Tuesday, March 26, 2024

GRICE E RENSI: TRASEA -- L'IMPLICATURA -- FILOSOFIA ITALIANA -- LUIGI SPERANZA

Grice e Rensi: TRASEA – l’implicatura – filosofia italiana -- Luigi Speranza (Villafranca di Verona). Filosofo Italiano . Grice: “Only in Italy does a philosopher get his obituary when still alive!” Studia a Verona, Padova, e Roma. Insegna a Genova. Iscrittosi al partito socialista, si reca a  Milano per assumere la direzione del giornale “La lotta delle classi sociali”, collaborando assiduamente anche alla turatiana Critica Sociale e alla Rivista popolare. A seguito delle misure repressive adottate dal governo, e per sfuggire alla condanna del tribunale militare per aver preso parte ai mossi operai milanesi, stroncati dall'esercito con la strage del generale sabaudo Beccaris, è costretto a cercare rifugio in Svizzera. Frutto dell'esperienza ticinese e la pubblicazione de “Gl’anciens régimes e la democrazia diretta” (Colombi, Roma) in cui difende il principio della democrazia diretta del sistema istituzionale federalista. Collabora con numerosi articoli ai fogli radicali Il Dovere di Bellinzona, la Gazzetta Ticinese e L'Azione di Lugano, nonché alla rivista socialista e pacifista Coenobium. Ri-entra in Italia per stabilirsi a Verona dedicandosi alla filosofia del linguaggio – “o semantica.” A seguito della campagna libica, vi è la rottura col partito socialista, poiché  si è schierato con l'interventismo di Bissolati. Pubblica “Il fondamento filosofico del diritto” (Petremolese, Piacenza). Altri due volume seguono: “Formalismo e a-moralismo giuridico” (Cabianca, Verona) e “La trascendenza: studio sul problema morale” (Bocca, Torino), ove sviluppa un idealismo trascendente. Insegna a Bologna, Ferrara, Firenze, e Messina. L'esperienza della grande guerra manda in crisi (“alla merda”) la sue convinzione idealistica, conducendolo verso lo scetticismo – della ‘scessi’, come la chiama --, la cui prima formulazione sono i “Lineamenti di filosofia della scessi” (Zanichelli, Bologna). Sostene che la guerra distrue la fede ottimistica nell'universalità della ragione, sostituendola con lo spettacolo tragico della sua pluri-versalità, vale a dire dell'irriducibile conflittualità dei diversi punti di vista. Espose nella “Filosofia dell'autorità” (Sandron, Palermo) la traduzione politica di questa concezione. Poiché tutti i punti di vista politici sono sullo stesso piano, quello che anda al potere lo fa con un atto di forza, tacitando tutti gl’altri punti di vista. In questo saggio si è scorta una prima GIUSTIFICAZIONE dell'autoritarismo fascista. Tuttavia, dopo una prima simpatia per il fascismo, ne divenne un fiero avversario quando MUSSOLINI con metodi un po ‘anti-democratici’ comincia a perseguire un disegno dittatoriale ispirandosi a GIULIO CESARE – o duca/duce. R., non Mussolini, sottoscrisse il Manifesto degl’intellettuali o filosofi anti-fascisti di CROCE, pagando questa scelta con la sospensione,  dalla cattedra di filosofia a Genova. Arrestato e rinchiuso in carcere. Solo un abile stratagemma escogitato dall'amico e collega SELLA, che pubblica sul “Corriere della Sera” il necrologio del filosofo, diffondendo così la falsa notizia della sua morte, induce il duce a rimetterlo prontamente in libertà. Il dittatore teme l'ondata di sdegno sollevatasi per i metodi oppressivi del regime. Per la sua coerenza agl’ideali di libertà, sube il definitivo allontanamento dalla cattedra, è, comandato, da vigilato speciale, presso il centro bibliografico dell'ateneo genovese, per la compilazione della biografia ligure. Nonostante il doloroso distacco dalla scuola dove insegna, continua la sua attività filosofica e collabora al quotidiano socialista genovese Il Lavoro, l'unico foglio che accoglie testi di personalità che non hanno fatto atto di sotto-missione al fascismo.  Ricoverato al ospedale Galliera mentre infuria  il bombardamento della flotta inglese su Genova, per essere operato d'urgenza. Tuttavia l'azione militare danneggia alcune sale dell'edificio e i medici doveno rinviare l'intervento, una fatalità che non lascia scampo a R. Ai funerali pochi amici ed ex allievi poterono seguire per breve tratto il carro funebre. La polizia, che vieta questo devoto omaggio, dispersa il funerale, schedando alcuni discepoli. R., anche morto, tura il potere. Sulla tomba nel cimitero di Staglieno un'epigrafe riassume uno stile di vita ed esprime il suo dissenso, la sua resistenza e indipendenza filosofica. ETSI OMNES NON EGO. La sua filosofia si è sviluppata  dopo l'approdo alla scessi in direzione del realismo e del materialismo critico. Un realismo materialistico quindi, che considera derivato, con una certa libertà interpretative, dal criticismo. Arrriva ad ipotizzare che Kant puo pensare alla cosa in sé come a una più nascosta essenza materiale della cosa stessa.  La sua filosofia non e esente da paradossi concettuali e da mutamenti continui che lo hanno portato a cadere in alcune contraddizioni e incoerenze. Ma va anche considerato che al di sopra d’esse a dominare è comunque un forte pessimismo, che non è solo esistenziale, ma anche gnoseologico. Sia il mondo, sia la mente umana sono irrazionali. Ma supponiamo che un tale fatto esteriore ai nostri orologi, destinato al controllo di questi, non esiste, e che i nostri orologi continuassero a discordare. Come potremmo allora, in mancanza di quel fatto esteriore obbiettivo e nel discordare dei singoli nostri orologi, conoscere l’ora che è? Ora questo è appunto il caso delle nostre ragioni. Non c’è l’oggetto esterno ad esse, l’esterno modulo-ragione, su cui controllarle e che le giudichi, ed esse discordano tra di loro. Come conoscere l’ora che è della ragione? Per esempio egli ha sostenuto che, siccome la filosofia ha una storia che si snoda nel tempo, ciò significa che un pensiero vero e unico non può esistere e che perciò nel suo procedere ed evolvere essa nega continuamente sé stessa. Contro l'idealismo di GENTILE, allora imperante, che considera la storia una realizzazione progressiva dello spirito e della ragione, ha una visione negativa della storia, come assurdo caso e vana ripetizione.  C'è storia dunque perché ogni presente, ossia la realtà, è sempre falsa, assurda e cattiva, e perciò si vuol venirne fuori, passare ad altro, quel passare ad altro in cui, unicamente, la storia consiste. C'è storia, insomma, l'umanità corre nella storia, per la medesima ragione per cui corre un uomo che posa i piedi su di un sentiero cosparso di spine o di carboni ardenti. La sua critica della religione si sviluppa poi in un'aperta apologia dell'a-teismo. Sembra quasi di poter cogliere uno dei tratti dell'a-teismo in un saggio “Sopra lo amore di FICINO (si veda). FICINO  propone una visione dell'amore come amore eterno che ritorna come desiderio di ogni grado ontologico di ritornare al bene e al tutto. Propone una nuova interpretazione di questa tipica teologia dell’ACCADEMIA, vedendo nell'amore ipotizzato da Ficino in realtà un preludio a quelle che diventeranno due tra le più influenti correnti filosofiche: l'idealismo e il volontarismo. L'amore come totalità dei diversi, o come volontà nelle vesti di matrice essenziale del tutto, mette da parte il bisogno dell’amore trascendente e sussurra l'ipotesi di un a-teismo, forse professato tra le righe dai più celebri filosofi.  Filosofo profondamente problematico e inquieto, fine però per approdare a un forte pessimismo ontologico ed esistenziale, che lo spinse verso derive spiritualistiche, forse latenti nelle sue riflessioni fin dalle origini nelle “Lettere spirituali”. In quest'opera, come anche nell “La morale come pazzia” (Guanda, Modena), delinea una sorta di mistica dei valori e un'etica concepita come l'azzardo dell'uomo che scommette sul bene in un universo cieco e indifferente. Nella sua “Autobiografia intellettuale” suddivide in tre periodi la sua evoluzione. Un primo misticismo idealistico. Un secondo relativismo scettico materialistico e ateo. Un terzo misticismo spiritualistico come ultimo approdo della sua filosofia.  Il primo è un misticismo di tipo platonico dell’ACCADEMIA, in cui sono presenti anche elementi di San Paolo e di Malebranche. Scrive “L’antinomie dello spirito” (Petremolese, Piacenza); “Sic et non: meta-fisica e poesia” (Romaa, Roma); “La trascendenza: studio sul pensiero morale”. Il secondo periodo nasce dal suo sconcerto di fronte alle violenze della grande guerra e lo porta alla negazione di qualsiasi razionalità della realtà. Pensa infatti che se gl’uomini ricorrono sistematicamente alla violenza per risolvere i loro conflitti, questo significa che la ragione in sé non esiste, e che si tratta dell'illusione dell'uomo di pensare che si puo dare ordine al caos. L'irrazionalità della realtà si trova espressa in “Lineamenti di filosofia della scessi”; “La filosofia dell'autorità”; “La scessi estetica” (Zanichelli, Bologna); “Polemiche anti-dogmatiche” (Zanichelli, Bologna); “Interiora rerum – la filosofia dell’assurdo” (Milano, Unitas); “Realismo” (Milano, Unitas); “Apologia dell'a-teismo” (Formiggini, Roma); e “L’aporie della religione”. Il secondo periodo è altresì caratterizzato da un avvicinamento al positivismo materialistico e dal rifiuto dell'idealismo di CROCE e di GENTILE. In esso va registrata anche una rivisitazione del panteismo di Spinoza, che interpreta alla maniera dei teologi, quindi come a-teistico perché  nega il divino personalizzato del mono-teismo. Pensa anche di realizzareuna sintesi di scessi e realismo perché se solo la scessi è il modo reale e utile di porsi di fronte al mondo, essa è anche l'unica verità possibile. Si tratta anche del momento di punta del nichilismo, perché si afferma che siccome l'unica cosa certa e stabile è la morte, ed essa è il nulla, solo il nulla possede una verità. Prevale una forma di misticismo che non sorge, però, improvvisamente, essendo già chiaramente presente nelle opere maggiormente influenzate dalla scessi. Quest'ultima è, infatti, sempre sollecitata da un'innata, profonda religiosità, sicché non stupisce che il filosofo si apra alla voce del divino, poiché cerca nella negazione assoluta un criterio positivo che consenta la negazione stessa. A questo periodo appartengono: “Critica della morale”; "Critica dell'amore e del lavoro”; “Paradossi di estetica e dialoghi dei morti” (Corbaccio, Milano); “Frammenti di una filosofia del dolore e dell’errore, del male e della morte” (Guanda, Modena); “La filosofia dell'assurdo” e “GORGIA (si veda) -- Autobiografia intellettuale – la mia filosofia – testamento filosofico” (Corbaccio, Milano). Isolato in vita nel mondo filosofico italiano, nel quale domina l'idealismo crociano-gentiliano, trova la comprensione di pochi intellettuali a lui affini. È stato quest'ultimo a creare la formula della scessi credente, che in forme diverse ha dominato i pochi studi sulla sua filosofia. Oggi trova la collocazione nell'ambito del nichilismo. Per alcuni, tale collocazione resta comunque riduttiva rispetto alla vastità della sua filosofia, che andrebbe ancora approfondito. La trascuratezza nei suoi confronti sta nel fatto che la cultura italiana è stata dominata dall'idealismo e dall'esistenzialismo. Legato alla cultura socialista, si caratterizza per una certa dose di eclettismo e per una forte componente umanitaria, distante dal materialismo storico marxiano e riconducibile, più agilmente, nel novero dei filosofi vicini al socialismo utopista. Se durante l'attività politica in Italia aderisce all'idea della lotta delle classi sociali, l'esperienza svizzera lo porta a ri-considerare tale concezione dei rapporti di forza nella storia, ri-dimensionandone la portata. Infatti, l'ant-agonismo tra proletariato e borghesia è circo-scrivibile ad alcune realtà contingenti e non costituirebbe un'invariante delle relazioni socio-politiche. E se, da un lato, il suo realismo politico lo porta ad apprezzare le teorie elitistiche del conservatore MOSCA (si veda), dall'altro, la matrice umanitaria e socialista emerge nell'esaltazione degli istituti della democrazia diretta, caratterizzanti il sistema costituzionale svizzero, considerati come l’unico in grado di far emergere la volontà popolare e di permettere l'emancipazione delle classi lavoratrici. L'elogio ai regimi federalisti appena citati, e il contingente recupero di CATTANEO sono sintomatici di un altro aspetto del suo orizzonte culturale: la feroce critica dell'istituto monarchico -- tanto nell'accezione assolutista, quanto in quella temperata del costituzionalismo borghese ottocentesco -- appannaggio di una vicinanza con il programma del partito repubblicano. Mostra un pessimismo storico verso il risorgimento, la disapprovazione intransingente del ruolo, ritenuto ambiguo e ostile al riscatto sociale del proletariato, della casa regnante dei Savoia e l'appartenenza alla massoneria.  Influenze "Atomi e vuoto e il divino in me", queste parole di Rensi hanno ispirato Lobaccaro nella composizione della canzone Rosa di Turi dei Radiodervish. Altri saggi: “Una Repubblica italiana: il Canton Ticino, "Critica sociale", Milano), “L'immoralismo di Nietzsche” (Carlini, Genova); “Il genio etico ed altri saggi” (Laterza, Bari); “Sulla risarcibilità del danno morale” (Cooperativa,Verona); “L’istinto morale” (Riuniti, Bologna); “L'orma di Protagora” (Treves, Milano); “Principi di politica im-popolare” (Zanichelli, Bologna); “Introduzione alla scessi etica” (Perrella, Napoli); “Teoria e pratica della re-azione politica” (Stampa, Milano); “L'amore e il lavoro nella concezione della scessi” (Unitas, Milano); “Dove va il mondo?, «Inchiesta fra gli scrittori italiani» (Libreria Politica Moderna, Roma); “L'irrazionale, il lavoro, l'amore” (Unitas, Milano); "Terapia dell'a-teismo" (Castelvecchi, Roma);  “Apologia della scessi” (Formiggini, Roma); “Autorità e libertà: le colpe della filosofia” (Politica, Roma); “Il materialismo critico” (Sociale, Milano); “Spinoza” (Formiggini, Roma); “Scheggie: pagine di un diario intimo” (Bibl. Ed., Rieti); “Cicute: dal diario di un filosofo” (Atanòr, Todi); “Impronte: pagine di un diario” (Italia, Genova); “Raffigurazioni: schizzi di filosofi e di dottrine” (Guanda, Modena); “L’a-porie della religione” (Etna, Catania); “Sguardi: pagine di un diario” (Laziale, Roma); “Passato, presente, future” (Cogliati, Milano); “Motivi spirituali dell’ACCADEMIA” (Gilardi, Milano); “Scolii: pagine di un diario” (Montes, Torino); “Vite parallele di filosofi: l’accademia e CICERONE” (Guida, Napoli); “Critica della morale” (Etna, Catania); “Figure di filosofi: ARDIGÒ e GORGIA” (Guida, Napoli); “Poemetti in prosa e in verso” (Ist., Milano); "La morale come stato d'eccezione?" (Castelvecchi, Roma); “TRASEA (si veda) contro la tirannia” (Oglio, Milano) – FASCISMO E STORIA ROMANA – la critica -- ; “Lettere spirituali” (Bocca, Milano); “Sale della vita -- saggi filosofici” (Oglio, Milano); “La religione -- spirito religioso, misticismo e a-teismo” (Sentieri Meridiani, Foggia); “Contro il lavoro -- saggio su L’ATTIVITA PIU ODIATA DALL’UOMO” (Gwynplaine, Camerano);  “Le ragioni dell'irrazionalismo” (Orthotes, Napoli); “Su LEOPARDI” (Bruni, Torino). – “Il filosofo dissidente, Pastorino, Uomini e idee della Massoneria. La Massoneria nella storia d'Italia, Roma, Atanor sub voce (in ordine cronologico), R. Istituto di Studi filosofici, Roma); Untersteiner, Interprete del pensiero antico (Bocca, Milano); La scessi estetica (Zanichelli, Bologna); Cuneo, Conti e C., Cuneo); Un moralista, Italia, Resta (SIAG, Genova); Poggi (Azzoguidi, Bologna); “Il problema generale della giustizia e della giustizia penale” (Vallardi, Milano); Rossi, “L’deale di Giustizia” (Bocca, Milano); Buonaiuti, “La scessi credente” (Partenia, Roma); Mignone, “Leopardi e Pascal” (Corbaccio, Milano); Nonis, La scessi etica, Studium, Roma, Morra; R., Scessi e mistica in R. (Ciranna, Siracusa); Tecchiati, Alla mostra del libro filosofico", La Voce di Calabria, Palmi, Bassanesi, La coscienza tragica” (Filosofia, Torino); Alpino, La collaborazione di Rensi alla rivista "Pietre" (Marzorati, Milano); Liguori, “La scessi giuridica” (Giuffrè, Milano); Noce, "Tra Leopardi e Pascal, ovvero l'auto-critica dell'a-teismo negativo", in Una giornata rensiana, Marzorati, Milano, Sciacca, “Una giornata rensiana” (Marzorati, Milano); Perano, Il problema della verità nella scessi di Rensi” (Lateranense, Roma); Mas, Tra democrazia e anti-democrazia” (Bulzoni, Roma); Santucci, Un irregolare: Tendenze della filosofia italiana nell'età del fascismo, Pompeo, Faracovi, Belforte, Livorno; Rognini, “Dal positivismo al realismo” (Benucci, Perugia); L'inquieto esistere” (EffeEmmeEnne, Genova); Boriani, La questione morale nel positivismo” (Melusina, Roma); Silva, “La ribellione filosofica” (Genova,  Liguori); Il Cavaliere, la Morte e il Diavolo. La coerenza critica, Il sentiero dei perplessi. Scetticismo, nichilismo e critica della religione in Italia da Nietzsche a PIRANDELLO (si veda), La Città del Sole, Napoli, Gianinazzi, Intellettuali in bilico, Milano, Ed. Unicopli, Emery, Lo sguardo di Sisifo: R. e la via italiana alla filosofia della crisi: con una nuova  rensiana, Marzorati, Settimo Milanese,  Mancuso, Tra democrazia e fascismo, Aracne, Roma, Serra, Tra dissoluzione del socialismo e formazione dell'alternativa nazionalista” (Angeli, Milano); Meroi (Olschki, Firenze); “L’eloquenza del nichilismo, SEAM, Formello); Pezzino, Scacco alla ragione” (C.U.E.M.C., Catania);  Castelli, Un modello di Repubblica; la politica e la Svizzera (Mondadori, Milano); Greco, politica, autorità, storia, Viaggi di carta, Palermo); P. Serra, “La rivolta contro il reale, Città Aperta,  Enna); A.  Montano, “Ethica ed etiche” (Napoli); G. Barbuto, Nichilismo e stato totalitario: libertà e autorità” (Guida, Napoli); Greco, la filosofia morale, Viaggidicarta, Palermo, Mancuso; Montano, Irrazionalismo e impoliticità Rubbettino, Mannelli, Meroi, filosofia e religione (Storia e letteratura, Roma). Lobagueira,  Documenti, Trento; Mascolo, Il corso infernale della storia. L'influenza di Schopenhauer nella filosofa, in Ciracì, Fazio, Schopenhauer in Italia, Lecce, Pensa Multi Media, Bruni, “Il leopardismo filosofico” (Firenze, Le Lettere); “Filosofo della storia, Firenze, Le Lettere, Bignami E. Buonaiuti, Croce, Ghisleri, Manifesto degli intellettuali antifascisti Ad. Tilgher, Treccani Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Il contributo italiano alla storia del Pensiero: Filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. R. il filosofo dimenticato. scomodo nichilista di Volpi l'"irregolare" di Martinetti. Di qui, con evidenza, un elemento evolutivo nel “Trasea, contro la tirannia” (Corbaccio dall’oglio, Milano) -- dove R. introduce elementi di giudizio nei confronti dei regimi statali che pregiano maggiormente le «questioni materiali e spirituali rispetto all'effcienza dell'amministrazione -- quasi a dire che non è possibile accettare l'affermazione tirannica del potere, anche se questo risulta poi operativo ed efficiente, perché essa coarta eccessivamente lo spazio della personalità individuale. Di qui il limite della stessa filosofia dell'autorità, la cui estensione trova nel rispetto della moralità e interiorità un limite; e che tale limite sia valicato si intuisce dalla crescita dell'im-moralità pubblica -- delazione, adulazione etc. ne sono i fenomeni rivelatori --. Questa vicenda è descritta con riferimento all'impero d’OTTAVIANO a Nerone inclusi, e, alla data di stesura, intuitivamente e obliquamente  allusiva al fascismo. Cf. Il CICERONE di Rensi.  Spero enim homines mtellecturos  quanto sit omnibus odio crudelitas et  quanto amori probitas et clementia.   C. Cassio in Cic., Ad farri. XV, 14    C. Renisi . Vita    parallele ,li due filosofi    4                 Cicerone era vicino ai sessantanni, quando lo  Stato legale romano, che già precedentemente a-  veva subito terribili scosse, ma che mediante una  saggia riforma avrebbe potuto rinvigorirsi sul suo  stesso tronco senza frattura o soluzione di conti¬  nuità, riceveva da Cesare il colpo di grazia...   *   * *   Non è più necessario rivendicare la grandezza  di Cicerone contro le denigrazioni del Mommsen  e di altri due o tre storici tedeschi (I). Egli non  era una ràbula e un politico superficiale. Bensì  un uomo di Stato dallo sguardo ampio e sicuro,  nel cui animo si radicava e viveva di vita vigo¬  rosissima tutta la grande tradizione politica romana,   ( I ) Una bella e vivace confutazione del Mommsen si  può leggere nel saggio di A. Horncffer, Cicero und die  Gegenwarl, contenuto nel volume Das Klassische Ideal  (Lipsia, Klinkhardt, 1909). L' Horneffer però rivendica  solo il valore di Cicerone come epistolografo e oratore,  non come filosofo.       52    e pur senza che l’animo servilmente vi soggiacesse,  ma, anzi, insieme, con la chiara coscienza della  nuova direzione che quella tradizione doveva pren¬  dere, e della misura e forma in cui doveva pren¬  derla, per svilupparsi fecondamente e superarsi vi¬  vificandosi. Accanto a ciò, mente che s’era im¬  padronita di tutta la più alta cultura dell'epoca :  Demostene e Platone insieme pel suo paese, come  riconosce Wilamowitz - Moellendorf ( 1 ). Accanto  a ciò, una squisitissima sensibilità artistica e una  passione vivacissima per le cose d’arte ; basta ve¬  dere quanto “ vehementer „, com’egli stesso dice,  attendeva che Attico gli mandasse sculture ed og¬  getti artistici greci: “genus hoc est voluptatis rneae,,   (Ad Att. I, IX, 2 ; 1, VI, 5 ; 1, IV, 3 ecc) ; e   basta aver letto attentamente le sue orazioni e  aver scorto il perfetto senso d’arte con cui sono  costruite e che vi circola. Accanto a ciò, infine,  una sensibilità in generale per le cose, le persone,  gli eventi, gli affetti, così moderna, che in lui, nella  sua pronta e multiforme impressionabilità, ritroviamo  interamente noi stessi : e il suo dolore erompente  e pieno di accenti passionali per la morte della  figlia Tullia, è il palpito d’un cuore dei nostri  tempi.— Uomo, in una parola; assolutamente com¬  pleto (2).    (1) Platon, ed. cit., voi. I, p. 745.   (2) Un pensatore di così sottile e sicuro buon gusto  e di cosi grande penetrazione storica (e particolarmente        53    Il rimprovero che gli si fa di debolezze e in¬  certezze è uno dei soliti rimproveri che gli eroi  di poltrona hanno quasi sempre occasione di ri¬  volgere al grande che si è trovato a dover dav¬  vero vivere avvolto da un gigantesco turbine di  avvenimenti, e che nemmeno se fosse stato mille  volte più grande poteva abbracciarne tutte le fila,  come è invece agevole a quelli che non fanno se non  pacificamente rileggerli nel loro tranquillo gabinetto  venti secoli dopo. Egli non fu debole ed incerto  nè nella repressione della congiura di Catilina, nè  nella lotta per la salvezza della costituzione con¬  tro il cesarismo rinvelenito da Antonio, lotta che  chiuse cosi gloriosamente la sua carriera mortale.  Le sue incertezze di altri momenti sono unicamente  frutto della sua profonda moralità. Perché l’uomo  fondamentalmente morale e intelligente, in mezzo  a cataclismi enormi che travolgono gli individui  come fuscelli, quali quelli in cui Cicerone si trovò,  mentre non può operare contro coscienza, e per  questa, che pure sarebbe l’unica via possibile, sal¬  varsi o tornare a grandeggiare, però avverte anche  i pencoli micidiali a cui espone sè ed 1 suoi o-  perando secondo coscienza : e la condotta risul¬  tante è necessariamente quella che tracciano le  fluttuazioni di tale angoscioso conflitto interno.   circa la storia romana) come Montesquieu ne dà questo  giudizio : “ Ciceron, selon moi, est un des plus grands  espnts qui aient jamais été „ (Pensées diVerses),       54    “ Ab illis est periculum si peccare, ab hoc si recte  fecero, nec ullum in his malis consilium periculo  vacuimi inveniri potest „ {Ad Att, X, 8). Quando  i frangenti in cui un uomo si trova realmente a  vivere sono davvero quelli così delineati, si può  domandarsi se sia umanamente possibile la retti¬  lineità che esigono da lui coloro che poi spulciano  comodamente gli eventi della sua vita. Sicuro e  diritto, in tali circostanze, è l'uomo amorale che  non sente scrupoli : il cinico ed elegante arrivista  Celio Rufo, che a Cicerone dava questo consiglio  {Ad. Di'». Vili, 14): “ Suppongo che non ti  sfugga come nelle discordie politiche interne gli  uomini debbano seguire, finché si lotta senz’armi,  la parie più onesta, ma la più forte quando ven¬  gono in gioco guerre ed eserciti, e stabilire che  è migliore ciò che è più sicuro „ (Celio Rufo, del  resto ottimo scrittore, tanto che per molti uma¬  nisti ed altri dotti è ancor oggi il miglior modello  di stile). Ma Cicerone era un uomo di coscienza.  Questa soltanto, non la sua incapacità mentale,  la causa della sua rovina.   Egli era andato con Pompeo, non già sedotto  dalla speranza della vittoria, ma quando la causa  di costui era ormai pressoché perduta e con la  piena nozione di tale condizione di cose, e mentre  Cesare, Antonio, Celio, per cercar di trattenerlo  almeno neutrale, gli facevano offerte larghissime :   secuti non spem, sed officium „ {Ad Div. X 5).  Vi era andato essendo consapevole, non solo del-       55    l’inettitudine e impreparazione di Pompeo e di  quelli che erano con lui, ma altresi del fatto che  poco o nulla c era da sperare da essi circa la  restaurazione della legalità, animati come costoro  erano da propositi di persecuzione sillana (Ad Att.   IX, 10, 1 I; XI, 6 ; Ad D/v. VII, 3; IX, 6), e   chiaro ormai essendo che dai pompeiani non meno  che dai cesariani non si pensava che a far man  bassa dello Stato: “ regnandi contendo est » (Ad  Att. X, 7), “ dominatio quaesita ab utroque est,  non id actum beata et honesta civitas ut esset „  (ih. Vili, 11). Vi era andato straziato dall’ idea  d una guerra civile e unicamente in obbedienza a  considerazioni d ordine morale. E’ la coscienza  che ci costringe, scrive ad Attico (X ,8), a stac¬  carci da Cesare più ancora se vincitore che se  vinto, per non essere solidali con ciò che seguirà  alla sua vittoria, stragi, estorsioni, violenze “ et  turpissimorum honores, et regnum non modo Ro¬  mano homini, sed ne Persae quidem cuiquam to-  lerabile Era andato da Pompeo, senza illusioni  e speranze, unicamente per senso del dovere.   Sed valuit (scrive più tardi a Cecina) apud me  plus pudor meus quam timor ; veritus sum deesse  Pompeii saluti, cum ille aliquando non defuisset  meae. ltaque vel officio, vel fama bonorum, vel  pudore victus, ut in fabulis Amphiaraus, sic ego  prudens ac sciens, ad pestem ante oculos positam  sum profectus „ (Ad Div. VI, 6). Egli sapeva  cioè di andare alla rovina e vi andò in obbedienza       56    a yu principio d'onore ( pudor ) e di gratitudine,  per quel poco che Pompeo aveva fatto onde ri¬  chiamarlo dall’esilio. “ Pudori tamen malui famae¬  que cedere quam salutis meae rationem ducere  riconferma a M. Mario (ib. VII, 3). E ritornando  più tardi in una lettera a Torquato, che aveva  anch’egli seguito la parte pompeiana, su quell’e¬  pisodio a entrambi comune, sente di poter ricor¬  dare in cospetto al correligionario politico “ nec  nos victoriae praemiis ductos patriam olim et li-  beros et fortunas reliquisse, sed quoddam nobis  officium iustum et pium et debitum reipublicae  nostraeque dìgnitati videbamur sequi, nec cum id  faciebamur tam eramus amentes ut explorata nobis  esset victoria „ (ib, VI, 1). Ne è questa un’op¬  portunistica configurazione postuma della sua con¬  dotta di quel tempo. Basta percorrere la sua cor¬  rispondenza con Attico (suo amico intimo e suo  editore, uomo consumato nell’ impresa di tener il  piede in più staffe e nella difficile arte di con¬  servarsi amici i vincitori senza inimicarsi i vinti)  per constatare che tale veramente, cioè il senso del  dovere, era il nobile sentimento da cui fu mos¬  so. “ Officu me deliberalo cruciat, cruciavitque  adhuc ; cautior certe est mansio ; honestior existi-  matur traiectio „ (Ad Alt. Vili, 15). E quando  Pompeo è pressoché spacciato e stretto da tutte  le parti, e Cicerone è ritornato in Italia, egli si  cruccia proprio di questo suo atto da cui gli sa¬  rebbe derivato vantaggio e che poteva quindi        57      essere reputato abile, e si rammarica di non essere  stato con Pompeo sino alla fine ; “ numquam  enim illus victoriae socius esse volui ; calamitatis  mallem fuisse „ (Ad Att. IX, 12). Il principio,  insomma, che in un’altra posteriore circostanza,  piena di pericoli mortali, nella sua lotta contro  Antonio, egli enuncia a Planco così : “ mihi ma-  ximae curae est, non de mea quidem vita, cui sa¬  tisfeci vel aetate vel factis vel gloria, sed me pa¬  tria sollicitat ,, ( Jld Dio. X, 1 ), questo è il prin¬  cipio che domina costantemente nelPanimo di Ci¬  cerone, insieme con l’insormontabile ripugnanza,  o meglio con 1’ impossibilità, di venir meno al  rispetto verso se stesso. Allorché, essendo Cesare  incontrastato padrone, l’accomodante Attico gli  dà il consiglio di obbedire ai vincitori, “ non  mihi quidem (egli risponde) cui sunt multa po-  tiora „ (Ad Att. XV, 3).   Certo, un uomo mosso prevalentemente da sen¬  timenti di tale natura, nelle tragiche vicende pub¬  bliche da cui si trovò avvolto Cicerone, va al  fondo. Resta a vedere se ciò sia un indice di  inferiorità o se non lo sia piuttosto quel successo  che è raggiunto (e la cosa è facile) in grazia del¬  l’assenza di tali sentimenti, della mancanza d’ogni  freno etico, dell insensibilità ad ogni scrupolo di  coscienza, della nessuna riluttanza a violare cini¬  camente ogni principio di diritto e di morale.         58    *   * *   Nè r uomo che aveva cominciato la sua carriera  attaccando coraggiosamente nell’orazione prò Roselo  un favorito potentissimo di Siila, era un pavido.  Dimostrò ancora di non esserlo e nel suo conso¬  lato e nell’ultima fase della sua vita. L’apparenza  di timidità da lui talvolta offerta, deriva da ciò  che egli, come disse di sè, si preoccupava gran¬  demente dei pericoli nella rappresentazione e raf¬  figurazione mentale anticipata di essi, non già che  titubasse poi ad affrontarli nella realtà. Quintiliano  narra : “ Parum fortis videtur quisbusdam : quibus  optime respondit ipse, non se timidum in susci-  piendis, sed in providendis periculis „ (XII, 1).  E’ press’a poco ciò che egli scrive a Toranio :  mi accusavano di essere timido, “ eram piane,  timebam enim, ne evenirent, quae acciderunt „ ;  mi dicevano timido, “ quia dicebamus ea futura,  quae facta sunt „ (Ad Dio. VI, 21). Nè è giusto  accusarlo di non aver saputo intuire con chiarezza  le situazioni e di essersi per questa deficienza di  sguardo gettato a corpo perduto a combattere per  soluzioni che la realtà escludeva. È questa la so¬  lita iniqua condanna che ì posteri, aggiungendosi  ai contemporanei nell’incensare i vincitori e nel  dare il calcio dell’asino ai vinti, pronunciano contro  colui che difese la causa rimasta storicamente soc¬  combente. Quasiché il fatto che una causa sia ri-      59    masta storicamente sconfitta dimostri anche che era  giusto e logico che essa lo fosse ; quasiché il mero  fatto, il fatto del successo, sia anche verdetto di  giustizia e logicità ; quasiché assai spesso la causa  storicamente prostrata non sia quella che avrebbe  dovuto vincere. Che la cosa stia così nel caso di  Cicerone, lo dimostra il fatto che la causa da lui  combattuta e che vinse costituì la rovina della vita  di Roma : basta per accertarsene constatare che  nella stessa nostra memoria di posteri la vita di  Roma resta chiaramente presente e attira la nostra  appassionata attenzione appunto sino ad Augusto;  ci rimangono ancora come appendice già torbida  i primi imperatori ; poi tutto ci si confonde di¬  nanzi in un lungo stato comatoso chiazzato di  continui sussulti sanguigni, in cui (se non siamo sto¬  rici di professione) non distinguiamo piu ne nomi,  nè persone, nè eventi, di cui non ricordiamo, nè  c’importa ricordare, più nulla ( 1 ).   (I) Si rammenti come, per es., scorgeva Roma Mas¬  simo d’ Azeglio. “ Fra tutti gli Stati dell’antichità è Roma  quello che ho in maggior stima, fino all’epoca dei Gracchi,  intendiamoci ! lo ammiro que’ tempi durante i quali dominò  la legge ; durante i quali le più bollenti passioni agitate  dai più vitali interessi, non cercavano altr armi nè altre  vittorie che un voto ne’ Comizi „. E poco prima : Se  è giusto e vero il principio fondamentale delle Società  moderne, essere la legalità di un governo dipendente dalla  volontà del popolo che vi è governato, vorrei sapere se  1* umanità consultata avrebbe ne’ tempi dei Romani votato       Nemmeno i mezzi che egli aveva messo in opera  per sostenere la causa che soccombette, erano ina-  deguati. Tutto, invece, egli aveva provvisto ; tutto  quanto era necessario perchè essa vincesse: aveva  cercato di assicurare ad essa l’appoggio e la  fedeltà dei maggiori personaggi militari e poli¬  tici ; aveva costituito e messo in campo eserciti  poderosi ; con la sua parola teneva altissimo il  tono morale del popolo all’ interno. Se la causa  non vinse, lo si deve, non a un fato storico, a  condizioni incoercibili insite nella realtà e sfuggite  allo sguardo di Cicerone, o al logos immanente  nella storia ; ma unicamente a due o tre puri casi,  che potevano accadere diversamente e in tal modo  rovesciare la situazione. Dice in qualche luogo  Rosmini che “ uno de’ mezzi, co’ quali 1’ uomo  può sciogliere la propria mente da molti pregiu¬  dizi e da’ legami delle consuetudini sensibili, si è  l’esercitarsi a considerare le cose non solo come  sono, ma come potrebbero essere « ( 1 ). Se vo¬  gliamo applicare questo precetto al periodo di  storia in discorso (come Renouvier in Uchwnie  l’ha applicato in modo grandemente interessante a  tutta la storia occidentale dagli Antonini in poi),  scorgeremo agevolmente che due o tre futili casi,    per l'impero „ (/ Miei Ricordi, cap. XX. Barbera, 1893   p. 261).   (I) Antologia Pedagogica a cura di G. Pusinieri  (Rovereto, Tip. S. Mario, 1928) p. 187.          61    i quali fossero avvenuti diversamente, sarebbero  bastati a cambiare del tutto la faccia delle cose;  se, p. e., Lepido non avesse tradito, o se un gia¬  vellotto l’avesse ucciso quando egli si mosse per  portar soccorso ad Antonio ormai disfatto, se Planco  non avesse fatto il doppio giuoco, ciò sarebbe ba¬  stato per far di Cicerone il capo dello Stato ro¬  mano, e perchè egli occupasse nella politica di  Roma d’allora, e nella storia, il posto d’Augusto.  E quanto lo Stato romano e la posterità sareb¬  bero stati più fortunati se il potere fosse venuto  in mano ad un uomo di rettitudine profonda e  di vivo senso del diritto e del dovere, come Ci¬  cerone, anziché ad un uomo la cui bassezza d a-  nimo è provata luminosamente dal fatto che, avendo  cominciato ancora puer o adolescens, come sempre  Cicerone lo chiama, (* sed est piane puer n \Ad  Att. XVI, 11), ad essere qualcosa solo per 1 ap-  poggio datogli appunto da Cicerone e con lo stri¬  sciarsi umilmente ai suoi piedi (“a me postulat  primum ut clam conloquatur mecum Capuae vel  non longe a Capua... ducem se profitetur nec nos  sibi putat deesse oportere „ ; binae uno die mihi  litterae ab Octaviano „ ; “ deinde ab Octaviano  cotidie litterae, ut negotium susciperem, Capuani  venirem, iterum rem publicam servarem » ; mihi  totus deditus „ ; “ nobiscum hinc perhonorifice   et amice Octavius „ — Ad Jltt. XVI, 8, 9, 11,  XIV, 11, 12), non si trattenne dal sacrificare ad  una propria maggiore ascesa la vita di colui che     62    l’aveva sorretto nei suoi primi passi. Uomo egli,  si, veramente, pusillanime, che vinse le guerre solo  per mezzo dei suoi generali e specialmente di A-  grippa (1), e non aveva il coraggio di presentarsi  nel campo se non dopo che Agrippa gli annun¬  ziava la vittoria (Svet. Aug. 16). Fondamental¬  mente istrione e poseur come risulta dal fatto,  narrato da Svetonio (Aug. 84), che non comu¬  nicava mai nemmeno con sua moglie senza scri¬  vere prima e leggere ciò che voleva dire, nonché  dall’altro, sempre narrato da Svetonio (79), che  egli amava stilizzare a particolare espressività e lu¬  minosità i suoi occhi, “ quibus etiam existimari  volebat inesse quiddam divini vigoris, gaudebatque   ( 1 ) “ Octave lui [a Sesto Pompeo) fit deux guerres  laborieuses ; et après bien de mauvais succès il le vain-  quit por i’habilité d’Agrippa... Je crois qu’ Octave est le  seul de tous les capitaines romains qui ait gagné 1 affection  des soldals en leuv donnant sans cesse des marques d’une  làcheté naturelle „ (Montesquieu, Grandeur et Dócadence  des Romains, eh. Xlll). — Tanto Cesare quanto Augusto  avevano l’abitudine di citare dei versi delle Fenicie di  Euripide. E la citazione che l’uno e l’altro aveva scelto  è rivelatrice del loro rispettivo carattere. Cesare amava  citare i versi 524-525 : “se c' è un caso in cui sia bello  violare il diritto, è quando lo si viola per conseguire la  tirannide citazione signifìcatiice dello spirito violento e  illegale. Augusto amava citare il verso 559: è meglio  per un generale procedere al sicuro (àacpaÀr/c) che es¬  sere ardito (ihf aouc) „ ; citazione significatrice della vi¬  gliaccheria (cfr. Cicer. De Off. Ili, 21, 82 e Svetonio  Aug. XXXV).         63    si qui sibi acrius contuenti quasi ad fulgorem solis  vultum summiteret e infine in modo palmare dalle  parole (“ ecquid iis videretur mimum vitae com¬  mode transigisse „) e dalla citazione greca richie¬  dente 1 applauso per la commedia ben riuscita,  con cu; egli chiuse la sua esistenza (ib. 99). Uomo  che desta particolare antipatia precisamente in  grazia del suo proposito di moralizzare la vita  romana ; perchè niente è più ripugnante del dis¬  soluto che si da il compito di costringere gli altri  alla virtù e posa a restauratore della morale pub¬  blica ; e Augusto aveva cambiato tre mogli pren¬  dendo 1 ultima al manto sotto ì suoi stessi occhi,  conducendola con sé in un altra stanza donde era  ritornata spettinata e con gli orecchi rossi, e poi  introducendola in casa propria incinta d’un altro  (ib 62, 69) ; aveva commesso le oscenità che narra  Svetonio (68, 69), irripetibili, tranne forse una :  “ adultena quidem exercuisse ne amici quidem  negant „ ; e dopo ciò faceva udire le parole am¬  monitrici di vita austera e imprendeva a ricondurre  i costumi alla prisca severità (I). La scandalosa con¬  dotta di sua figlia e di sua nipote, che condusse   ( 1 ) “A cool head, an unfeeling hcart, and a cowardly  disposition, promtcd finn al thè age of nmeieen, to assume  thè maske of hypocrisy, which he never afterwards laid  aside. With thè saine hand, and proba’bly with thè same  temper, he signed thè proscription of Cicero and thè  pardon of Cinna. His virtues, and even his vices, were  artifìcial „ (Gibbon, Decime and Fall, c. 111).          64    all’esilio di entrambe, e di Ovidio complice o pro¬  nubo, dimostra che nella sua famiglia stessa si  aveva il senso netto del come si poteva prendere  sul serio una riforma morale che pretendeva at¬  tuare un individuo di siffatta ìndole e di siffatti  precedenti ( 1 ).   *   * %   Non ostante che all’epoca del trionfo di Cesare  si avvicinasse alla sessantina, Cicerone non. era  uomo che non sapesse comprendere i tempi. Li  comprendeva benissimo, più profondamente e sa¬  pientemente di Cesare e di Ottavio. La sua mente  era in pieno vigore. Subito dopo quell epoca egli  poteva scrivere quei suoi libri di filosofia che su¬  scitarono l’ammirazione dei contemporanei e furono  e saranno letti con entusiasmo o rispetto da tutte   ( I ) Coglie veramente nel segno Aurelio Vittore : Cum  esset luxuriae serviens erat eiusdem vitii severissimus ultor,  more hominum, qui in ulciscendis vitiis, quibus ipsi velie-  menter indulgent, acres sunt . (cap. 1). E s. può dire d.  lui quel che il Boissier dice di Domiziano : 1 ar malheur,   ce prince si sevère pour les defauts des autres, etait lui-  mème très vicieux. 11 avait fait des lois rigoureuses contre  l’adultere et il vivait publiquement avec sa mèce, la bile  de Titus, qu’ il avait enlevée à son mari et dont il causa  la mort en essayant de la taire avorter. Ce contraste etait  choquant, et il n’ ignorait pas qu’on en etait indigne „  (Tacite, p. 45).          65    le generazioni successive (I). Poco più oltre egli  svolgeva anzi la sua azione politica più abile, più  decisa, piu energica e più importante, e, insieme,  con le filippiche raggiungeva un’altezza da lui  ancora non tocca nella forma d’arte che gli era  propria : “ divina „ chiama giustamente un giudice  certo non facile, Giovenale (X, 125), la seconda  di esse. La sua idea di portare alla luce del  mondo politico, sotto la sua direzione, il proni¬  pote e figlio adottivo di Cesare, ancora ragazzo  (aveva appena diciannove anni), accordandogli an¬  che onori che a molti parevano eccessivi, e di  riuscire così giovandosi del nome di Ottavio a far  rientrare il ribollente partito cesariano nell’ordine  costituzionale e a dominare in tal modo una si-  Inazione difficilissima, era una idea geniale, abi¬  lissima, da politico grandemente avveduto, l’unica    (I) Sull immensa influenza esercitata da Cicerone sui   a t“ di tutti ' tempi ' veg § asi ‘'furiente  r “, Z r fe ,v C f er , 0 o ™ Wandel dcr Jahrhunderte  I d-' P r a ' ed ;. lj^ 9 ) Strachan-Davidson nella  sua Vita di Cicerone ( Heroes of thè Nations Series „)  dice giustamente che se si dovesse decidere quale degli  scrittori antichi maggiormente influì sul mondo moderno,  la decisione sarebbe ,n favore di Plutarco e Cicerone —  hrasmo, scrivendo ad un amico, diceva che, se da giovane   aonr enVa rf matUra era andato sempre più   apprezzando Cicerone. Ld è proprio giusto il noto giu-   d. Z .o di Quintiliano : “ Ille se profecisse sciat, (e s. può  aggiungere: tanto gusto letterario, quanto in retti Jne  etico-politica) cui Cicero valde placebit „ (X, 112).   G. Sensi . y ita paratiti « di due fila.ofi        66    idea che in quel terribile cataclisma poteva dar  buoni frutti. Non è sua colpa se 1 idea non riuscì,  e proprio sopratulto per la perfidia senza scrupoli  del futuro Augusto. Per quanto avveduto e gran¬  demente intelligente, un uomo di Stato fondamen¬  talmente onesto come Cicerone, non fa entrare  nel suo giuoco la supposizione di una perfidia  enorme, di gran lunga travalicante la media ne¬  quizia umana, come fu quella di Augusto; nè si  può accusarlo di incapacità se non ve la fa entrare,  e se essa gli si rizza impensatamente dinanzi man¬  dando a picco i suoi piani più accortamente e  sapientemente elaborati (1). Fra il 4 1 e il 40 a. C.,  cioè all’età di circa sessantaqualtro anni, Cicerone  assume risolutamente, nel momento più pieno di  vicissitudini e pericoli, la parte di leader del Se¬  nato e del popolo romano, come egli stesso scrive  a Cornificio, “ me principem Senatui populoque  romano professus sum (Ad Dio. Xll, 24 2) ;  spiega un’attività prodigiosa, tanto verso gli eserciti  quanto rispetto alla situazione interna, per dirigere   (I) Giustamente Platone osserva (Rep. 409 A-D) che  le persone oneste sono facili ad essere ingannate dai  malvagi perchè non hanno in sé il modulo dei sentimenti  di costoro (fire oòv. s'/ovre? èv éaotoT; ^ 7 iapaos'y|J.axa  óp. 0 i 07 ia{H) tot; nove^oi?) ; mentre però il malvagio, a-  bilissimo nel suo comportamento coi malvagi, resta ingan¬  nato quando tratta coi buoni, perchè, giudicando da se,  e ignorando le indoli onesti, vede dappertutto inganni  (àruaT&v Tiapà xaipòv xaì àYVOtòv uytè; fjU'o;).    67    la lotta contro Antonio ; getta di nuovo, attesta  scrivendo ancora a Cornificio, 1 fondamenti dello  Stato con la prima Filippica: “ fundamenta ieci  reipublicae „ (Ad D/v. XII, XXV, 1); e al gio¬  condo Peto conferma quanto abbia fatto, quanto  faccia e come ritenga che se dovesse in tale sua  azione perdere la vita l’avrebbe spesa bene ; “ sic  tibi, mi Peto, persuade, me dies et noctes mini  aliud agere, nihil curare, nisi ut mei cives salvi  liberique sint : nullum locum praetermitto mo-  nendi, agendi, providendi : hoc demque animo  sum, ut si in hac cura atque admistratione vita  mihi ponenda sit, praeclare actum mecum putem „  (Ad T)iv. IX, XXIV, 3). “ In questi primi mesi  del 43, Cicerone fu veramente il princeps, ch’egli  aveva idealizzato nel De republica : consigliere,  esortatore, ispiratore del Senato, dei consoli, dei  governatori delle provincie „ (1). Non è questa  la condotta d un uomo le cui facoltà spirituali siano  illanguidite.   Ma, sopratutto, a prova della sua esatta com¬  prensione dei tempi, basta ricordare come la ri¬  forma che occorreva allo Stato romano, pessima¬  mente attuata, secondo attestò la susseguente vita    (1) F, Amateli, Cicerone, (Bari, Laterza I929‘ p. 187).   Jamais Ciceron n a joue. un plus grande róle politique  qu à ce moment ; jamais il n’a mieux mérité ce nom d’hom-  me d Etat que ces ennemis lui refusent „ (Boissier, Cr-  céron et ses amis, p. 79          68    dell’Impero, da Cesare e da Augusto, fosse stata  prospettata per primo da Cicerone nel De Re¬  pubblica. L’introduzione, cioè, d’un nuovo e più  fermo principio d’autorità sotto forma di un rector  rerumpublicarum d’un “ moderator reipublicae  d’un “ princeps civitatis » (De Ti,ep. V, 3, 4, 6).  Senonchè Cicerone, con molto maggior senso della  necessaria continuità di sviluppo dello Stato romano  e con molta maggior disinteressata cura di esso,  non intendeva che questa riforma dovesse rivol¬  gersi a distruzione della costituzione esistente, bensì  che dovesse ingranarsi in essa e formarne un na¬  turale complemento e uno svolgimento spontaneo  e logico ; “ homines non tarai commutandarum  quam evertandarum rerum cupidos „ , egli giudica  i cesariani .(De Off. 11 c. 1), mentre per lui la  costituzione romana, come esattamente nota lo  Zielinski, era “ capace di ogni progresso in quanto  questo conducesse all’accettazione e allo sviluppo  di idee feconde (fordeTnder), non di idee distrut¬  tive» (1). La differenza tra il modo con cui egli  concepiva la riforma e il modo con cui la attua¬  rono Cesare ed Augusto è si può dire scolpito  dalle seguenti sue due proposizioni : “ me nun-  quam voluisse plus quemquam posse quam uni-  versam rempublicam „ (jdd Div • VII, 3); “ ego  sum, qui nullius vim plus valere volui, quam ho-  nestum otium „ (ib. V, 21). Ovvero: la diffe-    (1) O. c.. P . 4        69    renza tra la concezione ciceroniana del princeps  e la pratica applicazione fattane da Cesare è resa  nel bell’ emistichio con cui Lucano (1, 150) de¬  scrive il modo di operare di quest’ultimo : « gau-  dens viam fecisse ruina „ ( 1 ).   Basta riflettere a tutto ciò per scorgere tosto  che non solo la mente di Cicerone era nel suo  pieno vigore, ma altresì la sua comprensione dei  tempi (se per questa s’intende, non già furbesca  valutazione personalmente opportunistica delle cir¬  costanze, ma avvertimento delle necessità profonde  che ad un dato momento si presentano nella vita  sociale e politica d’un paese) era perfetta.   (1) Il * ‘ sovversivismo „ di Cesare è provato dal dolore  che per la sua morte manifestarono sopratutto gli Ebrei  (“ qui etiam noctibus continuis bustum frequentabant„ —  Svet, Caes. 84), cioè precisamente coloro che nel seno  nello Stato romano, da essi violentemente odiato, costitui¬  vano la catapulta diretta a farlo saltare, e che, sotto la  veste del Cristianesimo, a farlo saltare effettivamente riusci¬  rono. Si può anzi con sicurezza dire che l’impero romano si  deve agli ebrei, perchè furono i loro lunghi tetri lamenti  intorno al cadavere di Cesare che suscitarono nella ple¬  baglia quella sommossa per e attorno al rogo del ditta¬  tore, la quale fece prender nuova forza al cesarismo. “ É  noto come per la commozione popolare che lo straziante  rito ebreo provocò colle sue lugubri lamentazioni orientali,  se ne ingenerò quel tumulto che doveva mutare la faccia  de! mondo, mandando in fumo i diplomatici accordi con  Bruto e Cassio, che dovettero fuggire in Illirio : sicché ne  vennero le lunghe guerre civili e l’Imperio di Augusto „  (Ottolenghi, Voci JOriente, Lugano, 1913. voi. I, p. 21 I ).            70    *   * *   Mente possente, senso politico sicuro, compren¬  sione dei tempi piena. Non si può dunque attri¬  buire a deficienze intellettuali il modo con cui  Cicerone valutò Cesare e il movimento da costui  capeggiato. Egli non vide certamente Cesare come  la sua figura si è plasmata nella storia, che corona  con eternità d’ apoteosi tutto ciò che ha trovato  in ogni presente la consacrazione del bruto suc¬  cesso di (atto. Lo vide come glielo presentava la  realtà immediata. Lo vide come lo vide Catullo   (LV11) :   Pulcre convenit improbis cinaedis,   Mainurrae pathicoque Caesarique ;...   E questo Caesar era proprio Caio Giulio Cesare  e quel Mamurra (da Catullo soprannominato Men-  tula) il suo generale del genio. A permettere al  quale di “ mangiare „ (il verbo si usava anche in  latino con questo preciso significato) milioni su  milioni, il commovimento politico aveva principal¬  mente servito. Doveva essere una cosa nota a  tutti, se Catullo la mette correntemente in versi   (XXIX) :   Cinaede Romule, haec videbis et feres ?   Es inipudicus et vorax et aleo.   Eone nomine, imperator unice,   Fuisti in ultima occidentis insula.   Ut ista vostra diffutata Mentula  Ducenties comesset aut trecenties ?        71    “ Cinaede Romule Romolo debosciato, impu¬  dico, vorace e giuocatore : cosi Catullo vede Ce¬  sare. E press’a poco così lo vede Cicerone.   Egli non scorge Cesare, quale il fanatismo in¬  teressato dei seguaci e poi gli storici l’hanno co¬  struito: gli storici, i quali (in generale) non fanno  mai altro se non aggiungere, per supino servilismo  postumo, la loro adulatrice consacrazione al suc¬  cesso di fatto e di solito non osano mai, per la  paura di passar per “singolari,,, sviscerare il  clamoroso successo di fatto ottenuto da un “ grande „  nella età in cui visse, mettendone coraggiosamente  in luce le vere molle, spessissimo casuali, o basse,  o vili, ma sempre invece per essi è “ grande „  colui che nella sua epoca le circostanze, o la  perfidia, o i misfatti hanno portato in alto (I).   (1) “Si vous avez une vue nouvelle, une idée origi¬  nale, si vous présentez !es hommes et les choses sous  un aspect inattendu, vous surprenez le lecteur. Et le le-  cteur n’aime pas à ótre surpris. Il ne cherche jamais  dans une histoire que les sottises qu’ il sait dejà. Si  vous essayez de l’instruire, vous ne ferez que l’humilier  et le fàcher. Ne tentez pas de l’éclairer, il criera que  vous insultez à ses croyances... Un historien originai est  1 objet de la défiance, du mépris et du dégoùt universels».  Questo è l’abituale comportarsi degli storici, secondo la  satira, aggiustatissima, che ne schizza A. France (L’ ile  des Pingouins, préf., p. IV-V). Ci sarebbe solo da ag¬  giungere che spesso il servilismo degli storici verso i per¬  sonaggi della storia che scrivono serve al loro servilismo  verso i personaggi della storia che vivono.          72    Cicerone vede Cesare muoversi davanti ai suoi occhi,  nella vita vera, non nella luce abbagliante del  mito ( 1 ). Esso gli appare screditato, corrotto, senza  senso di morale nè privata nè pubblica, uomo la  cui vita, i cui costumi danno la certezza che si  condurrà male : e sopratutto la danno la gente che  lo circonda. “ O Dii, qui comitatus ! in qua erat  area scelerum! scrive ad Attico (IX, 18), dopo  uno dei suoi abboccamenti con lui. Egli sa che  Cesare aveva cominciato a costruirsi la sua potenza  accaparrandosi e tenendo alle proprie dipendenze  i manigoldi audaci e bisognosi (2). Egli scorge   ( I ) Nell' interessantissima antologia di pagine storiche  di Chateaubriand, testé pubblicata dall’editore Tallandier  sotto il titolo Scénes et portrails historiques, si legge  (p. 269 ) : “ Tout personnage qui doit vivre ne va point  aux générations futures tei qu’ il était en réalité : a quelque  distance de lui, son epopèe commence : on idéalise ce  personnage, on le transfigure ; on lui attribue une puissance,  des vices et des vertus qu’ il n’eut jamais ; on arrange les  hasards de sa vie, on les violente, on les coordonne à  un système, Les biographes répètent ces mensonges ; les  peintres fixent sur la toile ces inventions et la posterité adopte  le fantóme. Bien fou qui croit à l’histoire. L’histoire est une  pure tromperie „. E Montesquieu, dal canto suo aveva già  osservato : “ Les places que la posterité donne sont sujettes,  corame les autres, aux caprices de la fortune „ ( Grandeur  et décadence des Romains, Ch. 1 !   (2) “ Habebat hoc omnino Caesar : quem piane per-  ditum aere alieno egentemque, si eumdem nequam homi¬  nem audacemque cognorat, hunc in familiaritatem liben-  tissime recipiebat „ (Fi/. Il, C. XXXII § 78).        73    radunata attorno a Cesare tutta la gente equivoca  e sospetta, violenta e disperata, tutte le anime dan¬  nate, vexu (<x (Ad Att. IX. 18), “ omnes damnatos,  omnes ignominia affectos, omnes damnatione igno-  miniaque dignos, omnem fere inventutem, omnem  illam urbanam et perditam plebem „ (Ad Att. VII,  3,), tutti i giovani circa i quali pensava che “ma¬  ximas republicas ab adolescentibus labefactas,, (De  Seti. VI), tutti coloro ch’egli chiamava « perdita  iuventus » (Ad Att. VII, 7) e poc’anzi « barba¬  tuli iuvenes, grex Catilinae » (ib. I, 14), «feccia  di Romolo » (ib. II, I), i precursori di quella che  poi Giovenale denominerà «turba Remi» (X, I, 3);  cosicché, egli scrive ad Attico, intorno a Cesare  è raggruppato tutto il canagliume della penisola,  « cave autem putes quemquam hominem in Italia  turpem esse, qui hinc absit » (IX, 19); osserva¬  zione identica a quella che è costretto a fare il  cesariano Sallustio: “ occupandae reipublicae in  spem adducti homines, quibus omnia probo ac luxu-  ria polluta erant, concorrere in castra tua,, (De Rep.  Ord. II, 2). Come Catullo, Cicerone vede con  disgusto i cesariani ormai dominatori darsi al lusso  ed al fasto, giuochi, cene, delizie, mentre Balbo  (altro comandante del genio di Cesare e sua longa  manus in Roma) si costruisce dei palazzi, “quae  coenae? quae deliciae?... at Balbus aedificat „ “(Ad  Att XII, 2) (1), e Antonio scorrazza l’Italia con¬  fi) Val la pena di riportare tutto il passo perchè esso          74    ducendosi dietro in una lettiga aperta la sua amante  in un’altra sua moglie, “ septem praeterea coniun-  ctae lecticae amicarum sunt an amicorum ? „ l^/JJ  Att. X, IO) (I). Tutto ciò desta in Cicerone  una nausea invincibile: “ nosti enim non modo sto¬  machi mei, sed etiam oculorum, in hominum inso-    contiene un’osservazione di indole psicologica e morale  eternamente vera e colta da Cicerone dalla vita stessa  che lo circondava : “ At Balbus aedificat ; tl yàp «ÒTfij  péÀst ; Verum si quaeris, homini non recta sed vulupta-  ria quaerenti nonne [kfifwTai ? „ Cioè: “ Balbo pensa a  costruirsi palazzi. Che importa a lui di tutto ciò ? E in  verità, se a un uomo non sta a cuore la dignità e la co¬  scienza, ma solo il suo interesse, fa bene a far così : può  dire ho vissuto   (1) La ributtante figura d’Antonio risalta scolpita non  solo nelle lettere di Cicerone, ma, più ancora nelle Filip¬  piche (v. specialmente FU. He. 18 e s.). Pagine che  stanno a dimostrare una volta di più come, in una situa¬  zione politica tirannica ed eslege, anche persone notoriamente  turpi possano salire ai più alti gradi, perchè il controllo  dell opinione pubblica e la possibilità di censure sono sop¬  presse dalla forza e la gente costretta al silenzio. — Non  ostante, in un primo tempo Cicerone, usando l’avveduta  prudenza dell’uomo politico, aveva cercato di persuadere  quasi amichevolmente Antonio a rimanere nell'orbita della  legge. Ciò con la Fil. I, di cui è il caso di citare le se¬  guenti righe : “ Sin consuetudinem meam, quam in repu-  blicam semper habui, tenuero, id est, si libere, quae sen-  tiam, de republica dixero; primum deprecor ne irascatur,  deinde, si haec non impetro, peto ut sic irascatur, ut civi „   (c. XI).       75    lentium indignitate, fastidium™ (Ad T)iv. II, 16) ( 1 ).  Quanto a Cesare, egli è per Cicerone “ hominem  amentem et miserum che non ha mai conosciuta  neppur l’ombra dell'onestà, che considera la tiran¬  nide come il maggior dono degli Dei, (Ad Alt. VII,  1 1 ), capace di ogni scelleraggine, “ omnia taeter-  rime facturum „ ( ib . VII. 12), uomo del quale  “ vita, mores, ante facta, ratio suscepti negotii, so¬  di „ fanno ritenere che non potrà comportarsi se  non “perdite,, (ib. IX 2 A, alias 2, § 2 e s.) La sua  condotta sarà anche resa peggiore di quel che per  l’indole di lui sarebbe, dal fatto che il vincitore nella  guerra civile deve pur contro sua volontà operare ad  arbitrio di coloro che l’hanno aiutato a vincere.  “ Omnia (scrive a Marcello) sunt misera in bellis  civilibus ; sed miserius nihil, quam ipsa victoria :  quae etiamsi ad meliores venit, tamen eos fero-    (1) La stessa ripulsione, e per la stessa ragione, Filip¬  po destava in Demostene. È circondato (egli dice) da  ladri, da adulatori, da gente che si abbandona a immo¬  ralità che non oso neanche ripetere (01. 11, 19). E De¬  mostene si illudeva che anche perciò Filippo sarebbe ca¬  duto. Geloso e ambizioso com' è (egli dice) allontana gli  uomini di valore, che gli danno ombra ; gli uomini assen¬  nati e morigerati, che sono rivoltati dalle sue immoralità  (àxpaafav xoO pioti -/.al xal xopSaxia|jioOs)   sono da lui cacciati e ridotti a nulla, TrapEwaHa'. xal sv  Ò'jSevò; s!va'. |ispei (ib. 18). Ma pur troppo i fatti  hanno sempre provato che è vana speranza contare che que¬  ste ragioni facciano cadere un uomo dal potere. L’esigenza  morale non trova sanzione nella storia e nella politica.            76    ciores impotentioresque (più sfrenati) reddit ; ut  etiamsi natura tales non sint, necessitate esse co-  gantur ; multa enim victori eorum arbitrio per quos  vicit, etiam invito, facienda sunt„ (Ad Div. IV, 9).  E su questo stesso pensiero insiste anche con Cor-  nificio (Ad ©iv. Xil, 18) : “ Bellorum enim ci-  vilium hi semper exitus sunt, ut non ea soium fiant,  quae velit victor, sed etiam, ut iis mos gerendus  sit, quibus adiutoribus sit parta victoria „ ( 1 ).   *   * *   La situazione scaturita dalla vittoria di Cesare  appare a Cicerone un mostruoso sfacelo dell’eticità  pubblica. “ Tutto allora in Roma precipitava a  rovina, religione, costumi, esercito, cittadinanza, po¬  polo, senato, magistrati, privati ; e in quel rovescio  d’ogni cosa umana e divina, poneva i fondamenti  sanguinari la tirannia degli imperatori „ (2). Cice¬  rone vede come non appena Cesare, annientati i  suoi avversari, e rimasto solo sulla scena politica,  ha messo violentemente le mani sullo Stato, e in   ( I ) Il modo genuinamente italiano di considerare Cesare  è quello che un veramente grande italiano, il Carducci,  ci presenta nei due sonetti II Cesarismo , che cominciano  con le parole, estremamente significanti e pregnanti,  Giove ha Cesare in cura. Ei dal delitto  Svolge il diritto, e dal misfatto il fatto.   Entrambi i sonetti mentano di essere attentemente letti,  con la nota al v. 14 del secondo, che li accompagna.   (2) Barzellotti, Delle Dottrine Filosofiche nei libri  di Cicerone.         77    seguito a ciò “ omnia delata ad unum sunt „ (jdd  Div. IV, 9) al punto che Cesare redige in casa  sua, a suo libito, quelli che devono apparire come  senatusconsulta (Ad Div. IX, 1 5), si formi un’at¬  mosfera di falsità, di servilismo, di adulazione uni¬  versale, tanto da parte di privati quanto di enti  pubblici, cosicché non si distingue più il sentimento  sincero dalla simulazione, “ signa perturbantur,  quibus voluntas a simulatione distingui posset «  (Ad Att. Vili, 9); (1) quell’adulazione e quel  servilismo, che, diventati poi a poco a poco ora¬  mai di rito, Lucano, più tardi sotto Nerone, sti¬  gmatizza con magnifici versi, facendone risalire  1' inizio appunto al dominio di Cesare :   - V   (1) “ Cette abjection de la patrie releva I’ àme de  Cicéron par l’indignation et par la honte. La victoire de  Cesar, au lieu de l’en rapprocher, l’en éloigna. Le succès,  qui est la raison du vulgaire, est le scandale des grandes  àmes (Lamartine, Cicéron, Calmati - Levy, 1874,  pag. 167). E’ un libro, poco conosciuto, in cui Lamartine,  in forma simpaticamente piana e scevra da ogni erudizione,  presenta, nella sua nobile luce, e con accenti assai elevati,  la figura di Cicerone. Ne vogliamo, a conferma di prece¬  denti osservazioni, estrarre ancora due passi. “ Les ambi-  tieux, les factieux, les séditieux, les corrupteurs et les cor-  rompus, la jeunesse, la populace et la soldatesque, les  barbares mèmes enrólés dans les Gaules, étaient avec  Cesar „ (p. 186). “ Coriolan... n’avait rien fait de plus  monstrueux... et cependant l’histoire a flétri Coriolan et a  déifié Cesar. Voilà la justice des hommes irréfléchis, qui  prennent le succès pour juge de la moralité des événe-  ments „ (154).        78    Namque omnes voces, per quas iam tempore tanto  Mentimur dominis, haec primum repperit aetas.   Qua, sibi ne ferri ius ullum, Caesar, abesset,   Ausonias voluit gladiis miscere secures,   Addidit et fasces aquilis et nomen inane  Imperii rapiens signavit tempore digna  Maestà nota (I).   Cicerone vede come, appena risultò che Cesare  era saldamente stabilito al potere, non solo i “sovver¬  sivi ma anche gli “ ottimati le vecchie figure   (1) V. 386, —Si avverte che la parola “ imperium „  qui non significa il nostro “ impero „ ma “ officio pub¬  blico legale Lucano vuol dire che Cesare copri l’usur¬  pazione, assumendo falsamente il semplice nome d’un officio  pubblico legale. Come è noto, è sopratutto col nome di  potestà tribunicia che ( usurpazione si effettuò. Nel libro,  ricco di dottrina e di acume, di G. Niccolint, Il Tribu¬  nato della Plebe (Hoepli, 1932) si mostra che 1’ impero  si costitui deformando e nell’ istesso tempo assorbendo la  potestà tribunicia. « L'impero non era, in ultima analisi,  che il trionfo della democrazia [più esatto sarebbe dire :  demagogia], e se chi aveva fondato il suo potere sul partito  democratico, non poteva abolire la pericolosa magistratura,  non gli restava che appropiarsela nella sua sostanza, se  non nella forma esteriore... Cosi la temuta magistratura,  nata per difendere la libertà del popolo, che conteneva  perciò elementi di sovranità atti a svilupparsi in tirannide...  costituiva ora l’essenza del potere civile del monarca »  (pag. 1 59). — 11 contegno adulatorio e vilmente opportu¬  nistico comincia con gli uomini il cui prototipo è Attico.  “ C’est assurément ce qui nous répugne le plus dans sa  vie ; il a mis un empressement fàcheux à s’accomoder au  regime nouveau „ (Boissier, Cicéron et ses amis, pag. 165).       politiche, abili a restar sempre a galla, “ huic se  dent, se daturi sint „, sia pure perchè terrorizzati,  sebbene essi ora dicano che lo erano quando os¬  sequiavano Pompeo (Ad Alt IX. 5); come essi  se^ venditant „ a lui, mentre i'municipi fanno di  lm vero Deum „ (ib. Vili, 16), e il grosso del  pubblico sta inerte, passivo, indifferente, non pensa  che alla propria tranquillità (“ otium „), non rifiuta,  come non ha mai rifiutato, nemmeno la tirannide  dummodo otiosi essent „ (ib. VII, 7), non si  occupa che dei campi, delle ville, dei quattrini,  nihil prorsus aliud curant nisi agros, nisi villulas,  msi nummolos suos „ (ib. Vili, 13) ; atonia che  si aggravo ancora più tardi quando diventava po^  tenie Antonio : “ mihi stomachi et molestiae est  populum romanum manus suas non in defendenda   YA/I own , " plaudendo consumere (Ad Att.  AV| . lU- Ma questa prosternazione e adula-   (I) Anche qui si riscontra un parallelo nella potente  e \ ibrante invettiva di Demostene per l’inerzia dei Greci  del suo tempo. Non e senza ragione (egli dice) che i  Greci una volta avevano a cuore la libertà e ora invece  hanno a cuore la servitù. Gli è che allora (prosegue) vi   iTera^ C ° Sa 'vi ^ ^ Persian ° e fece la Grecia   def rarH mVlnC |! bl 6 “ T* ® “ mare : ed era la fermezza  (Filla 36 C 37ìT 81 asciavano corrompere e comprare   uiterr di bene ** Gr “   j .' , , 1 era un tempo non avere   fil ventre el’ ^ “7 qUa 'Ì la misura della felicità  e il ventre e 1 inguine (xig yaatpl jisxpoOvtsc xaì iole   V ' l0X ° tS Tr ' v £tJ °aqtovtav) l a libertà fu bevuta alla        80    zione universale, questo continuo panegirismo or¬  mai diventato di prammatica, non è, per Cicerone,  se non un’universale falsificazione di coscienza,  quella stessa per cui più tardi egli osservava che  i cittadini gementi sotto l’oppressione avevano dato  a Cesare colpevole dell’ orrendo parricidio della  patria il titolo di parens patriae : “ potest cuiquam  esse utile faedissimum et taeterrimum parricidium  patriae, quamvis ìs, qui se eo abstnnxerit, ab op¬  pressi civibus parens nominaretur ? ,, {De Ojf.  Ili, 83) (1). Questa situazione che fa fremere d’or¬  rore Cicerone (2), nella quale egli trova che non c e   salute di Filippo e di Alessandro. E, data questa vostra  viltà e servilità, (dice altrove) è mutile che speriate nella  malattia o nella morte di Filippo : anche se muore, vi  creerete tosto voi stessi un altro Filippo, "ay^Éu; upet;  gxepov OIXiotvov Tìsir/ae-re (Fil. IV, 11).   (1) In questo stesso luogo, volendo Cicerone dimostrare  che l'utile e il giusto non possono distinguersi, scrive fra  l'altro : « Hanc cupiditatem [quella di Cesare di voler  dominare tirannicamente la patria] si honestam quis esse  dicit, amens est ; probat enim legum et libertatem mteritum,  earumque oppressionem taetram et detestabilem glonosam  putat ». Come, aggiunge, può essere ciò utile all usurpatore?  Anche i re legittimi hanno avversari ; « quanto plures ei  regi putas, qui exercitu popuh romani populum ipsum  romanum oppressisset ? ».   (2) Ricco com’era d’un pathos etico affine a quello di  Kant, si intuisce chiaramente dalle sue lettere e dai suoi  scritti che egli sentiva profondamente, come il filosofo  tedesco, che il “ dovere relativo alla dignità dell umanità  in noi, e che è per conseguenza un dovere verso noi         piu posto“ non modo pudori, probitati, virtuti, rec-  tis studiis, bonis artibus, sed omnino Iibertati ac   Dh - V. 16), gli appare sopraia!,„  basata sulla menzogna e sul falso, perchè sotto  1 adesione, 1 adulazione, l’apoteosi che l’atmosfera  ufficiale orma, impone, circola larghissimamente  quel malcontento e quell’esecrazione generale verso  ì distruttori dello Stato legale, che egli constatava  già precedentemente quando essi avevano iniziata  tale loro opera di demolizione (“ sumiTITJm odium  omnium hominum in eos qui tenent omnia ; mu-  tationis tamen spes nulla Ad Alt. Il, 22). Que¬  sta esecrazione generale, sotto le parvenze dell’os¬  sequio più profondo, s’è ora concentrata in Cesare,  il quale, dopo poco tempo di dominio, ormai in  realta persino “ egenti ac perditae multiludini in  odium acerbissimum venerit „ ( ib . X, 8). Invero,  Cesare stesso sapeva d’essere odiato e di dover  esserlo, sopratutto per la posizione di superiorità  e distanza, così urtante al senso cittadinesco ro¬  mano, che egli aveva finito per prendere : dopo  la sua uccisione, Mazio racconta a Cicerone che    stess., può esprimersi in modo più o meno chiaro nei  seguent, precetti: non siate schiavi degli uomini: non  permettete che , vostri diritti siano impunemente calpe¬  stati „ (Dottr. della Virtù § 12). Che è, del resto, il  precetto evangelico : \ii) r £veafre SotW.c- àv&pdmwv (1,   SU V1 ’ 2 ' 3 1 t V Xeu ^ e P t( É Xptaxòs   UylCWXw!]) ^ ” 4Xlv tu r»   G. Reati . Vita parallele di due filosofi    6     82    avendo dovuto una volta Cesare far fare antica¬  mera a quest ultimo, aveva detto : se un uomo  come Cicerone deve attendere per essere introdotto  da me e non può a piacer suo parlarmi, “ ego  dubitem quin summo in odio sim „ ? (Ad Att.  XIV, 1 e 2) (I).   (1) A proposito dell’uccisione di Cesare. Vi sono molti  i quali pensano che perchè Bruto era stato « perdonato »  da Cesare e poi anzi « beneficato », egli dirigendo « il  tradimento e l’uccisione del suo benefattore », abbia dato  « perfido esempio di cuore ingrato e irreverente » (A.  Corradi). Questa opinione è la tipica prova della completa  mancanza d’ogni senso di ciò che è diritto. Proprio il fatto  che Cesare gli aveva * perdonato », doveva essere per  Bruto una giusta ed onesta ragione di più per abbonirlo.  Bruto aveva preso le armi contro Cesare in difesa dello  Stato legale : dunque conforme al diritto. Decidere sul suo  caso, condannarlo od assolverlo, spettava alle autorità legali  (Senato), non a un individuo. Il solo fatto che non già le  leggi o le autorità legalmente costituite, ma l’individuo  Cesare, potesse a suo beneplacito interrompere o far  proseguire i processi, ordinare condanne o assoluzione,  assolvere Bruto, « perdonare » a Bruto (quasiché condannare  od assolvere, e, peggio, « perdonare », supposto si trattasse  di delitto, fosse di competenza d’un individuo, e quasiché  questo stesso fatto non comprovasse lo sfasciamento dello  stato legale compiuto da Cesare) era una ragione di più  per avversare e condannare legittimamente l’uomo e il  sistema, e per ricorrere ad ogni mezzo onde liberarsene.  — Che, per citare un altro fatto, onde far ritornane Marcello  dall esilio ì senatori abbiano dovuto pregare un individuo,  gettarsi ai piedi d un individuo, dell' individuo Cesare, è  un fatto che doveva legittimamente suonar condanna per        83    Era, insomma, la situazione che un filologo ita¬  liano contemporaneo descriveva di recente crn  tutta esattezza così : “ La crescente potenza di  Cesare, il quale, dopo la funesta giornata di Far-  salo, erigendosi a signore assoluto, e sopprimendo  la libertà della vita politica di Roma, aveva, per  primo, inaugurato la lunga e mostruosa serie degli    questo individuo, che si sovrapponeva in tal guisa alle  leggi : condanna, anche quando « perdonava », perchè  precisamente così dimostrava che dipendeva, non più dalle  leggi assolvere o condannare, ma da lui perdonare o no.  — Piena ragione ha Seneca quando in un capitoletto pieno  di considerazioni interessanti circa l’atto di Bruto, dice che  egli non aveva ragione di gratitudine verso Cesare, perchè  questi non aveva acquistato il diritto di fare il bene se  non violando il diritto e perchè chi non uccide non arreca  un beneficio, ma si astiene da un maleficio : « in ius dandi  beneficii iniuria venerai; non enim servavit is, qui non  interficit, nec, beneficiun dedit, sed missionem » (De Benef.  Il, 20). Del pari piena ragione ha Cicerone, il quale, ad  Antonio, che gli rinfacciava come un benefizio usatogli di  non averlo ucciso al suo sbarco a Brindisi, rispondeva :  questo è lo stesso beneficio di cui potrebbe vantarsi un  assassino per non aver ucciso taluno : « quod est aliud  beneficium latronum, nisi ut commemorare possint iis se  dedisse vitam, quibus non ademerint ? » (Fil. II, C. 111).  E si noti ancora che Seneca e Lucano, vivendo entrambi  alla corte di Nerone, il quale, pure, era della casa Giulia,  poterono il primo dare a Bruto la massima delle lodi  facendo dire da Marcello a sè stesso : “ tu vive Bruto  miratore contentus „ (Ad Helviam IX, 8), il secondo  dipingere nel suo poema con smaglianti colori di gran¬  dezza morale “ magnanimi pectora Bruti „ (11, 234 e s.).         84    imperatori romani ; la viltà degli adulatori, che  disertavano il partito dei vinti per quello più van-  taggioso dei vincitori ; le mene degli ambiziosi,  che, r er trar partito dalle circostanze ad accu¬  mular potenza e ricchezze, pullulavano su su dal  fondo di quella corrotta società, come marcida  fungaia dal fondo d’un’ acqua stagnante ; le cru¬  deltà dei prepotenti, che volevano, anche a mezzo  di violenze e di sangue, aprirsi un varco nella  folla dei concorrenti a quella specie d’albero della  cuccagna ch’erano le usurpazioni dei poteri dello  Stato con le loro mille seduzioni e promesse di  dominio e di saccheggio dei beni pubblici e pri¬  vati ; il vivo cordoglio e l’abbandono sconsolato  in cui vivevano, nell’esilio volontario o non volon¬  tario, le anime dei virtuosi e degli onesti, fautori  del partito repubblicano ; tutto insomma contribuiva  a mostrare l’immagine dell’irreparabile catastrofe...  Anziché assopirsi, cresce a dismisura nelle classi  non mai dome nel loro caratteristico orgoglio, il  malcontento per il nuovo regime... La miseria in¬  tanto cresce spaventosamente in Roma e nella  provincia ; lo spettro della fame s’aggira nelle  campagne desolate e incolte dell’ Italia ; le classi  medie e il popolino sono ridotti alla miseria ed  alla disperazione... Torme di miserabili si vedono  per ogni dove languire d’ozio e di fame „ (I)   (1) U. Moricca, Introd. a Cicer. De Finibus, Torino,  Chiantore, 1932. p. XXVIII, XXXI.       85    Ora, tanto appare a Cicerone falsa e menzognera  la situazione che egli è certo che non può durare.  La maschera di clemenza di Cesare e le sue bugie  circa la restaurazione finanziaria (“ divitiarum in  aerario „) sono cadute; è impossibile che egli e  i suoi, non d’altro capaci che di scialacquare, rie¬  scano ad amministrare soddisfacentemente le pro-  vincie e lo Stato ; cadranno da sè, per gli errori  propri, “ per se, etiam languentibus nobis ,,, “ aut  per adversarios aut ipse per se, qui quidem sibi  est adversarius unus acerrimus „ ; questa tirannide  non può reggere sei mesi, “ iam intelliges id re¬  gnimi vix semenstre esse posse „ (ib. X, 8) ( I ).   ( 1 ) Probabilmente, ciò di cui Cicerone avrebbe sopra¬  tutto incolpati i cesariani è che essi cadevano in quel¬  l’errore che il Romagnosi descrive così : “ La temerità e  l’intolleranza sono i vizi che sogliono guastare questo pro¬  cedimento [inventivo dell’ incivilimento). Si pecca di teme¬  rità allorché si tentano innovazioni o rifiutate dalla natura  o non preparate sia nei fondamenti, sia dal tempo. Si  pecca d’intolleranza allorché si vuole seminare e racco¬  gliere ad un sol tratto, e però si passa ad infierire con¬  tro attriti che da se stessi vanno cessando in forza della  riforma fondamentale già praticata. Siate severi nel man¬  tenere la giustizia, e nel rimanente lasciate operare il  tempo sul fondo ben disposto. 1 vostri stimoli artificiali,  le vostre correzioni minute, invece di giovare nuociono,  invece di affrettare ritardano; e se per caso avrete un  frutto precoce, ne avrete mille falliti » {Dell’ Indole e dei  Fattori dell’ Incivilimento, Avvertimento finale). Auree pa¬  role d’uno dei nostri massimi pensatori politici, che an¬  drebbero anche oggi meditate e tenute presenti. Alle         86    Tale previsione di Cicerone andò incontro ad  nna smentita colossale. Quella “ divinatio „ del¬  l’andamento degli eventi che egli, ricavatala dallo  studio e dalla pratica, aveva la coscienza di pos¬  sedere ( 1 ), qui gli fallì del tutto. E' vero che Cesare    quali vanno accostate, sempre ad illustrazione del senti¬  mento politico, che, in quelle perturbate circostanze, si  sprigionava vivo in Cicerone, le seguenti: “ guai a quel  popolo, nel quale, spento il punto d’onore, non preval¬  gono che poteri individuali! „ (/„,/. di Ciò. FU Giurispr.   T e ° r \. P \ 1,1 C - 1V ): nonché la sua affermazione  dei diritti dell uomo, da lui chiamati “ originaria padro¬  nanza naturale di ogni individuo “ Quelli che vennero  appellati diritti dell'uomo formano appunto il complesso  di questa originaria padronanza. L’indipendenza, la libertà  1 eguale inviolabilità e il diritto di difesa e di farsi render  ragione, sono tutte condizioni di questa originaria padro¬  nanza „ (Lett. a G. Valeri , IV).   (I) « Cu, quidem divinationi hoc plus confidimus, quod  ea nos mhil in his tam obscuris rebus tamque perturbatis  umquam omnmo fefellit. Dicerem, quae ante futura dixissem,  ni vererer ne ex eventis fìngere viderer » (Ad Dio. VI,  o). « Exitus, quem ego tam video animo, quam ea quae  ocuiis cemimus » (Ad Dio. VI, 3). « Tamquam ex aliqua  specula prospexi tempestatem futuram „ (Ib. IV, 3). Questa  sicura previsione degli eventi, questo sicuro presentimento,  Cicerone lo possedeva in effetto. Anche nella circostanza  suaccennata egli prevedeva giusto, preveveva cioè quello  che tutto faceva ritenere dover accadere. Se i fatti si svolsero  in senso del tutto opposto alla sua previsione, si può, in  un certo senso, dire che ebbero torto i fatti, non Cicerone ;  cioè che la realtà è irrazionale e casuale, e che mai vi  tu un periodo di storia che sia stato come quello irrazionale  e casuale.    87    fu ucciso poco dopo e probabilmente lo fu quando  e perchè divenne chiara a tutti I’ impossibilità in  cui egli era di dominare la situazione, di riordi¬  nare cioè seriamente lo Stato e di soddisfare in¬  sieme le brame dei suoi seguaci (1), cosicché  Mazio — uno dei pochi cesariani onesti, che, come  risulta da una sua nobilissima lettera (Ad T)iv.  XI, 28), non aveva sfruttato Cesare vivo, e che  gli rimase fedele anche morto, e anche durante  quel momento in cui, subito dopo l’uccisione del  dittatore, il cesarismo sembrava crollato e i cesa¬  riani in pericolo — diceva, deplorandone la morte:   che catastrofe ! non c’è più rimedio ; se lui,  con 1’ ingegno che aveva, non trovava la via d’u¬  scita, (exitum non reperiebat), chi la troverà  ora ? ,, (Ad Att. XIV, I ). Ma dopo la morte  di Cesare, come appunto prevedeva Mazio le cose  finirono per peggiorare rapidamente. Anche Cice¬  rone è costretto a constatarlo. Il tiranno perì (egli  dice) ma vive la tirannia (Ad Att. XIV, 9 e 14);    (I) Va però tenuta presente anche la profondissima  osservazione di Montesquieu : « Il étoit bien difficile que  Cesar pùt défendre sa vie ; la plupart des conjurés étoient  de son parti ou avaient été par lui comblés de bienfaits :  et la raison en est bien naturelle. Ils avoient trouvé de  grands avantages dans sa victoire : mais plus leur fortune  devenoit meilleure, plus ils commen 9 oient à avoir part  au malheur commun : car, à un homme qui n’ a rien, il  importe peu à certains égards en quel gouvernement il  vive » (Grandeur et décadence cfr. XI).       88    d siamo liberali dal re „„„ dai regno (yìj Di,.    /aj' fi marzo non consolano più come  pnma (Ad AH. XIV, 12, 22): " stolta L iZZ  Martmrum consolano, animis usi sumus virilibus  cooubs puenbbus ; excisa est arbor, non avulsa   ^ i, fi ; e st . a ‘° Iasc,al ° vi vo in Antonio  1 erede del regno (ih. XIV, 21); si poteva con   piu libertà parlare contra illas nefarias partes   xiv r vivo che non ucci - tó   ' X V 1 : lnfine crebbe meglio che Cesare   vivesse ancora nonnumquam Caesar desideran-  dus , (,b. XI V, 13). Infatti, la situazione era di¬  ventata quale la descrive ad Attico così • “ S ed  vides magistrati ; si quidem illi magistratus'; vides  tyranni satellites m impems ; vides eiusdem exer-  cniis ; vides in latere veteranos „ (ib. XIV 5)   In conseguenza il sistema di governo che Cicerone  prevedeva non poter durare un semestre, durò  invece, continuamente aggravandosi o peggiorando  per quattordici secoli, cioè per quanto visse l’im¬  pero bizantino.   Ma la fallacia di questa previste   la torio all. mente di Cicerone. E' la fallacia  propria delle menti profondamente razionali, che  hanno una fede inconcussa nella ragione ; e la  mente di Cicerone era appunto secondo la felice  dennizione che ne dà Io Zielinski, un “ Aufkà-  rungsvers tand» (I). A codeste menti è impossibile   (I) O. c. P . 147.     ammettere che la mostruosità, l’irrazionalità, l’as¬  surdo vengano a tradursi permanentemente nel fatto,  si facciano solida e stabile realtà. "Ciò è assurdo,  quindi è impossibile „ ; questo è per siffatte menti  un canone assolutamente insopprimibile, sradicando  il quale essa sentirebbero di strappar le proprie  medesime radici. A cagione della stessa forza della  loro compagine razionale, è ad esse impossibile  riconoscere che il fatto che una cosa sia assurda  non impedisce menomamente che essa divenga  realtà e che anzi quasi sempre nella storia umana  avviene che ciò che all’ inizio la mente scorgeva  come cosa “ assurda », “ pazzesca „, implacabil¬  mente ciò non ostante si realizza. Come buon  platonico Cicerone non poteva a meno di essere  fermamente convinto che oòx eattv Sit àv xij |a£r;ov  xoótotj xaxòv TTaìfoi y) Xóyou? (juar^aag (Fed. 89 d.).  Nel logos egli aveva indefettibile fede. Egli scorgeva  dietro a sè, fin dove 1 occhio della memoria poteva  giungere, soltanto governo di popolo. Questo era per  lui una conquista permanente» della civiltà, la ci¬  viltà stessa, la civiltà che non può perire. Con tale  forma di governo il suo spirito si era immedesi¬  mato ; essa faceva parte essenziale della sua co¬  scienza d uomo, formava il cardine su cui poggiava  tutta la sua vita spirituale ( 1 ). Pensare che tale   ( i ) Che tale stato d'animo fosse non solo “ cicero¬  niano „ ma “romano,,, emerge anche da ciò che l’in¬  dignazione per la caduta di quella forma di governo si        90    formi potesse crollare e permanentemente scom-  parire, era come pensare che potesse precipitare  tutto ciò che si è sempre visto stabile, la terra,  il sistema solare, ciò che è l’incarnazione di un’e¬  terna legge della natura. Sempre gli uomini quan-  o si sono trovati in una fase di cangiamento   analoga a quella in cui si trovò Cicerone_e   tanto più quanto più la loro mente era fortemente  razionale hanno emesso la medesima errata pre¬  visione di lui ; ciò è assurdo, quindi impossibile,  quindi non può durare. ( 1 )   prolunga sino in S. Ambrogio, in cui, da signore romano  d antica razza quale era, la romanità viveva ancora, “ Hic  erat pulchemmus rerum status, nec insolescebat quisquam  perpetua potestate, nec diuturno servitio frangebatur. Nemo  audebat alium servitio premere, cuius sibi successuri in  honorem mutua forent subeunda fastidia; nemini labor  gravis quem dignitas «ecutura relevaret. Sed postquam do-  mmandi libido vindicare coepit indebitas et ineptas nolle  deponere potestates... continua et diuturna potentia gignit  msolentiam. Quem invenias Hominem qui sponte deponat  impenum et ducatus sui cedat insigne, fiatqe volens nu-  mero postremus ex primo ? „ {Hexameron, XV).   ... ^ osa & nota : lo stesso errore, la stessa   illusione— nobilissimo errore ! — troviamo, come già si  e rilevato, in Demostene, il dramma della cui vita fa  esattamente riscontro a quello di Cicerone. Anche Demo-  j. en „ e . p - e - ne,,a seconda Olintiaca prevedeva che la potenza  di rilippo era alla fine ; npÒQ a ùvfjv tfy.ec ~riv teXsut^v  t« «payiiax aòttji (§ 5). E questa previsione era per  lui principalmente fondata appunto sul fatto che una potenza  costrutta sulla malvagità non può durare. Oò yàp gcmv,        _ ___ __ 9 1   Il dramma, terribile dramma, della vita di Ci¬  cerone, è appunto questo. II dramma dell’uomo   oìjy. laxiv, u> àvopEg ’Avrjvatoi, àSixoùvta -/.al èruop-  xoOvxa xa: ^£'joÓ|ìsvov Sóvajuv j3ej3aiav XTiqaaad’at...  xwv jrpà^ewv xàg àp%à<; xxl xàg ÒTtofliaeig àX^S-sT;  xa’. òtxaiag Etvai /tpcaTjxei (§ 10). E nemmeno dieci  anni dopo Filippo trionfava definitivamente a Cheronea.  Ad ogni momento troviamo questi pensieri nelle orazioni  di Demostene, che perciò sono cosi istruttive circa le  illusioni in cui il « razionalismo » induce gli uomini. Ma  neppure la battaglia di Cheronea guarì Demostene dal-  1 illusione. Plutarco narra che quando Filippo fu assassinato,  Demostene comparve nell’assemblea, raggiante, tpatSpòg,  splendidamente vestito, incoronato : con la morte dell’uomo,  secondo lui, la costruzione improvvisata ed effimera doveva  certo crollare. E quando Alessandro si fece avanti a sor¬  reggerla Demostene rideva di quel ragazzo imbecille, ndsioa  xai |ia T txT)V (Plot., Dem. § 23). Ma la costruzione  fondata sulla perfidia, e che perciò, secondo Demostene,  non poteva reggersi, sboccò invece nel trionfo addirittura  fantastico ottenuto appunto da Alessandro. Gli uomini non  possono rassegnarsi a credere che una politica malvag-a  possa ottenere un successo duraturo, che il male trionfi  permanentemente. Pur troppo, invece, è questa una pia  illusione; e le cose vanno precisamente cosi. E gli astrattisti,   1 « razionalisti », gli spiritualisti, non sanno ricavare dal  male che sotto ì loro occhi permanente trionfa, neppure  quell unico bene che vi si potrebbe ricavare : quello cioè  di essere definitivamente istrutti dell andamento assoluta-  mente arazionale, alogo, ateo, del mondo e della vita.  Chiusi nel loro mondo dei meri concetti, è a quelli e  alle deduzioni da quelli che continuano a credere, anziché  aprire gli occhi ai fatti. < Sapiunt alieno ex ore petuntque  res ex auditis potius quam sensibus ipsis » (Lucr. V. I 1 30).      92    che con disperazione vede rovinare intorno a sè  senza possibilità di salvezza il mondo civile di  cui la sua più intima vita stessa era intessuta, il  mondo “ razionale „, e trionfare ineluttabilmente,  “ in causa impia, victoria etiam foedior „ ( T)e  Off. 11, c. Vili), l’ingiustizia ed il male, una  forma di mondo umano “ impensabile „, “assurda,,.  11 dramma della coscienza eticamente desta che  vede con orrore ciò che essa giudica aberrazione  morale e iniquità acquistare ufficialmente il carat¬  tere di nobiltà, grandezza, elevazione, e avviarsi  a restare definitivamente sotto questo aspetto nella  storia. Quando si fa a poco a poco chiaro nella  mente di Cicerone 1 ineluttabilità dell’evento, quando  egli è ormai costretto a vedere che non c’è più  speranza, a domandarsi : “ quae potest spes esse  in ea republica, in qua hominis impotentissimi  (violento) atque intemperantissimi armis oppressa  sunt omnia ? „ (Ad Div. XI); quando deve con¬  statare che “ tot tantìsque rebus urgemur, nullam  ut allevationem quisquam non stultissimus sperare  debeat „ (Ad Div. IX, I), il suo strazio non ha  confini- Ciò che già precedentemente, quando tale  condizione di cose si delineava, egli cominciava  a sentire, civem mehercule non puto esse qui  temporibus his ridere possit „ (Ad. Div. II, 4),  diventa ora il suo stato d’animo permanente. La  vita non ha più sorriso : “ hilaritas illa nostra  erepla mihi omnis est „ (ib. IX, II). Il suo grido       93    è quello del coro degli Spiriti nel Fausi (v. 1 608  e seg.).   Du hast zerstòrt   Die schòne Welt   Mit màchtiger Faust ;   Sie stiirzt, sie zerfàllt !   Ein Halbgott hat sie zerschlagen !   Wir tragen   Die Triimmern ins Nichts hinuber   Und kiagen   Uber die verlorne Schòne.   Questo dramma strappa a Cicerone espressioni  di dolore profondamente dilacerante. E la sua  corrispondenza è forse la lettura più viva che l’an¬  tichità e probabilmente la letteratura d’ogni tempo  ci offra, appunto perchè, come in nessun altro scrit¬  to, vi si scorge con l’immediata evidenza della vita  vissuta e quasi vedessimo la cosa svolgersi giorno  per giorno sotto i nostri occhi, come sotto quel  dramma sanguini il cuore d’un uomo. Certo anche la  terribilità della sua rovina personale affligge gra¬  vemente Cicerone : “ natus enim ad agendum   semper aliquid dignum viro, nunc non modo a-   gendi rationem nullam habeo, sed ne cogitandi   quidem „ (Ad Div. IV, 1 3) ; ed egli ha ragione   di deplorare di essere stato travolto proprio nel  momento in cui avrebbe potuto e dovuto, cogliendo  il frutto dell’opera della sua vita, toccare l’apice  della sua carriera. “ Omnis me et industriae meae  fructus et fortunae perdidisse „ (ib. XI, V). “ Casu       nescio quo in ea tempora aetas nostra incidit, ut  cum maxime florere nos oporteret, tum vivere  edam puderet „ (ib. V. I 5). Certo anche la ro¬  vina che incombe sulla sua famiglia e specialmente  sulla sua figlia lo tortura. “ Quibus in miseriis  una est prò omnibus quod istam miseram patre,  patrimonio, fortuna omni spoliatam relinquam  (Ad Att. XI, 9). Ma ciò che forma il crepacuore  di Cicerone non è la sua situazione personale,  bensì il baratro in cui è precipitato lo Stato.'  “ Sed tamen ipsa republica nihil mihi est carius  (Ad Dio. II 15, XV, li). “ Ego enim is sum,  qui nihil umquam mea potius, quam meorum ci-  vium causa fecerim „ (ib. V. 21 ). Ma ora ? “ Ego  vero, qui, si loquor de re publica, quod oportet,  insanus, si, quod opus est, servus existimor, si  taceo, oppressus et captus, quo dolore esse de¬  beo ? „ (Ad Att. IV, 6).   Due sono sopratutto le note in cui erompe  1 espressione di questo suo strazio. In primo luogo,  andarsene, andarsene dovunque, pur di non veder  più simili cose: “ evolare cupio et aliquo pervenire  ubi nec ‘Pelopidarum nomea nec facta audiam „  egli ripete con un tragico antico (ib. VII, 28, 30,  Ad Att. XVI, 13, XV, 11); “ ac mihi quidem  iam pridem venit in mentem bellum esso aliquo  exire, ut ea quae agebantur hic, quaeque dice-  bantur, nec viderem nec audirem „ (Ad ‘Dio. IX,  2); “ longius etiam cogitabam ab urbe discedere,  cuius iam etiam nomen invitus audio „ (ib. IV, I).        95    Tu mi sembravi pazzo (scrive a Curio) quando  abbandonasti Roma per la Grecia, ora veggo che  sei “ non solum sapiens, qui hinc absis, sed etiam  beatus : quamquam quis, qui aliquid sapiat, nunc  esse beatus potest ? „ (Ad Db. VII, 28). E’ il  desiderio che si fa strada persino nei suoi trat¬  tati, p. e. nelle Tusculane, dove parlando di Da-  marato. Io giustifica cosi : “ num stulte anteposuit  exilii libertatem domesticae servituti ? (V, § 1 09).  O, se andarsene non si può, almeno ritirarsi in  solitudine : “ nunc fugientes conspectum scelerato-  rum, quibus omnia redundant, abdimus nos, quam-  tum licet, et saepe soli sumus „ (De Off. Ili, 3).   In secondo luogo, morire. “ Perire satius est,  quam hos videre „ (Jd Db. Vili, 1 7) < Mortem]  quam etiam beati contemnere debebamus, prop-  terea quod nullum sensum esset habitura (I), nunc    (1) Che cosa pensi intimamente Cicerone della vita  futura, risulta, non già dal quadro, avente scopi puramente  estrinseci, che traccia nel Somnium Scipionis. ma dalla  sua corrispondenza Oltre il passo sopra ricordato, e due  altri, (Ad Dw. VI, 3 e 21) ricordati più innanzi, basterà  citare: « Fraesertim cum impendeat, in quo non modo  ^ or ,*. v erum finis etiam doloris futurus sit » (ib.  Vi, 4). E anche in altre opere di Cicerone questo suo  vero pensiero si manifesta. Cosi nelle Tusculane (V. I 1 7) :  Mors. aeternum nihil sentienti receptaculum ». Cosi in  Pro Marcello (IX) c Q uo d (la fine) cum venit, omnis  voluptas preterita prò mhilo est, quia postea nulla est  futura» Cosi in Pro Cluentio (cap. LXI § 171): «quid  ei tamdem almd mors eripuit, praeter sensum doloris ? ».        96    sic affecti, non modo contemnere debeamus, sed  etiam optare » ( ib. V. 21); la filosofia sembra  < exprobrare quod in ea vita maneam, in qua  nihil insit, nisi propagatio miserrimi temporis >  (ib. V. 15) ; non si sa < si aut hoc lucrum est  aut haec vita, superstitem reipublicae vivere > (ib.  IX. 1 7) ; « nam mori millies praestitit quam haec  pati > (Ad. AH. XIV, 9) ; « eis conficior curis,  ut ipsum quod maneam in vita, peccare me exi-  stimem > (Ad Div. IV. 13); « mortem cur con-  sciscerem causa non visa est, cur optarem, multae  causae > (ib. VII, 3). In uno spirito, così pro¬  fondamente romano, cioè volto all’attività pratica  e civica, la desolazione dello Stato faceva spun¬  tare questo pensiero : « Ipsi enim quid sumus ?  aut cum diu haec curaturi sumus ? » (jdd Att.  XII, li); * quid vanitatis in vita non dubito quin  cogites > (Ad Div. II. 7). Cosi, pur nell'atto che  prevede la prossima caduta del cesarismo, dice :   Allo stesso modo la pensava Cesare, il quale nel discorso,  riferito da Sallustio, da lui tenuto in Senato circa la pena  da darsi ai complici di Catilina, si oppose alla pena di  morte appunto perchè con questa cessa la coscienza e  quindi ogni male : « Eam cuncta mortalia dissolvere ; ultra  neque curae neque gaudio locum esse» (Cat. LI). Va  però notato che Cicerone dà un’altra interpretazione a  questo punto del discorso di Cesare. Cesare cioè era  contrario alla pena di morte. Egli « intelligit, mortem a  diis immortalibus non esse supplici causa constitutam, sed  aut necessitatem naturae, aut laborum ac miseriarum  quietem esse » (In S. Catilinam, IV, cap. IV. § 7.).       97    * id spero vivis nobis fore ; quamquam tempus  est nos de illa perpetua iam, non de hac exigua  vita cogitare » (Ad. Att. X, 8). E il pensiero della  morte come unico scampo e rifugio viene a gran¬  deggiargli dinanzi in modo, che bene spesso lo  vediamo insinuarsi anche nei suoi scritti teorici :  così, p. e., nel proemio del terzo libro del De  Oratore : « sed 11 tamen rei publicae casus secuti  sunt, ut mihi non erepta L. Crasso a dis immor-  talibus vita, sed donata mors esse videatur > (IH, 2);  e così nelle Tusculane : « multa mihi ipsi ad  mortem tempestiva fuerunt, quam utinam potuis-  sem obire ! nihil enim iam acquirebatur, cumu¬  lata erant officia vitae, cum fortuna bella restabant  (I, 109). Morte per sè, morte per coloro che  amiamo ; questo soltanto è ciò che lo « status  ipse nostrae civitatis » ci costringe a desiderare :  « cum beatissimi sint qui liberi non susceperunt,  minus autem miseri qui his temporibus amiserunt,  quam si eosdem, bona, aut denique ahqua republica,  perdidissent... non, mehercule, quemquam audivi  hoc gravissimo, pestilentissimo anno adolescentulum  aut puerum mortuum, qui mihi non a Diis immorta-  libus ereptus ex his miseriis atque ex iniquissima  conditione vitae videretur > (Ad Div.V. 16).   Ne solo nell animo di Cicerone il trovarsi « in  tantis tenebris et quasi parietinis rei publicae >  (ib. IV, 3) induceva il desiderio di sfuggire a  questo sfacelo con la morte ; ma tale sentimento  era certo diffuso. Nella bellissima lettera con cui    G. Renai • Vita parallele di due filosofi    7           98    Servio Sulpicio cerca di consolare Cicerone per  la morte della figlia, 1 argomento principale che  egli fa valere e, nelle circostanze presenti, “ non  pessime cum iis esse actum, quibus sine dolore  licitum est mortem cum vita commutare „ e che  Tullia visse finché visse lo Stato, “una cum repu-  blica fuisse „ (Ad Dio. IV, 5) ; al che Cicerone  dolorosamente risponde che l’attività pubblica lo  consolava dei dolori domestici, l’affettuosa intimità  con la famiglia delle traversie pubbliche, ma ora  “ nec eum dolorem quem a re publica capio do-  mus iam consolari potest, nec domesticum res pu¬  blica „ (ib. IV, 6). Ed anche in Catullo, il di¬  sgusto invincibile suscitatogli dai “ turpissimorum  honores „, disgusto che faceva gemere dal suo  canto Cicerone, cosi ; “ o tempora ! fore cum du-  bitet Curtius consulatum petere ? „ (Ad Att. XII,  49, e circa Vatinio II, 9) suscita 1’ aspirazione  alla morte (LII) :   Quid est, Catulle ? quid moraris emori ?   Sella in curulei struma Nomus sedet,   Per consulatum peierat Vatinius ;   Quid est, Catulle ? Quid moraris emori ?   *   * *   Donde attinge Cicerone qualche conforto in  questa immensa iattura ? Non dal foro che egli  (interessante confessione) dichiara di non aver mai  amato e nel quale del resto oggi non c’è più nulla     99    da tare : “ quod me in forum vocas, eo vocas,  unde, etiam bonis meis rebus, fugiebam : quid enim  mihi cum foro, sine iudiciis, sine curia ? „ (Jld  Jltt. XII, 21). Era il momento in cui i vincitori  della violenta lotta politica, giravano per Roma  baldanzosi ed allegri, e i sostenitori dello Stato  legale, battuti, erano melanconici : “ Mane saluta¬  rne domi et bonos viros multos sed tristes (1),  et hos laetos victores, qui me quidem perofficiose  et peramenter observant „ {Ad Div. IX, 20). Due  di essi, anzi, Irzio e Dolabella, si erano messi a  prender lezioni d’eloquenza da lui, o forse, con  questo pretesto, lo sorvegliavano per conto di Ce¬  sare. Anche queste lezioni recano a Cicerone qual¬  che sollievo {yld Di\>. IX, 18). In maggior mi¬  sura, egli ne ricava dal far udire, quando e come  era possibile, qualche parola di ammonimento. Così,  pur avendo risoluto di non più parlare in Senato,  allorché sulla universale istanza di questo, Cesare  amnistia Marcello (che non aveva fatto nessun  passo per essere richiamato e sembrava non de¬  siderarlo — e che fu, del resto, assassinato da un  suo impiegato nel momento in cui stava per par¬  tire alla volta di Roma), Cicerone prende la pa-   (0 La voce dei gaudenti sfruttatori di situazioni im¬  morali rinfaccia sempre a coloro che le condannano, come  un torto, di essere afflitti o melanconici. Cosi quella voce  si fa udire, secondo Seneca : c Istos tristes et superciliosos  alienae vitae censores, suae hostes, publicos paedagogos  assis ne feceris » (Ep. 123, § 11).            100    rola per ringraziare il dittatore ; ma sa anche at¬  traverso i ringraziamenti esporgli il parere più  libero e ^coraggioso che forse mai Cesare abbia  sentito. “ Quodsi rerum tuarum immortalium (egli  ha 1 ardue di significargli) hic exitus futurus fuit,  ut devictis adversariis rem publicam in eo statù  relinqueres, in quo nane est, vide quaeso, ne tua  divina virtus admirationis plus sit habitura quam  glonae „. (Pro Marc. Vili). Tu devi, egli incalza,  preoccuparti della vera gloria, del giudizio che da¬  ranno i posteri sulle tue azioni, saper considerare  ciò che tu fai, non cogli occhi abbacinati dei con¬  temporanei, ma con quelli di coloro che giudiche¬  ranno le cose a distanza, nell’avvenire. Se tu non  avrai ristabilito la vera legalità nello Stato, tu sa¬  rai certo sempre ricordato, ma non con giudizio  concorde : “ erit inter eos etiam, qui nascentur,  sicut mter nos fuit, magna dissensio, cum alii lau-  dibus ad caelum res tuas gestas efferent, alii for-  tasse ahquid requirent, idque vel maximum, nisi  belli cmlis incendium salute patriae restinxeris, ut  illud fati fuisse videatur, hoc consilii „ (ib. IX).   E questo un nobilissimo linguaggio da cittadino  onesto e d’animo forte ; linguaggio che, bisogna  riconoscerlo, Cesare sa ascoltare, come altri e ben  più vivaci attacchi contro di lui, con tolleranza ed  equanimità, “civili animo,, (Svet,, Caes., 75) (1).   (1) Anche Cicerone nella sua corrispondenza talvolta  constata che Cesare andava orientandosi a mitezza. P. e.:     101    L intolleranza, 1 oppressione, 1 uso del potere per  far tacere censure al detentore di esso, e persino  per impedire di rispondere agli attacchi, comincia  con Augusto ; ed è ciò che fa uscire Asinio Pol-  lione (lo stesso, alla nascita del cui figlio il servile  Virgilio, pronto a vendersi a tutti i potenti e a  prostituire poi il suo genio a colui che tra questi  occupa nella storia per bassezza e nequizia uno degli    “ nam et ipse, qui plurimum potest, quotidie mihi delabi  ad acquitatem et ad rerum naturam videtur „ Ad Dio.  VI, 10!, Che cosi fosse (ed è la stessa cosa che accadde  con Augusto) è naturale, perchè, se un uomo non è straor¬  dinariamente perverso, il suo grande successo e trionfo  personale lo rende incline alla benevolenza verso gli altri,  a diffondere anche intorno il sentimento di felicità che il  successo gli dà. Solo un uomo dal cuore fondamental¬  mente malvagio nel suo più pieno e grandioso trionfo,  quando ogni cosa gli va a seconda, diventa sempre più  duro e crudele, e non è pago se non condisce quel trionfo  col darsi la sensazione di poter a suo beneplacito tor¬  mentare, perseguitare, far soffrire altri uomini. Tale era  Siila, secondo le parole che Sallustio mette in bocca ad  Emilio Lepido : “ Cuncta saevus iste Romulus, quasi ab  externis rapta, tenet, non tot exercituum clade neque con-  suhs et aliorum principum, quos fortuna belli consumpse-  rat, satiatus : sed tum crudelior, curri plerosque secundae  res in miserationem ex ira vertunt „ (Hist. Fragni.). Ra¬  ramente, si, ma però talvolta avviene che un uomo, fa¬  vorito dalia più straordinaria fortuna, diventi sempre più  bramoso di far del male agli altri. “ Felicitas in tali in¬  genio avaritiam, superbiam ceteraque occulta mala pate-  fecit „ (Tac., Hist „ III, 49).           102    “Itimi posti, Ottavio, (I) dedicò la sconciamente  cortigiana e piagg.atr.ee Egloga IV) nell’elegante  epigramma, riportato da Macrobio (Satura II 4)  che non si può più scrivere dove in risposti si  può proscrivere : temporibus triumviralibus PoIIio  cuna fescenmnos ,n eum Augustus scripsisset, ait:   g taceo ; non est emm facile in eum scribere  qui potest proscribere (2)   Più ampio conforto ricavò Cicerone dagli studi,  bbene una volta fuggevolmente accenni che forse  senza la sua cultura sarebbe più atto a resistale!  exculto emm animo nihil agreste, nihil inhuma-   (I) Si vegga nel libro diV. Alfieri D»/ p • , »    I J1 '> e la dimostrazione che questa   viltà ha in Virg.ho guastato l’arte. “Quella parte divTna  e ha per base il vero robusto pensare e sentire tm-,1  niente manca in Virgilio „ (L. II C VI) “ V  -esse avuto nell’animo quella   P napesco, assai maggiore sarebbe stato egli stesso e  quindi assai maggiore il suo libro „ (L. II C VI •  vegga anche il C. Vili) E il Canti 1 . Ci j ; , C S ‘   uh. ed. I. 582 n 94.«V- r ÌU '. Sorla de S^ Italiani,   V l D < ’ . .: Vlr glio si lascia traricchire   • anche Boissier, Lopposition sous tes Césars p. I3Ì”   RnU 1 j- qUe f°, . t epigramma senza citare la fonte il   Les e Rom P - r0ba . b,,mente a memor ia, la seguente versione:  Les Komains disaient avec raison qu il est rare mi ™        103    num est . (Ad Alt. XII, 46) ; e sopratutto dallo  studio della filosofìa, la passione per la eguale 'quo-  tidie ita ingravescit, credo et aetatis maturitate ad  prudentiam et his temporum vitiis, ut nulla res alia  levare animum molestiis possit. „ (Ad Dio. IV, 4).  Le sue lettere di questo periodo sono piene delle  sue attestazioni che non vive se non negli studi  filosofici e non trae conforto che da essi (ib IV  3 ; VI, 12 ; IX, 26 ; XIII, 28). Ad aumentare  questo conforto, ad aiutarlo a stornare il pensiero  dalle calamita dello Stato, s aggiunge la sua atti¬  vità di scrittore. Sono questi gli anni della sua  intensa e feconda produzione filosofica. “ Nisi mihi  hoc venisset in mente, scribere ita nescio quae,  quo verterem me non haberem „ (Jld Alt. XIII,  9) Equidem credibile non est, quantum scribam  die, quin etiam noctibus, nihil enim sommi „ (ib.  XIII, 26). “ Nullo enim alio modo a miseria quasi  aberrare possum „ (ib. XIII, 45). Vero è che le  afflizioni e le ìnquietitudmi, I incertezza dell’avve¬  nire, derivanti dal pessimo andamento degli affari  pubblici, non permettono piena pace nemmeno nello  studio : Utinam quietis temporibus, atque aliquo,  si non bono, at saltem certo statu civitatis, haec  inter nos studia exercere possemus ! „ Però, ap¬  punto in tali circostanze, “ sine his cur vivere ve-  limus ? „ (Ad Dio. IX, 8). Così nascono i trat¬  tati di filosofia di Cicerone, circa i quali si cita  sempre per aiutare a deprezzarli la fuggevole frase  “ sono copie „ cascatagli dalla penna scrivendo al       104    suo amico e certo come convenzionale espressioni   t Xlì Vf fr ° nte j 1Iammiraz ' on e di lui (Ad  X ’ I 52 ’ ma 51 dimentica di affrontare tale  fra e con le sue numerose e consuete esternaziom  dalle quali risulta che ben altra era la stima ch’egli   off" 3 de ‘ pr0pr ;. scrltti ' “ Res difficiles „ (ib. XII  38) egli dice di star scrivendo ; quanto alle Jìc-   G Q rto -5 C ° nVInt ,° “ U ‘, Ìn f3lÌ 8 enere ne aVud  , cos quidem simile quidquam „ (ib. XIII 1 3)-   le chiama “ argutolos libros „ ^ XIli.Y 8 ,00^   XIII 19? ac n ra ? posset supra ” r/4.   XIII, 9); 1 libri del De Oratore gli sono “ ve -   hementer probati (ib.) e così il De Finibus ib   ?AJ ÀI XvT i , soddisfa Attico   bl v ’ im7 e M) e l0ra,OT L'P'a (M   AA- ( 8 ^ eSpnme anehe ,a sua Propria   soddisfazione per queste due opere ; » mihi vakle   pbcent, maHem tibi dice dei libri, perduti d!  Giona (Ad Ali XVI, 2). In particolare, i| e  sua opere filosofiche le Tusculane, che facilmente  si prendono per un mero esercizio letterario, sono  invece un libro profondamente vissuto, rampollato  da a tragica realtà di vita i cui Cicerone" si di¬  batteva e che come tale, come idoneo cioè a for¬  nir conforto e forza in quelle circostanze doveva  essere generalmente sentito, e certo da Attico se  Cicerone gl, scrive : “ quod prima disputatio Tu-  scu ana te confirmat, sane gaudeo : neque enim  ndhim est perfugium aut melius aut paratius ,,  (XV, 2 e v. anche XV, 4). Bel libro, che in         105    ogni epoca, nelle medesime circostanze da cui  esso è nato, è servito allo scopo per cui era stato  scritto : “die Eroica der romischen Philosophie „  come con calzante espressione lo definisce lo Zie-  linski ( I ).— Ma il supremo conforto di Cicerone è  un altro.   #   * *   Esso consiste non tanto nell’ immergersi nella  filosofia come un’occupazione mentale opportuna  a distornare il pensiero da quello che poi Lucano,  il grande poeta anticesariano, definirà “ ius sceleri  datum „ (II, 1), quanto nel rivivere in sè i con¬  cetti della filosofia come atti a fornire forza d'a¬  nimo per affrontare e sopportare le sciagure de¬  rivanti da una situazione politica e sociale particolar¬  mente triste : filosofia cioè non come “ ostenta-  tionem scientiae, sed legem vitae „ ( Tusc. II, 1 1).  Anche in lui, per usare l’espressione di cui poi si  servì Marco Aurelio (VII, 2) zi 5 óypaia (2).   (1) O. c., p. 87. — Giustissimamente il Moricca: “Sa¬  remmo forse anche noi tentati di ritenere l’operetta tul¬  liana un’amplificazione rettorica, se non pensassimo che  quelle parole... furono scritte per una generazione d’uo¬  mini... nelle cui orecchie esse... andavano diritte al cuore „.   “ Un libro di morale dell’epoca di Cicerone è da con¬  siderarsi non come una fredda e vuota argomentazione  rettorica bensi come un’eco squillante delle voci del pas¬  sato, che sale dalle tombe e vince i secoli „ (O. c. p. XXIX).   (2) Secondo il testo di Trannoy (* Les Belles Lettres »).          106    bisogno di vivere tali precetti A' i ,• .  ventar succo e sangue e il f T l d ‘ faHl dl  gere a ciò, Cicerone Lnl f" 0 S ° rZ ° per 8 iun '  maniera singola,«sima, scnVoSo^v"' 0 i'I “ na  consolazione a se stesso “ D • Un ^ ro dl  profecto anfe me TeZ. ^Z 'T ***  consolarer ; que m librum jf . me per i‘ tera s  serint librari; affirmo tibi^nuLm” 3 " 1 S ‘,^'P'  esso talem ; totos die® U c °nsolationem   quid, sed t n^sper 1 C ; ,b ° 5 T“ qU ° proflci ™  XII 14) p t,sper im P e dior, relaxor „ (Ad 4tt   « 'a ll'Tlzr ™ di r'*   d«„e meditazioni morali!^ e8mam0 le Mslre   '4«fr-r v lLStó et,r°d servire 4   stoicismo, di cui poi in ,CaZI ° ne Pra ' ÌCa de,, °  e d oppressivi, uomm Lme° Tm "p" ^ tehi   vid.o Prisco fornirono ° Peto ed EI ’   e che successivamente si anc ° Ta p ‘ù insigni,   .1 hiosofo :z :L: r , ai ^   cristiano, il sacerdnie • ’ p ° SCIa> n el mondo   c„i i,Tat'„ e ' „x:; a ” d f «   molti tenevano costantemente in d m ° nre ’ anZI  rettoredi coscienza e confortatore, iHoro ZofoOX    .(I) Plauto, fatto morire da Neron» •  mi istanti assistito e confortato dai “ / V ‘ ene " ei 3U0 ' u,tl  Cerano e Musonio (Tac., Ann. XwTv)), Trlse^’’          107    O Socrates et socratici viri ! (esclama Cice¬  rone, qui, veramente riguardo a traversie di ca¬  rattere privato). Numquam vobis gratiam referam  Un immortales quam m ihi ista prò nihilo,, (Ad Alt.  XIV, 9). Attico (egli scrive al suo liberto e se¬  gretario Tirone) mi vide agitato, crede che sia sem¬  pre lo stesso, “nec videt quibus presidii philosophiae  septus sim „ (Ad Div. XVI, 23). La disperata  e rovinosa condizione dello Stato “ quidem ego  non ferrem nisi me in philosophiae portum con-  tulissem „ (ib. VII, 30). “ Equidem et haec et  omnia quae homini accidere possunt sic fero ut  philosophiae magnam habeam gratiam, quae me  non modo ab sollecitudine abducit, sed etiam con-  tra omnes fortunae impetus armat, tibique idem  censeo faciendum, nec, a quo culpa absit, quid-  quam m malis numerandum „ (Ad Di\>. XII, 23)   E noi vediamo veramente questo pensiero centrale  dello stoicismo, cioè lo sforzo di distornare il  proprio interesse da ogni cosa esteriore per con¬  centrarlo unicamente nel nostro comportamento, e  m ciò trovare appagamento e pace (questo, come  si può chiamare, ottimismo della disperazione, che  e il solo che resta nei momenti di maggiormente  infelici condizioni esterne, perchè vuole appunto,  riconoscendo tale inguaribile infelicità, trovare an-    Demetrio (ib. XVI, 35): e Seneca dice di Cano.  dato al supplizio da Caligola, “ prosequebatur illuni  Losophus suus „ (De Tranq. An. XIV, 9).    man-   phi-    i          108    cora una tavola di salvezza), vediamo questo pen¬  siero centrale dello stoicismo svelarsi sempre più  chiaro agli occhi di Cicerone e proprio come po¬  stogli innanzi delle circostanze di fatto. “ Sic enim  sentio, id demum, aut potius id solum esse mi-  serum quod turpe est „ (Ad Att. Vili, 8 e v.  anche X, 4). “ Video philosophis placuisse iis  qui mihi soli videntur vim virtutis tenere, nihil esse  sapientis praestare nisi culpam „ (Jld Dio. IX, 19).  Cogliamo il procedere di questa appassionante tra¬  gedia, per cui un uomo di indole ilare e disposto  a gioire delle cose, degli spettacoli naturali, del-  I arte, della letteratura, delle relazioni sociali, del-  I attività pubblica e anche della ricchezza, è, a  poco a poco, dal rovinio politico, risospinto entro  se stesso e costretto a vedere e cercare la feli¬  cita soltanto nel proprio retto comportarsi. Le  meditazioni filosofiche (scrive a Varrone) ci re¬  cano ora maggior frutto “ sive quia nulla nunc in  re alia acquiescimus, sive quod gravitas morbi  tacit, ut medicmae egeamus eaque nunc appareat,  cuius vim non sentiebamus cum valebamus (Ad  r i0 ’ IX> 3 \ Naturalmente con questo alto sen¬  timento a cui Cicerone è ora pervenuto, il pen¬  siero della morte, qui fonte anchesso di consola¬  zione e forza, viene a intrecciarsi. “ Nunc vero,  eversis omnibus rebus, una ratio videtur, quicquid  e veni t ferre moderate praeserlim cum omnium rerum  mors sit extremum... magna enim consolatio est cum  recordere etiamsi secus acciderit te tamen recta      109    vereque sensisse „ (Ad Div. VI, 21). “ Nec enim  dum ero angar alia re, cum omni vacem culpa ;  et si non ero, sensu omnino carebo „ (ib. VI, 3)  Il crollo dello Stato è cosa gravissima, “ tamen  ita viximus et id aetatis iam sumus, ut omnia quae  non nostra culpa nobis accident, fortiter ferre de-  beamus „ (Jld Div. VI, 20).   E tali pensieri, tali alti ed austeri conforti ed  incoraggiamenti, i grandi spiriti di quel periodo si  scambiavano tra di loro, prova, sia di quanto il  dolore per la catastrofe dello Stato era largamente  sentito, sia della estensione che a lenimento di  questo dolore siffatto ordine di pensieri allora aveva  preso. Era la genuina visuale stoica a cui i nefasti  avvenimenti politici aveva tutti guidati: “ non aliun-  do pendere, nec extrinsecus aut bene aut male vi-  vendi suspensas habere rationes „ (Ad Div. V.   13). Se Cicerone ad ogni momento ripete di sè  quidquid acciderit, a quo mea culpa absit, a-  nimo forti feram „ (Ad Div. XII, 1 1 ), nec  esse ullum magnum malum praeter culpam „ (ib.  VI, 4) ; “ sed tamen vacare culpa magnum est  solatium „ (ib. VII, 3) ; se per sè pensa “ for¬  tunato, quam existimo levem et imbecillam, animo  firmo et gravi, tamquam fluctum a saxo frangi  oportere „ (ib. IX. 16) ; se l’esperienza di quella  dolorosissima fase lo fa approdare alla definitiva con¬  clusione che “ in omni vita sua quemque a recta  conscientia transversum unguem non oportet di¬  scedere „ (Ad Att. XIII, 20) — queste sono         110    amici, « a Lucccio7“'“ 8 “ 1 «*  f'umanas contemnentem et opule C on^t r 7 "*   c„ g „„ vi „ {Ad0 7   casu, et deiicto h Z ,n non aP r l “ 1U,piludi ”' non  veri „ (ih V |7) ’ M a i ° rum ln,una commo-   Pme.;/ cu,pl'ai picca,tT'° ; " “ÌJ*   digni et Ss TstrrdublteTo; ^  ea maxime conducant ! P ° SSimus ’   V. 19 ) : e a Torquato f T Tectl8s '" (A.   praesertim quae absit a   ancora a Torauato P , V1 2 )> e   delio Stato) vereor ne I ^ n 3 ' (,a rovina  teperiri, praete, i|| am q “ a TtaMa"e“ “ P °7   “r: e®, atque noTZIt,»   questi sentimenti ogni IralToìtTd' !“l “ 7 ° a  anch’egli aveva bisogno ’’No|!\e oh - ' 7 ?   scrive Sulpicio in morte di Tullia) Cicerón ^ 1 ^ '  et eum aui a Ine ' '-' ,cer °nem esse   9 ' 3l,,S COnsuer,s Praecpere et dare con-       Ili    silium... quae alns praecipere soles, ea tute tibi  subirne, atque apud animum propone; vidimus ali-  quotiens secundam pulcherrime te ferre fortunam  fac ahquando intelligamus adversam quoque té  aeque ferre posse (ib. IV, 3).   Dalle lettere di Cicerone si potrebbe così ri¬  cavare un antologia di massime di vita stoica da  servire efficacemente in ogni tempo al ripresen-  arsi di analoghe circostanze (e tale è forse sopra¬  tutto la ragione per cui queste lettere suscitarono  in ogni tempo I ammirazione, anzi il culto di no¬  bili animi), pm efficacemente ancora che non i suoi  trattati, come le Tusculane e il De Officiis, ove  egli dava sistemazione teorica alle medesime idee  1 qual, però appunto perchè non contengono se'  non quelle .dee morali che, suscitate in Cicerone  dalle vicende di ogni giorno, riempiono la sua cor¬  rispondenza, ci si ridimostrano, non mere eserci¬  tazioni letterarie, ma anzi libri cresciuti su dalla  vita vera e scritti col sangue che le ferite inferte  da questa facevano stillare dal suo cuore. « Her-  zenphilosophen > chiama giustamente Cicerone lo    *   * *   Plutarco racconta (Oc 49) che un giorno Au¬  gusto essendosi accorto che un suo nipote scor¬  gendolo nascondeva impaurito un libro sotto la    (1)0. dt., p. 299.       112    oga, glielo prese, e visto che era di Cicerone ne  lesse un tratto, poi lo reshtui al ragazzo, dicendo •  uomo dotto e amante della patria, Xó r ,o : *vl'  ?. «rat, io T ,o £ *«l Tardo (come al so’   hto) riconoscimento del meriti di colui che egli ave¬  va raggirato, tradito, abbandonato al carnefice Ma  Cicerone e qualcosa di più. Spirito altissimo e   st'anzetn m n “'T'? 1 "”'’ da »! le circo-  ero \ „ j " 6 r 1 ' **' vivere, espres.   sero, m ragione di tale sua sensibilità, una soma   d dolore enorme, egli seppe da questa esperienza  d, dolore trarre un-espenenza morale di elevazione   e di purificazione del dolore stesso nel fuoco della  filosofia intesa come via, di cui „„„ molti ,„ e b   dTrendl' ' aPaC '' QUeS '° * P a,ll “ la "”ente ciò  che rende appassionatamente attraente la sua grande   figura alla quale veramenle-secondo un penTero   che trova eco sino m Giovenale (Vili, 243)-e   Roma' ltf !a " “ u la 8erva arl “lazione lo dava   Sr p a,t a , a, ' ebl> ' a,hibl,Ì, ° N di ' P ad -    Sed Roma parentem,   Roma patrem patriae Ciceronem libera dixit.       - 1    INDICE    Platone   Cicerone    9   49        Ultime pubblicazioni dello    stesso Autore    Pesco Piente Fu , un [Mi|an0i CogliariJ.  f? Ap ° r ' e Jella R'Hgiont [Catania, - Etna 1  Motwl Spirituali Platonici [Milano, Gilardi e Noto]   nSTT, d ' W Jr aZl0nalim0 |N«poli. Guida],  Materialismo C„„ c0 [R om ., CaS a ^ ^   Pagine di Diario :    Scheggio [Rieti, Biblioteca Editr.J,  Cicute [Todi, Atanórj.   Impronte [Genova, Libt. Ed. Italia]  Sguardi [Roma. La Laziale],   Scolli [Torino, Montes, 1934],      Imminenti :    Critica deir Amore e del Lavoro [Catania.  Critica della Morale [Catania, “ Etna ..    " Etna J,    < Giuseppe Rensi. Rensi. Keywords: filosofia dell’autorita, autorita e liberta, Gorgia, Gorgia ed Ardigo, Santucci, Tendenze della filosofia italiana nell’eta del fascismo, Gentile, necrologio, Ardigo, Platone, Cicerone, Ficino, Bradley, Bosanquet, diritto e forza, filosofia della storia, Gogia, Elea, Velia, Elea ed Efeso, Gorgia. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Rensi” – The Swimming-Pool Library.

 

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