far notare, con Anassagora, l'opera della mano, la cui conformazione e agilità permettono all'uomo di operare tanto nelle arti di diletto (pittura, scultura, musica), quanto in quelle di necessità (agricoltura, edilizia, tes-situra, cucitura, confezione di strumenti di metallo, etc.). «Per cui si comprende che noi abbiamo conseguito tutto ciò che concerne le cose scoperte dallo spirito e percepite dai sensi, mediante l'applicazione delle mani degli operai, per poter essere protetti, vestiti e salvi, e avere città, difese, domicilii, templi ». Possiamo prendere l'ali-mento e conservarlo; allevare e utilizzare animali per il trasporto e per l'agricoltura; estrarre i metalli nascosti dalle profondità della terra e forgiarli in strumenti e decorazioni; tagliare alberi per riscaldamento, cottura di alimenti, edificazione di case, costruzione di navi, che a noi — unici al mondo — permettono di dominare la forza del mare e dei venti. In conclusione, l'uomo si converte in inventore delle arti e in dominatore della natura, cioè in creatore di una nuova realtà, quella del mondo della cultura. «Noi usufriamo dei campi, noi dei monti; nostri sono i fiumi, nostri i laghi; noi seghiamo le messi, noi tagliamo gli alberi; noi, mediante l'immissione di acque, diamo fecondità alle terre; noi chiudiamo i fiumi tra dighe, li inalveiamo, li deviamo; insomma cerchiamo di creare con le nostre mani una specie d'altra natura nella natura delle cose ». Non seguiremo Cicerone nella sua dimostrazione successiva (§§ 61-67) della tesi che il mondo fu creato al servizio dell'uomo, che è la tesi contro cui (come abbiamo visto) polemizza poi Plinio, ma che non interessa il nostro tema; ciò che ci importa è la celebrazione menzionata del potere creatore dell'umanità, che si può considerare un eloquente commento esplicativo della citazione che il De finibus trae dal Protreptico aristotelico, la quale dichiara che l'uomo è nato per la doppia atti-vità, conoscitiva e creativa, come un dio mortale. L'uomo contemplato qui da Cicerone è appunto quello che crea il mondo della cultura e lo sovrappone al mondo della natura; e Cicerone offre una formula efficace per esprimere tale creazione: « nostris denique manibus in rerum natura quasi alteram naturam efficere conamur». Formula che, insieme alla ricordata definizione (« dio mortale ») tratta da Aristotele, ispira le 'linee memora- bili dello Spaccio della bestia trionfante di G. Bruno, che sintetizzano il contenuto essenziale della dimostrazione ciceroniana: « gli dèi avevano donato a l'uomo l'intelletto e le mani, e l'avevano fatto simile a loro, donandogli facultà sopra gli altri animali; la qual consiste non solo poter operar, secondo la natura ed ordi-nario, ma, ed oltre, fuor le leggi di quella; acciò, formando o possendo formar altre nature, altri corsi, altri ordini con l'ingegno.... venesse a serbarsi Dio de la terra » (p. 143 8g. nell'ed. Gentile, Dialoghi morali, Bari, La- terza). Anche quello che segue nella pagina bruniana, sulle necessità che acuiscono gli ingegni e fanno inventare le arti — di modo che « sempre piú e piú.... allontanandosi dall'esser bestiale, piú altamente s'approssi-mano a l'esser divino › — poteva ispirarsi alle frasi di Cicerone relative all'uomo che « se segregavit a vita immani et fera »; frasi che, tuttavia, esprimevano un concetto comune ad altri filosofi antichi, da Democrito a Lucrezio, i quali insieme a Cicerone influiscono sulle celebrazioni della dignità dell'uomo e della creatività dello spirito, rinnovate dagli scrittori rinascimentali, da Manetti a Bruno e Campanella ?. Ma in un particolare caratteristico il luogo citato dello Spaccio bruniano poté ispirarsi alla I Georgica di Virgilio (v. 121 sgg.), vale a dire nel considerare la mitica età dell'oro come epoca di pigrizia e di stupidità umane, e nel celebrare invece la dura necessità come causa del risveglio dell'intelligenza e della creazione delle arti. « Ne l'età de l'oro (dice Bruno) per l'Ocio gli uomini non eran piú virtuosi, che sin al presente cultadi, risorte le necessitadi, sono acuiti gl'ingegni, inventate le industrie, scoperte le arti; e sempre di giorno in giorno, per mezzo de l'egestade, dalla profundità de l'intelletto umano si eccitano nove e maravigliose in- venzioni. Onde, sempre piú e piú per le sollecite ed urgenti occupazioni allontanandosi da l'esser bestiale, piú altamente 'approssimano a l'esser divino » (op. cit., Senza dubbio il mito dell'età aurea o saturnia, per- tamente svalutato qui da Bruno, era stato motivo di sogni nostalgici per i poeti dell'epoca di Augusto, quando Ovidio lo evocava in Metamorph. I, 89-150, collegandolo con l'altro mito esiodeo delle cinque età della degradazione umana, e lo stesso Virgilio tornava a sognare un ritorno del regno di Saturno (« redeunt Saturnia regna ») nella profezia della Sibilla nell'Egloga IV. Tuttavia questi miti si trovavano già in Esiodo in conflitto con la celebrazione del lavoro condizionante la dignità della vita, oltre che ogni acquisizione di beni. 3 Cfr. anche GeNTILe, «Il concetto dell'uomo nel rinascimento › ne Il pensiero del rinascimento, 3a ed., Firenze, 1940. E il problema torna a porsi per Virgilio, che lo risolve nella I Georgica in un modo che precorre Bruno: l'abbondanza e la facilità di vita della mitica età saturnia significavano ozio e letargo mentale; e Giove, che nel detronizzare Saturno introdusse le difficoltà, l'indigenza e la necessità del lavoro, diede agli uomini per questa via il dono inestimabile dell'attività dell'intelligenza, creatrice delle arti e trionfatrice di tutte le avversità per mezzo del lavoro. «Giove, il padre (pater ipse), volle che non fosse facile la via della coltivazione, e dapprima fece lavorare i campi per mezzo dell'arte, e acuí per mezzo delle preoccupazioni gli spiriti dei mortali, e non permise che il suo regno s'intorpidisse in un pesante letargo », come accadeva prima del suo governo, quando nessuno lavorava la terra, e questa concedeva tutto senz'esser sollecitata dal lavoro umano. Giove cancellò totalmente le facilità e comodità, « affinché la necessità suscitasse le diverse arti, a poco a poco, mediante la meditazione ». Cosí nasce l'agricoltura; si scopre il modo di accendere il fuoco con la pietra focaia; si incanalano i fiumi; si inventa la navigazione, e il navigante impara a conoscere e nominare le stelle; si inventano gli artifici della caccia e della pesca; si forgia il ferro e se ne fanno strumenti come l'ascia e la sega. « Allora vennero le varie arti; trionfano di tutte le difficoltà il lavoro instancabile e l'indigenza che assilla [gli uomini] nel- l'asperità delle condizioni di esistenza »: Tum variae venere artes; labor omnia vicit improbus, et duris urguens in rebus egestas. (ซ. 145 8g.). In tal modo per Virgilio la necessità e il lavoro, che Ovidio lamenta come una maledizione per la vita umana, sono una vera benedizione, perché risvegliano l'intelligenza e l'attività creatrice dell'uomo, e stimolano quella meravigliosa creazione delle arti e della cultura, i cui momenti e aspetti Virgilio sintetizza ispirandosi alla ricostruzione storica tracciata nel V libro di Lucrezio. Certo Virgilio s'allontana da Lucrezio nell'accettare il mito dell'età saturnia, pur valutandolo negativamente rispetto a ciò che è piú essenziale e nobile nell'uma-nità, vale a dire l'intelligenza e la creatività dello spi-rito. Ma un'eco piú fedele della concezione epicureo-lucreziana sulla condizione primordiale dell'umanità risuona in Orazio, Satyr. I, 3, v. 98 sgg., con la descrizione dei primi uomini che, come gli altri animali, formano un gregge muto e turpe (mutum et turpe pecus), lottano tra loro con unghie e pugni, poi con bastoni e piú tardi con altre armi per soddisfare i primordiali bisogni di cibo e di riparo, finché non creano il linguag-gio, desistendo dalle guerre, edificando città e creando leggi che impediscano i delitti. In una generazione successiva Giovenale (Satyr. VI e XIII) ripresenta una descrizione analoga dello stato bestiale dell'umanità pri-mitiva, satirizzando l'idea dell'età saturnia: anch'egli, probabilmente, influenzato da Lucrezio e dalla concezione epicurea della storia dell'umanità. Tuttavia, l'eco piú importante, teoricamente, di tale concezione ci si presenta nell'età d'Augusto (come oggi si torna a riconoscere da parte della critica storica) con Vitruvio, il quale sembra raccogliere dagli ambienti colti della sua epoca o compiere lui stesso una fusione delle idee esposte da Lucrezio con altre di varia provenienza, relative al progresso umano, derivanti da Anassagora e Democrito, da Aristotele, Panezio, Posidonio e Cicerone, al cui insieme aggiunge l'intuizione dell'importanza che hanno per il progresso due fattori, apparentemente con-trari, ma connessi da lui in una dipendenza mutua, che sono la divisione del lavoro e l'unità organica della cultura umana. Vitruvio mette in rilievo, nella sua concezione del progresso storico dell'umanità e della creazione della cultura, una molteplicità di fattori cooperanti: la durezza primordiale della vita; le esperienze fortuite che suggeriscono qualche mezzo per mitigare tale durezza; le capacità e potenze congenite negli uomini, che sono stimolate al loro esercizio dai due fattori suddetti, e sono avviate cosí ad uno sviluppo progressivo e alla produzione di risultati crescenti; la ripercussione che hanno i fattori citati sulla formazione di raggruppamenti umani permanenti, a partire da quelli temporanei primordiali, e sulla creazione del linguaggio; l'effetto prodotto da tali innovazioni, che non solo permettono l'assommarsi delle capacità individuali, ma provocano il loro acere-scimento progressivo, dovuto sia al mutuo aiuto e all'esperienza dei vantaggi della cooperazione, sia allo stimolo reciproco derivante dall'attrito degli ingegni; il sussidio poderoso, che dà a tale processo l'uso di due strumenti meravigliosi, che sono il linguaggio (generato dalla convivenza sociale) e il possesso della mano, organo naturale incomparabile per afferrare ed elaborare le cose, la cui efficacia, già intuita da Anassagora, avevan di nuovo posta in rilievo Panezio e Cicerone; e infine l'imitazione e trasformazione della natura effettuate dalle arti, dove il conoscere è un fare e l'esperienza è un esperimento. Questo fare e sperimentare воло геві possibili precisamente dal possesso e dall'uso delle mani, che rendono capace l'uomo di tentare i piú vari modi di combinazione ed elaborazione dei mezzi naturali, di modo che, a partire da principi minimi, le arti si elevano nel loro sviluppo verso risultati sempre maggiori e progressivi affinamenti delle loro capacità creative. Tutti questi elementi sono messi in rilievo da Vi-truvio nel cap. I del libro II del De Architectura: « Sullavita degli uomini primitivi e sugli inizi e incrementi della civiltà e dell'architettura ›. La prima esperienza che, secondo Vitruvio, ebbe una funzione decisiva per togliere gli uomini dalla vita ferina primordiale e generare la convivenza sociale per- manente, fu quella dell'incendio di selve prodotto da qualche tempesta. L'impressione di terrore iniziale è seguita dalla curiosità, per la quale gli uomini, dopo es-ser fuggiti, tornano ad avvicinarsi e, sentendo il calore del fuoco, intuiscono la sua utilità per la vita. Attratti dallo spettacolo, gli uomini si riuniscono, concepiscono la possibilità di continuare ad alimentare il fuoco; e cosí iniziano la loro convivenza ed una comunicazione mutua delle loro impressioni mediante voci, che a poco a poco, con il tempo, si convertono in linguaggio. La. posizione eretta e il possesso delle mani, che permettono il maneggio di qualunque oggetto, portano gli uomini alla prima creazione di ripari e di tetti, mediante escavazione di tane o costruzioni di rami e fango che imitano quelle dei nidi di rondini. Democrito e Anassagora, Epicuro e Lucrezio, Panezio Posidonio e Cicerone insieme suggerivano a Vitruvio questa concezione delle fasi e dei fattori del processo; ed egli aggiungeva l'idea di un'analogia generale di questo sviluppo storico presso i diversi popoli, allegando i documenti offerti da resti di costruzioni primitive che si trovavano in paesi civili (sul Campidoglio di Roma, sul-l'Areopago d'Atene), e dalle edificazioni che continuavano a farsi in paesi barbari (Gallia, Spagna, Lusitania, Aquitania, Colchide, Frigia, etc.). Queste osservazioni comparate, che presentano il passato dei popoli civili come analogo al presente dei barbari, potevano suggerire l'idea di un futuro progresso dei barbari verso uno sviluppo analogo al presente dei popoli civili, tanto piúin quanto Vitruvio rileva l'impulso che danno al progresso le relazioni mutue nell'interno d'ogni popolo. L'osservazione reciproca (egli nota) desta non solo la capacità d'imitazione, ma anche l'emulazione, per cui si perfezionano con il tempo i prodotti e si affinano la stessa intelligenza e la facoltà di giudizio dei produttori. * Allora con l'osservazione delle costruzioni altrui e l'aggiunta di novità per mezzo delle riflessioni proprie, di giorno in giorno andavano migliorando il tipo delle co-struzioni. Ed essendo gli uomini capaci d'imitazione e d'istruzione, nel celebrare giornalmente le loro inven-zioni, si mostravano tra di loro i risultati delle loro co-struzioni; e in tal modo, nell'esercitare i loro ingegni in competizioni, di giorno in giorno si facevano di giudizio piú raffinato ». Quest'ultima frase: in dies melioribus iudiciis effi-ciebantur, anticipa l'idea di Bruno, raccolta da Bacone, che gli uomini acquistano progressivamente giudizio « piú maturo »; il che si determina, secondo Bruno e Bacone, per tre fattori: l'accumulazione delle osservazioni, l'attività riflessiva e inventiva del pensiero, e la varietà delle cose osservate. Ma Vitruvio aggiunge un altro fattore piú importante: l'esercizio attivo del potere del-l'ingegno, stimolato dalla emulazione (exercentes inge- nia certationibus). In ciò Vitruvio raccoglie la suggestione di Aristotele relativa all'affinamento progressivo del giudizio per via del suo esercizio costante; ma in Aristotele tale esercizio nasce dall'insoddisfazione e dalla critica delle idee altrui, in Vitruvio dallo sforzo d'emu-lazione. In entrambi, tuttavia, il processo si realizza tanto nello spirito individuale quanto in quello collet-tivo; e Vitruvio riconosce cosí la formazione storica dello spirito dell'umanità, considerando il vincolo e l'azione reciproca tra il perfezionamento dei prodotti dell'arte e lo sviluppo dello spirito produttore.Vitruvio esprime cosí u concetto tipicamente stori-cistico, nel riconoscere che lo spirito umano è in sé e per sé storia e sviluppo; concetto considerato abitualmente « tutto proprio dell'età moderna», come lo definí Gentile (Il pensiero del rinascimento, cit.), nel trovarlo espresso da G. Bruno. Vitruvio riconosceva e spiegava tale carattere storico dello spirito in rapporto con la storia dell'architettura, che nel suo sforzo di perfezionamento progressivo, per rispondere sempre piú alle esigenze umane, si fa, secondo lui, generatrice di altre arti e discipline, per via dell'esercizio continuo cui obbliga la mente, che in tal modo si potenzia e sviluppa in se stessa nuove capacità, madri di arti e scienze nuove. « Come, dunque, con l'attività costante (quotidie fa-ciendo) avevano [gli uomini] rese piú esperte ed abili le loro mani per ogni costruzione (tritiores manus ad aedificandum perfecissent), e mediante l'esercizio instancabile dei loro ingegni (solertia ingenia exercendo) erano giunti con l'uso incessante alla creazione delle arti, allora l'attività industriosa aggiunta da essi ai loro spiriti (industria in animis eorum adiecta) fece sí che quelli che erano piú ben disposti e diligenti (studiosiores) si convertissero in artefici professionali (fabros se esse pro- fiterentur) ». Nasce in questo modo, dal progresso delle capacità intellettuali e pratiche, la divisione del lavoro; ma nasce e si mantiene legata all'unità organica della cultura, affermata già, con notevole vigore, da Vitruvio nel I cap. del libro I. Dove si fa notare per l'architettura il vincolo reciproco dell'attività pratica (fabrica) e di quella teorica (ratiocinatio), che non permette di raggiungere la perfezione dell'arte né al puro homo faber né al puro homo sapiens, ma solo a chi riunisce in sé entrambe le condizioni (8§ 1-2); e aggiunge Vitruvio che l'architetto ha bisogno di conoscenze di letteratura, disegno, geometria, storia, filosofia, musica, medicina, diritto, astronomia (8§ 3-11), cioè di possedere una cultura orga-nica: « tutte le discipline hanno tra loro un vincolo ed una comunicazione mutua.... e la [cosí detta] disciplina enciclica come un corpo unico è costituita di tali membri ». Certamente, come tecnico e teorico dell'architettura, convinto e preoccupato dell'importanza preminente della sua arte, Vitruvio nel I cap. del libro II, che stiamo analizzando, sembra che spieghi l'unità e connessione reciproche di tutte le arti e discipline come dovute ad un germinare di tutte dalla radice comune dell'archi-tettura, che per le sue esigenze ed i suoi sviluppi genererebbe le altre arti e scienze, e ne determinerebbe i progressi. « Dalla costruzione degli edifici progredendo gradualmente verso le altre arti e scienze (e fabrica-tione aedificiorum gradatim progressi ad ceteras artes et disciplinas) e utilizzando le armi del pensiero e la riflessione deliberativa', con cui la natura rafforzò le loro menti (cum natura cogitationibus et consiliis arma-visset mentes), essi trassero l'umanità dalla vita ferina e selvaggia a quella civile (e fera agrestique vita ad mansuetam perduxerunt humanitatem) ». Allora si genera negli uomini la capacità di prepararsi nel loro spirito, e di guardar lontano per mezzo dei pensieri piú grandi, che nascono dalla varietà delle arti (tum autem instruentes animo se et prospicientes maioribus cogitationibus ex varietate artium natis); il che Vitruvio applica, indubbiamente, ai progressi del-l'architettura, ma è un concetto che s'estende da sé ad ogni sviluppo culturale. « Poi con le osservazioni degli 1 Se leggessimo, con qualche edizione, conciliis anziché con siliis, dovremmo pensare che Vitruvio rilevasse qui non già l'importanza della riflessione deliberativa (consilia), bensi quella della convivenza e della cooperazione sociale (concilia). Ma queste ul- time sono per Vitruvio creazione umana e non dono della natura. studi portarono [le loro opere] dai giudizi errati ed incerti alle ragioni certe delle simmetrie. Quindi mediante le loro cure alimentarono e adornarono di piaceri l'eleganza della vita, accresciuta dalle arti (trac- tando nutriverunt et auctam per artes ornaverunt vo- luptatibus elegantiam vitae) ». Si presenta pertanto, nella concezione di Vitruvio, tutto un processo storico nel quale l'uomo, spinto dai bisogni, guidato dalle esperienze, rafforzato dall'eserci-zio, sviluppa e traduce progressivamente in atto le sue potenze naturali, creando le arti e le scienze; ma in questo processo i prodotti reagiscono sul produttore; l'esercizio intensifica i poteri dello spirito e genera nuove capacità; i risultati realizzati si convertono in mezzi e impulsi per creazioni ulteriori; e in questo modo l'umanità progredisce e si sviluppa, creando il mondo della cultura e creando nello stesso tempo spiritualmente se stessa per mezzo del suo lavoro, come causa ed effetto insieme dei suoi progressi. La concezione della creatività dello spirito appare, dunque, raggiunta in pieno da Vitruvio. 1) Seneca e l'infinità del progresso spirituale. Lo scambio d'azione che Vitruvio vedeva effettuarel tra lo spirito produttore e i suoi prodotti nella creazione e nello sviluppo progressivo delle arti e delle scienze, significava per se stesso un processo storico di autocreazione e d'autosviluppo incessanti dello stesso spirito umano, che logicamente doveva presentarglisi come un processo infinito. Ma Vitruvio non segnalò, e forse non intuí neppure questa conseguenza della sua conce- ' Appare in questa visione un barlume del processo chiamato da Marx il processo della umwälzende Praxis, cioè dell'attività dell'uomo che si rovescia su se stessa e sull'uomo, trasformandolo nel trasformare se stessa. zione, cosí come non l'aveva espressa né vista Aristotele, benché riconoscesse che il potere intellettuale dell'uomo va aumentando sempre, quantitativamente e qualitativa- mente, con l'esercizio attivo delle sue capacità di indagine e di riflessione critiche. La prima affermazione esplicita dell'infinità del progresso spirituale umano ci appare nell'antichità classica con Seneca, che tuttavia era stato precorso parzialmente da Filone ebreo, come diremo. Ma mentre nella concezione di Vitruvio l'infinità potenziale del progresso è in rapporto con il processo di creazione e sviluppo delle arti, a cui egli collegava la scoperta delle scienze, Seneca invece nella polemica contro Posidonio ripudia l'unità e identità tra l'homo faber e l'homo sapiens, che quello aveva affermato (cfr. Epist. 90). Contro la celebrazione del progresso tecnico, inserito da Posidonio nello sviluppo stesso della saggezza, Seneca nella sua polemica sembrava ripudiare la creazione umana delle arti, accusandola di complicare e render difficile la vita, e sembrava ritornare, con l'evocazione di Diogene, all'ideale cinico-stoico della semplicità primordiale della vita conforme alla natura, che facilmente soddisfa le sue esigenze minime. «Non fu tanto nemica la natura, da concedere la facilità della vita agli altri animali e volere che solo l'uomo non potesse vivere senza tante arti.... Siamo noi che ci rendemmo tutto difficile per la nostra tendenza a stancarci (fastidio) delle cose facili.... Tutte queste arti, per le quali la città si eccita e rumoreggia, lavorano per il corpo, a cui prima si imponeva ogni [sa-crificio] come ad uno schiavo, mentre ora gli si prepara ogni [godimento] come ad un padrone » (epist. cit.). Tuttavia questa posizione polemica non rappresenta integralmente l'orientamento spirituale di Seneca. Seneca è ben lungi dall'identificare la saggezza — nel cui culto vede l'unica attività che possa render degna la vita umana - con la supposta felicità primordiale dello stato di natura. « Per quanto egregia e priva di inganni fosse la vita di quelli (primitivi), essi non furono savi.... non avevano ingegni perfezionati (consum-mata).... La natura non dà la virtú, e il diventar buono è un'arte.... Quelli erano innocenti per ignoranza; ma c'è una gran differenza tra il non volere e il non saper peccare (multum interest utrum peccare aliquis no-lit an nesciat). Mancava loro la giustizia, mancava loro la prudenza, la temperanza, la fortezza. La loro vita incolta aveva qualcosa di simile a tutte queste virtú; ma la virtú non è conseguita se non da uno spirito edu-cato, istruito e portato mediante l'esercizio assiduo fino al vertice. Certo nasciamo per questo, ma senza que-sto; e anche negli uomini migliori, prima che posseggano l'educazione, esiste la materia della virtú, ma non la virtú stessa » (ibid.). In tal modo, la virtú torna a presentarsi connessa alla cultura in questa stessa Epistola 90, dove la critica a Posidonio sembrava portare ad una rivendicazione della natura primordiale, simile a quella dei cinici. La virtú, dunque, per Seneca non è un'ingenuità ignorante, ma deve avere chiara coscienza del male e del vizio per trionfare di essi. Seneca fa in certo senso presentire il concetto che ispira in tempi moderni la filosofia della storia di Fichte (Caratteri fondamentali dell'epoca con- temporanea), secondo cui l'umanità, dopo di essere uscita dalla sua primitiva rettitudine incosciente, abbisogna della piú profonda coscienza ed esperienza del peccato, per elevarsi alla sua cosciente redenzione. Con la rivalutazione della cultura come condizione e fondamento dell'etica e della filosofia, tornano ad essere pertanto rivalutate da parte di Seneca anche le arti, ed è riaffermato il concetto del Protreptico aristotelico, della doppia e indivisibile funzione che incombe al- Q l'uomo, cioè quella di esercitare tanto l'attività intellettuale quanto quella pratica. Aristotele aveva affermato, secondo la testimonianza di Cicerone (De finibus, II, 13, 39), che l'uomo nacque per due cose: intendere e operare («ad duas res, ad intelligendum et agendum esse natum »); e Seneca (De otio, cap. 32) ripete che la natura volle che facessimo le due cose: operare e coltivare la contemplazione. « Natura autem utrumque fa-cere me voluit, et agere et contemplationi vacare ». Anzi, aggiunge che egli le fa entrambe, perché sono insepa-rabili, giacché neppure la contemplazione può esistere senza azione: « utrumque facio; quoniam ne contem-platio quidem sine actione est »'. Nessuna virtus è un bene reale, finché non passa all'azione (* in otium sine actu proiecta »). «Chi potrebbe negare che essa deve comprovare nelle opere i suoi progressi, e non limitarsi a pensare ciò che si deve fare, bensí esercitare anche le sue mani e portare a realtà le sue meditazioni? » (* sed etiam aliquando manum exercere, et ea quae meditata sunt ad verum perducere? »). Questa rivalutazione dell'attività pratica, a causa del legame che l'attività teorica ha con essa, doveva portar seco anche un apprezzamento delle creazioni delle arti, che per questa via tornano ad inserirsi nel processo creativo della cultura, dove si afferma il potere e il valore dello spirito umano. Una celebrazione caratte ristica di questa creatività dello spirito, applicata alle opere della civiltà e delle arti, merita di esser segna- É evidente la derivazione da Seneca del noto luogo dello Spaccio bruniano (p. 143 8g. dell'ed. Gentile): « e per questo ha determinato la providenza, che vegna occupato ne l'azione per le mani, e contemplazione per l'intelletto; de maniera che non con-temple senza azione, e non opre senza contemplazione. Ne l'età dunque de l'oro per l'Ocio gli uomini non erano piú virtuosi, che sin al presente le bestie son virtuose ». lata nell'Epistola 91, relativa all'incendio che in una sola notte aveva distrutto la città di Lione (Lugdunum), che era per la sua bellezza la gloria della Gallia. Seneca si rende conto che le opere dei mortali sono. condannate a perire e che noi viviamo tra cose caduche: « omnia mortalium opera mortalitate damnata sunt. Inter peritura vivimus». Ma questo carattere mortale delle opere è superato dall'imperitura energia creatrice del-l'umanità, che ricostruisce sempre ciò che è caduto e lo ricostruisce piú bello e perfetto, di modo che le distruzioni si convertono in fattore di progresso. « Multa cecide-runt ut altius surgerent et in maius ». Come Roma sempre risorse piú bella e potente dalle ceneri degli incendi subiti, cosí anche a Lione tutti competeranno per ricostruirla in forma piú grande e piú solida di quella per-duta: « ut maiora certioraque quam amisere restituant ». Ciò che caratterizza l'uomo, dunque, consiste per Seneca nell'esigenza e nello sforzo costanti di superamento; per il loro mezzo lo spirito immortale dell'umanità si sovrappone al carattere mortale delle sue creazioni. Sono mortali - sembra dire Seneca — le creazioni partico-lari; ma è immortale la creazione progressiva della cul-tura, per essere immortale e inesauribile lo spirito creatore. In questo sforzo interminabile di superamento, le attività pratiche delle arti e della tecnica in generale si unificano, per Seneca, con le attività teoriche della scienza e della filosofia. Possiamo dire che Seneca precorre Lessing nel considerare che questo sforzo spirituale costituisce il valore della vita, che pertanto si afferma solo in quanto l'uomo amplia progressivamente il suo orizzonte e le sue aspirazioni. Se mai l'umanità potesse giungere ad un possesso pieno della scienza, e non avesse piú davanti a sé un cammino ulteriore da percorrere e difficoltà nuove da superare, non avrebbero piúsignificato la vita e il mondo in cui si sviluppa l'attività umana. È lo sforzo ciò che costituisce il valore della vita; la sua persistenza inestinguibile e il suo rinnovamento incessante presuppongono l'impossibilità perenne di raggiungere il fine ultimo; ma questa condizione non significa per l'uomo una maledizione o condanna ad una tensione vana che non può mai essere soddisfatta, bensí alimenta e mantiene il valore della vita come milizia ' ed aspirazione dignificatrice, che sono nello stesso tempo perfezionamento spirituale progressivo. Quest'idea, dell'infinità dello sforzo e del progresso umano, derivante dall'impossibilità di conseguire il fine supremo, era stata intuita ed espressa parzialmente, prima di Seneca, da Filone ebreo. La posizione degli uomini in qualsivoglia delle loro attività, diceva Filone, sta sempre nel mezzo tra l'inizio e la fine: « Noi siamo trattenuti nell'intervallo tra la fine e l'inizio nell'impa-rare, nell'insegnare, nel lavorare la terra, nell'operare in ciascuna delle altre cose » (Quis rerum divin. heres sit, n. 24); ma questa inferiorità che caratterizza la nostra imperfezione costante in confronto alla perfezione assoluta di Dio, non significa ristagno e immobilità spi-rituali, bensí movimento e progresso incessanti: « A misura che uno avanza nelle scienze e si pone stabilmente sul loro terreno, si fa tanto piú incapace di raggiungere i loro limiti.... La scienza per i piú capaci è una sorgente sempre in movimento, che produce sempre nuovo afflusso di idee» (De plantat. Noë, n. 20). In tal modo per Filone ogni approfondimento della nostra conoscenza è nello stesso tempo un approfondi- 1 Cfr. Epist. 46: « Atqui vivere, Lucili, militare est. Itaque qui iactantur et per operosa atque ardua sursum ac deorsum eunt, et expeditiones periculosissimas obeunt, fortes viri sunt, primo- resque castrorum; isti, quos putida quies, aliis laborantibus, mol- liter habet, turturillae sunt, tuti contumeliae causa ». mento della coscienza della nostra ignoranza: dalla conoscenza acquisita spuntano sempre problemi nuovi; ma dai problemi nasce il movimento progressivo dell'intel-ligenza, in un processo che non finisce mai a causa dell'impossibilità di raggiungere, con il pensiero, il termine ultimo. Questo, per Filone, si raggiunge certo nel rapimento dell'estasi, che è estinzione di ogni movimento attivo della mente; ma fuori della soluzione mistica, c'è solo un processo infinito, conseguenza dell'infinita di- stanza, che ci divide dall'irraggiungibile oggetto supremo. Vero è che di questi pensieri di Filone non ebbe alcuna notizia Seneca, il quale giunse per una via parzialmente analoga all'idea dell'infinito progresso conoscitivo, cou- siderandolo determinato dall'infinita distanza, che ci separa sempre dal fine supremo delle nostre aspirazioni e dai nostri sforzi. Ci sono delle realtà — osserva Seneca in Natur. quaest. VII, cap. 30, a proposito dell'igno-ranza del suo tempo riguardo alle orbite e alle. leggi di movimenti delle comete: cfr. cap. 25 8gg. - che non possono essere colte dai nostri occhi, o perché permangono in luoghi sottratti alla nostra vista, o perché la loro sottigliezza è irraggiungibile per la nostra acutezza visiva, o forse anche perché non abbiamo la capacità di percepirle, nonostante che riempiano i nostri occhi. Tutte queste realtà sono accessibili unicamente allo spirito (animo) e debbono essere contemplate con il pensiero (cogitatione). Ma lo stesso pensiero che ci porta fino all'idea dell'esistenza di Dio, che creò tutto l'universo intorno a sé e lo governa, ed è la parte mag- derlo nella giore e migliore della sua opera, non arriva a comprenderlo nella sua essenza. « Non possiamo sapere che cos'è ciò, senza di cui nulla esiste, e ci stupiamo per non conoscer bene certi piccoli fuochi (le comete), mentre ci resta celata la parte maggiore dell'universo, dio » (« Quid sit hoc, sine quo nihil est, scire non possumus, et miramur si quos igniculos parum novimus, cum maxima pars mundi, deus, lateat »). Ma da questa situazione nasce in noi uno stimolo all'indagine, che si intensifica con l'esperienza dei pro-gressi già realizzati. Ci sono conoscenze che abbiamo acquisito di recente, altre in gran numero che ancora non abbiamo raggiunto; ma - aggiunge Seneca - « verrà un tempo in cui queste cose, che ora permangono occulte, le porterà alla luce un giorno futuro ed una indagine assidua di piú lunga durata.... Verrà un tempo in cui i nostri posteri resteranno stupiti che noi igno-rassimo cose che per essi saranno tanto evidenti» (op. cit., cap. 25). « Multa venientis aevi populus ignota nobis sciet; multa saeculis tune futuris cum memoria nostri exoleverit reservantur. Pusilla res mundus est, nisi in illo quod quaerat omnis mundus habeat » (cap. 30). Questa inesauribilità dell'indagine e delle scoperte supera con la sua infinità la gradualità progressiva. ma limitata, del processo delle iniziazioni ai misteri, a cui Seneca la paragona. Certo che, come ad Eleusi non si mostrano tutte le cose sacre al novizio, riservandosi le piú importanti per gli iniziati, cosí si può dire che la natura non concede in una sola volta ed a chiunque tutti i suoi sacri segreti, e anche quando ci crediamo iniziati, siamo ancora nel vestibolo del tempio e gli arcani rimangono chiusi nel sacrario interno. Ma nelle cerimonie mistiche gli iniziati pervengono, alla fine, a veder tutto; e nella scienza, invece, il processo di sco-perta non finisce mai. Dei suoi segreti, alcuni potrà sco-prirli la nostra età, altri le età successive (« aliud haec aetas, aliud quae post nos subibit aspiciet »); ma ri-marrà sempre campo per le investigazioni di « tutto il mondo ». E anche nell'ipotesi che gli uomini si dedi-chino completamente all'indagine e alla comunicazione reciproca delle conoscenze acquisite, Seneca dice che a mala pena (vix) si giungerebbe a quel fondo dove è collocata la verità che ora cerchiamo alla superficie e con leggerezza (ibid., cap. 32); e l'esplorazione di questo fondo, secondo le dichiarazioni precedenti, esigerebbe sempre uno sforzo investigativo infinito. La sospensione dello sforzo e del lavoro, dunque, non solo ritarda o impedisce del tutto le grandi conquiste ulteriori (« tarde magna proveniunt, utique si labor ces-sat »: cap. 31), e impedisce che si trovi alcunché di ciò che gli antichi indagarono in modo insufficiente, ma fa perdere anche le stesse scoperte già realizzate (« adeo nihil invenitur ex his quae parum investigata antiqui reliquerunt, ut multa quae inventa erant obliterentur »: cap. 32). Donde la necessità e l'obbligo morale, per cia-scuno, di mantenere attivo lo sforzo incessante e di cooperare attivamente alla grande opera di conquista collettiva dell'umanità. Coloro che rimangono soddisfatti delle acquisizioni già realizzate dagli antecessori, non si rendono conto dell'immenso cammino da percorrere, che si estende davanti a noi. «Non si troverebbe mai nulla, se restassimo contenti con ciò che è già stato trovato. Inoltre, chi si limita a seguire un altro, non trova nulla per conto suo, anzi, non cerca neppure.... Ma coloro che hanno promosso queste investigazioni sono per noi guide, non padroni. [Il cammino del]la verità è aperto a tutti, non è ancora occupato, anzi gran parte di esso resta ancora da percorrere agli uomini del futuro › (Epist. 33). Confidiamo pertanto e molto nel giudizio dei grandi uomini, ma rivendichiamo anche l'uso del giudizio nostro. Forse neppur essi ci han lasciato scoperte effettuate, ma indagini da compiere » (* Num illi quoque non inventa, sed quaerenda nobis reliquerunt »: Epist. 45). «Non mi sembra che i predecessori si siano impadroniti con la forza (praeripuisse) di ciò che si poteva dire, ma che ce lo abbiano solamente mostrato (ape-ruisse). Se non che c'è molta differenza tra l'avvicinarsi ad una materia esaurita (consumptam) e ad una solamente preparata (subactam): questa va crescendo giorno per giorno, e le invenzioni effettuate non sono ostacoli per chi realizzerà invenzioni ulteriori (« crescit in dies, et inventuris inventa non obstant »: Epist. 79). Anzi, chi ha qualcosa da insegnare agli altri, deve spargerlo come semente feconda (« seminis modo spargenda sunt»), la quale, per quanto piccola, cadendo in terreno adatto sviluppa le sue forze, e dalla sua piccolezza originaria, crescendo fino alle sue dimensioni massime, si diffonde (« ex eo minimo in maximos auctus diffunditur»). Gli insegnamenti son come le sementi: ancorché siano limitati (angusta), possono sviluppare una grande efficacia, purché una mente idonea li accolga e li raduni in se stessa; e a sua volta questa mente ne genererà molti altri e ren- derà piú di quello che ricevette » (Epist. 38). Naturalmente questo processo storico di accrescimento progressivo della cultura, nella successione delle generazioni e delle comunicazioni da maestri a disce-poli, esige l'attività vivente degli spiriti ricettori. Quindici secoli piú tardi G. Bruno dirà che se « di questi alcuni, che son stati appresso, non siino però stati piú accorti, che quei che furon prima.... questo accade per ciò che quelli non vissero.... gli anni altrui, e, quel che è peggio, vissero morti quelli e questi negli anni pro-prii » (Cena delle Ceneri, ed. Gentile, p. 28 8g.). Una esigenza analoga aveva affermato Seneca nella Epist. 84, dichiarando che gli insegnamenti devono, come alimenti digeriti, trasformarsi in forze e sangue di chi li assimila (« in vires et sanguinem transeunt»). Le conoscenze ingerite non debbon lasciarsi tali e quali sono (integra), affinché non restino come cose estranee (alie-na): dobbiamo digerirle (concoquamus), affinché sianonutrimento dell'ingegno e non peso della memoria. I discepoli o le generazioni successive devono assomigliare ai loro maestri e padri come figli viventi e attivi, non come immagini morte: « imago res mortua est »; e nella trasmissione della cultura, invece, occorrono spiriti viventi che (come dirà Bruno) vivano attivamente gli anni dei predecessori e non vivano morti gli anni propri, bensí progrediscano sempre piú. Si deve imprimere la forma della propria personalità a tutti gli elementi di cultura che si raccolgono, affinché confluiscano in una unità (« in unitatem illa competant») come le voci di un coro. « Tale voglio che sia il nostro spirito, che abbia in se stesso molte arti, molti precetti, gli esempi di molte generazioni, ma facendoli confluire tutti in una unità», vivente e attiva (« ut multae in illo artes, multa praecepta sint, multarum aetatum exempla, sed in unum conspirata »). L'Epistola 84 integra pertanto l'affermazione del-l'Epistola 80, che lo spirito (animus) non è come il corpo, che abbisogna dall'esterno di molto alimento, di molta bevanda, di molto olio e di lunghe cure; lo spirito invece (continua l'Epistola 80) cresce da se stesso, si alimenta e si esercita da sé, ed abbisogna solo della volontà per il suo perfezionamento. L'Epistola 84, dun-que, riconosce che anche lo spirito abbisogna del suo alimento, che consiste nella cultura che riceve dalle generazioni precedenti e dall'ambiente sociale in cui si sviluppa, e che anch'esso deve, non meno del corpo, assimilare il suo alimento e trasformarlo in proprio sangue e forza attivi. Certamente egli deve avere in sé l'energia della volontà richiesta dall'Epistola 80: ossia deve, secondo il paragone dell'Epistola 39, essere come una fiamma che s'innalza in linea retta e che non può essere inclinata e oppressa, né tanto meno aver tregua: cosí lo spirito è in movimento ed è mobile e attivo tanto piú quanto piú è energico. Ma questa energia, questa attività, questo movimento spirituali non si esercitano nel vuoto, bensí nel mondo della cultura, che è creazione dello spirito; nel qual mondo si forma cosí la tradizione vivente e attiva, che è conservazione e accrescimento in-cessanti. Seneca ha visto che questo doppio aspetto della tradizione implica un doppio atteggiamento spirituale: di dipendenza e d'indipendenza rispetto al passato. I diritti del passato devono essere riconosciuti, ma come condizione e mezzo di salvare e assicurare i diritti dell'avve-nire, che sono diritti di un progresso infinito. « Venero pertanto — dice l'Epistola 64 - le invenzioni della sapienza e i loro inventori; bisogna avvicinarsi ad essi come ad una eredità collettiva. A nostro beneficio sono state effettuate queste acquisizioni e questi lavori. Ma comportiamoci come buoni padri di famiglia; rendiamo piú ampia l'eredità ricevuta, cosi che questa passi da noi alla posterità fatta maggiore. Molto lavoro resta ancora da compiere, e molto ne resterà poi; né a nessuno, anche se nasca dopo migliaia di secoli, sarà preclusa l'occasione di aggiungere ancora qualcosa di piú ». Anche nell'ipotesi assurda, che gli antichi avessero inventato tutto, resterebbero sempre nuove l'utilizzazione, la scienza e la disposizione delle invenzioni altrui. Ma siamo ben lungi dalla possibilità di ammettere l'ipotesi citata. Quelli che esistettero prima di noi « multum ege- runt, sed non peregerunt ». Certamente dobbiamo ammirarli e onorarli come dei, e professare verso « i precettori del genere umano, da cui ci vennero i principi di un bene tanto grande, la stessa venerazione che dobbiamo ai nostri maestri personali ». Tuttavia l'onore migliore, anzi l'unico onore degno ed efficace che i discepoli possano rendere ai mae- stri e i figli ai padri, consiste, secondo le affermazioni esplicite di Seneca già citate, nel far viva e operante la loro eredità, nel proseguire le vie che essi ci aprirono, cioè nel compiere per ciò che possiamo il progresso della cultura, la cui infinità esige sempre l'attività creatrice di ogni generazione nel trascorrere infinito del tempo. In questo senso devono intendersi le affermazioni della Epistola 102, relative allo spirito: « Lo spirito umano è una realtà grande e generosa, che non tollera gli si pongano mai limiti che non gli siano comuni anche con Dio»; cioè afferma la sua esigenza di infinità e vuole tradurla in atto nel doppio aspetto spaziale e temporale. Lo spirito pertanto non accetta che gli si attribuisca una patria umile e limitata, come sarebbe la città natale di ciascuno, e reclama come propria patria tutto l'universo; e «non permette che gli si assegni un'epoca limitata: tutti gli anni sono miei (dice); nessun tempo è inaccessibile al pensiero ». Ma questa doppia esigenza di infinità - che significa coscienza di un potere infinito, e che, quanto al tempo, si estende ugualmente verso il passato e verso il futuro — vale, secondo il pensiero espresso di Seneca, tanto per la contemplazione quanto per l'azione creativa. La contemplazione si realizza per mezzo dell'investigazione e (come vedemmo) « piccola cosa sarebbe il mondo se in esso non avesse sempre tutto il mondo qualcosa da investigare » (Nat. quaest. VII, 30); ma d'altra parte (come vedemmo) neppur la contemplazione può darsi senza azione: « ne con- templatio quidem sine actione est › (De otio, cap. 32). Talché lo spirito deve effettuarle entrambe ad un tempo, nella loro mutua correlazione, e considerare l'infinita estensione dell'universo in tutte le sue dimensioni, e del tempo nella sua doppia direzione di passato e futuro, non solo come oggetto di contemplazione conoscitiva, ma anche come campo d'azione creativa. Per questa via, nellaconcezione delineata da Seneca, lo spirito riconosce ве stesso nell'infinita creazione della cultura, opera del suo infinito passato e compito del suo infinito avvenire 1. m) Dopo Seneca: Luciano e la diffusione dell'idea del progresso. In tal modo, nell'affermare esplicitamente e mettere in evidenza sotto vari aspetti l'infinità del processo storico di creazione della cultura e d'accrescimento dello spirito umano, Seneca portava la teoria del progresso al suo piú alto grado di compimento nell'antichità. Dopo di lui, nonostante l'attivismo della gnoseologia e della pedagogia di Plutarco e di Plotino, il predominio crescente dell'orientamento mistico nella filosofia non favorí certo nuovi sviluppi della teoria del progresso; la cui tradizione, tuttavia, lungi dal perdersi, appare conservata — come abbiamo visto a proposito di Aristotele anche in scrittori tardi come Asclepio e Giovanni 1 Meritano di essere ricordate alcune altre dichiarazioni signi- Epansa (Sice rel Eple 65) Eaar dee appreanere ne che a riferisce alle cose divine e alle umane, alle passate e alle future, alle caduche e alle eterne, al tempo, etc.»; e qui Seneca cita esempi delle « innumerabiles questiones» che si pongono per la conoscenza di ogni sfera e di ogni aspetto della realtà universale. Ma il De otio, cap. 32, mostra che all'infinito numero dei problemi corrisponde l'infinita curiosità (curiosum ingenium) dell'uo- mo: il desiderio di conoscere lo sconosciuto (cupiditas ignota no-scendi) ci spinge ai viaggi ed alla navigazione, alle investigazioni naturali ed agli scavi, alle ricerche storiche relative all'umanità ad che poe eseri al dd a del come o aire dacueione dei probiem pelaurs ar ateria dd ale epifio) relativi alla materia ed allo spirito, etc. Nello stesso capitolo del De otio aggiunge (come abbiamo già ricordato) che la contemplazione non può mai essere senza azione, e che le cose meditate esigono la loro realizzazione mediante l'esercizio della mano; di modo che il processo infinito di creazione della cultura è inteso nell'unità di teoria e pratica. Filopono; e la loro fonte al riguardo, Aristotele, ci attesta che tale teoria si è trasmessa senza soluzione di continuità dal Il fino al VI sec. d. C. Ma già tra il I e il II secolo Plutarco (come abbiamo ricordato all'inizio di questo capitolo) ci fa udire l'eco tanto di idee provenienti da Archita e Democrito, intorno alla funzione che spetta alla necessità nel processo storico delle creazioni umane, quanto dell'ordine cronologico in cui Democrito e Aristotele distribuivano la creazione progressiva delle arti di necessità, di quelle di abbellimento e delle scienze. E nello stesso II secolo cui appartiene Aristocle, un documento caratteristico ci dimostra la diffusione raggiunta dall'idea del progresso umano nella coscienza pubblica dell'epoca; documento che consiste nell'utilizzazione che fa Luciano (Erotes, capp. 33-36) di questa idea con fini satirici. L'apologia paradossale dell'amore per gli efebi, che Luciano fonda sul principio che, essendo creazione piú recente dell'amore per le donne, deve costituire un progresso rispetto a questo, poteva avere significato come satira solo in un clima spirituale dove l'idea del progresso figlio del tempo fosse divenuto generale e dominante. Nella sua esposizione di questa teoria, Luciano dipende specialmente dalla tradizione democriteo-epicu-rea, ma con infiltrazioni della tradizione platonico-ari-stotelica relativa al rinnovamento ciclico successivo alle catastrofi, e con derivazioni anche da altre fonti. Da Democrito ad Epicuro deriva la descrizione della vita ferina primordiale: « i primi uomini nati dovevano cercare un rimedio per la fame d'ogni giorno, e per il fatto che erano preda della indigenza presente e che la pe- o chi il ato nuria non permetteva loro alcuna scelta del migliore, dovevano mangiare le erbe che trovavano, e le radici tenere che dissotterravano, e soprattutto le ghiande delle querce.... Mentre la loro vita permaneva cosí incolta e non concedeva loro ancora la comodità per esperimenti giornalieri al fine di trovare il meglio, essi dovevano accontentarsi di quelle stesse cose necessarie, poiché il tempo, incalzandoli, non permetteva loro l'invenzione di un buon regime». Anche per ciò che concerne la necessità di difese, « gli uomini subito, all'inizio della vita, avendo bisogno di coprirsi, 'avvolgevano nelle pelli delle fiere scorticate ed escogitavano come rifugio contro il freddo le grotte delle montagne o le cavità disseccate di radici o alberi antichi ». piú che democritea, poiché è scomparsa in essa, come pia wete Questa descrizione è evidente eredità epicurea ancor tra gli epicurei, la distinzione introdotta da Democrito tra i momenti successivi della prima fase di vita del- l'umanità. Manca inoltre in Luciano ogni allusione all'introduzione della convivenza sociale e del linguaggio e alla scoperta del fuoco, già considerati dall'epicurei-smo; ma la suggestione epicurea si riconosce nella spiegazione che dà tanto dell'uscita dallo stato primordiale mediante l'agricoltura, quanto delle invenzioni della tessitura e dell'edilizia per via di un'imitazione dei ripari naturali (pelli e caverne) usati primordialmente. La capacità di un'imitazione dei processi naturali, che ripro-ducendoli li modifica e li adatta alle proprie esigenze e finalità, era già per gli epicurei un carattere che differenziava l'uomo dagli altri animali, incapaci di uscire dalla loro condizione naturale originaria. Tuttavia sembra che in Luciano si perda la comprensione della funzione attribuita dagli epicurei alla necessità come forza stimolante dell'intelligenza umana; Luciano la considera piuttosto un ostacolo alla ricerca del meglio. Solamente (dice) « dopo che le necessità urgenti ebbero fine, le intelligenze (zoyouo) delle generazioni successive, liberate dalla necessità, trovarono l'occasione d'inventarequalche miglioramento, e di lí a poco a poco s'accreb-bero al tempo stesso le scienze. E questo ci è possibile congetturarlo dalla considerazione delle arti piú perfezionate ». Può esservi in queste linee un'eco (certo confusa) della distinzione democriteo-aristotelica dei tre momenti successivi di creazione progressiva: delle arti di neces-sità, di quelle d'ornamento e delle scienze disinteressate; certo Luciano - utilizzando l'esempio dell'arte tessile, preso dagli epicurei, e quello dell'architettura, derivante forse da Vitruvio - insiste specialmente sul carattere graduale e quasi insensibile dei progressi, dicendo che «le arti presero per maestro il tempo » e progredirono « segretamente». E questa idea di un processo graduale sembra associarsi a quella di un rinnovamento ciclico, cioè alla teoria platonico-aristotelica della rinascita progressiva della cultura dopo le catastrofi distruttrici - idea rievocata nel II secolo da Aristocle - poiché Luciano scrive che « ciascuna di queste arti e scienze, che giaceva muta e coperta in molto oblio, come da un lungo tramonto a poco a poco si levò nella sua luce raggiante ». Questa confluenza di elementi di derivazione tanto diversa è un indice interessante della conservazione di differenti rappresentazioni del progresso nell'epoca di Luciano, che le mescola senza preoccuparsi molto dei loro eventuali contrasti. E cosí, nonostante la sua apparente accettazione della teoria ciclica platonico-aristote-lica, Luciano delinea un processo di sviluppo della cul-tura, che per se stesso gli si presenta infinito, cosí come era apparso a Seneca. « Poiché ciascuno che faceva qualche scoperta la trasmetteva alla posterità; e quindi la successione di quelli che ricevevano l'eredità, facendo aggiunte a ciò che avevano appreso, continuò a riempire le lacune esistenti ». E cosí ‹ le scienze varie... mediante sforzi (uoris) si preparano per arrivare (EUENOV 7ÇELV) alla loro chiara manifestazione, spinte dal tempo infinito (úò To aiovos), che non lascia niente senza in- dagare ». Ma ciò che agisce attivamente sugli uomini attraverso il corso del tempo è (per dichiarazione esplicita di Lu-ciano) « l'intelligenza (ppóvnois), che si accompagna alla scienza e trae dal frequente sperimentare la possibilità di scegliere l'ottimo ». Pertanto « dobbiamo considerare necessario lo studio dell'antico, ma onorare come migliore ciò che la vita seppe trovare poi, dopo aver raggiunto la possibilità di dedicarsi alla riflessione razionale (поугомоїс) ». Torna cosí in Luciano il concetto della tradizione vi-vente, che non è conservazione cristallizzata, bensí creazione progressiva continua realizzata dalla vita; torna l'idea dell'infinità di questo processo, che si estende dal passato e dal presente verso l'avvenire. Riassumendo, possiamo dire che per tutti gli assertori antichi dell'idea del progresso umano la natura offra il punto di partenza allo sviluppo dell'attività creatrice dell'intelligenza dell'uomo; quindi le conquiste compiute da ogni generazione offrono alle successive i mezzi e gli stimoli per nuovi incessanti esperimenti e nuove acqui-sizioni; e in tal modo la creazione della cultura progredisce insieme con l'intelligenza creatrice. L'antichità dichiara con Cicerone ciò che tornerà a dichiarare il rinascimento con Bruno; cioè che l'umanità è caratterizzata dal suo sforzo incessante di creare, mediante l'opera della sua intelligenza e delle sue mani, un'altra natura, altri corsi e altri ordini al di sopra di quelli che le furono dati naturalmente; e per questa creatività del suo spirito l'uomo merita d'esser considerato «come un dio mortale» o « dio della terra ». Dai presocratici e dai poeti tragici fino a Seneca in-negabilmente l'idea della creatività dello spirito si afferma e si sviluppa nell'antichità, e si ripercuote poi sugli ultimi secoli della cultura classica, da Luciano ed Aristocle ad Asclepio e Giovanni Filopono. Per negare agli antichi il raggiungimento di tale intuizione, occorre chiudere gli occhi alla realtà storica e cancellare l'ampia documentazione che conferma la sua esistenza.
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